Categorie
2021 Dramma familiare Dramma storico Drammatico Fantastico Film Solo Surreale

The Tragedy of Macbeth – La consapevole fedeltà

The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen, dopo l’ultimo film in compagnia con il fratello.

Il film è stato distribuito limitatamente in poche sale prima di approdare in streaming su Apple TV Plus.

Di cosa parla The Tragedy of Macbeth?

L’opera di Joel Coen riprende passo passo l’opera shakespeariana, pur con qualche cambiamento per renderla appetibile al medium.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Tragedy of Macbeth?

Assolutamente sì.

Per quanto non sia un film di facile fruizione, The Tragedy of Macbeth è un’opera sublime sia dal punto di vista registico sia di trasposizione, che, pur tenendo fede al testo shakespeariano sostanzialmente alla lettera, non manca di qualche cambiamento piuttosto indovinato.

In questo senso raramente ho visto un’opera cinematografica che riesce a rendere così propria un testo tanto complesso, riuscendo a muoversi con agilità con una regia disegnata intorno alla storia e un adattamento consapevole e così riuscito.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Fedeltà

Denzel Washington e Bertie Carvel in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

The Tragedy of Macbeth viaggia in due direzioni.

Da una parte, prendere l’opera shakespeariana e riportarne fedelmente le parole in scena, non volendo in alcun modo semplificare l’inglese poetico e arcaico, ricco di similitudini e metafore piuttosto ardite e non sempre immediate.

Dimostrazione che la prima opera da solista di Joel Coen è anche quella con cui potrebbe chiudere la sua carriera, tanta è la lucidità con cui è riuscito a portare in scena probabilmente il miglior Macbeth cinematografica del nuovo millennio.

Bertie Carvel in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Altrettanto suggestiva nel ricreare le atmosfere shakespeariane sono le scenografie, che fanno sembrare il film più un’opera teatrale che cinematografica, definita dai suoi spazi geometricamente perfetti, tagliati dalle lunghe ombre – fisiche e morali – che infestano gli spazi.

Ma, nondimeno, il regista si è preso le sue libertà.

Interpreti

Denzel Washington in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Un altro elemento che rende The Tragedy of Macbeth più teatrale che cinematografica è la scelta degli interpreti.

Nel teatro è molto comune scegliere interpreti che non rispecchino per forza la fisionomia dei personaggi che portano in scena – quindi, includendo anche attori di etnie diverse da quelle canoniche – ma dare più che altro spazio alle capacità attoriali del singolo.

Denzel Washington e Frances McDormand in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Proprio secondo questa idea, Joel Coen si è affidato alla bravura di un attore afroamericano, Danzel Washington, che è stato capace di portare in scena un climax caratteriale che parte da un Macbeth pensieroso prima dell’omicidio fino al turbato tiranno dell’ultimo atto.

E vi è un’intenzione precisa di includere attori anche più avanti con gli anni nella scelta della strepitosa Francis McDornan, che è riuscita a caricare della giusta drammaticità una delle figure più sanguinarie della letteratura europea, senza mai eccedere come altre prima di lei.

Ma non è l’unica differenza.

Adattare

Kathryn Hunter in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Nonostante The Tragedy of Macbeth sia volutamente fedele all’opera originale, non manca di prendersi qualche libertà.

La più significativa è sicuramente le figure delle streghe, riunite in un unico personaggio che in vari modi si triplica – affiancata da altre figure dal volto sconosciuto, specchiandosi nell’acqua, o semplicemente dialogando con figure fuori scena.

Una parte così complessa affidata ad un’attrice che sembra nata per il ruolo, capace di portare in scena un personaggio al limite dell’umano, grottesco e incomprensibile, caricato di una particolare espressività che la rende sempre più enigmatica.

Denzel Washington in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Altrettanto interessanti sono due momenti cardine dell’opera.

Anzitutto, l’arrivo del fantasma di Banquo, che nell’opera teatrale – anche per convenienza scenica – semplicemente si sedeva al posto di Macbeth al banchetto, mentre qui è un uccellaccio che il protagonista insegue convinto di vederci il suo vecchio amico.

Sempre seguendo la linea del sogno – e del delirio – Macbeth rincontra le streghe non davanti ad un calderone, ma in una stanza del palazzo che si riempie d’acqua, illudendolo con nuove profezie ed apparizioni.

Due scelte che raccontano molto bene la consapevolezza registica di non rimanere troppo vicino all’opera di partenza.

Ma c’è dell’altro.

Presagio

Alex Hassell in una scena di The Tragedy of Macbeth (2021) è la prima opera da solista di Joel Coen

Una delle scelte più peculiari dell’opera di Joel Coen è la figura di Ross.

Come nell’opera shakespeariana era un personaggio contorno, non più che un messaggero, nel film appare come un sottile macchinatore, che intriga alle spalle di tutti, persino dello stesso Macbeth, diventando persino il misterioso terzo assassino di Banquo.

Una scelta che caricare di un significato del tutto differente il finale: per Shakespeare la tragedia di Macbeth era una dolorosa parentesi a fronte di un futuro più felice sotto la dinastia discendente da Banquo – quella degli Stuart, al potere al tempo della pubblicazione dell’opera.

Al contrario, il fatto che Ross nasconda Fleance, il figlio di Banquo, per poi portarlo con sé verso orizzonti sconosciuti non rende il finale rassicurante, ma bensì inquietante, come andando a suggerire che un ulteriore inganno sta venendo tessuto nell’ombra…

…e un nuovo Macbeth potrebbe affacciarsi in futuro nella scena di Scozia.

Categorie
Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film L'Ultima Avventura Western

La ballata di Buster Scruggs – Un affettuoso saluto

La ballata di Buster Scruggs (2018) è – per ora – l’ultimo film codiretto dai Fratelli Coen, prima di prendere strade artistiche separate.

Il film è stato prodotto e distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Di cosa parla La ballata di Buster Scruggs?

Partendo dalle mirabolanti avventure di Buster Scruggs, il film si snoda fra sei storie ambientate nel selvaggio West, accomunate da un elemento lugubre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La ballata di Buster Scruggs?

In generale, sì.

Nella lunga carriera dei Coen, forse questo è uno dei loro film più riusciti dopo anni di produzioni molto meno indovinate: avendo ormai da tempo manifestato il loro amore per il genere western – già in Il Grinta (2010) – La ballata di Buster Scruggs rappresenta il punto di arrivo ideale per la loro carriera di coppia.

E i toni del film sono veramente molto variegati: si passa da episodi dal taglio comico, surreale, quasi grottesco, per sfociare in brevi storie invece decisamente più drammatiche, che tratteggiano un ritratto piuttosto disincantato del Vecchio West.

Insomma, vale la pena di dargli un’occhiata.

La ballata di Buster Scruggs si può leggere a suo modo come un sunto degli alti e bassi della carriera del duo registico.

E proprio in questo modo la voglio leggere.

Morte

Il leitmotiv di La ballata di Buster Scruggs è la morte.

Il trapasso infatti ci coglie di sorpresa fin dalla primissima storia, in cui lo sgargiante personaggio che dà il nome al film si destreggia fra diverse avventure che si concludono tutte con la sconfitta del suo avversario e il plauso del pubblico.

Questo attacco così peculiare può essere letto come uno spaccato dei primi anni del duo: forti di due successi di ampissimo respiro come Fargo (1996) e Il grande Lebowski (1998), al tempo di Fratelli Coen sembravano la nuova promessa di Hollywood.

E invece negli anni successivi i due hanno ottenuto un successo di pubblico sempre più tiepido, prima con i più incolori Fratello, dove sei?  (2000) e L’uomo che non c’era (2001), fino al totale decadimento registico con Prima ti sposo, poi ti rovino (2003).

Eppure, fu solo la prima volta…

Prima volta?

La seconda storia è tanto emblematica in quanto racconta la seconda risalita e discesa del duo.

Come il protagonista della storia si trova a dover affrontare le fortune alterne della sua carriera criminale, con un insperato salvataggio dall’impiccagione per poi finire nuovamente sulla gogna, allo stesso modo i Fratelli Coen ritrovarono un nuovo scoppio di popolarità con Non è un paese per vecchi (2007)…

…per poi tornare nel dimenticatoio già col film successivo, Burn After Reading (2008), l’anticamera di una serie di produzioni molto meno apprezzate, fra cui forse spicca il simpatico Il Grinta (2010), che però non gli valse un nuovo successo.

Infatti, gli umori del pubblico sono molto altalenanti.

Buio

Gli episodi centrali sono quelle che meglio raccontano le fasi più buie della loro carriera.

L’angoscia di fondo si fa particolarmente sentire nella terza storia, in cui i personaggi rimangono sostanzialmente in silenzio per la maggior parte del tempo, e in cui il grande protagonista è la recitazione dello sfortunato Harrison, che riecheggia ripetutamente per la scena.

In questo frangente il duo sembra voler raccontare una fortuna molto passeggera – ottenuta grazie ai suddetti titoli di successo – ma che ha portato gradualmente il pubblico ad abbandonarli, nonostante la loro opera – almeno ai loro occhi – avesse sempre lo stesso valore.

Insomma, si racconta un panorama selvaggio e senza pietà, in cui il circense – o il produttore – si affida al partito che gli è in quel momento più comodo e più redditizio, scaricando il suo protetto quando questo non riesce più a brillare come un tempo.

Una tendenza piuttosto amara che si conferma anche con il successivo episodio, che racconta la crudele caccia all’oro, in cui un vecchio cercatore riesce finalmente ad individuare un filone aureo, ma viene scalzato dal giovane approfittatore di turno…

…ma rimettendosi subito in piedi e risultando infine vincitore.

Infatti, la speranza è un altro tema persistente.

Futuro

Nonostante la carriera da duo artistico sia arrivata al capolinea, i due registi non sembrano perdersi d’animo.

Le lunghe riflessioni per ricominciare su una nuova strada partono proprio dal penultimo episodio, in cui diverse coppie si creano e si sfaldano: prima Alice e suo fratello, poi Alice e Knapp, il quale sceglie di scegliere una vita diversa rispetto al suo storico compare.

Un racconto su un futuro ancora incerto, una consapevolezza un po’ amara di intraprendere una nuova avventura partendo da un passato agrodolce, punteggiato da momenti di buio e quanto da gioie passeggere, come ben si riassume nell’ultimo episodio.

Infatti, la giocosa complicità del duo dei cacciatori di taglie è probabilmente un ritratto che i due registi fanno di sé stessi: piuttosto strambi e fuori dalle righe, non sempre apprezzati e non sempre capiti, ma che arrivano a fine giornata – e di carriera – sempre con il sorriso sulle labbra.

Categorie
Avventura Buddy Movie Coen Bros Drammatico Film Humor Nero Western

Il Grinta – Un simpatico western

Il Grinta (2010) è il remake dell’omonimo film del 1969, questa volta sotto la direzione dei Fratelli Coen nell’ultima fase della loro carriera di coppia.

A fronte di un budget medio – 38 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 252 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il Grinta?

Mattie Ross, rimasta orfana di padre, cerca giustizia. Ma la sua giovane età potrebbe essere un ostacolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Grinta?

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

In generale, sì.

Il Grinta è il classico Coen minore, che si inserisce nel loro avvicinamento al genere western – già sperimentato in Non è un paese per vecchi (2007) e confermato nel successivo La ballata di Buster Scruggs (2018)…

…e che contiene al suo interno i classici elementi tipici della filmografia coeniana – specificatamente, il criminale inetto e l’ironia surreale – senza brillare particolarmente, ma rimanendo un film nel complesso piuttosto gradevole.

Insomma, non imperdibile, ma vale una visione.

Vantaggio

Hailee Steinfeld in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Mattie è limitata solo dalla sua età.

L’elemento più profondamente coeniano è infatti la brillantezza e intelligenza della protagonista, che risulta così inusuale nel suo costante scontro con la becera ignoranza degli altri personaggi, che cercano costantemente di ingannarla e limitarla nel suo agire.

Hailee Steinfeld in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Infatti il suo personaggio si muove all’interno di un ambiente definito dalla fama e dalla furbizia del singolo, dove l’unica legge è quella della forza e dov’è il valore dell’individuo è definito dalla sua autorità ed esperienza con il mondo…

…che deve piegarsi davanti a questi concetti così estranei di giustizia, contratti e avvocati, così misteriosi da incutere un certo timore nei personaggi con cui Mattie si interfaccia, che infine, volente o nolente, devono piegarsi alla sua volontà.

In questo senso, Rooster è l’esatto opposto.

Imbrigliare

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Mattie non è la prima a cercare di imbrigliare Rooster.

L’introduzione del personaggio avviene in un panorama del tutto anomalo: un tribunale in cui è torchiato dalle domande di un avvocato che cerca di chiedergli il conto dei suoi crimini, dei suoi omicidi, in un mondo selvaggio in cui le regole sono messe al bando. 

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

E infatti il vecchio giustiziere arranca fra particolari, sentito dire e una legge sotterranea che non gli ha mai chiesto il conto, ma ha solamente preteso da lui risultati che bene o male, più o meno legalmente, è riuscito infine ad ottenere.

Ma se in quel contesto Mattie potrebbe anche rivalersi, il mondo esterno è ben diverso.

Evasione

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Come in altri contesti – specificamente Fargo (1996) – è evidente che anche qui i Coen volessero riscrivere un genere. 

Ovvero, il buddy movie – o, meglio, il sottogenere che coinvolge una coppia formata da un giovane e un vecchio. 

E proprio per questo, il duo registico si impegna nell’evadere la classica dinamica che costruisce un certo affetto fra i protagonisti, partendo da una condizione di assoluto antagonismo – per quanto, anche qui, ce ne fossero tutti i presupposti.

Hailee Steinfeld e Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Sostanzialmente Rooster all’inizio mette più volte Mattie alla prova, finché – attraversando intrepida il fiume a cavallo pur di inseguirlo – la protagonista si guadagna il suo rispetto, concedendole di seguirlo all’interno di un panorama selvaggio ed indomabile.

Infatti la passerella di personaggi che si alterna sulla scena racconta un mondo definito dall’astuzia e dalla prevaricazione, dal guadagno ricercato ovunque – persino in un cadavere, che può essere rivenduto per non pochi soldi.

Un mondo in realtà anche piuttosto meschino e mediocre, come lo stesso Chaney si dimostra, evadendo del tutto il modello del villain temibile e irrefrenabile tipico del genere western, che, insieme alla mancanza di un esplicito happy ending, è la massima evasione del film.

Tuttavia, nel loro voler a tutti i costi cambiare il modello i Coen rischiano di non centrare il punto, arrivando ad un finale che vorrebbe essere amaro e riflessivo come in Fargo, ma che finisce solo per essere insipido e insoddisfacente.

Categorie
Avventura Coen Bros Dramma familiare Drammatico Film

Non è un paese per vecchi – Cosa resta di noi

Non è un paese per vecchi (2007) è probabilmente l’opera più nota e apprezzata della filmografia di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 25 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 117 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Non è un paese per vecchi?

Llewelyn Moss è un veterano del Vietnam ormai in pensione, che, approfittandosi di una faida fra gang, riesce ad impossessarsi di una grossa somma . Ma è un denaro fin troppo pericolosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Non è un paese per vecchi?

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Non è un paese per vecchi nasce da una riflessione lunga un decennio, partita dall’opera prima del duo registico, Fargo (1996) e riproposta all’interno di un contesto amaramente drammatico, segnando uno dei loro maggiori successi cinematografici.

Un’opera sicuramente complessa, quasi respingente per la sua crudeltà, per la sua scrittura che vive di sottrazione, di simboli, di non detti, dove tutto è lasciato alla messinscena e agli incredibili interpreti coinvolti.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Incontrollabile

Non è un paese per vecchi si apre con l’illusione del controllo.

Non conosciamo ancora le capacità di questo misterioso criminale, ma ci limitiamo ad osservarlo mentre viene caricato su una macchina della polizia, mentre è relegato alle retrovie della scena, mentre ci viene raccontato come sia un personaggio del tutto innocuo, sotto controllo…

…finché non si si riappropria prepotentemente della scena tagliando la gola al poliziotto per cominciare il proprio viaggio.

E la stessa illusione è anche propria di Llewelyn Moss, che si trova fin troppo facilmente fra le mani i soldi del cartello, e che inciamperà nei suoi stessi errori scena dopo scena, riuscendo a sfuggire solo per un soffio dal morso di uno dei cani sguinzagliati contro di lui.

E ancora, il protagonista si illude di aver totale controllo della situazione quando elabora un piano in realtà facilmente fallibile, fatto di cambi di macchine, di stanze in squallidi motel, di nascondigli astutamente ideati, pensando di sfuggire alla furia di Anton Chigurh.

Ma Moss non ha idea del pericolo che ha davanti.

Macchina

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Anton è un nemico imperscrutabile.

Nonostante gli altri personaggi cerchino più volte di ridurlo alle proprie regole, lo spietato killer segue costantemente una sua personale linea di condotta che non può mai essere messa in discussione, che non può essere in alcun modo frenata, neanche con le richieste più semplici.

Ma la chiave della sua figura si trova proprio in una delle scene in cui esercita il suo opprimente controllo contro un altro personaggio: sfidando l’ingenuo negoziante a scommettere sul lancio della moneta, Anton sta in realtà raccontando la sua visione del mondo.

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Di fatto, lo spietato killer disprezza profondamente la realtà mediocre che lo circonda, in cui ogni individuo è soggetto ad una continua scommessa contro una vita irragionevole ed incontrollabile, vivendo nell’illusione di un poco credibile libero arbitrio.

E il suo controllo invece Anton lo esercita aggredendo la vita con un taglio chirurgico ed ineluttabile, come un colpo di pistola che trafora usci e volti senza possibilità di replica, senza possibilità di sottrarsi al suo indiscutibile giudizio.

E allora, cosa rimane?

Ineluttabile

Il più illuso e disilluso insieme è proprio lo sceriffo. 

Vedendo l’occasione per trovare un briciolo di giustizia in un mondo feroce e incontrollabile, si intestardisce sempre di più sull’idea di portare non una condanna, ma una salvezza in un duello che può avere come esito solo la morte dell’illuso veterano.

E quel briciolo di speranza che ci offre la sua presenza è infine strozzata da un climax interrotto, che prima ci illude che sarà possibile uno scontro alla pari fra i due duellanti, ma che invece porta all’ennesimo fuoco incrociato che, ancora una volta, Bell non è riuscito ad evitare.

E così tutte le morti significative avvengono fuori scena, fuori dal nostro controllo: non vediamo neanche il corpo di Moss, non abbiamo certezza del destino di Carla, e non sappiamo neanche nulla sulla sorte di Anton stesso, reso infine molto meno inarrestabile di quanto credessimo.

Ci restano solo le amare parole dello sceriffo, che riassume nel suo sogno la flebile speranza rappresentata dal defunto genitore nelle vesti di un cowboy di un’epoca ormai tramontata, con cui riesce a trovare ancora una scintilla di speranza in un mondo arido e crudele.

Ma poi…

But then I woke up.

Ma poi mi sono svegliato.
Categorie
Coen Bros Comico Commedia romantica Film

Intolerable Cruelty – Il punto più basso?

Intolerable Cruelty (2003), noto in Italia col titolo terrificante di Prima ti sposo, poi ti rovino, è una commedia romantica diretta da Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piuttosto sostanzioso – 60 milioni di dollari – ha avuto un riscontro piuttosto modesto al botteghino: appena 120 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Intolerable Cruelty?

Miles Massey è un brillante avvocato matrimoniale che si trova a scontrarsi con un ostacolo inaspettato: una donna fascinosa, quanto pericolosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intolerable Cruelty?

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Per quanto Intolerable Cruelty sia da molti considerato uno dei punti più bassi della carriera dei Coen, e nonostante sia un lavoro in cui si trova molto poco della loro cinematografia, l’ho trovata nel complesso una commedia frizzante e piacevole.

Infatti con i suoi colpi di scena, i suoi interpreti comici irresistibili, fra cui un George Clooney in ottima forma, e quel pizzico di surreale sicuramente opera del duo registico, è risultato infine un prodotto che è riuscito ad intrattenermi ed a divertirmi.

Insomma, dategli una possibilità.

Paradosso

Intolerable Cruelty inizia con un paradosso.

La classica dinamica della scoperta del tradimento goffamente celato, prende una via del tutto inaspettata introducendo una violenza esagerata e grottesca, che sembra comunque dare del tutto ragione ad un irresistibile Geoffrey Rush.

Ma presto scopriamo che questo siparietto non serviva ad altro che ad introdurre il protagonista del film, Miles Massey, e la sua brillante capacità di prendere una storia e manipolarla fino a ribaltarla completamente a favore del suo cliente.

George Clooney in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Poi c’è l’altra faccia del mercato del matrimonio.

Una dinamica altrettanto grottesca porta in scena la spietata Marilyn Rexroth, una sottile macchinatrice che ben si inserisce all’interno del surreale club delle arrampicatrici sociali, che saltano avide di matrimonio in matrimonio.

Un quadretto tanto più deliziosamente ironico se si ascoltano i dialoghi originali, in cui i mariti vengono appellati come solitamente si parla dei figli:

She was divorcing from his third.

Stava divorziando dal suo terzo (marito).

E allora l’amore può avere un ruolo?

Specchio

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Marilyn e Miles sembrano destinati ad incontrarsi.

Due personaggi che possono essere ora nemici giurati, impegnati nel mettersi vicendevolmente i bastoni fra le ruote – l’una creando complessi inganni per arricchirsi, l’altro cercando di minare gli stessi a proprio vantaggio…

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

…ora perdutamente innamorati, non tanto per il loro naturale fascino, ma soprattutto per come si possono specchiare l’uno nelle azioni dell’altro, vittime di un’irresistibile chimica che li porta naturalmente ad attrarsi. 

Su questo fronte ho apprezzato che Intolerable Cruelty non abbia spinto troppo l’acceleratore sull’idea di un amore risolutivo, che avrebbe esorcizzato ogni tipo di negatività dei personaggi in funzione dell’happy ending.

Infatti, la via per il lieto fine è piena di insidie.

Trappola

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Uno degli aspetti che ho più apprezzato di Intolerable Cruelty è la costruzione dell’inganno di Marilyn.

Infatti noi come Miles veniamo facilmente portati a pensare di aver perfettamente compreso le vere intenzioni del personaggio, nel suo indurre il futuro marito – o, meglio, la sua prossima preda – a fidarsi totalmente di lei.

Al contrario, dopo un’abile costruzione che fa leva proprio sui recenti timori di Miles di essere destinato ad una vita infelice dedita esclusivamente al suo lavoro, lo stesso cade nella trappola di Marilyn, che finge di fidarsi totalmente suo nuovo marito.

E invece basta poco a Miles per scoprirsi la vera vittima del piano della sua amata, per trovarsi senza più casa e moglie in un colpo solo, e, con un nuovo abile colpo di scena, diventare finalmente parte di una coppia paritaria…

…che infine non ha più nessuno ostacolo davanti a sé.

Neanche l’impenetrabile Massey prenup.

Categorie
Avventura Coen Bros Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Giallo Noir

L’uomo che non c’era – Una realtà frammentata

L’uomo che non c’era (2001) di Joel e Ethan Coen è un film neo-noir con protagonista Billy Bob Thornton.

A fronte di un budget di circa 20 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Di cosa parla L’uomo che non c’era?

Ed è un barbiere totalmente alienato dalla vita e, soprattutto, dal suo matrimonio. E infatti è l’ultima persona che accuseresti di omicidio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uomo che non c’era?

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Con L’uomo che non c’era i fratelli Coen si trovano in una fase in cui la loro produzione, nonostante conservi indubbiamente un grande fascino registico ed un’innegabile verve narrativa, sembra che non riesca davvero a centrare il punto.

Infatti, pur con un utilizzo molto abile del bianco e nero, e con un attore protagonista così azzeccato e in parte, la storia della pellicola mi è parsa non arrivare effettivamente da nessuna parte, ma piuttosto di vivere di suggestioni non adeguatamente esplorate.

Ma dategli comunque un’occasione.

Vuoto

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed è alienato.

Immerso in un inarrestabile flusso di coscienza, il protagonista vive la sua vita non come l’attore principale, ma come un mero spettatore, che lascia che gli eventi si susseguano davanti ai suoi occhi senza voler intervenire.

In particolare, del tutto consapevole del tradimento in atto della moglie, sceglie con malcelato nichilismo di lasciarlo esistere al di là dei suoi occhi, preferendo meditare sulla insensatezza del suo stesso matrimonio fin dalle sue inconsistenti origini.

E, allora, cosa serve per farlo smuovere?

Piena

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed non è in controllo della propria vita.

Diventando per la prima volta agente attivo della sua sorte, si lascia facilmente coinvolgere nella banale proposta truffaldina di Creighton Tolliver, nonostante tutti gli indizi in scena bastino per mettere insieme il quadro dell’inganno in atto.

Ma è solo la miccia.

Solo marginalmente turbato dalla possibilità di essere scoperto come mandante del ricatto ai danni dell’amante della moglie, il protagonista si incastra involontariamente in una rete criminale che era sempre stata sotto i suoi occhi.

E allora non può fare altro che difendersi.

Ma neanche così può raccontare la sua storia.

Riscrivere

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

La vita di Ed è scritta da altri.

Per quanto il protagonista cerchi infatti di prendere posto in scena, nonostante confessi esplicitamente il suo crimine, non vi è mai spazio per lui: la sua è una versione come tante altre, anzi è forse della meno interessante e credibile.

Infatti il vero burattinaio è proprio il malizioso avvocato Riedenschneider, pronto in ogni momento ad afferrare, deformare e riscrivere gli eventi a proprio piacimento, mentre gli altri personaggi sono marionette prive di volontà.

E proprio come un fantoccio Ed vive la sua vita, diventando colpevole dell’omicidio sbagliato, potendo vivere la sua verità solamente all’interno del mondo della finzione, e infine accettando l’uscita di scena da una vita che non ha mai veramente vissuto.

E forse dall’altra parte avrà più fortuna…

Categorie
Avventura Coen Bros Comico Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Grottesco

Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

Categorie
Avventura Coen Bros Comico Commedia Commedia nera Drammatico Film Humor Nero Surreale

Il grande Lebowski – Il piccolo Drugo

Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen fu la pellicola che segnò definitivamente il successo di questo talentuoso duo di registi.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 15 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale47 milioni in tutto il mondo – diventando nel tempo un grandissimo cult.

Di cosa parla Il grande Lebowski?

Jeffrey Lebowski, detto il Drugo, è un annoiato nullafacente che vive la sua vita alla giornata. Ma una curiosa omonimia sarà l’inizio di una grande avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il grande Lebowski?

Jeff Bridges e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Assolutamente sì.

Il grande Lebowski fu solo la naturale continuazione di Fargo (1996), volendo ancora raccontare, con imprevedibili toni comici e surreali, una parentesi di irresistibile di violenza e criminalità all’interno di una vita quietamente soddisfacente…

…arricchendo la scena con una folla di personaggi sempre più improbabili e indimenticabili, in una storia a scatole cinesi di cui è anche difficile tenere il passo – ma proprio qui sta anche la bellezza del film.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Shock

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo vive la vita più serena che si possa immaginare.

Una seducente voce fuori campo ci introduce ad un panorama che sulla carta sembra quasi proprio di un western, con protagonista un eroe leggendario e imperscrutabile, che invece si rivela un adorabile fannullone, così pigro da pagare persino pochi centesimi di spesa con un assegno.

Pochi tocchi di colore che, come già dimostrato nel precedente Fargo, bastano per rendere poliedrico e iconico il protagonista, che seguiamo nella sua disimpegnata routine, senza un pensiero al mondo…

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

…che viene improvvisamente interrotta dalla prima delle numerose incursioni, in cui vengono affibbiati al nostro protagonista delle caratteristiche via via sempre meno credibili: se all’inizio possiamo credere che sia in debito con personaggi poco raccomandabili…

…molto meno verosimile che il Drugo abbia una moglie a carico – come lui ci tiene particolarmente a sottolineare – fra l’altro riducendo a non perdere la sua irresistibile vena ironica neanche mentre gli affondano la testa nel water:

Where’s the money, Lebowski? Where’s the fucking money, shithead?
(Drugo) It’s uh… uh… it’s down there somewhere, let me take another look.

Dove sono i soldi, Lebowski? Dove cazzo sono i soldi stronzo?
Sono…em…qua dentro da qualche parte, fammi dare un’altra occhiata.

Ma le preoccupazioni del Drugo sono molto limitate.

Tappeto

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Lebowski ha una sola preoccupazione.

Il suo tappeto rovinato.

Niente più che un fastidio che il protagonista inizialmente non vuole neanche affrontare, ma che infine si decide a risolvere incoraggiato da suoi altrettanto strambi amici, in particolare Walter, che non ha mai abbandonato il campo di battaglia – e così il suo senso di giustizia.

Così, con la visita al grande Lebowski, il Drugo si immerge in un universo di apparenze, in cui le presunte prove della bontà del miliardario – il suo impegno sociale e le sue amicizie politiche – vengono insistentemente sottolineate dall’ingenuo assistente del miliardario, Brandt.

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Ma, nonostante le sue grandi conquiste caritatevoli, il magnate risponde con grande insofferenza alle richieste del Drugo, convinto che sia solo l’ennesimo personaggio che cerca di immergere le mani nel suo importante portafoglio.

Ma se Drugo è un uomo dalle vedute ristrette, nondimeno si dimostra piuttosto abile nell’ottenere quello che vuole senza particolare sforzo: fare leva sulla genuina bontà del segretario e sulla sua assoluta convinzione della bontà del suo superiore…

…per portarsi a casa un tappeto pure più bello.

Ma i problemi sono appena iniziati.

Occasione

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Con Il grande Lebowski i fratelli Coen si prendono apertamente gioco di un topos narrativo piuttosto tipico.

Ovvero, la storia di un improbabile eroe.

In prima battuta sembra infatti che il Drugo sia riuscito senza sforzo a tornare alla sua vita di totale indifferenza, nonostante i diversi disturbi esterni che cercano insistentemente di ottenere la sua attenzione tramite la segreteria telefonica.

Jeff Bridges, Steve Buscemi e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

E così il suo godersi appieno il suo nuovo tappeto viene ancora una volta improvvisamente disturbato da una nuova intrusione, da un nuovo giocatore in questa sciocca prova di potere, che però inizialmente non viene rivelato.

Infatti la nostra attenzione – e quella del Drugo – viene immediatamente distolta dal ritorno in scena del vero Lebowski, che introduce il grande mistero della pellicola: il rapimento della seducente Bunny, la moglie trofeo.

E il suo quieto vivere ne è sempre più turbato…

Fuga

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è sempre più immerso in una storia da cui vorrebbe solo fuggire.

Con momenti di irresistibile ironia – come il cercapersone a cui il protagonista non può rispondere durante il torneo di bowling – si articola così il complesso scambio della valigetta, ancora più complicato dall’intrusione di Walter, che vorrebbe approfittarsi della situazione.

E il Drugo ne paga tutte le conseguenze.

Perdendo sia la valigetta sia la macchina, il protagonista si trova intrappolato in una rete di bugie ed intrighi da cui non riesce a districarsi, aggravato anche dall’intervento di un nuovo personaggio, Maude, la figlia di Lebowski, che conferma i sospetti sul finto rapimento.

Il mistero si infittisce con il coinvolgimento del giovane Larry Sellers, apparentemente autore del furto, il primo momento della grottesca ironia già sperimentata in Fargo, che spoglia il racconto di ogni vena drammatica, mettendo ancora più in luce l’improbabilità dei personaggi coinvolti.

Ma esiste una via d’uscita?

Bandolo

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è molto meno stupido di quanto si potrebbe credere.

Raccogliendo indirettamente gli indizi che gli arrivano quasi casualmente, il protagonista riesce a comporre più chiaramente il quadro della situazione, confermata dal ritorno di Bunny, che smaschera tutte le presunte vittime e criminali in scena. 

Ma l’elemento interessante, di totale disillusione del film, è che non vi è nessuna conseguenza per il grande Lebowski, se non l’essere definitivamente umiliato dalla paranoia di Walter, che pensa che tutto sia un inganno, persino la disabilità del finto miliardario.

Ancora più ridicolo è infine il confronto con i presunti rapitori, che decidono comunque, proprio per principio, di derubare i protagonisti, diventando autori dell’unica nota veramente amara della pellicola: la morte di Donny.

E così ancora una volta il film si conclude con una nota agrodolce, in cui il protagonista non è cambiato per nulla, ma la sua maggiore preoccupazione è ancora il prossimo torneo di bowling…

Categorie
Avventura Comico Commedia Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Giallo Grottesco Humor Nero Il grande inizio Thriller

Fargo – Una parentesi criminale

Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.

Di cosa parla Fargo?

Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fargo?

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.

Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Mediocre

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.

Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.

Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…

…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.

William H. Macy e Kristin Rudrüd in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.

E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…

Improvvisazione

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.

Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.

Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.

E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.

Alternativa

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Marge è una protagonista piuttosto particolare.

Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.

E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.

Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…

…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.

Categorie
Coen Bros

Coming soon…