Categorie
Le riflessioni del cinema semplice

La giusta polemica

Negli ultimi anni si sono susseguiti prodotti cinematografici e seriali che molti hanno etichettato come schiavi del politicamente corretto.

E La Sirenetta (2023) è solo l’ultimo degli esempi.

Con questa riflessione non voglio dirvi per cosa dovreste arrabbiarvi, ma invitare ad una maggiore profondità di pensiero quando parliamo di questo tipo di film.

L’obbiettivo sbagliato

Dire che siamo in balia di questo tanto sbraitato politicamente corretto è la lettura più ingenua che potreste fare in questi casi.

Soprattutto perché è una terminologia che sposta l’attenzione verso l’obbiettivo sbagliato: sia che si parli di effettivi attivisti e persone che si battono per una società più equa, sia verso questi presunti agenti invisibili che muoverebbero le fila della nostra società.

I veri colpevoli sono anzitutto tutte quelle nicchie nate sui social – la classica minoranza rumorosa – che alimentano il buzzing intorno a queste tematiche, ma seguendo le strade più estreme e semplicistiche – e, di fatto, controproducenti.

Ma non è neanche su di loro che dovrebbe andare la nostra attenzione.

Capitalizzare sulle tendenze

La nostra attenzione dovrebbe infatti essere puntata verso chi sta capitalizzando sulla situazione attuale.

I film sono i prodotti che meglio raccontano le tendenze e il sentimento di un’epoca, andandone proprio a raccogliere gli spunti – e, di fatto, volendo in questo modo soddisfare il pubblico pagante.

Tuttavia, in questo momento stiamo vivendo un’effettiva cannibalizzazione della situazione attuale, in cui le grandi case di produzione fanno determinate scelte – di scrittura e, soprattutto, di casting – per alimentare la pubblicità gratuita – anche negativa – intorno ai loro prodotti.

Sempre il solito concetto insomma: bene o male, purché se ne parli.

Scegliere le parole

Per questo, più che di politicamente corretto – parola che ho personalmente bandito dal mio vocabolario – sarebbe più giusto parlare di tokenism e di inclusività forzata.

Due termini che in realtà vanno a braccetto: con tokenism si intende quella tendenza ad includere in un prodotto un rappresentante di una determinata minoranza sociale, ma solamente per fare presenza, senza svilupparlo o contestualizzarlo.

Da cui, inclusività forzata.

E questa tendenza, secondo me, è il vero pericolo: stiamo lasciando che case di produzione multimilionarie capitalizzino sui sentimenti e i secoli di marginalizzazione di diverse minoranze, così da farli diventare degli spettatori paganti.

Peccato che i veri prodotti inclusivi siano da ricercare altrove.

E tutto deriva – forse – anche da una smaccata incapacità di analisi.

Mancare di profondità

Tutta questa situazione è derivata anche da un’apparente ingenuità delle produzioni.

Infatti, purtroppo sembra che – forse volutamente – le stesse non riescano a rendersi conto che, per riuscire a creare prodotti effettivamente più inclusivi bisogna ragionare sul perché alcuni prodotti del passato non sono considerati tali.

Molto banalmente, i problemi erano di fatto due: la tendenza a non includere determinate minoranze e l’insistenza su determinati topos narrativi piuttosto banali e poco rappresentativi.

Gli esempi si sprecano: dagli omosessuali effeminati ai neri rumorosi.

E la strada più ovvia – ma non così tanto, evidentemente – sarebbe quella di portare nuovi personaggi rappresentativi di queste minoranze, dargli una profondità narrativa, distaccandosi dagli stereotipi, e integrandoli organicamente nelle storie raccontate.

Sembra molto difficile, vero?

Evidentemente molte major – in particolare la Disney – hanno pensato la stessa cosa. E così hanno scelto invece rappresentazioni che sembrano essere fatte apposta per essere prese in giro: puri token che urlano – a volte letteralmente il loro essere personaggi inclusivi e all’avanguardia.

Sei una supereroina egiziana?

Moonknight

La bellezza silenziosa

Invece, gli esempi positivi sono sotto i nostri occhi, ma non sono così sguaiati da portare a discussioni e polemiche.

Un caso più recente è sicuramente Atomica Bionda (2017): la protagonista è una spia spietata e abilissima, che non solo gode di una perfetta contestualizzazione delle sue abilità, ma i suoi scontri non sono mai inutilmente patinati e idealizzati, ma potenti e veritieri.

Guardando più indietro, si sprecano gli esempi nei prodotti di Miyazaki, di cui il mio preferito è sicuramente Chihiro de La città incantata (2001): un personaggio femminile che ricalca il topos dell’eroina con capacità speciali, ma con un’inedita profondità.

Ma il prodotto che preferisco in questo senso è Ted Lasso.

Raccontando la storia di una squadra di calcio, era inevitabile che si componesse un cast multietnico. Ma non ci si ferma qui: sono presenti dei fantastici approfondimenti su diversi personaggi e i loro paesi d’origine, che li contestualizzano in maniera incredibilmente interessante.

Come se non bastasse, il protagonista è un personaggio maschile di rara profondità, dotato di un’emotività che non sempre si vede associata agli eroi della storia…

Il vero problema

In conclusione, il vero problema dei live action Disney – e di tutti i film fatti con i medesimi intenti – è che non sono altro che freddi prodotti da vendere.

Nell’era che stiamo vivendo, in cui il marketing non si basa più sul vendere emozioni, ma sul raccontare i valori di un’azienda – e del prodotto collegato – non sono poche le major che utilizzano le loro pellicole di punta come vettori per ostentare i loro presunti meriti.

E questo ovviamente non perché ci credano veramente – altrimenti i risultati non sarebbero questi – ma perché sanno che è rispettando determinate checklist che il prodotto venderà, e anche tanto.

Vi devo ricordare quanto ha incassato il live action del Re Leone?

Per questo la cosa migliore che possiamo fare, se non vogliamo sostenere questi prodotti, è non dargli importanza: andando a gonfiare la polemica, cadendo in queste trappole messe appositamente per creare pubblicità gratuita, facciamo solo il loro gioco.

E andranno avanti ancora a lungo.

Questo è il motivo per cui oggi, giorno di uscita de La Sirenetta (2023), ho deciso di non andare a vederlo e non supportare un prodotto che non solo non mi interessa, ma che fa parte di un progetto che in generale non voglio più sostenere.

Perché non guardare i live action disney

Questo significa che non vedrò mai più in vita mia un live action Disney?

No, semplicemente che nel mio piccolo vorrei riuscire in futuro a tenere al minimo la polemica riguardo a queste smaccate operazioni commerciali, e tendenzialmente evitare di avvicinarmi a prodotti che non mi interessano – che siano Disney o di altra produzione.

Insomma, non voglio portare la recensione di un film solamente con l’intenzione di demolirlo, sapendo già in precedenza che non mi piacerà – purtroppo con Peter Pan & Wendy (2023) ne ero del tutto ignara…

Ma parliamo del prodotto incriminato…

Una polemica sterile

La polemica su La Sirenetta ha colpito tutti i punti sbagliati.

Non solamente per l’idea incommentabile secondo cui Ariel non può essere nera perché non arriva il sole sott’acqua, ma soprattutto perché la protagonista è una sirena, una creatura di fantasia, e già l’estetica del classico Disney è una snaturazione dell’opera originale.

Nell’opera di Andersen infatti Ariel non solo era bionda, ma la sua storia aveva uno svolgimento e un significato totalmente differente.

I difetti del film, come al solito, saranno da ricercare altrove.

Visto lo spirito con cui vengono fatti questi prodotti, con ogni probabilità sarà un film scritto male, che lavora di totale sottrazione, che aggiunge dove non deve aggiungere e che rende realistici elementi che non lo dovrebbero essere.

Già i character poster parlano da sé.

Quindi, come era stato per Peter Pan & Wendy, l’etnia dei personaggi sarà l’ultimo dei problemi del film…

Ma sarete voi a raccontarmelo.

Ne usciremo mai?

In chiusura, un messaggio di speranza.

Questa situazione non è infinita.

Siamo immersi in un’era di isteria collettiva, in cui si stanno prendendo le strade potenzialmente più disordinate per correggere delle tendenze che hanno definito il cinema per più di un secolo.

Tuttavia, questa situazione è lo specchio di questi strani tempi, che verranno digeriti prima di quanto ce lo aspettiamo, arrivando presto ad una situazione in cui creare prodotti inclusivi sarà l’assoluta normalità, e non ci sarà più bisogno di far scalpore.

E potremo tornare a parlare dei film come film.