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Le riflessioni del cinema semplice

“Nel libro è così”

Le trasposizioni sono croce e delizia del cinema.

Ogni volta bisogna compiere delle scelte per riuscire a trovare un equilibrio convincente per non tradire gli intenti e i significati dell’opera di partenza, ma al contempo per riuscire a renderli in un media totalmente diverso.

E la mancanza di consapevolezza è all’ordine del giorno…

Stravolgere

Tentare di cavalcare un trend o un successo è il pane quotidiano delle produzioni ad alto budget, spesso incapaci di comprendere la natura e la complessità dell’opera di partenza, finendo per questo per banalizzarla ad uso e consumo del pubblico generalista.

E così nascono i disastri.

L’esempio che ha più segnato l’immaginario collettivo è sicuramente Ghost in the shell (2017), trasposizione dell’omonimo anime del 1995: a fronte di un’opera immensa che riflette in maniera profonda e filosofica sul concetto di umano e di identità…

…si è deciso di produrre un action scialbo e inconsistente, che rappresenta esattamente tutto quello che l’anime non è (e che non vuole essere), inquinandolo con una dose nauseante di fan service – che non è comunque bastato a salvare un disastro produttivo ed economico.

Avatar Live action

Questa sezione è stata possibile grazie alla sofferta testimonianza di @into.thenerdverse

Un altro esempio è uno dei tanti, terrificanti adattamenti di Netflix, autrice di riproposizioni indimenticabili – ma per i motivi sbagliati: il primo tentativo di portare in live action la serie animata Avatar: La leggenda di Aang.

Così l’adattamento del 2010 riesce a sbagliare su ogni fronte: incapace anche solo di pronunciare correttamente i nomi dei personaggi, ci stupisce con effetti speciali da urlo (di dolore) e combattimenti più a mani nude che tramite il bending.

Vorrei chiudere questo terzetto con un caso che mi fa veramente male al cuore: Peter Pan & Wendy (2023)

Arrivata alla visione forte di un recupero sia dell’opera di J. M. Barrie, sia del classico Disney del 1953, mi sono trovata davanti ad una produzione estremamente arrogante, che ha deciso deliberatamente di ignorare concetti fondamentali di Peter Pan e della sua mitologia.

Ne risulta così un film inutilmente drammatico e freddo, in cui David Lowery non aveva evidentemente alcun interesse di parlare di Peter Pan – cercando ripetutamente di ucciderlo – non mancando comunque di intenti politici smaccati e francamente imbarazzanti.

Ma c’è di peggio.

Copiare

Mi rendo conto che questa è probabilmente un’opinione molto impopolare, ma io non posso sopportare Watchmen (2009).

Inizialmente il film di Snyder appare come una trasposizione maestosa e fedele del capolavoro fumettistico di Moore, ma bastano poche scene per inciampare in ogni possibile errore: dalla banalizzazione del secondo Spettro di Seta, alla resa forzata dei costumi…

…fino alla più grande mancanza: non inserire uno dei finali più iconici, impattanti e significativi della storia del fumetto, ma, al contrario, chiudere il film con una risoluzione banale e scontata, che deruba la storia della sua profondità ed importanza.

Per me questo risultato è ancora più grave del precedente: se Lowery ha preso e stravolto indebitamente Peter Pan per fare un suo film su tutt’altro, Snyder si è dimostrato capace solo di citare ingenuamente l’opera di Moore, ma senza averla compresa in alcun modo.

Ed è veramente disturbante vedere una cura certosina nel rendere alcune vignette iconiche accostarsi ad uno stravolgimento indebito di altri elementi, ma, appunto, più per ingenuità e ignoranza che per effettiva arroganza.

Ma allora si può fare una trasposizione ottimale?

Comprendere

Se diversi esempi che andremo ad analizzare ci portano ad una risposta positiva, la domanda giusta da farsi è un’altra.

Ovvero, qual è l’elemento chiave di una buona trasposizione?

Banalmente, la già citata comprensione dell’opera.

Ma più che una comprensione di per sé del materiale, è altrettanto importante comprenderne i diversi limiti, ovvero trovare delle soluzioni per tradurre il linguaggio di un media – il libro, il fumetto… – in uno completamente differente – il cinema, la tv.

Ovviamente, l’esempio principe è Dune (2021).

Un grande ostacolo dell’opera letteraria era proprio il suo protagonista, una figura fredda e impassibile, che viveva raramente dei conflitti interiori ed esteriori, ma che anzi spesso accoglieva i vari turbamenti della sua vita senza battere ciglio.

La produzione si è evidentemente resa conto di quanto fosse poco vendibile al cinema un personaggio del genere, il cui fascino risiedeva anche nelle meditazioni interiori che avrebbero solo appesantito il media audiovisivo.

Per questo, il personaggio di Paul nel film del 2021 è certamente spesso freddo e arrogante, ma dimostra fin da subito un turbamento e un’insicurezza che ha bisogno di diverso tempo per essere affrontata e raccontata, attraversando anche un’inedita ribellione.

Alia Dune

Per quanto riguarda invece il secondo film, estremamente problematica era Alia.

Nel libro è una bambina di appena due anni, nata già formata per essere venuta contatto quando ancora in grembo con il veleno dei Vermi della Sabbia, diventando così una Bene Gesserit con una conoscenza millenaria.

Come dimostra anche il Dune di Lynch, portare in scena un personaggio del genere avrebbe fatto scadere una produzione con un’estetica elegante e precisa in un trash involontario, finendo per svalutare l’intera pellicola.

Al contrario, lasciare Alia nel grembo e mostrarla nella sua versione futura ha reso in maniera vincente l’involuzione di Jessica, e ha al contempo permesso di gettare le basi per un personaggio chiave anche per il terzo capitolo.

In ultimo, vale la pena spendere due parole sulla nuova trasposizione di Avatar da parte di Netflix.

Aveva fatto alzare non pochi sopraccigli l’annuncio di eliminare il sessismo di Sokka, che lo faceva spesso scontrare con diversi personaggi, ma era anche parte fondamentale della sua evoluzione.

Ma la serie ci ha sorpreso, dimostrandoci di aver profondamente compreso il personaggio: la negatività di Sokka non era tanto il suo sessismo di per sé, ma la sua arroganza nel sentirsi superiori agli altri, dopo aver vissuto solo nel suo microcosmo originario.

Per questo nel live action il ragazzo non manca di essere insopportabilmente supponente, soprattutto nei confronti di Katara, ma al contempo si indaga ancora meglio l’origine di questo atteggiamento e la si accompagna verso una felice risoluzione.

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Il valore della noia

Negli ultimi anni, anche per via di una maggiore democratizzazione (del tutto legittima) della critica cinematografica, la noia è diventata un punto cardine di diverse opinioni.

Per questo a questo punto è lecito chiedersi…

La noia è un valore?

Il cinema non è (sempre) intrattenimento

Del tutto comprensibilmente, anche per le sue origini, il cinema viene spesso considerato un’esperienza finalizzata principalmente all’intrattenimento personale.

In realtà, non è assolutamente detto.

L’intrattenimento dello spettatore non è la finalità ultima di tutti i film: al di là dei meri blockbusters, esistono indubbiamente autori come Spielberg e Tarantino che da anni sono del tutto capaci di portare prodotti di valore e al contempo di dialogare anche con il pubblico più generalista…

…ma difficilmente mi verrebbe da richiedere ad un film come Men (2022) di portarmi dell’intrattenimento e di non annoiarmi, perché con ogni evidenza non è quello il suo obbiettivo – e, in generale, non penso che neanche sarebbe giusto pretenderlo…

Tuttavia…

Non appiattirsi

Tuttavia, essere annoiati da un film è del tutto legittimo.

E, fra l’altro, se non abbiamo uno specifico interesse nel parlarne pubblicamente come critici, possiamo anche riservarci il diritto di limitare la nostra opinione al livello di intrattenimento che il prodotto ci ha regalato.

Tuttavia, se vogliamo effettivamente portare una visione più ampia ed approfondita, parlare di noia appiattisce inevitabilmente la nostra critica.

E per due motivi.

Anzitutto, perché la noia è un parametro del tutto soggettivo, determinato da diversi fattori anche oltre al nostro controllo – quanto la storia è nelle nostre corde, il momento in cui vediamo il film… – quindi parlarne in una recensione non aggiunge nulla alla nostra critica o analisi, ma, anzi, la depotenzia.

E questo proprio perché, molto banalmente, non stiamo di fatto analizzando il prodotto in questione, ma ci stiamo limitando a raccontare la nostra esperienza personale, elemento che non arricchisce chi ci legge o ci ascolta, perché non stiamo offrendo niente di più che un mero aneddoto.

In secondo luogo, il cinema ha molto più da dirci: un film come Killers of the Flower Moon (2023), che ci sia riuscito o meno, vuole offrirci diverse chiavi di lettura su una storia lontana nel tempo, ma incredibilmente attuale…

…e quanto sarebbe limitante raccontare solamente la nostra esperienza personale con la pellicola, piuttosto che cercare di carpirne i significati, gli intenti e la morale, e provare così a valutarne l’efficacia nella scrittura e nella messinscena?

Ma voglio scendere un attimo dalla mia torre d’avorio.

Lavare i panni sporchi di noia

Dal momento che non voglio che da questa riflessione sembri che io sia del tutto immune alla noia, ecco un paio di esempi di film che mi hanno terribilmente annoiato – e per cui probabilmente verrò messa in croce.

Una delle mie noie storiche è indubbiamente Quarto Potere (1941), prodotto che ho fatto una fatica immane a visionare, riuscendo a salvarmi in quanto al tempo non dovevo parlarne pubblicamente, ma piuttosto analizzarne la tecnica rivoluzionaria in un esame universitario.

Ma parliamo invece di che incubo è stato per me vedere Il Padrino (1972), film che nondimeno considero un capolavoro cinematografico, ma che è probabilmente un prodotto che non avrò mai voglia di vedere in vita mia.

Ma anche parlando di prodotti neanche così meritevoli dal punto di vista artistico, per me la visione di Call me by your name (2017) è stata una totale agonia, per il semplice fatto che le storie romantiche nella maggior parte dei casi mi annoiano terribilmente.

Tuttavia, tutti questi film meritano indubbiamente di essere giudicati ben oltre il semplice intrattenimento che mi hanno dato: per questo ho cercato, pur nei miei limiti, di parlarne da un punto di vista più obbiettivo, nei loro pregi e difetti.

D’altra parte…

Quando l’intrattenimento è il minimo

Ci sono dei casi, anche piuttosto comuni, in cui l’unica cosa che possiamo chiedere ad un film è di intrattenerci.

Banalmente, la maggior parte dei grandi successi commerciali proposti ogni anno sono dei popcorn movie che non hanno veramente altre finalità che farci passare un paio di ore in spensieratezza, senza voler per forza trasmettere messaggi significativi o di godere di qualsiasi merito artistico.

In questo caso è più che legittimo includere all’interno delle nostre recensioni una valutazione in questo senso, idealmente cercando di portare un’opinione un po’ più approfondita e obiettiva al riguardo…

…ad esempio, sottolineando i possibili difetti di scrittura o di montaggio – come nei diversi fallimenti di Wakanda Forever (2022) prima e The Flash (2023) più recentemente.

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Alla ricerca dell’originalità perduta

Un argomento che non ho mai potuto sopportare quando si giudica un film è l’idea di sminuirlo perché non è niente di originale o di nuovo.

E in questa riflessione vi dimostrerò come l’originalità sia morta da tempo.

E sono più di cent’anni

Il cinema nasce nel 1895.

Da quel fatidico anno è passato più di un secolo e il cinema, sia quello più autoriale, sia quello più commerciale, si è evoluto costantemente, sia per cambi di passo fondamentali – come la nascita del sonoro o del cinema a colori – sia per le varie mode che si sono avvicendate sullo schermo.

Ma, proprio come una qualsiasi forma d’arte, anche il cinema è incredibilmente derivativo.

Non ci credete?

Uno dei fiori all’occhiello della filmografia di Steven Spielberg è Schindler’s List (1993), uno dei film più apprezzati a tema Olocausto. E il segno distintivo della pellicola, che ha anche un valore narrativo fondamentale, è la bambina con il cappotto rosso:

Ma Spielberg non si è inventato nulla.

Questa tecnica era già utilizzata quasi un secolo prima in uno dei classici del cosiddetto cinema delle origini, ovvero La grande rapina al treno (1903):

Un altro esempio significativo è il finale di Terminator (1984), che da solo rende questa pellicola un capitolo fondamentale per il genere fantascientifico:

La stessa scena è un richiamo evidente ad un classico della fantascienza di più di dieci anni prima, Westworld (1973):

Da citare anche una scena che è entrata nella storia del cinema, ovvero la splendida sequenza di Shining (1980) in cui un Jack Torrance, ormai totalmente impazzito, distrugge la porta del bagno in cui è nascosta Wendy a colpi di ascia:

La stessa è incredibilmente simile ad un film sempre del cinema muto, ovvero Il carretto fantasma (1921):

In ultimo, una citazione molto vociferata, ma mai confermata, è l’incredibile somiglianza fra le due scene nel corridoio di Inception (2010) e Paprika (2006):

Vivere di citazioni

La critica all’originalità è spesso dimenticata quando si parla di grandi registi che vivono di citazioni.

Uno dei casi più emblematici è Tarantino, il quale, nonostante sia un autore con un’impronta registica particolarmente riconoscibile, è per sua stessa ammissione un grande estimatore degli spaghetti western, che cita spesso e volentieri.

Un esempio evidente è la scena de Le Iene (1992) in cui i tre personaggi in scena si puntano addosso le pistole:

Inquadratura che richiama da vicino la scena analoga di Il buono, il brutto e il cattivo (1966):

Allo stesso modo l’incedere di Beatrix in Kill Bill Vol. 1 (2003)

è un’evidente citazione a C’era una volta il West (1968):

Senza contare che quest’ultima opera di Sergio Leone è citata esplicitamente nel titolo del nono film di Tarantino, C’era una volta ad Hollywood (2019).

E in questi casi non possiamo certo dire che Tarantino abbia copiato Sergio Leone, ma che piuttosto abbia scelto di celebrare uno dei più grandi autori del cinema italiano (e non solo) tramite delle citazioni visive.

E questo è proprio il punto.

Citazionismo e rielaborazione

Esiste una differenza fondamentale fra il puro citazionismo e la rielaborazione.

Ad esempio, in Babylon (2022) Damien Chazelle sostanzialmente riscrive il classico del cinema Singing in the rain (1952), portando una rielaborazione interessante che rende la storia molto più cinica e realistica.

Al contrario, in un film piuttosto ignobile come Gifted (2017), non si cita, ma piuttosto si ricicla l’iconica scena di Matilda (1996) in cui la protagonista dimostra di saper fare incredibili conti matematici totalmente a mente:

La differenza fondamentale è che nel primo caso Chazelle è stato capace di riportare in scena con rispetto e originalità un classico del cinema, dimostrando il suo amore per lo stesso, ma al contempo creando un’opera originale e con una significativa impronta registica.

Al contrario, nel secondo caso si parla di un prodotto capace solo di riciclare dinamiche che hanno già dimostrato di avere impatto sul pubblico – il classico usato sicuronon portando un risultato di valore: in questo caso, criticarne la poca originalità è doveroso.

Ma non è finita qui.

Essere originali è un valore?

Arriviamo a questo punto al cuore della questione.

Essere originali è un valore?

Sì e no.

Cercare nuovi tagli narrativi, nuovi modi di raccontare una storia quanto soluzioni tecniche sperimentali è sicuramente un merito.

Un esempio molto banale è Oppenheimer (2023): a fronte di grandi produzioni che utilizzano sempre più massicciamente la CGI, Nolan ha scelto di essere più creativo ed utilizzare soluzioni visive di più complessa realizzazione, ma di maggiore impatto.

Più in piccolo, Matt Reeves è riuscito con il suo The Batman (2022) a riportare in scena l’uomo pipistrello in maniera originale, pur molto derivativa dalla trilogia di Nolan, uno spartiacque fondamentale nel cinema supereroistico.

Ma, più generalmente parlando, a mio parere sarebbe più corretto giudicare un film per quello che è.

E per due motivi.

Anzitutto, perché il valore di un’opera a livello di importanza storica o di originalità si giudica più sul lungo periodo, e non è detto che la stessa sia ricordata adeguatamente nel tempo – è il caso della maggior parte dei film di cui abbiamo parlato.

Ma, soprattutto, una pellicola va giudicata principalmente per i meriti propri, per i risultati che è riuscito a raggiungere, e su più livelli – scrittura, interpretazione, messinscena – in quanto negli stessi risiede il cuore dell’opera, e quindi il valore della stessa.

E, come abbiamo visto, sequenze diventate iconiche o considerate incredibilmente originalinon lo erano affatto!

In coda vi lascio altri paragoni interessanti.

Blade Runner (1982) – Metropolis (1927)
Una nuova speranza (1977) – La fortezza nascosta (1958)
La mala ordina (1972) – Pulp Fiction (1994)
La sfida del samurai (1961) – Per un pugno di dollari (1964)
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Il problema della CGI

Con le grandi case di produzione che rincorrono sempre di più il pubblico, sfornando prodotti alla velocità della luce, aumentano anche le perplessità riguardo all’uso e all’abuso della CGI.

Ma la CGI è il vero problema?

Cos’è la CGI?

Partiamo dalle basi.

Cos’è la CGI?

La sigla letteralmente significa Computer-generated imagery, ovvero immagini generate al computer, un termine ombrello che include tutte le tecnologie utilizzate per creare e modificare elementi della scena in ambito cinematografico, televisivo e videoludico.

Per il cinema è impiegata per una grande varietà di utilizzi: dalla creazione di elementi da zero alla modifica dello spazio in cui gli attori si muovono.

Un esempio veramente indicativo di utilizzo della CGI nel cinema contemporaneo è La Sirenetta (2023), in cui le scene sott’acqua sono ricreate per la maggior parte degli elementi in digitale – compresi i capelli di Ariel:

Prima si stava meglio?

Esiste un mondo senza CGI?

La CGI cominciò a prendere piede negli Anni Settanta, a partire da Westworld (1973) e soprattutto con Una nuova speranza (1977). Tuttavia si trattava ancora di un uso limitato ad alcuni effetti speciali presenti in scena, molto diverso dal tipo di applicazione che vediamo nei blockbuster moderni.

Per esempio, ecco il dietro le quinte di Episodio IV:

E invece il dietro le quinte di Captain America – Civil War (2016):

La differenza è sostanziale.

Per le produzioni precedenti al Duemila tendiamo a ricordare principalmente la grande inventiva di grandi autori nel creare, anche senza un uso massiccio della CGI, delle sequenze incredibili: è il caso per esempio di quella meraviglia di Terrore dallo spazio profondo (1978):

Oppure quel capolavoro di effettistica di The Thing (1982)

O anche, andando un po’ più avanti nel tempo, l’acclamato reparto trucco per gli orchi di Il Signore degli Anelli (2001 – 2003):

Ma esiste anche un lato più oscuro.

Il lato oscuro

Accanto a ottime prove di autori capaci di creare prodotti indimenticabili con poca o nessuna CGI, non mancano nel tempo dei risultati molto più sfortunati in questo senso.

Un esempio di utilizzo assai improprio della CGI lo possiamo trovare nel sequel del cult La Mummia (1999), ovvero il ben più sfortunato La Mummia – Il ritorno (2001), con l’indimenticabile – ma per i motivi sbagliati – Re Scorpione interpretato da The Rock:

Ma un utilizzo veramente drammatico della CGI lo troviamo saltando avanti di una decina d’anni, con Lo Hobbit – La desolazione di Smaug (2013), nello specifico nell’uso nauseante che ne è stato fatto per la Città del Lago:

Ma il caso più eclatante degli ultimi anni è stato sicuramente Cats (2019), con cui prendiamo un treno in direttissima per la uncanny valley:

Non ci credo!

Soffermiamoci un momento sul concetto di uncanny valley.

Nell’uso più semplicistico, il termine indica una sensazione di disturbo, perturbamento, del trovarsi davanti ad una scena che non ci appare familiare, ma che contiene elementi – anche non spiegabili sulle tulle – che ci portano a respingerla.

Parlando dalla CGI banalmente si tratta di quei momenti in cui, per un motivo o per un altro, non riusciamo a credere a quello che vediamo sullo schermo, perché ci appare bizzarro, oppure perché non riusciamo banalmente non riusciamo proprio a crederci…

Un esempio tristemente noto è la ormai celebre scena della baby shower in The Flash (2023):

Qui e in altri momenti del film proviamo involontariamente questa sensazione di straniamento, proprio perché la CGI è resa molto male, in particolare nei bambini – che ovviamente non sono veri – che sembrano dei modelli 3D mai finiti, ma provenienti indubbiamente da un gioco per la PS2.

Ma perché succede questo?

Prodotto, non film

Come abbiamo visto non mancano anche esempi più lontani nel tempo di produzioni poco consapevoli o semplicemente di tecniche molto approssimative. Quindi sarebbe poco onesto affermare che il cinema ha preso semplicemente la strada più buia e non ci sia più possibilità di tornare indietro o di correggere queste tendenze.

Tuttavia è indubbio che sia giusto condannare questa corsa pazza delle grosse produzioni per portare in sala il maggior numero di prodotti possibili, andando però in questo modo ad imporre delle tempistiche impossibili e così dei risultati scadenti.

Perché, come è emerso negli ultimi tempi, le major stanno diventando sempre più impositive e spietate, arrivando a stressare in maniera impossibile gli attori, ma soprattutto i professionisti degli effetti speciali, che non si trovano in grado di poter fare il loro lavoro adeguatamente.

E così ci troviamo con modelli non finiti in The Flash (2023), errori di montaggio in Secret invasion (2023) ed effettivi incubi in Antman and the Wasp: Quantumania (2023):

Due strade

Nel panorama attuale, secondo me ci sono due strade possibili.

La prima strada percorribile a mio parere non prevede l’abolizione totale della CGI – anche perché non sarebbe realistico – ma piuttosto un utilizzo più consapevole, sia nei modi che nei tempi.

Si possono nominare due esempi piuttosto recenti in questo senso: anzitutto la trilogia prequel de Il pianeta delle scimmie, nello specifico Dawn of the Planet of the Apes (2014) e War for the Planet of the Apes (2017).

In entrambi i casi troviamo un superbo uso della CGI, sia per l’utilizzo di un’ottima motion capture con grandi professionisti del settore, sia in generale con una grande cura nella resa visiva delle scimmie protagoniste:

E ovviamente non si può non nominare l’ultima fatica di Cameron, con Avatar – La via dell’acqua (2022), che ha raggiunto nuovi livelli di perfezione tecnica nella creazione di un mondo e personaggi quasi del tutto in digitale:

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La seconda strada percorribile è premiare maggiormente quelle produzioni o quegli autori che si impegnano per portare una proposta diversa e più originale, non per forza legata alla CGI.

Ne è un esempio Barbieland in Barbie (2023) – totale reale e ricreata in studio – Oppenheimer (2023) – le esplosioni non sono ricreate in digitale – ma anche Dune (2021), per cui il regista Villeneuve ha insisto per girare in un effettivo deserto:

Senza dimenticare ovviamente Del Toro, le cui creature immaginarie sono spesso interpretate dal suo attore feticcio Doug Jones, con costumi e trucchi reali e pochissima CGI utilizzata, come in La forma dell’acqua (2017):

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Insomma un futuro di una CGI più consapevole non solo è possibile, ma in alcuni casi è già reale.

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Il classismo cinefilo

Durante tutta la mia esperienza nel mondo cinefilo non ho mai potuto sopportare l’atteggiamento di superiorità di certe persone nei confronti di un certo tipo di film o del cosiddetto pubblico medio.

Ed è arrivato il momento di parlarne.

Il non-cinema

Un’ideale che trovo troppo spesso nelle parole – e nei pensieri – di fin troppo spettatori, è il non-cinema.

Quanto volte abbiamo dovuto sorbirci discorsi per cui certi film non sono considerabili cinema, sulla presunta distinzione fra cinema di serie a e cinema di serie b, senza considerare le dichiarazioni francamente umilianti – per chi scrive e per chi legge – di certi cineasti che, dall’alto della loro superiorità, sminuiscono il cinema popolare.

In questi casi io mi stupisco sinceramente che persone apparentemente così colte da poter distinguere cosa è il cinema e cosa no siano totalmente ignare – o decidano di dimenticarsi – del modo in cui il cinema è nato, di cosa significa, e i diversi modi in cui si è evoluto.

Il cinema nasce come forma di intrattenimento.

E c’è poco da dire su questo.

Non si parla quindi di una forma d’arte che si è nel tempo imbarbarita, ma di una forma di intrattenimento nata come popolare, pensata principalmente per il guadagno e per intrattenere il più grande pubblico possibile.

Vi ricorda qualcosa?

Sì, esattamente come i blockbuster odierni.

Anzi, peggio, in quanto nei primi film spesso e volentieri non vi era alcuna vena artistica, ma una semplice ripresa e proiezione di un filmato, che già da sola bastava per impressionare il pubblico, che col tempo ha raffinato i propri gusti, per così dire.

Inoltre, la distinzione è molto meno netta di quanto si creda.

L’immensità del cinema

I confini fra il cinema autoriale e il cinema di intrattenimento sono molto fumosi.

Anzitutto, perché quello che viene considerato cinema autoriale (o vero cinema) non raramente ha alle spalle grosse produzioni, guidate principalmente dalla volontà di intrattenere il pubblico e di farlo entrare in sala, e quindi di far ritornare l’investimento.

E anche perché lo stesso autore, escludendo i rari casi di autori volutamente rivoluzionari, nella maggior parte dei casi ha piacere a donare piacevolezza, divertimento e intrattenimento al proprio pubblico.

Anzi, un ottimo cineasta è capace di stupire il proprio pubblico, di dosare gli elementi in scena per creare un prodotto che possa essere al contempo riflessivo, portatore di messaggi importanti, ma anche piacevole e intrattenente.

Un autore particolarmente capace in questo senso è Spielberg – non a caso padre dei maggiori cult del secolo scorso (e non solo).

Se prendiamo ad esempio The Fabelmans (2021), Spielberg è riuscito a raccontare efficacemente la sua vita, la sua idea di cinema, con una tecnica sempre impeccabile, ma al contempo è riuscito anche ad emozionare, a coinvolgere il pubblico con la sua storia, scegliendo di inserire un elemento comico non indifferente in diversi momenti.

Ma anche parlando di un prodotto più sperimentale come The Old Man and the Gun (2018), David Lowery ha portato in scena una storia dal piglio surreale, non sempre facilmente leggibile, ma ha anche scelto un attore incredibilmente carismatico come Robert Redford per divertire e intrattenere lo spettatore.

E se Chazelle in Babylon (2022) è riuscito in pochi minuti a raccontare l’immensità del cinema tutto, non credo di dover aggiungere altro.

Il terribile cinema popolare…

Ma parlando più strettamente di cinema popolare, quello di puro intrattenimento, la discussione si fa ancora più infiammata.

Più un prodotto ha successo, più è facilmente accessibile per moltissimi spettatori e, di conseguenza, più guadagna, più è facile che venga demonizzato e attaccato. Sia perché viene definito non vero cinema – e direi che di questo ho detto abbastanza – sia perché ne viene sminuito il valore.

Secondo me, riuscire a creare un film veramente attraente per così tante persone non è così facile – come dimostrano i recenti flop di brand apparentemente molto forti – e, ancora una volta, sminuire il cinema di intrattenimento perché poco autoriale non ha molto senso.

Perché, come in parte abbiamo già visto, sono due realtà che possono tranquillamente convivere.

Diversi esempi recenti dimostrano come moltissimo cinema cosiddetto di intrattenimento o per le masse possa avere un piglio autoriale non indifferente: si pensi per esempio a Dune (2021), uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni, sorretto dalla splendida regia di Villeneuve.

Ma anche a livello d’animazione, pensiamo a Il gatto con gli stivali 2 (2022), capace di essere incredibilmente trasversale per i pubblici e con una tecnica d’animazione pazzesca, ma soprattutto a Spiderman: Across The Spiderverse (2023), che conferma ancora la rivoluzione in atto per il genere.

…e il terrificante pubblico generalista

Quando non ce la si prende con il cinema di intrattenimento, ce la si prende con il pubblico cosiddetto medio, accusandolo di non andare più al cinema e di apprezzare solo il cinema di intrattenimento.

Anzitutto, è importante fare una contestualizzazione storica.

Diversamente da quello che si potrebbe pensare, il pubblico in sala non è così tanto cambiato: se andiamo per esempio a guardare il box office degli Anni Settanta – più di 40 anni fa – notiamo che un blockbuster come Una nuova speranza (1977) incassò 775 milioni, un film autoriale e pure di successo come Taxi Driver (1976) appena 28 milioni.

Considerando l’inflazione, stiamo parlando rispettivamente di 3 miliardi di dollari e 140 milioni ad oggi.

Facciamo un salto in avanti nel tempo: nel 2019 Endgame fa uno dei più grandi successi cinematografici della storia del cinema, incassando quasi tre miliardi di dollari, mentre lo stesso anno C’era una volta ad Hollywood di Tarantino incassò appena 377 milioni.

Notate delle somiglianze?

E se ne potrebbero fare moltissimi esempi di questo genere.

Ma mettendo da parte il discorso economico, esiste un concetto che, mi rendo conto, potrebbe sconvolgere la vita a molti.

Molte persone, di fatto una buona fetta di pubblico, vanno al cinema solo per divertirsi.

Non dovrebbe quindi essere una sorpresa il fatto che film che, per definizione, sono cinema di intrattenimento, sono anche quelli che incassano maggiormente, anche per la loro capacità di intercettare diversi pubblici ed interessi.

Invece un film più autoriale probabilmente richiede una visione più riflessiva e impegnativa, che non tutti possono avere la voglia o addirittura gli strumenti per comprendere ed apprezzare.

E così arriviamo all’ultimo punto di questa riflessione.

Un cinema democratico

Il cinema è una realtà variegata, dove diversi stili, interessi ed emozioni possono convivere.

Quindi, che senso ha, soprattutto se siamo appassionati, precludere la possibilità della scoperta ad altri?

Potrebbe non sembrare rilevante, ma avere atteggiamenti aggressivi e denigratori, prendersela col pubblico medio, non fa altro che allontanare lo stesso da meravigliose scoperte, dalla possibilità di ampliare i propri orizzonti.

Soprattutto se siamo già esperti di cinema, è molto più utile, proprio per valorizzarlo in tutte le sue forme, incoraggiare positivamente alla visione persone che potenziamento non hanno (ancora) i mezzi per avvicinarsi ad un cinema più impegnato: in una parola, i cinefili di domani.

Questo significa anche non strabuzzare gli occhi e far sentire colpevole qualcuno che non ha visto o non ha apprezzato qualche classico del cinema che noi amiamo, ma piuttosto comprendere, invitare alla riflessione e all’approfondimento.

Oppure, essere anche pronti ad accettare positivamente che quel cinema non è di loro interesse.

E va bene così.

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Perché non guardo i trailer

Se mi seguite da abbastanza tempo, sapete che, di norma, io non guardo i trailer dei film.

Soprattutto per i film che voglio vedere.

E in questa riflessione vi spiegherò perché – e perché potrebbe essere una buona idea anche per voi.

Cos’è un trailer?

Sembra una domanda stupida.

Non lo è.

La domanda non è cos’è un trailer in senso letterale, ma cos’è veramente un trailer: di fatto il trailer è una pubblicità, finalizzata a fare in modo che l’utente scelga di spendere i propri soldi per vedere il prodotto sponsorizzato.

E qui sta tutto il punto fondamentale: il trailer non vuole – di norma – raccontare il film, ma vendere il film. Di conseguenza, esistono innumerevoli trucchi, distorsioni e montaggi fatti ad arte ideati a questo fine.

Ma c’è un lato anche peggiore.

Il trailer deve riuscire a vendere il prodotto al maggior numero di persone possibili.

Per questo moltissime volte si cerca di distorcere un film che magari in realtà è incredibilmente autoriale e profondo, così da farlo passare come la peggiore commedia di seconda categoria per tutti i palati.

Vediamo ad esempio il trailer di American Animals:

American Animals è una profonda riflessione generazionale, dal taglio fortemente drammatico, e con ben poca ironia.

Invece il trailer mette molto l’accento sulla parte più thriller dell’heist movie – con la tensione sempre al massimo – e sull’ironia – decontestualizzando una battuta del film per cercare di collegarlo, nella mente dello spettatore, a Le iene (1992).

E non è neanche il caso peggiore.

Quando il trailer è uno scam

Uno dei casi più eclatanti di trailer che non erano altro che truffe per attirare il pubblico in sala è stato Morbius (2022).

Indipendentemente dalla qualità del film – di cui si è già parlato fin troppo – il trailer cerca in ogni modo di collegare il prodotto ai titoli di maggior successo della SONYSpiderman: No Way Home (2021) e Venom (2018) – anche con delle scene del tutto assenti nel film.

Così in un frame dello spot si vede il poster di Spiderman con scritto sopra murder – il che fece ipotizzare all’epoca un collegamento appunto con l’Uomo Ragno di Tom Holland – e, soprattutto, c’è uno scambio con l’Avvoltoio di Michael Keaton, che in realtà nel film è assente.

E, giustamente, dopo la visione, molto spettatori sono sentiti truffati.

Due pubblici

Il trailer di Dune (2021) è uno dei motivi che mi hanno portato a non guardare più i trailer.

Infatti, inizialmente uscì un primo teaser, che è quello che effettivamente raccontava il film per quello che veramente è: riflessivo, autoriale, quasi onirico, con tempi molto dosati e lenti.

Al contrario, il secondo trailer mise molto di più l’accento sulla violenza e sull’epicità dell’azione, inserendo le uniche due scene di battaglia presenti nel film – facendomi temere che la pellicola non fosse niente di quello che poi è effettivamente stata:

Tuttavia, questo mi ha ancora una volta di più come i trailer possano essere montati ad arte per far passare messaggi totalmente opposti, ovvero per adattarsi a due – o più – tipi diversi di pubblico, ma cercando in particolare di colpire quello più generalista.

Ovvero, quello che fa fare i grandi incassi.

Arrivare impreparati

Proprio alla luce di quanto sopra, ho deciso di non vedere più i trailer – tranne rare eccezioni – riscoprendo qualcosa che mi ero persa per tanti anni.

Arrivare al cinema senza sapere quasi nulla del film.

Sembra qualcosa di terribile, ma visto che io sono in generale già piuttosto sicura di quello che voglio vedere – basandomi su franchise, registi e via dicendo – arrivare al cinema senza sapere sostanzialmente niente di cosa andrò a vedere mi ha portato a godermi di più i film.

E questo perché non arrivo con già un’idea di quello che vedrò, ma mi lascio del tutto stupire da quello che vedo sullo schermo. E, soprattutto, approccio il film senza determinate aspettative create dai trailer – molto facilmente farlocche.

Vi invito a provarci, anche solo una volta.

Potreste scoprire qualcosa di inaspettato…

Spiderman Across the spiderverse trailer

Recentemente ho avuto anche conferma dei miei timori.

Dopo aver visto Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) – di cui avevo evitato in ogni modo il trailer – mi è capitato per caso di vedere lo spot.

E, nonostante non sia un trailer effettivamente troppo spoileroso, comunque fa intendere chiaramente un elemento della trama che si comprende a più di metà del film.

Così, se fossi andata al cinema con questo trailer in mente, sento che mi sarei goduta molto di meno lo svolgersi delle vicende, e ne sarei rimasta molto meno sorpresa…

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La giusta polemica

Negli ultimi anni si sono susseguiti prodotti cinematografici e seriali che molti hanno etichettato come schiavi del politicamente corretto.

E La Sirenetta (2023) è solo l’ultimo degli esempi.

Con questa riflessione non voglio dirvi per cosa dovreste arrabbiarvi, ma invitare ad una maggiore profondità di pensiero quando parliamo di questo tipo di film.

L’obbiettivo sbagliato

Dire che siamo in balia di questo tanto sbraitato politicamente corretto è la lettura più ingenua che potreste fare in questi casi.

Soprattutto perché è una terminologia che sposta l’attenzione verso l’obbiettivo sbagliato: sia che si parli di effettivi attivisti e persone che si battono per una società più equa, sia verso questi presunti agenti invisibili che muoverebbero le fila della nostra società.

I veri colpevoli sono anzitutto tutte quelle nicchie nate sui social – la classica minoranza rumorosa – che alimentano il buzzing intorno a queste tematiche, ma seguendo le strade più estreme e semplicistiche – e, di fatto, controproducenti.

Ma non è neanche su di loro che dovrebbe andare la nostra attenzione.

Capitalizzare sulle tendenze

La nostra attenzione dovrebbe infatti essere puntata verso chi sta capitalizzando sulla situazione attuale.

I film sono i prodotti che meglio raccontano le tendenze e il sentimento di un’epoca, andandone proprio a raccogliere gli spunti – e, di fatto, volendo in questo modo soddisfare il pubblico pagante.

Tuttavia, in questo momento stiamo vivendo un’effettiva cannibalizzazione della situazione attuale, in cui le grandi case di produzione fanno determinate scelte – di scrittura e, soprattutto, di casting – per alimentare la pubblicità gratuita – anche negativa – intorno ai loro prodotti.

Sempre il solito concetto insomma: bene o male, purché se ne parli.

Scegliere le parole

Per questo, più che di politicamente corretto – parola che ho personalmente bandito dal mio vocabolario – sarebbe più giusto parlare di tokenism e di inclusività forzata.

Due termini che in realtà vanno a braccetto: con tokenism si intende quella tendenza ad includere in un prodotto un rappresentante di una determinata minoranza sociale, ma solamente per fare presenza, senza svilupparlo o contestualizzarlo.

Da cui, inclusività forzata.

E questa tendenza, secondo me, è il vero pericolo: stiamo lasciando che case di produzione multimilionarie capitalizzino sui sentimenti e i secoli di marginalizzazione di diverse minoranze, così da farli diventare degli spettatori paganti.

Peccato che i veri prodotti inclusivi siano da ricercare altrove.

E tutto deriva – forse – anche da una smaccata incapacità di analisi.

Mancare di profondità

Tutta questa situazione è derivata anche da un’apparente ingenuità delle produzioni.

Infatti, purtroppo sembra che – forse volutamente – le stesse non riescano a rendersi conto che, per riuscire a creare prodotti effettivamente più inclusivi bisogna ragionare sul perché alcuni prodotti del passato non sono considerati tali.

Molto banalmente, i problemi erano di fatto due: la tendenza a non includere determinate minoranze e l’insistenza su determinati topos narrativi piuttosto banali e poco rappresentativi.

Gli esempi si sprecano: dagli omosessuali effeminati ai neri rumorosi.

E la strada più ovvia – ma non così tanto, evidentemente – sarebbe quella di portare nuovi personaggi rappresentativi di queste minoranze, dargli una profondità narrativa, distaccandosi dagli stereotipi, e integrandoli organicamente nelle storie raccontate.

Sembra molto difficile, vero?

Evidentemente molte major – in particolare la Disney – hanno pensato la stessa cosa. E così hanno scelto invece rappresentazioni che sembrano essere fatte apposta per essere prese in giro: puri token che urlano – a volte letteralmente il loro essere personaggi inclusivi e all’avanguardia.

Sei una supereroina egiziana?

Moonknight

La bellezza silenziosa

Invece, gli esempi positivi sono sotto i nostri occhi, ma non sono così sguaiati da portare a discussioni e polemiche.

Un caso più recente è sicuramente Atomica Bionda (2017): la protagonista è una spia spietata e abilissima, che non solo gode di una perfetta contestualizzazione delle sue abilità, ma i suoi scontri non sono mai inutilmente patinati e idealizzati, ma potenti e veritieri.

Guardando più indietro, si sprecano gli esempi nei prodotti di Miyazaki, di cui il mio preferito è sicuramente Chihiro de La città incantata (2001): un personaggio femminile che ricalca il topos dell’eroina con capacità speciali, ma con un’inedita profondità.

Ma il prodotto che preferisco in questo senso è Ted Lasso.

Raccontando la storia di una squadra di calcio, era inevitabile che si componesse un cast multietnico. Ma non ci si ferma qui: sono presenti dei fantastici approfondimenti su diversi personaggi e i loro paesi d’origine, che li contestualizzano in maniera incredibilmente interessante.

Come se non bastasse, il protagonista è un personaggio maschile di rara profondità, dotato di un’emotività che non sempre si vede associata agli eroi della storia…

Il vero problema

In conclusione, il vero problema dei live action Disney – e di tutti i film fatti con i medesimi intenti – è che non sono altro che freddi prodotti da vendere.

Nell’era che stiamo vivendo, in cui il marketing non si basa più sul vendere emozioni, ma sul raccontare i valori di un’azienda – e del prodotto collegato – non sono poche le major che utilizzano le loro pellicole di punta come vettori per ostentare i loro presunti meriti.

E questo ovviamente non perché ci credano veramente – altrimenti i risultati non sarebbero questi – ma perché sanno che è rispettando determinate checklist che il prodotto venderà, e anche tanto.

Vi devo ricordare quanto ha incassato il live action del Re Leone?

Per questo la cosa migliore che possiamo fare, se non vogliamo sostenere questi prodotti, è non dargli importanza: andando a gonfiare la polemica, cadendo in queste trappole messe appositamente per creare pubblicità gratuita, facciamo solo il loro gioco.

E andranno avanti ancora a lungo.

Questo è il motivo per cui oggi, giorno di uscita de La Sirenetta (2023), ho deciso di non andare a vederlo e non supportare un prodotto che non solo non mi interessa, ma che fa parte di un progetto che in generale non voglio più sostenere.

Perché non guardare i live action disney

Questo significa che non vedrò mai più in vita mia un live action Disney?

No, semplicemente che nel mio piccolo vorrei riuscire in futuro a tenere al minimo la polemica riguardo a queste smaccate operazioni commerciali, e tendenzialmente evitare di avvicinarmi a prodotti che non mi interessano – che siano Disney o di altra produzione.

Insomma, non voglio portare la recensione di un film solamente con l’intenzione di demolirlo, sapendo già in precedenza che non mi piacerà – purtroppo con Peter Pan & Wendy (2023) ne ero del tutto ignara…

Ma parliamo del prodotto incriminato…

Una polemica sterile

La polemica su La Sirenetta ha colpito tutti i punti sbagliati.

Non solamente per l’idea incommentabile secondo cui Ariel non può essere nera perché non arriva il sole sott’acqua, ma soprattutto perché la protagonista è una sirena, una creatura di fantasia, e già l’estetica del classico Disney è una snaturazione dell’opera originale.

Nell’opera di Andersen infatti Ariel non solo era bionda, ma la sua storia aveva uno svolgimento e un significato totalmente differente.

I difetti del film, come al solito, saranno da ricercare altrove.

Visto lo spirito con cui vengono fatti questi prodotti, con ogni probabilità sarà un film scritto male, che lavora di totale sottrazione, che aggiunge dove non deve aggiungere e che rende realistici elementi che non lo dovrebbero essere.

Già i character poster parlano da sé.

Quindi, come era stato per Peter Pan & Wendy, l’etnia dei personaggi sarà l’ultimo dei problemi del film…

Ma sarete voi a raccontarmelo.

Ne usciremo mai?

In chiusura, un messaggio di speranza.

Questa situazione non è infinita.

Siamo immersi in un’era di isteria collettiva, in cui si stanno prendendo le strade potenzialmente più disordinate per correggere delle tendenze che hanno definito il cinema per più di un secolo.

Tuttavia, questa situazione è lo specchio di questi strani tempi, che verranno digeriti prima di quanto ce lo aspettiamo, arrivando presto ad una situazione in cui creare prodotti inclusivi sarà l’assoluta normalità, e non ci sarà più bisogno di far scalpore.

E potremo tornare a parlare dei film come film.

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Il problema del doppiaggio

Il mondo del cinema si divide in due schieramenti: gli innamorati dei virtuosismi del doppiaggio italiano e i puristi della versione originale.

Nonostante io tenda verso il secondo schieramento, in questo caso voglio fare un passo indietro. Questo pezzo non vuole essere un attacco – come spesso succede – verso chi, per i più diversi motivi, sceglie di fruire dei prodotti doppiati piuttosto che in originale.

Ma, semplicemente, un tentativo di spiegare a chi non lo fa perché secondo me vedere i film nella loro versione originale è la scelta migliore per godersi il cinema.

Come si cambia…

Per cominciare questa riflessione, voglio raccontarvi un piccolo aneddoto.

Uno dei miei film preferiti – e che ho visto innumerevoli volte – è The Blues Brothers (1980). E ovviamente quando ero più giovane lo vedevo doppiato.

E una delle mie scene preferite è quando i due fratelli vanno dalla suora dell’orfanotrofio dove sono cresciuti: i due si offrono di procurarle dei soldi per aiutarla, ma lei sbotta dicendo che non vuole i loro sporchi soldi rubati.

Al che, Jake le dice:

E allora sono cavoli tuoi sorella.

E la suora si arrabbia moltissimo e comincia a picchiarli. Non sembra una reazione un po’ troppo esagerata per una battuta così innocua? Vediamo cosa le dice in originale…

Well then, I guess you are really up shit creek

Beh, sembra proprio che sei un mare di merda.

Fa un altro effetto, non è vero?

E gli esempi in questo senso si sprecano, soprattutto per i prodotti più datati.

Ma da questo problema che nasce il primo caposaldo della mia scelta di vedere i film in originale: la consapevolezza di quanto sia facile che, con il doppiaggio, si cerchi di adattare, semplificare e, molto facilmente, tradire lo spirito originale dell’opera.

Ovviamente non voglio dire che ci sia dietro della malizia o che tutti i film siano snaturati dal doppiaggio, dico solo che, quando guardo un film doppiato, non ne posso essere sicura.

E, personalmente, visto che io prendo il cinema molto sul serio e mi interessa analizzare a fondo un’opera, non voglio assolutamente che questo succeda.

Tanto più che certe volte ci sono ostacoli davvero insormontabili…

L’adattamento impossibile

Il doppiaggio italiano è il migliore al mondo!

Quante volte abbiamo sentito questa frase?

Sicuramente nella storia del doppiaggio italiano ci sono stati dei professionisti veramente incredibili: il primo che viene in mente è ovviamente Tonino Accolla, che ha fornito la sua fantastica voce a Homer e a Eddie Murphy.

Tuttavia, essere bravi non basta.

Il mondo del cinema è sempre più difficile: capita spesso che molti professionisti – fra cui i doppiatori – debbano lavorare in tempi molto stretti, spesso – per il pericolo dello spoiler – capita anche che non possano neanche vedere le effettive scene che stanno doppiando nella loro interezza. Per cui, anche se si è bravi, non è detto che venga un buon lavoro.

E si aggiunge un’amara verità: i doppiatori – ovviamente – non scrivono le loro battute, ma lavorano su quello che gli viene dato dagli adattatori, figure altre che hanno il compito di adattare appunto i dialoghi in italiano. E non è sempre detto che lo facciano bene.

Ovviamente il primo nome che viene alla mente è Cannarsi, prima di tutto per il caso di Neon Genesis Evangelion e il suo doppiaggio terrificante:

Ma questa è solo la punta dell’iceberg. La sua follia viene da lontano…

E ho vissuto sulla mia pelle come un cattivo adattamento come quello di Cannarsi possa compromettere la godibilità di un film: ho visto recentemente La città incantata (2001), uno dei miei film preferiti dello Studio Ghibli, con il nuovo doppiaggio di Cannarsi, appunto.

E vi assicuro che è riuscito a rendere estenuante persino un’opera così piacevole…

A questo, si aggiungono anche le difficoltà proprie dell’adattamento, in particolare nei giochi di parole intraducibili. Un esempio calzante in questo senso è Frankenstein Junior (1974).

Nella scena in cui il Dottor Frankenstein si sta recando al castello, si sente l’ululato di un lupo e Inga esclama Werewolf!, ovvero Lupo mannaro!

Al che il dottore ripete Werewolf e Igor gli risponde:

There-wolf, there castle!

Il gioco di parole è basato sulla somiglianza fra were-wolf e where: Igor pensa che il dottore stia chiedendo dove sia il lupo e quindi dice There wolf, ovvero lupo là – in maniera volutamente sgrammaticata.

Purtroppo il gioco di parole non è trasponibile.

Quindi nella versione italiana Inga dice Lupo ulula… e il dottore risponde Lupo ulula?, al che Igor ribatte:

Lupo-ululà e castello ululì

Non il peggiore adattamento, ma sicuramente si perde tutta la brillantezza della battuta.

Il virtuosismo

Un doppiatore, nella maggior parte dei casi, non eguaglia la performance di un attore.

Un interprete, soprattutto se di talento, per prepararsi ad una parte si allena moltissimo e fa un grande lavoro di immersione nel personaggio e nella situazione, aiutato anche eventualmente dalla scenografia o dalle indicazioni del regista.

Basta guardare questo dietro le quinte di Shining (1980) per capire di cosa parlo:

Ovviamente non è sempre così e ci sono casi in cui il doppiatore è anche migliore dell’attore – come per House of Gucci (2022). Ma, ancora una volta: come posso saperlo e come posso giudicare la performance di un interprete se non vedo la versione originale?

Senza contare il caso dei doppiaggi di alcune serie animate di successo, anzitutto South Park, in cui i creatori doppiano la maggior parte dei personaggi, con una capacità interpretativa veramente incredibile:

E, anche in questo caso, preferisco vedere i prodotti in originale che raccontano il grande sforzo interpretativo e artistico dei suoi creatori, piuttosto che la rivisitazione italiana fatta spesso con altri intenti.

Ampliare i propri orizzonti

Per me il cinema non è solo intrattenimento, ma anche arricchimento.

E mi piace per questo poter conoscere una cultura anche attraverso la sua cinematografia. E, ovviamente, visto che fruisco di moltissimi prodotti statunitensi infarciti di cultura pop, ho imparato moltissimo riguardo al folklore americano.

Tuttavia, questo potrebbe essere anche un ostacolo per molti: prodotti come I Griffin e South Park fanno spesso riferimento alla strettissima attualità e a temi che magari noi europei non mastichiamo così facilmente.

E, se da una parte appunto potrebbe essere un elemento che vi intimorisce, al contempo io trovo molto più fastidioso dovermi sorbire un doppiaggio che cerca di adattare elementi tipici di un paese al contesto italiano e alla sua cultura, piuttosto che fare uno sforzo nell’altro senso.

Le principali critiche

Dal momento che ho cominciato a guardare i prodotti in originale prima di tutto perché volevo migliorare il mio inglese, mi sento di rispondere ai principali dubbi che potrebbero venirvi leggendo le mie parole.

Il mio inglese è scarso.

Anche il mio lo era, parecchio.

Fruire di film e serie tv solo in inglese per dieci anni ha avuto i suoi frutti e al momento sono decisamente migliorata. Non è stato facile, soprattutto all’inizio, ma è uno sforzo che secondo me vale la pena di fare.

Non voglio leggere i sottotitoli

Questa è una critica che sento fare molto spesso.

Chi non guarda i film con i sottotitoli, potrebbe credere che gli stessi danneggino la visione, rendendola anzi più difficile.

Io invece vi assicuro che anche con poca pratica il vostro occhio diventerà talmente veloce che non ci farete neanche più caso.

Guardo i film solo per rilassarmi

È comprensibile.

Lo stesso è per me.

Personalmente la godibilità di un prodotto mi è stata raramente rovinata dal vederlo in originale, tanto mi sono abituata.

Anzi, per tutti i motivi di cui sopra, mi sento molto più intrattenuta dal vedere i prodotti in originale piuttosto che doppiati.

Ma, ovviamente, sta a voi la scelta.

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Il valore della prevedibilità

Negli ultimi anni una polemica molto comune nel mondo del cinema riguarda la prevedibilità e la conseguente ripetitività delle trame dei prodotti portati in sala, soprattutto quelli più mainstream.

Una questione che non può essere ignorata, ma che va contestualizzata.

Cos’è il cinema?

Per capire meglio la questione, vale la pena fare un passo indietro.

Uno dei primi film mai proiettati nella storia del Cinema fu L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) dei Fratelli Lumière.

Questa prima proiezione causò sicuramente grande agitazione ed emozione nel pubblico coinvolto, da cui il famoso aneddoto – la cui veridicità è dubbia – secondo il quale gli spettatori sarebbero scappati dalla sala.

Ad ogni modo già questa prima proiezione ci racconta qualcosa di fondamentale: il cinema è pensato per intrattenere ed emozionare, in particolare scatenare nel pubblico delle reazioni talmente impattanti da fare in modo che questo torni in sala (e paghi il biglietto).

E qui si arriva al concetto fondamentale.

Il cinema è industria

Come avevamo già concluso in una precedente riflessione, il cinema è principalmente un’industria.

E per questo privilegia la produzione di film che siano facilmente fruibili, che attirino molte persone in sala e che intrattengano facilmente.

Infatti, esiste sicuramente una bolla di appassionati che cerca nei film qualcosa di più del semplice intrattenimento, ma il pubblico più generalista – quello che porta davvero i guadagni – va in sala per passare un paio d’ore intrattenenti ed emozionanti.

E questo determina il successo di prodotti che privilegiano soprattutto l’emozione, a discapito magari di una scrittura profonda e pensata. L’esempio più evidente è indubbiamente il recente Avatar – La via dell’acqua (2022), ma così anche – e con una qualità ben più scadente – Wakanda Forever (2022), due dei maggiori incassi dell’anno.

Convincere l’acquisto

Come per ogni prodotto, anche per i film le case di produzione devono appunto convincere il pubblico più ampio possibile ad acquistare il biglietto e vedere la loro pellicola.

E le tecniche più utilizzate a questo fine sono la prevedibilità e lo spoiler selvaggio.

Dal momento che lo spettatore medio deve essere convinto che vivrà un’esperienza piacevole e rinfrancante, solitamente nella campagna marketing – e soprattutto per i prodotti più scadenti a livello di scrittura – si cerca di raccontare il più possibile, orientando lo spettatore all’idea che vedrà qualcosa di già noto e che gli è già piaciuto.

In questo modo lo spettatore sarà certo che spenderà i suoi soldi per entrare in una comfort zone, in cui può sentirsi al sicuro per un prodotto che sicuramente gli piacerà, dal momento che è simile ad un altro che ha già visto.

Insomma, non avrà troppe sorprese.

La prevedibilità di James Cameron

Una recente dichiarazione di James Cameron mi ha fatto riflettere proprio sull’argomento di questa riflessione.

Il regista di Avatar, ospite di B TV, facendo riferimento ai futuri film del franchise ha dichiarato:

Non è come una storia di supereroi in cui c’è un nuovo cattivo per ogni film. Stesso tizio, capito? Stesso avversario attraverso tutta la cosa.

Questo sostanzialmente significa che ogni film del franchise avrà sempre come avversario il colonnello Miles Quaritch – proprio l’elemento che mi sono sentita più di criticare per il recente sequel.

Tuttavia, devo ammettere che Cameron ha centrato il punto.

La trama di Avatar – La via dell’acqua è tanto più prevedibile, tanto più simile a quella del primo capitolo, ma anche molto funzionale e molto attraente per lo spettatore.

E i risultati si sono visti.

Cameron non ha evidentemente alcun interesse di portare trame nuove e profonde, ma, al contrario, di intrattenere il più possibile lo spettatore con spettacolari effetti visivi e tecniche nuove e avvincenti.

Quindi, perché dovrebbe sprecare tempo nel creare villain e minacce nuove di zecca per ogni film, quando la stessa ricetta, a dieci anni di distanza, funziona ancora perfettamente?

E, da un certo punto di vista, ha inquadrato perfettamente il problema dell’MCU.

Il problema del rinnovamento

Uno dei problemi principali dell’MCU è anche il motivo della sua costante vittoria al botteghino.

Il pubblico delle pellicole MCU – con splendide eccezioni – è attirato al cinema dall’eroe protagonista della vicenda. Al contrario, il villain è spesso facilmente dimenticabile e scompare dietro all’imponenza del protagonista stesso.

E anche volutamente.

Perché il villain non deve mai (o quasi mai) essere più interessante dell’eroe, che è il veicolo dell’azione, oltre a quello che poi vende anche al di fuori del cinema – con il merchandising e simili.

Per cui, se si ragiona dal punto di vista meramente funzionale, il villain non ha bisogno di essere cambiato, ma potrebbe costantemente rimanere lo stesso, e non intaccare l’attrattiva del film.

Ma in realtà non è tanto lontano da quello che i film MCU fanno effettivamente: anche se gli antagonisti cambiano faccia, spesso hanno le stesse motivazioni e si muovono con le medesime dinamiche.

Un altro elemento molto prevedibile, insomma.

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Cos’è un capolavoro?

Ma è un mezzo capolavoro!

Questa è probabilmente una delle frasi che più mi infastidiscono in ambito cinematografico, sia perché non vuol dire fondamentalmente nulla, sia perché è spia di una tendenza altrettanto fastidiosa.

L’abuso del termine capolavoro.

Cosa significa capolavoro?

Prima di esprimermi, lascio la parola alla Treccani:

capolavoro: l’opera meglio realizzata tra quelle di un artista, di uno scrittore o di un’età; opera o comportamento che si distingue nel suo genere

Proprio per questo motivo, è giusto fare una precisa distinzione fra film bello e capolavoro, perché non sono la stessa casa – altrimenti avremmo capolavori a ogni piè sospinto. Un film bello – o, peggio, un film che ci piace moltonon è per forza un capolavoro, né un mezzo capolavoro.

Tuttavia, è anche giusto specificare che, come concetto in ambito cinematografico, è piuttosto fumoso, quindi ognuno, da un certo punto di vista, può definire un film un capolavoro.

E infatti in questo caso il mio obbiettivo non è dare una definizione oggettiva, ma spiegare cosa per me è un capolavoro.

E, soprattutto, darmi il mio personale consiglio su come usare con giudizio questo termine.

Cos’è un capolavoro (secondo me)

Per me un capolavoro cinematografico è un’opera che si distingue nettamente da tutto il resto delle produzioni, in particolare dal punto di vista artistico.

Per questo, per quanto consideri dei film veramente splendidi Don’t look up (2021) e Il potere del cane (2021), non li considero dei capolavori, perché non si distinguono in maniera così potente da tutto il resto.

Questo proprio per sottolineare come sia una parola che ho a cuore di utilizzare con grande attenzione.

Quindi quale può essere un capolavoro?

Per me Manhattan (1979) di Woody Allen è un capolavoro: al di là della profondità narrativa dei personaggi, è un film che vanta di una sperimentazione e una tecnica artistica che davvero difficilmente troverete in altre opere, persino dello stesso regista.

Ma è importante fare un’altra distinzione.

Il capolavoro di genere

Anche agganciandomi alla seconda definizione della Treccani, un capolavoro di genere è (per me) quel tipo di film che si distingue nettamente – e per i motivi più disparati – all’interno del suo genere di appartenenza.

Per questo secondo me la trilogia di Batman di Christopher Nolan è un capolavoro del genere supereroistico, che si distingue nettamente dal resto della produzione. E che per questo potrei, col tempo, considerare allo stesso modo anche The Batman (2022).

Un altro capolavoro di genere – e qui probabilmente farò arrabbiare molti – per me è Mean girls (2004), un capolavoro nel genere dei teen drama. Oltre ad essere assolutamente iconico, gode di una scrittura particolarissima e paradossale, che gioca col surreale e che rappresenta davvero un unicum nel suo genere.

Non confondiamo cult, importanza storica e capolavoro

Altro errore che secondo me si fa troppo spesso è confondere il valore storico e rivoluzionario di una pellicola e il culto che si crea intorno ad essa, dando per scontato che questo definisca il prodotto un capolavoro.

Per esempio, Terminator 2 (1990) è sicuramente un prodotto di culto e anche abbastanza rivoluzionario per il genere, ma non significa necessariamente che sia un capolavoro. Dal mio personale punto di vista, artisticamente non lo è, ma potrebbe essere considerato come capolavoro di genere.

Purtroppo non ho abbastanza conoscenza dello stesso per sbilanciarmi in questo senso.

Allo stesso modo Star Wars – Una nuova speranza (1977) ha un valore storico immenso, dal momento che è considerato il capostipite dei blockbuster, ma dal punto di vista artistico non è niente di eccezionale.

Per questo mai mi verrebbe da definirlo capolavoro.

Come usare il termine capolavoro

Per quando ribadisco che è una questione di sensibilità personale, mi sento di darvi un piccolo consiglio su come usare questo termine per non sembrare degli improvvisati.

Quando vi trovate davanti ad un prodotto che vi entusiasma, anche artisticamente, prima di gridare al capolavoro chiedevi: artisticamente è davvero un unicum? È un prodotto che si distingue da tutto il resto delle produzioni degli ultimi trent’anni?

E, per carità, fatevi il piacere di smettere di definire mezzi capolavori i film che vi piacciono…