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La fontana della vergine – L’occhio complice

La fontana della vergine (1960) rappresentò il ritorno di Ingrid Bergman all’ambientazione medievale, dopo il poco precedente Il settimo sigillo (1957).

A fronte di un budget sconosciuto, incassò 700 mila dollari nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla La fontana della vergine?

Nel contesto della Svezia medievale, il fattore Christian Per Töre manda la giovane figlia Karin a consegnare le candele per la celebrazione della messa. Ma la strada è piena di pericoli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La fontana della vergine?

Dipende.

Per quanto La fontana della vergine sia un film splendidamente diretto e ottimamente scritto, è anche un prodotto che parla di una tematica piuttosto impegnativa – la violenza sessuale – all’interno di un mondo crudele e violento, senza lasciare nulla all’immaginazione…

Infatti, anche se la regia elegantissima di Bergman incornicia perfettamente i suoi personaggi e non scade mai nella violenza quasi pornografica di altri film con tematiche analoghe, nondimeno la profonda tragicità delle scene trasmette un’angoscia piuttosto intensa…

Insomma, vi ho avvisato.

Selvaggia

A primo impatto ne La fontana della vergine sembrano esserci due modelli femminili completamente opposti.

Il primo è Ingeri, la principale protagonista del primo atto, talmente ribelle da essere più vicina alla cultura pagana – prega Odino – che a quella cristiana – tipica invece degli altri personaggi.

Ad una visione più superficiale la sua figura appare radicalmente anarchica, sprezzante delle regole e delle buone maniere, tanto che il suo aspetto disordinato e i suoi atteggiamenti selvaggi non sembrano altro che un’estensione della sua personalità.

Ma il personaggio in realtà si definisce nella sua drammaticità.

La sua personalità rappresenta in una certa misura un foreshadowing del destino di Karin: prima una ragazza con un aspetto ordinato e verginale, poi, a seguito della violenza, una donna disperata, scostumata e molto più simile appunto alla sua compagna.

Infatti la personalità così dirompente di Ingeri è dovuta anche e sopratutto all’esperienza traumatica che ha vissuto, di cui sente in ogni momento il peso, cercando al contempo di mettere in guardia l’ingenua Karin da un destino che però sembra inevitabile.

Ingenua

La verginità di Karin va molto oltre la sua esperienza sessuale.

La ragazza è vergine sopratutto perché non è mai stata toccata dalle brutture del mondo violento in cui vive, con un’esistenza protetta e coccolata fra le braccia dei genitori, che persino si sfidano per averne il favore.

Karin è quindi una giovane donna più simile ad una bambina, al punto da essere quasi capricciosa, totalmente ingenua davanti alle dinamiche dello stupro di Ingeri, liquidandolo con affermazioni piuttosto sempliciotte su come lei, al suo posto, sarebbe stata capace di difendersi.

Così la sua ingenuità è anche la sua rovina.

Vivendo di una totale idealizzazione del mondo esterno, Karin percepisce la colazione sul prato con i pastori come un quadretto bucolico sotto il segno della cristianità, nonostante lei sia l’unico personaggio del gruppo che rientra in questo ideale.

Al contrario, gli uomini fin da subito si muovono come bestie, addocchiandola da lontano e puntandola come dei lupi affamati, per poi cominciare ad avvicinarsi sempre di più al suo corpo, provocando così il primo vero senso di inquietudine e pericolo nella ragazza…

Ma il paesaggio è già di per sé eloquente.

Sporca

Il paesaggio alle spalle dei protagonisti dovrebbe essere semplice e pulito…

…e invece è sporco e ostile.

Karin cerca di ricreare un quadretto ideale sul prato, ma la presenza ingombrante dei rovi alle sue spalle continua a sporcare la scena, rendendola ben più drammatica, più grottesca e molto meno accogliente ed invitante di quanto lei vorrebbe.

Allo stesso modo la dinamica dello stupro e del conseguente omicidio è improvvisata e disordinata, con i due uomini, le due bestie che si gettano contemporaneamente sulla loro preda, in una scena drammaticamente realistica quando estremamente elegante nella regia.

Così il quadro della sua morte ribadisce il contrasto fra la sua figura martirica, bianca e innocente, incorniciata nel paesaggio aspro e ostile dei rovi, che in un certo senso anticipa la dinamica della vendetta del padre.

E così persino una figura apparentemente innocente come quella del bambino non basta per risolvere il contrasto: prova a cibarsi del cibo abbandonato di Karin, ma lo rigetta, e così cerca di seppellirla, ma finisce solo per sporcarla ulteriormente.

Osservatrice

La drammaticità di Ingiri è la sua impotenza.

Dopo aver già vissuto il suo dramma fuori scena, la donna, al contrario della compagna, è piuttosto consapevole dell’orrore del mondo esterno, e per questo riesce effettivamente a sottrarsi ad un’ulteriore violenza.

Ma non può evitare quella di Karin.

Pur con tutti i suoi tentativi di salvarla, la donna non riesce ad impedire alla giovane di vivere il suo stesso dramma, di cadere inconsapevole nella trappola che i pastori hanno ordito per lei, per approfittarsi della sua innocenza.

E neanche riesce ad intervenire, rimanendo per tutto il tempo impotentemente ai margini della scena, pur avendo in pugno l’arma – il sasso – con cui, pur rispondendo alla violenza con altra violenza, avrebbe almeno salvato una vita.

Vendetta

Il padre, Töre, è l’assoluto protagonista del terzo atto.

In prima battuta la pellicola racconta per lunghi tratti la sua personalità saggia e generosa, tanto da invitare alla sua tavola persino il terzetto di buzzurri, e, nonostante il bambino deturpi la stessa, accoglierlo comunque nelle cure della moglie.

La prova della violenza avvenuta avviene inconsapevolmente con un oggetto della scena – l’abito sottratto a Karin – che viene drammaticamente offerto alle braccia tremanti della madre, che lo passa immediatamente al marito, che diventerà l’autore della vendetta.

La vendetta è lenta e meditata, derivata dal contrasto interno all’animo di Töre.

Infatti, da buon cristiano, l’uomo dovrebbe abbracciare l’ideale della pietà cristiana e perdonare gli assassini e violentatori della figlia.

Invece, Töre sceglie di perseguire un rito squisitamente pagano di vendetta, prima flagellandosi – o sferzandosi, a seconda della lettura – per poi avventarsi con dolore e rimorso sui pastori che poco prima aveva accolto nella sua casa.

Un atto terribile e imperdonabile, con una furia quasi incerta, ma al contempo radicalmente selvaggia, che si abbatte persino su un innocente come il bambino, che finisce comunque per essere punito per il delitto dei suoi parenti.

Redenzione

Alla vendetta segue la redenzione, che si articola in due personaggi.

La redenzione di Töre è definita sopratutto da un suo riappacificarsi con Dio, per essere perdonato dalla violenza terribile che ha usato verso i suoi ospiti, mostrandosi incapaci di perdonarli come forse la cristianità avrebbe voluto.

Un ricongiungimento tanto più doloroso, quanto l’uomo deve accettare che il suo dio è rimasto indifferente davanti alla violenza della figlia, diventandone quasi complice, in una dinamica di profondo struggimento che ricorda molto un altro personaggio di Max von Sydon, Antonius Block in Il settimo sigillo.

La redenzione di Ingiri è invece dovuta alla sua impotenza.

La donna soffre per non essere stata capace di salvare la sua compagna, avendola osservata mentre veniva inevitabilmente violata e uccisa, mantenendo dentro il suo animo un terribile segreto che viene in prima battuta quasi assolto dall’atteggiamento benevolo di Töre.

Ma la vera redenzione proviene in qualche modo da Karin, dalla cui morte sgorga una fonte, una fontana benefica attraverso la quale la donna può depurarsi – secondo il doppio significato di kalla nel titolo Jungfrukällan, che significa sia fonte che primavera, quindi giovinezza e verginità.