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Dallas Buyers Club – Una vita che non posso vivere

Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée è un film drammatico basato sulla vera storia di Ron Woodroof.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 55 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Dallas Buyers Club?

Texas, 1985. Ron è un rude texano che vive fra scommesse, dipendenze e sesso occasionale. Ma una visita imprevista in ospedale gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dallas Buyers Club?

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Assolutamente sì.

Dallas Buyers Club è uno splendido spaccato – per certi versi anche molto attuale – della vergogna sociale che nacque intorno all’HIV e alla comunità queer negli Anni Ottanta, e al contempo anche della poca incisività di un sistema sanitario basato – ancora oggi – su un mero giro di affari.

Fra l’altro, un film tanto più imperdibile per la coppia esplosiva di Matthew McConaughey e Jared Leto: l’uno nel momento di rinascita artistica appena prima di True Detective (2014), l’altro in uno degli ultimi ruoli significativi prima di sporcarsi le mani col cinema di serie B.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Origine

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron è definito dal suo ambiente.

Visto che l’HIV non è altro che un affare dei froci (faggot), né Ron né i suoi degni compari si devono preoccupare nel loro essere coinvolti in un sesso occasionale e disordinato, che si svolge nel dietro le quinte della massima espressione del machismo – il rodeo.

Allo stesso modo, il loro utilizzo di droghe e di siringhe condivise racconta la totale impreparazione degli Stati Uniti davanti alla nuova minaccia sanitaria, incapace di creare la giusta comunicazione che metta in guardia persino le persone non queer dai rischi a cui potevano andare incontro.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Una situazione che determina anche la totale casualità della diagnosi, che avviene per tutt’altro motivo, per un semplice incidente sul lavoro, che però porta i dottori ad alzare qualche dovuto sopracciglio davanti alla stranezza degli esami del protagonista.

E per questo Ron parte da una negazione…consapevole.

Negazione

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La negazione di Ron è estremamente violenta.

Del tutto convinto del pensiero comune – l’HIV ce l’hanno solo i ricchioni – il protagonista vive la sua diagnosi sulle prime più come un’accusa alla sua sessualità e al suo stile di vita – anche prevedendo il tipo di esclusione sociale che seguirà…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Così il protagonista si confida con uno dei suoi compari per avere conferma dell’impossibilità della sua diagnosi, sicuramente derivata da un mischiare il suo sangue da vero uomo con quello di qualche esemplare umano di minor valore.

Eppure questa sua confidenza, seguita dalla sua consapevolezza involontaria che lo porta a non voler intrattenersi con le donne quella sera, lo rendono nel giro di una notte un reietto sociale, il protagonista di tutta la tragica vergogna di essere in realtà un omosessuale.

Ma non esiste un’alternativa.

Solo

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron deve fare da solo.

Dalla Buyers Club racconta perfettamente la situazione ancora molto attuale degli ospedali negli Stati Uniti, in cui un giro di soldi abbastanza importante permette di prendere i vergognosi pazienti dell’HIV e renderli dei topi da laboratorio.

Davanti all’impossibilità della certezza della cura, davanti alla prospettiva di una morte sicura in meno di un mese, Ron comincia a procurarsi sottobanco questo farmaco miracoloso, finendo così solo per intossicarsi e per distruggere più o meno inconsapevolmente il suo corpo.

E, anche in questo caso, la salvezza è del tutto casuale.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Dopo essere nuovamente rimesso su un letto d’ospedale senza nessuna prospettiva di vita, il protagonista sorpassa il confine e comincia ad assumere una nuova, pericolosa consapevolezza grazie ad un altro emarginato: un dottore radiato dall’albo che deve curare in clandestinità.

Fuori dal giro d’affari dell’AZT, questa medicina miracolosa si rivela infatti un killer del sistema immunitario, che agisce molto più alla cieca di quanto dovrebbe – mentre la rinascita di Ron è dovuta a ben altro…

E allora comincia la lotta.

Ombra

La lotta di Ron avviene nell’ombra.

Consapevole dell’impossibilità di vendere quelle medicine che potrebbero davvero salvare delle vite, il protagonista riesce ad agire nelle zone d’ombra, a creare un club farmaceutico in cui si paga solo il costo d’ingresso, e poi si riceve in omaggio le effettive medicine.

Comincia così una lotta senza quartiere, in cui Ron è costantemente vessato dal governo, che gli continua a sfilare da sotto le mani il suo prodotto potenzialmente salvifico, nonché la sua possibilità di portare avanti una ricerca indipendente.

Eppure il protagonista non si arrende mai, non si fa mai veramente sottomettere da un sistema che non è mai stato al suo fianco, ma che anzi ha voluto impedirgli di rivaleggiare con case farmaceutiche ben più ricche e potenti – e quindi le uniche che hanno diritto di parola.

E, per una volta, non è solo.

Alleato

Ron ha al suo fianco degli improbabili alleati.

Da una parte la dottoressa Eve, interpretata da una Jennifer Garner che purtroppo scompare davanti a due attori di così grande talento, ma che porta in scena un personaggio assolutamente necessario per riequilibrare le parti in gioco.

Il suo personaggio infatti assume una graduale consapevolezza al pari di Ron, pur rimanendo per molto tempo instancabilmente legata all’idea che tutto quello che succede al di fuori dell’ospedale è fin troppo pericoloso – nonostante lei stessa mostri dei dubbi fin da subito sul AZT.

Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ma, ancora più importante, Ron ha al suo fianco Rayon.

Da buon texano machista, sulle prime il protagonista è sostanzialmente disgustato da questo strambo personaggio, che per lui non è altro che un orribile travestito da cui non vuole neanche lasciarsi toccare…ma che infine sceglie come suo braccio destro.

E il loro rapporto effettivamente si dimostra fino alla fine estremamente ostile, ma sempre meno per l’identità sessuale del personaggio, ma invece per il continuo pungolare dello straordinario Jared Leto – per esempio, quando inquina la parete del porno di Ron con le sue fotografie.

Eppure, la sua morte è fondamentale.

Vittoria

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La crescita di Ron è sorprendente.

La sua lotta comincia come una battaglia per la propria salvezza, contro un sistema ingiusto, parallelamente riuscendo anche a lucrarci sopra, e rimanendo ancora per molto tempo insofferente alla presenza di Rayon.

Eppure, durante la pellicola il protagonista cambia profondamente se stesso, evade da quel mondo piccolo e meschino del machismo texano e si avventura nel più fragile ruolo del rivoluzionario…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

…persino difensore degli ultimi, che costringe il suo ex-compare a stringere la mano a quel disgustoso travestito, a cui infine si lega al tal punto emotivamente che, quando infine scompare dalla sua vita, il protagonista abbandona persino i sogni di guadagno e lascia entrare chiunque nel suo club.

Forse Ron Woodroof non è riuscito infine a salvarsi, ma è riuscito a combattere per avere quel tanto di vita che gli bastava per minare la credibilità di un governo classista, per vivere una vita dignitosa, morendo da uomo libero – e non ucciso da quello stesso sistema che millantava di salvarlo.

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La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

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Invictus – Il primo passo

Invictus (2009) di Clint Eastwood è un film sportivo e un racconto storico legato ai primi passi da Presidente del Sudafrica di Nelson Mandela.

A fronte di un budget medio – 60 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo commerciale: 122 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Invictus?

Da poco liberato di prigione e appena eletto Presidente, Mandela si trova a gestire una delicata situazione politica in maniera peculiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Invictus?

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

In generale, sì.

Anche se forse non è fra i film più incisivi della carriera di Eastwood, Invictus è un’opera comunque di valore, in cui l’elemento sportivo non è mai esasperato, ma mantenuto nei limiti della credibilità, reso di fatto strumento per approfondire il progetto di Mandela.

In questo senso il difetto forse più evidente è la questione razziale, appena accennata e risolta fin troppo velocemente, scegliendo di offrire uno scenario fin troppo ottimistico e consolatorio, soprattutto nelle sue battute finali.

Ma, nel complesso, da vedere.

Divisione

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

L’incipit di Invictus è estremamente simbolico.

Se da una parte troviamo un gruppo di ragazzini neri che si divertono a giocare, che salutano con gioia il passaggio di Mandela, dall’altra una squadra di atleti rigorosamente bianchi che invece accoglie il passaggio del futuro presidente con un sincero disappunto.

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

E, nel mezzo, appunto, Mandela.

Il suo passaggio fra queste due realtà è emblematico per anticipare il suo progetto futuro di unione e di riappacificazione fra due popoli fino a quel momento profondamente divisi – per legge e per cultura – e che finalmente hanno la possibilità di vivere da pari.

Eppure l’ostacolo sembra incolmabile.

Simbolo

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

I Springbok non sono una semplice squadra di rugby…

…ma, piuttosto, un simbolo.

Agli occhi dei nativi sudafricani, infatti, il team rappresenta tutto quello che c’era prima, il doloroso ricordo dell’apartheid: non una squadra che sia il simbolo di tutto il paese, ma solamente del potere dominante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Per questo, dovrebbe essere smantellato immediatamente, con anche un cambio di nome che rappresenti la trasformazione del paese stesso, e la nascita di una nuova realtà più inclusiva – anche se, forse, non davvero per tutti…

Ma Mandela non ci sta.

Vendetta

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Proprio per il suo valore simbolico, per Mandela smantellare la squadra sarebbe contro la sua politica.

Infatti, il nuovo presidente non vuole comportarsi come gli stessi invasori che gli hanno tolto la libertà e la voce, vendicandosi direttamente verso una squadra che li rappresenta, così da schiacciarli a sua volta.

Un’impresa virtuosa, anche se…

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Il clima politico di Invictus mi ha lasciato qualche perplessità: come anticipato, il discrimine razziale è appena accennato, si notano degli attriti non indifferenti, una divisione piuttosto netta fra due parti che si guardano con ostilità…

…ma forse manca una rappresentazione davvero credibile di quale era il clima di profondo odio, difficile da sradicare, che aveva portato alle leggi così dure e discriminanti dell’apartheid – una sostanziale continuazione della colonizzazione del paese.

Forse, per una scelta politica del regista?

Scoperta

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La scelta di Mandela è apparentemente incomprensibile.

In particolare, la scoperta della storia del presidente da parte di Francois è il filo portante della trama, portando Invictus ad avere un taglio molto più politico che sportivo – tanto che, come detto, il rugby è più che altro una continuazione del progetto di Mandale.

In particolare, la visita alla cella è determinante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La visione di quel piccolo spazio vitale, in cui Mandela non poteva neanche permettersi un vero letto dove stendersi, e la consapevolezza che comunque il suo presidente non ha mai voluto rivalersi sui suoi aguzzini, rappresenta l’epifania del protagonista.

Lo stesso sceglie proprio di chiudersi per un momento dentro la cella, e da quella rinascere come da un bozzolo per diventare l’esecutore materiale del sogno di Mandela, comprendendo finalmente il vero valore della vittoria del campionato per il suo paese.

Invincibile

Ancora di più, il progetto di Mandela è un’affermazione personale.

Proprio nello scegliere di non rivalersi sui suoi nemici, di non ribaltare la situazione politica a favore solamente della sua gente, il presidente si dimostra effettivamente come invincibile, inscalfibile dal clima vendicativo che lo circonda.

E questo proprio perché non è stato piegato dalla prigionia, ma è riuscito a portare abbastanza avanti il suo progetto tanto da potersi godere la visione della sua vera vittoria: un paese unito.

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Rush – Cosa sei disposto a perdere?

Rush (2013) di Ron Howard è un film a tema sportivo dedicato alla in(amicizia) fra due leggende della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt.

A fronte di un budget medio per questo tipo di produzione – 38 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale: 95 milioni di dollari in tutto il mondo.

Cosa parla Rush?

Partendo come dei sostanziali sconosciuti di circuiti minori, James Hunt e Niki Lauda seguono strade diverse per raggiungere i campionati più importanti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rush?

Assolutamente sì.

Rush è considerato fra i più fulgidi esempi di film sportivo, fondamentalmente per due motivi: anzitutto la regia particolarmente indovinata, ben ritmata, che riesce a orchestrare una messinscena di ampio respiro e particolarmente coinvolgente…

…e, soprattutto, una morale di fondo per nulla banale, ma che permette di gettare una luce diversa sia sulla storia specifica dei due protagonisti, sia in generale sulla realtà tutta particolare delle corse in auto, in cui la gloria quanto la morte sono dietro l’angolo.

Origine

L’origine del mito è minuscola.

Infatti, i protagonisti nascono come stelle locali e prendono strade del tutto diverse per scalare il successo.

James Hunt è il più classico eroe americano, che basa il suo crescente successo semplicemente sul suo talento per la corsa, in prima battuta non volendosi sporcare col degli squallidi sponsor.

Al contrario, Niki Lauda parte sostanzialmente come un perdente, e si spiana la strada verso la Formula 1 nelle retrovie, facendosi forte delle sue capacità non tanto come pilota, ma piuttosto come ingegnere, capace di portare in pista la macchina destinata a vincere.

Eppure, la loro rivalità si basa sul nulla.

Soldi, soldi, soldi

La Formula 1 è, prima di tutto, soldi.

Per quanto James Hunt si lamenti dell’ingresso comprato del rivale nella Formula 1, in realtà ben presto si rende conto di quanto sia fondamentale avere alle spalle un patrimonio – e degli sponsor – capaci di assicurare effettivamente un posto in pista.

Per questo, nonostante i primi sfavillanti successi, questi non bastano per scalzare la posizione di assoluto primo piano di Lauda…

…dovuta anche alla fama più benigna che lo accompagna, mentre Hunt è perseguitato dalla nomea di bad boy che ha effettivamente molto successo con le donne, ma invece molto meno con gli investitori.

Ma non è finita.

Vittoria

La sete di vittoria di Hunt non ha limiti.

Vivendo la costante umiliazione di eterno secondo – persino quando dovrebbe essere al primo posto – in occasione della pericolosissima gara in Germania, Hunt si dimostra ancora più spericolato, ancora più sfrontato nel voler inseguire il successo.

E proprio per colpa di questa sua avventatezza, Lauda finisce vittima dell’incidente che segnerà la sua carriera in maniera davvero incisiva, rimanendo impotentemente confinato ad un letto di ospedale mentre guarda Hunt che gli sfila la vittoria di mano, impunito.

Ma il suo rientro in pista è forse più fondamentale per Hunt.

Colpa

Hunt sente il peso della colpa.

E la colpa è duplice.

Anche se non direttamente, Lauda libera apparentemente Hunt dalla sua colpa di averlo messo in pericolo per la sua sfacciataggine, ma lo carica di una responsabilità nuova: con le sue sfavillanti vittorie, James ha convinto il suo eterno rivale a tornare in pista troppo presto.

Tormentato da sentimenti contrastanti, Hunt diventa incredibile il difensore della dignità del suo nemico, andando a punire con la forza il giornalista che si è permesso di infangare la sua professionalità attaccandolo sul suo aspetto.

Allo stesso modo, Lauda sceglie di prendersi la sua colpa.

Calato in una situazione analoga a quella che ha portato al suo doloroso incidente, Lauda infine capisce che non vale la pena di correre questo ulteriore rischio, forse di rischiare la propria stessa vita, e si prende la responsabilità di scegliere di ritirarsi.

Ma, allora, cosa rimane?

Eredità

La regia di ampio respiro di Rush ci permette di calarci in prima persona nella gara e nei dettagli del dietro le quinte: Ron Howard sperimenta con una messinscena frammentata, costruita su piccoli momenti, dettagli, passando da diverse inquadrature…

…che non si focalizzano, come avrebbe fatto un regista meno ispirato, sulle soggettive dei piloti, ma ci portano anche in mezzo al pubblico, fra i meccanici, nei particolari delle mani che giocano sui comandi dell’auto.

Quindi la vittoria di James Hunt è anche un po’ nostra: un momento di riscatto per un personaggio che ha voluto, come spiega lo stesso Lauda, dimostrare al mondo il suo valore, di essere al pari del suo nemico-amico.

E, se più amaramente Lauda sprona l’altro a non appendere i guanti al chiodo, in realtà forse è proprio così che Hunt ha compreso la sua lezione: non spingersi più in là di quello che serve…

…e concludere la sua carriera (e vita) da campione.

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La spada nella roccia – Il coming of age della Storia

La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.

A fronte di un budget di 2 milioni di dollari, fu un buon successo commerciale: 4,75 milioni di dollari nella sua prima distribuzione.

Di cosa parla La spada nella roccia?

Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La spada nella roccia?

Assolutamente sì.

Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age

…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.

Insomma, da vedere.

La spada nella roccia Produzione

La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.

Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.

Proprio come La carica dei 101 (1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.

Il casting vocale fu turbolento.

La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.

Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.

Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-up per la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.

Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.

Immaturità

Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.

Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.

Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.

E proprio qui si inserisce Merlino.

Prospettiva

Merlino rappresenta lo spettatore…

…e con lo stesso dialoga.

Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…

Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.

Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.

In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.

Per questo Artù non è Artù…

Corrispondenza

Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.

Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.

Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.

Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.

Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.

In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.

Ostacolo

Perché Artù può estrarre la spada?

Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…

…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.

E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.

Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantastico Film George Miller

Tremila anni di attesa – Un qualunque desiderio

Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.

A fronte di un budget di ben 60 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, con appena 20 milioni di dollari di incasso…

Di cosa parla Tremila anni d’attesa?

Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Assolutamente sì.

Dopo Fury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…

…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.

Insomma, da riscoprire.

Aspettative

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…

…soprattutto nel tentativo di essere originali.

Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…

…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.

La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…

E, per questo, deve essere convinta del contrario.

Vittima

Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.

Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.

E, al contempo, il djinn dimostra la sua impotenza.

Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…

Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.

Occasione

Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.

Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.

 Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…

…fra cui la sorte dello stesso djinn.

Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…

Legame

L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.

Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.

Ma proprio questo è la sua rovina.

Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.

Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.

Allora è questa la volta buona per il djinn?

Desiderio

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Cosa desidera veramente Alithea?

A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.

Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.

Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…

…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.

Per questo il finale è così calzante.

Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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2021 Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Edward Wright Film Giallo Horror Thriller

Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Jin-Roh – Uomini e Lupi – Sottostare al ruolo

Jin-Roh – Uomini e Lupi (1999) di Hiroyuki Okiura è un anime ucronico e di spionaggio.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato circa 100 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Giappone, 1950. Kazuki Fuse fa parte dell’ormai odiato corpo di polizia Kerberos. E una incomprensibile esitazione lo porterà fuori strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Assolutamente sì.

Jin-Roh – Uomini e Lupi è un crocevia di diversi generi, in cui dominano le dinamiche tipiche dello spy movie, pur all’interno di una più ampia riflessione che si intreccia in maniera piuttosto straziante con la favola di Cappuccetto Rosso.

Insomma, una pellicola che non si sbilancia mai in un senso né nell’altro, che lascia aperte diverse domande a cui forse solo lo spettatore è capace di trovare una risposta, all’interno di un susseguirsi di rivelazioni e colpi di scena che tengono costantemente col fiato sospeso.

Superato

Non c’è più spazio per Kerberos.

Ma neanche per il suo contrario.

La dicotomia di Cappuccetto Rosso e i Lupi, propria dell’immediato dopoguerra nipponico, si è ormai esaurita ed è considerata superata, in un Giappone che vuole guardare ad un futuro più sfumato, più concentrato sull’idea di rinascita che di distruzione interna.

Proprio qui si inserisce Kazuki, che si trova spaesato davanti all’incomprensibilità di questo presente, davanti ad una ragazzina che sembra voler abbracciare gli estremismi di questo gruppo terroristico, che conduce alla domanda fondamentale per il suo percorso riflessivo:

Perché?

Ruolo

Non c’è spazio per i perché.

Ma solo per i ruoli.

Il protagonista cerca invano una comprensione delle parti che sembrano solo imposte – Lupo e Cappuccetto – e da cui sembra impossibile evadere, nonostante tutta la società intorno agli stessi stia cercando di smantellarli.

E la sua via di fuga sembra proprio Kei Amemiya, una ragazza così simile alla sua vittima, con un comportamento fin troppo accomodante e accogliente nei suoi confronti, che sembra proporgli di sfuggire proprio agli schemi in cui è intrappolato.

Ma non è abbastanza.

Pedina

Nonostante la ragazza lo spinga costantemente a fuggire, nonostante venga continuamente interrogato sul perché abbia scelto di non uccidere direttamente la ragazza ribelle, Kazuki è semplicemente incapace di reagire, di rispondere, di sfuggire da questo limbo.

E allora i personaggi sono solo pedine.

Entrambi si riscoprono legati a doppio filo con quello schema che tanto detestano, delle pedine mosse da mani nell’ombra che giocano con la loro carne per avere il controllo sulla situazione politica, per risolverla unicamente a loro vantaggio.

Una rappresentazione che potrebbe far riferimento alla complessa situazione politica nipponica nel secondo dopoguerra, con un paese ancora più immobile e incapace di reagire ai nuovi scenari politici, impotente nella sua sofferenza, sottomesso agli impulsi esterni.

Ed è ancora più straziante quando il protagonista sembra aver finalmente la libertà di scegliere se seguire il piano di altri oppure se proteggere il suo nuovo amore, con una chiusa che mostra un cecchino nell’angolo che avrebbe in ogni caso scelto per lui…

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2023 Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024

La zona di interesse – L’insostenibile indifferenza

La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer è una delle proposte più interessanti a tema Olocausto degli ultimi anni.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato 40 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per La zona d’interesse (2023)

in neretto le vittorie

Migliori film
Miglior regista
Miglior film internazionale
Migliore sonoro
Miglior sceneggiatura non originale

Di cosa parla La zona di interesse?

Polonia, Anni Quaranta. La famiglia Höß conduce una vita semplice in una località amena: Auschwitz.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La zona di interesse?

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Assolutamente sì.

La zona d’interesse si propone in un mercato ormai saturo sull’impegnativo tema della Shoah, e, proprio come JoJo Rabbit (2019), propone un punto di vista diverso: l’insostenibile indifferenza dei complici della tragedia.

E a fronte di prodotti in cui spesso si cannibalizza sul tema, mostrando la violenza e il dolore nella maniera più sfacciata e strappalacrime possibile, Glazer sceglie invece una regia fredda per raccontare una tragedia che per i protagonisti non era nient’altro che un sottofondo…

Insomma, davvero imperdibile.

Spettatore

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Una particolare finezza de La zona di interesse è il taglio registico.

Una regia molto statica, con montaggio rapido e analitico che racconta i diversi momenti della vita di questa famiglia, senza mettere quasi mai un vero protagonista in scena, ma lasciando che questo gruppo di personaggi si muova liberamente negli spazi filmici.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Tanto più che non penetriamo mai la mente di questi individui, ma ne scopriamo i caratteri nei loro brevi dialoghi, o nei rarissimi momenti in cui gli stessi esprimono a parole i loro sentimenti, limitandosi per il resto ad essere raccontati dal contesto.

In questo modo lo spettatore diventa il testimone inconsapevole della vicenda, assorbendo così un concetto fondamentale che la pellicola suggerisce in maniera molto sottile: in circostanze diverse, avremmo potuto essere noi al loro posto.

Sottofondo

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

La pellicola è definita dalla mancanza.

In rari e sfuggenti momenti sentiamo effettivamente e chiaramente la testimonianza sonora dello sterminio in atto, mentre per la maggior parte del tempo le urla di dolore e l’abbaiare feroce dei cani in sottofondo si mischia alle voci, alle risate e alle urla felici dei protagonisti.

In questo modo risalta in tutta la sua potenza l’insostenibile indifferenza della famiglia Höß, nello specifico di Hedwig, la padrona di casa, mentre gestisce la delicata economia domestica, mentre mostra ai suoi ospiti la bellezza di questo felice spazio vitale che è riuscita a costruirsi.

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Il resto si definisce nei dettagli.

Scampoli di dialoghi, che coinvolgono tutti i personaggi, dalla felicità nello scovare nuovi vestiti sottratti agli ebrei, così come i loro preziosi ingegnosamente nascosti, il giocare coi denti d’oro dei bambini fino alle più serie conversazioni su come ottimizzare lo sterminio.

Così i protagonisti non vengono mai raccontati come malvagi, ma piuttosto sono ritratti nella loro serena indifferenza, mentre ridono delle loro vittime, mentre ragionano freddamente sulle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale.

Sporco

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

L’elemento più disturbante dei protagonisti de La zona d’interesse è la loro scala valoriale.

Libero dalla pesante eredità di prodotti che negli anni hanno banalizzato la figura del nazista, Glazer carica i suoi protagonisti non sono di una devastante indifferenza, ma anche di una serie di priorità quasi surreali.

Infatti, nel cuore dello sterminio, la più grande preoccupazione della famiglia Höß è il contatto con quegli sporchi ebrei: così l’emergenza si scatena quando per caso si scoprono immersi nelle ceneri delle loro vittime, e si impongono una pulizia quasi ossessiva…

…e la stessa riappare quando il capofamiglia, pur concedendosi ad un’ebrea, si infila nei sotterranei per ripulirsi clinicamente e sistematicamente quella parte di sé che è venuta a contatto con un essere indegno, in una scena ai limiti dello squallido.

E questo contribuisce molto di più a caratterizzarli e a contestualizzarli di quanto abbiano fatto molti decenni di cinema sul tema finora.

Paradiso

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Hedwig Höß non vuole andarsene.

L’unico momento in cui davvero si scompone è quando viene minacciata di essere sottratta di quell’angolo felice di paradiso che ha creato per sé stessa e per la sua famiglia, in un luogo da cui milioni di vittime avrebbero voluto fuggire, ma che lei invece ricerca disperatamente.

E infatti questa stringente normalità è rifiutata solamente da una felice arrampicatrice sociale, quando per la prima volta viene messa davanti al conto da pagare per la sua nuova posizione: la suocera, l’unica che abbandona volontariamente questo luogo paradossale.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Ma noi siamo davvero non indifferenti?

Nell’unica semi-soggettiva che Glazer concede a Rudolf Höss, è come se il gerarca spiasse verso il futuro, verso il nostro presente, osservando come Auschwitz sia diventata una sorta di tempio, che freddamente racchiude una testimonianza fondamentale del suo presente.

E, mostrando le inservienti che puliscono in maniera pedissequa, ma senza mostrare altresì alcun sentimento o emozione, il film parla direttamente a noi: anche se non siamo stati complici nel passato, stiamo affrontando con la giusta profondità una macchia così devastante della nostra storia?

Forse no.

La zona d’interesse bambina bianco e nero significato

La bambina che porta le mele è una scena apparentemente incomprensibile e distaccata dal resto del film.

In realtà il regista ha spiegato che le sequenze dedicate al suo personaggio hanno diversi significati: anzitutto, raccontano un frammento di speranza nell’oscurità rappresentata sia dal contesto storico, sia dai personaggi che lo popolano.

Infatti la bambina porta un elemento di nutrimento, di vita.

La mela.

Ma ha anche un valore storico.

Il personaggio della misteriosa bambina è ispirato ad una donna polacca, Alexandria, che ha raccontato di aver lavorato per la resistenza polacca durante il Nazismo quando aveva solo 12 anni, girando con la sua bicicletta per distribuire mele.

Non a caso, la casa in cui la bambina torna dopo le sue spedizioni, la bicicletta e i vestiti indossati dall’attrice sono proprio quelli di Alexandria, che è morta poche settimane dopo essersi incontrata col regista.