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The Dead Zone – Il sacrificio privato

The Dead Zone (1983) è un thriller fantascientifico e orrorifico, diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

A fronte di un budget medio – 10 milioni di dollari, circa 31 oggi – fu un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo – circa 113 oggi.

Di cosa parla The Dead Zone?

Johnny è un professore liceale che rimane coinvolto in un incidente stradale. Ma al suo risveglio, molte cose sono cambiate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Dead Zone?

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

The Dead Zone rappresenta un interessante incontro fra il thriller politico e il genere fantascientifico, oltre ad essere impreziosito da un intrigante taglio orrorifico – assomigliando per certi versi allo splendido Terrore dallo spazio profondo (1978) – e che deriva gran parte del suo valore dall’ottima performance di Christopher Walken.

Stranisce forse la struttura narrativa, che si snoda in una trama unitaria, ma divisa in una serie di piccoli episodi quasi auto-conclusivi, che assumono effettivamente un significato solamente arrivati al finale della pellicola.

Nel complesso. comunque. ve la consiglio.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

L’incipit di The Dead Zone è un delizioso quadretto familiare.

Felice della sua relazione e del suo prossimo matrimonio con Sarah, il protagonista sente di avere tutto il tempo del mondo, e di poter per questo allontanare le richieste della sua fidanzata di intrattenersi sessualmente prima di sposarsi…

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

…ma il destino è contro di lui.

L’incidente è costruito ad arte per definirne la totale casualità: un camionista assonnato che chiude gli occhi quel tanto che basta per perdere il controllo del mezzo, e mettersi fra capo e collo nel percorso di Johnny – e, così, farlo schiantare.

Ruolo

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Dopo aver perso la sua posizione nella comunità, il primo atto è dedicato alla riscoperta del ruolo.

Al suo risveglio, la pellicola costruisce una splendida tensione definita da piccoli dettagli: il corpo miracolosamente senza ferite né bende, i duri avvertimenti del dottore alla madre di Johnny, rappresentano le prime, dolorose pennellate di un quadretto inquieto.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Soprattutto, l’elemento più drammatico e di impatto è la dissoluzione del rapporto con Sarah – tanto che la madre gli consiglia di togliersela dalla testa – che ormai si è creata quella famiglia che lei e Johnny avrebbero dovuto costruire insieme.

Ma è solo l’inizio.

Prova

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Il secondo atto è da manuale.

La scoperta dei poteri è improvvisa e segna l’inizio delle dinamiche più strettamente orrorifiche, che risultano vincenti grazie ad una regia e ad un montaggio molto indovinati, oltre alla travolgente presenza scenica dell’attore protagonista.

Ma le premonizioni non si limitano al presente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Le visioni di Johnny sono sempre legate ad un’atmosfera funebre o quantomeno tragica, spaziando anche nella scoperta della morte presunta della madre del Dottor Sam Weizak – dinamica molto potente, ma che purtroppo appare unicamente funzionale alla trama

E subito il protagonista si trova preso d’assalto da chi crede di poterlo usare come sua personale palla di vetro per risolvere misteri e prevedere il futuro, mentre spesso le risposte che i personaggi ricevono non erano quelle che si aspettavano – o che desideravano…

Climax

Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Nella parte centrale si assiste ad un climax peculiare.

Vi è un momento di quiete, un apparente riavvicinamento – anche piuttosto intraprendente – di Sarah, la ricostruzione della famiglia spezzata, forse la possibilità di dimenticarsi dei suoi nefasti poteri…

…per poi ritornare immediatamente sui suoi passi.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Per questo, ho trovato la gestione di Sarah piuttosto straniante: la donna sembra come dare una falsa speranza al suo vecchio fidanzato, per poi tirarsi indietro e rimanere perlopiù un personaggio fuori scena, comparendo solo di tanto in tanto per regalargli nuovi, deliziosi, turbamenti emotivi.

Spogliato di tutto, Johnny prende la dolorosa decisione di usare attivamente i suoi poteri.

Ed è una scelta devastante.

Impotenza

Tutta la dinamica dell’investigazione è quella che più ho apprezzato – e anche quella più propria dello stile di Cronenberg: Johnny ha una sorta di epifania, che lo porta alla scelta di aiutare finalmente lo sceriffo nel risolvere il misterioso caso di Castle Rock.

Ma c’è un prezzo da pagare.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Riuscendosi ad immergersi efficacemente nella visione dell’omicidio in atto, il protagonista diventa una sorta di testimone omertoso del delitto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena – arrivando così alla terribile consapevolezza di poter solo punire il colpevole.

Ne segue una rincorsa all’omicida, invadendo lo spazio familiare e svelando la complicità della madre stessa, mentre nell’intimità del bagno si svolge un’ulteriore tragedia: il suicidio quasi chirurgico del colpevole, che si getta sulla sua stessa arma del delitto e si fa trovare esangue nella vasca da bagno.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Poi, di nuovo un’apparente quiete.

Dopo aver fuggito la sua casa natale, Johnny sembra avere l’occasione per ricostruire almeno parte della sua vecchia vita, diventando insegnante – e confidente – di un giovane ragazzo con cui condivide la timidezza e la riservatezza.

E invece, la nuova tragedia è dietro l’angolo.

Toccando inavvertitamente la mano del suo allievo, Johnny scopre il destino tragico che attende il ragazzino se deciderà di andare a pattinare quel giorno, entrando così in aperto contrasto con il padre e venendo scacciato…

…ma riuscendo così, con il proprio sacrificio, non solo a salvare una vita, ma anche a comprendere il senso della sua zona morta, delle vere potenzialità del suo potere: cambiare le nefaste visioni future.

Sacrificio

Nel finale, Johnny mette in scena un sacrificio privato.

Per pura causalità – e per una simpatica scelta di scrittura – il protagonista non era riuscito a prendere per mano il futuro Presidente degli Stati Uniti al loro primo incontro – infatti, invece che stringerli la mano, Greg Stillson gli aveva dato una spilla della sua campagna.

Invece, quando finalmente riesce a venire in contatto con il favorito alle elezioni cittadine, Johnny riesce finalmente ad ottenere una visione futura chiara di quello che potrebbe succedere se questo grottesco capopopolo riuscisse effettivamente a diventare Presidente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Si instaura così un dilemma morale piuttosto classico – il viaggiatore nel tempo assassino di Hitler – che viene risolto dal Dottor Weizak, che diventa inconsapevolmente la spinta finale che serviva al protagonista per prendere la sua scelta suicida.

Ma, a sorpresa, il suo intervento non porta alla morte di Stillson – almeno non immediatamente – ma al suo totale crollo di credibilità: usando un bambino come scudo di carne, l’uomo finisce sulle prime pagine dei giornali, e mette un punto fermo alla sua carriera politica…

…e, così, anche alla vita del martire Johnny.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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2024 Avventura Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Giallo Grottesco Humor Nero La musa Nuove Uscite Film Surreale Yorgos Lanthimos

Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.

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2021 Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Edward Wright Film Giallo Horror Thriller

Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Hot Fuzz – L’omicidio quotidiano

Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.

A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Hot Fuzz?

Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hot Fuzz?

Assolutamente sì.

Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead (2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.

Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.

Insomma, da non perdere.

Inverso 

Angel sulle prime appare artificioso e irreale.

Ma è del tutto voluto.

Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…

…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.

In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.

Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.

Contrasto

Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.

Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.

Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…

Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.

Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.

Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).

Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.

Superficie

Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.

E Danny ne è la principale vittima.

La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.

Per questo, Angel è la sua guida.

Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.

Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.

Ma anche Angel pecca di superficialità.

Ovvio

La soluzione al mistero sembra già scritta.

Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.

E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.

Ma è troppo ovvio.

Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.

E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.

Eroe

Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.

Deve diventare un eroe.

E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…

finché non convince anche Angel a farne parte.

Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.

In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.

Cosa ci insegna Hot Fuzz?

La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.

Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.

Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…

…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.

Hot Fuzz ketchup

Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.

Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.

Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.

Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.

Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.

Hot Fuzz Zombie

Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.

Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.

Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.

Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.

Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…

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Anatomia di una caduta – Dissezione

Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet è stato uno dei film più chiacchierati della Stagione dei Premi 2024, grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6,2 milioni di dollari – complessivamente è stato un successo commerciale: 26 milioni di incasso in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Anatomia di una caduta (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior regia
Migliore attrice protagonista a Sandra Hüller
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anatomia di una caduta?

Samuel muore per via di una misteriosa caduta. E tutto punta verso la moglie, Sandra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anatomia di una caduta?

Sandra Hüller e Swann Arlaud in una scena di Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet

Assolutamente sì.

Anatomia di una caduta è uno splendido legal drama che riesce dove molti film del genere di riferimento falliscono: essere una storia credibile, in cui molti spettatori possono potenzialmente riconoscersi.

Infatti, in qualche modo noi stessi diventiamo i giurati che assistono alla cinica e spietata dissezione della vita della protagonista e del suo rapporto col marito, tutto tranne che chiaro, anzi piuttosto fraintendibile…

Insomma, da non perdere.

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Avventura Azione Back to...Zemeckis! Buddy Movie Cinema per ragazzi Comico Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Fantastico Film Giallo Noir

Chi ha incastrato Roger Rabbit – L’inganno perfetto

Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) è probabilmente l’opera più ambiziosa di Robert Zemeckis, uno dei migliori esempi dell’uso della tecnica mista nella storia del cinema.

Con un budget piuttosto consistente – 50 milioni di dollari, circa 130 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 350 milioni di incasso (circa 900 oggi).

Di cosa parla Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Eddie è un detective privato pieno di debiti e ubriacone, che viene coinvolto in una vicenda piuttosto piccante ma con retroscena inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Chi ha incastrato Roger Rabbit?

Roger Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Assolutamente sì.

Chi ha incastrato Roger Rabbit è un classico della filmografia di Zemeckis, in cui sperimentò splendidamente con una tecnica piuttosto complessa, ovvero l’utilizzo del live action misto all’animazione…

…raccontando sostanzialmente un noir crudelmente realistico e con riferimenti culturali piuttosto attuali – nello specifico, il razzismo – ma cambiando un paio di elementi in scena e riuscendo a portarlo al cinema come un film per tutta la famiglia.

Un’opera imperdibile, insomma.

La seguente interpretazione più sul versante politico-sociale è avvallata anche dal libro di ispirazione, Who Censored Roger Rabbit? (1981, inedito in Italia), che presenta queste tematiche in maniera più netta.

Strappo

L’incipit di Chi ha incastrato Roger Rabbit è perfetto.

Infatti, volendo rivolgere la sua opera ad un pubblico piuttosto variegato, Zemeckis sceglie di mettere tutti sullo stesso livello.

Se il pubblico più adulto può riconoscersi nelle follie cartoonesche di Hanna & Barbera con cui è cresciuto, così anche gli spettatori più giovani, magari più abituati ai nuovi cartoni di derivazione nipponica, riescono a riavvicinarsi ad un taglio narrativo del tutto diverso.

Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La sequenza iniziale non è infatti altro che il più classico episodio di un prodotto di animazione degli Anni Quaranta, nelle sue follie violente e profondamente comiche, che richiamano le dinamiche di serie popolarissime come Tom & Jerry e Willy il Coyote…

…che viene improvvisamente interrotta, accompagnandoci nel ben più crudo realismo del film, in uno studio hollywoodiano con star capricciose e artisti sottopagati, allontanando progressivamente l’inquadratura da un Roger Rabbit disperato, per rivelare un burbero figuro di spalle, che in una sola battuta rivela tutta la sua personalità:

Toons.

Un classico noir

Jessica Rabbit e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Quello che segue è l’avvio piuttosto classico di un film noir.

Più Eddie ci viene introdotto, più scopriamo quanto sia un detective ormai fallito, pieno di debiti e schiavo dell’alcol, disposto a tutto per guadagnare qualcosa, persino scattare delle foto piccanti per far risvegliare le energie di un personaggio come Roger Rabbit.

Per il resto, l’introduzione di Jessica Rabbit è tutto un programma.

Betty Boop e Eddie Valiant in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

La donna è incredibilmente fascinosa e sensuale, ma svelerà a suo tempo come questa sua apparenza risulti col tempo insopportabile, in quanto la vincola ad essere un puro oggetto sessuale e nient’altro, anche facilmente dimenticabile come la povera Betty Boop, che cerca ancora di essere ammiccante…

…ma che è lasciata nel dimenticatoio, in quanto cartone d’altri tempi.

Per questo la battuta iconica Non sono cattiva, mi disegnano così racconta proprio la tragicità di questo personaggio intrappolato in un corpo più deleterio che premiante, e che infatti ricerca un compagno che la apprezzi non solo per la sua bellezza.

Il doppio inganno

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Proprio su questa linea, tutta la costruzione del Patty-Cake (in italiano farfallina) inganna lo spettatore per due volte.

Lasciando per lungo tempo le immagini esplicite fuori scena, Zemeckis fa credere abilmente che Jessica si stia intrattenendo sessualmente con Acme – e, oltre al velo della finzione filmica, è esattamente quello che succede – fingendo di utilizzare un’espressione gergale per indicare il tradimento sessuale…

Jessica Rabbit in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

quando in realtà il Patty-Cake non è altro che un gioco per bambini.

Ad un livello più profondo, si tratta del primo tassello di una storia ben più complessa di ricatti e di sesso, in cui sia Jessica Rabbit – personaggio molto più attivo di quanto sembri – sia Roger sono coinvolti apparentemente come i colpevoli, in realtà come vittime incastrate in un complotto.

L’autodistruzione

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Il giudice Morton – Judge Doom in inglese – è probabilmente l’elemento più iconico di Chi ha incastrato Roger Rabbit.

Interpretato in maniera magistrale da un Christopher Lloyd che dopo Back to the future (1985) era ormai il feticcio di Zemeckis, bastano pochi dettagli di trucco per caratterizzare un villain lugubre e spietato, che non è nient’altro che una rappresentazione neanche troppo edulcorata di un boss del crimine.

In una dinamica che ricorda molto da vicino quella di Wilson Fisk in Daredevil, questo spietato imprenditore ha ripulito la sua immagine e si è riproposto sullo scenario politico in modo da prendere lentamente il possesso di Cartoonlandia, sviluppando contro la stessa un piano di totale distruzione.

Giudice Morton in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Se non ci vuole tanta fantasia per rileggere la salamoia come l’acido in cui i mafiosi sono soliti a sciogliere le loro vittime, non viene neanche difficile sostituire i toons con delle minoranze etniche nel mondo dello spettacolo, dove sono maltrattate e sottopagate – si veda Dumbo, che si accontenta di un pugno di noccioline.

Secondo questa lettura, Morton non è altro che un uomo che faceva parte della stessa suddetta minoranza che ora perseguita, in una totale follia autodistruttiva che l’ha portato non solo a scalare la gerarchia sociale, ma a distruggere le sue stesse radici, nello specifico Cartoonlandia, un ghetto per i Toons, mal accettati in molti altri contesti per umani.

Edulcorare

Salamoia in una scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988)

Dopo una rocambolesca fuga propria dei migliori buddy movie, quasi per caso Eddie scopre la verità dietro alle mosse di Morton, arrivando così ad un finale incredibilmente classico per il genere, ma nondimeno anche straordinariamente avvincente e scandito sul filo dei secondi.

Potrebbe risultare piuttosto sorprendente la scelta di non mostrare del tutto il vero aspetto del Giudice Morton, ma limitarsi ad un agghiacciante quanto iconico confronto con Eddie, che rivela la malvagità e la spietatezza di questo cartone…

Tuttavia, questa scelta è dettata da una motivazione metanarrativa.

Per questo film Zemeckis si fece prestare un gran numero di personaggi animati da altre case di produzione, evidentemente a patto che nessuna di queste ne uscisse danneggiata – e infatti sono tutti personaggi positivi – e un personaggio così diabolico come Morton non poteva essere in alcun modo associato al mondo dei cartoni.

Infatti, nonostante anche la spietata violenza che caratterizzava in quel periodo l’animazione per bambini, nessuno poteva essere considerato effettivamente cattivo come Morton, ma piuttosto le azioni negative dei villain venivano spesso stemperate da un taglio comico e grottesco a misura di bambino.

Non è quindi un caso che in chiusura Topolino e tutti gli altri toons si interroghino sulla vera identità del villain, chiosando che sicuramente non era né un papero, né un topo

…insomma, niente di associabile ai personaggi tanto amati dai bambini del periodo.

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Giallo Horror John Carpenter

Il villaggio dei dannati – La prole mostruosa

Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter, conosciuto anche come John Carpenter’s Village of the Damned, è il remake dell’omonimo film del 1960.

Nonostante il finale fosse piuttosto aperto, il film fu un tale fiasco al botteghinoappena 9,4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget di 22 milioni – che non se ne sentì più parlare…

Di cosa parla Il villaggio dei dannati?

In una tranquilla cittadina della California un improvviso blackout fa svenire tutti gli abitanti della città. Subito dopo, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il villaggio dei dannati?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Dipende.

Il villaggio dei dannati purtroppo non si può annoverare fra le migliori opere del maestro dell’horror americano, in particolare per via di una sceneggiatura estremamente debole e difettosa – e, infatti, non opera di Carpenter – pur a fronte di un primo atto salvato da una regia ed un montaggio ben pensati.

Uno di quei film da vedere senza farsi aspettative, ma magari rimanendo intrattenuti dall’assurdità delle svolte narrative e dall’incubo degli effetti speciali – ingiustificabili davanti ad un The Thing (1982) di pochi anni prima.

Insomma, abbastanza dimenticabile, ma non tutto da buttare.

Un buon inizio

Il primo atto de Il villaggio dei dannati è il meglio riuscito.

La tranquillità della fiera cittadina viene stravolta da un blackout improvviso, senza che ci sia alcun tipo di preparazione in merito, riuscendo effettivamente a prendere contropiede lo spettatore, con anche una regia piuttosto indovinata.

Altrettanto azzeccato è il montaggio successivo, in cui si susseguono diverse scene con dialoghi spezzati, in cui le donne del paese scoprono della loro improvvisa gravidanza, con alternanza di gioia e di profonda angoscia, sopratutto da parte del pensieroso Dottor Alan.

Lo scambio fra il suo personaggio e Jill fa da prologo ad un’inquietudine che serpeggia costante anche nei momenti subito successivi, a fronte di una scena anche troppo realistica in cui il governo prende i cittadini per il portafoglio, riuscendo a renderli protagonisti del suo piccolo esperimento scientifico.

Così, al netto degli effetti speciali tremendi, la prima vittima di questi terribili bambini è al centro di una scena complessivamente ben raccontata, in cui il terrificante potere dei neonati nel controllare la volontà degli adulti viene mostrato in tutta la sua drammaticità.

Ma i problemi cominciano dopo.

Una terrificante ingenuità

Kirstie Alley in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Per ovvie necessità di sceneggiatura, i bambini demoniaci non potevano rimanere neonati…

…ma è assurdo come gli adulti si comportino con loro.

Sarebbe bastata una linea di sceneggiatura per raccontare la crescita vertiginosamente veloce di questi infanti, così da superare il pesante problema della poca credibilità del secondo atto: se i bambini sono cresciuti naturalmente, dovrebbero ormai essere passati quantomeno dieci anni…

…e così non è verosimile che gli adulti – non invecchiati neanche di un minuto – sembrino raggiungere la consapevolezza della pericolosità di questi personaggi solamente a questo punto, come se prima il pericolo non fosse visibile.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’unica parte che effettivamente funziona di questo atto centrale è lo scambio fra i bambini e la Dottoressa Susan – il personaggio più magnetico della pellicola – e il terribile incidente oculistico, che mostra come queste creature siano davvero vendicative e senza pietà.

Al contempo, Carpenter ebbe la fortuna di lavorare con dei bambini piuttosto abili nel reggere la parte, particolarmente la brillante Lindsey Haun, che interpreta la terribile Mara – in un certo senso il villain principale della pellicola.

Poi, il delirio.

Repetita iuvant?

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

L’atto finale presenta due problemi principali.

Anzitutto, la terrificante ripetitività delle scene: a fronte dei primi incidenti – i due con protagonista Barbara e l’accecamento – i successivi attacchi dei bambini risultano incredibilmente monotoni sia per la messinscena che per le dinamiche.

Sembra, insomma, di vedere per diverse volte la stessa scena.

E, ancora una volta, i personaggi – ad eccezione del Dr. Alan – sembrano solamente carne da macello, totalmente ignari dei poteri dei bambini e così incapaci di combatterli o anche solo di evitarli per non morire tutti nella stessa stupida maniera.

Lindsey Haun in una scena di Il villaggio dei dannati (1995) di John Carpenter

Proprio su questa linea, i personaggi principali sono riportati in scena e fatti morire quasi a casaccio, e senza che la loro storia abbia un particolare significato – nello specifico, l’inutile dipartita del Reverendo George.

Particolarmente sprecata la morte della Dottoressa Susan, la cui scoperta della vera natura delle creature cade quasi nel dimenticatoio, all’interno dello scontro finale fra il Dr. Alan e i bambini che sembra più puntare sulla tensione che sull’essere effettivamente interessante.

E per fortuna il finale aperto non ha mai avuto un seguito…

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Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Giallo Nuove Uscite Film Oscar 2024 Thriller True Crime Western

Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo John Carpenter Postapocalittico Recult

1997: Fuga da New York – L’eroe anarchico

1997: Fuga da New York (1981) è una delle opere più note della filmografia di Carpenter, nonché l’inizio del sodalizio artistico con Kurt Russell, proseguito poi con The Thing (1982)

Con un budget veramente miserevole – appena 6 milioni di dollari, circa 22 oggi – fu un discreto successo al botteghino, con un incasso di 25 milioni (circa 93 oggi).

Di cosa parla 1997: Fuga da New York?

1997, New York. Ormai da dieci anni l’isola di Manhattan è diventata una prigione da cui è impossibile scappare, autogestita dai prigionieri stessi. E se qualcuno di importante ci finisse dentro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1997: Fuga da New York?

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Assolutamente sì.

1997: Fuga da New York è un classico della filmografia carpenteriana, in cui il cineasta statunitense predilige una fantascienza urbana e dark, ma che non manca neanche di tinte orrorifiche tipiche della sua filmografia, soprattutto nel suo precedente cult Halloween (1978).

A fronte di un budget veramente ridotto, Carpenter fu in grado di produrre un cult che sarà ricordato nei decenni a venire, grazie alle sue incredibili capacità di messinscena e di uso della fotografia.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Carne da macello

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Snake Plissken – Iena in italiano – è un eroe imperscrutabile.

Inizialmente membro di spicco dell’apparato militare statunitense, questo misterioso personaggio ha deciso di punto in bianco di mordere la stessa mano che gli dava da mangiare, diventando un pericoloso criminale.

L’efficacia del protagonista deriva anche dall’ottima performance di Kurt Russell, che lavora totalmente di recitazione corporea, muovendosi con decisione all’interno degli spazi del film e godendo di una presenza scenica che da sola racconta il personaggio.

Snake è infatti un criminale senza scrupoli, che può essere riutilizzato come carne da macello nella missione suicida per salvare il Presidente, tanto più che, in caso di fallimento, si avrà una scusa per portarlo definitivamente fuori scena.

Chi vince, insomma, è sempre quell’opprimente governo

Atmosfere

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Con 1997: Fuga da New York Carpenter ha utilizzato il poco che aveva per caricare la scena di atmosfere quasi orrorifiche.

Per la prima parte del film infatti gli spazi sono terribilmente vuoti, e, proprio per questo, fanno molta più paura: le minacce si muovono come spettri, ombre che scivolano sui palazzi in rovina, che strisciano fuori dai tombini, pronti a saltarti addosso…

Così, sfruttando le diverse location notturne, la regia riesce a raccontare un piccolo mondo che mostra i danni dell’anarchia che lo domina, sfruttando le diverse luci diegetiche per offrire al suo protagonista anche una maggiore drammaticità scenica.

Un viaggio impossibile

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Infatti, Snake si immerge in un mondo totalmente sconosciuto.

Il protagonista non conosce né le dinamiche né le regole di questo luogo estremamente sinistro, e per questo si muove alla cieca, riuscendo subito e solo apparentemente a concludere la missione per come era stata inizialmente concepita.

Ma l’unica guida a disposizione è stata distrutta.

Kurt Russel e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

E così Snake deve risalire la scala gerarchica per arrivare fino al Duca, dovendo passare per i suoi sottoposti – Caddie e poi Brain – che cercano a loro volta di assicurarsi la favolosa carta dell’Esci gratis di prigione.

Ma se nella sua scalata Snake sembrava imbattibile, riuscendo a farsi strada nella folla inferocita e derubando il Duca di una delle sue macchine, non può fare a meno di soccombere sotto i colpi degli scagnozzi dello stesso.

Così si trova finalmente davanti al temibile signore della guerra di New York, di cui diventa sostanzialmente il giullare, coinvolto in una lotta all’ultimo sangue per il personale ludibrio del Duca e della sua corte.

Dall’alto del mio muro

Isaac Hayes e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

La lotta per il salvataggio del presidente rappresenta la classica dinamica in cui i personaggi secondari cadono come mosche, così che il protagonista risulti come unico vincitore.

Ma c’è di più.

La sequenza è un’occasione anche per mostrare il vero carattere dei personaggi, anche i più secondari come Maggie, che sono pronti persino a sacrificare la propria vita per dei principi imprescindibili – l’onore e la vendetta – capaci per questi anche di lottare a mani nude…

…a differenza del Presidente degli Stati Uniti, che da solo rappresenta la mediocrità della classe dirigente, incapace di gestire il picco di criminalità, trattando i carcerati come bestie da abbandonare a sé stesse, da mettere l’una contro l’altra…

E per questo Snake lo mette alla prova.

Ribellione

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Come lo spettatore, anche il protagonista arriva al finale con la consapevolezza della vera natura del Presidente e di tutto il suo entourage.

Ma Snake offre all’uomo un’ultima possibilità di redenzione, chiedendogli il conto per tutte le vite sacrificate per salvare la sua persona, o anche solo un senso di umana comprensione e perdono.

Ma il Presidente, lo stesso che non è stato capace di affrontare il Duca ad armi pari, crivellandolo di colpi dalla posizione sicura del muro di cinta, mette da parte con noncuranza questo pensiero, considerando anzi la morte di quegli individui come dovuta.

Per questo Snake, ormai liberatosi dalle catene, sceglie di rivoltarsi tacitamente contro il Governo, anzi arrivando ad umiliarlo, scambiando le importanti informazioni militari della cassetta con una musica da sala d’attesa…