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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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The World’s End – Stanchezza

The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead (2004) e Hot Fuzz (2007).

A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla The World’s End?

Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The World’s End?

Dipende.

A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.

Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.

Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.

Indietro

Gary King è rimasto indietro.

Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.

Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.

Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.

Ma quanto può durare?

Statico

La linea comica principale della pellicola è debole.

O, almeno, lo è considerando i precedenti.

Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…

…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.

E in The World’s End?

Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.

E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.

Anzi…

Inverso

Il mondo si adegua a Gary King.

E vive una sorta di involuzione.

Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.

Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.

E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.

Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.

Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.

Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.

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Night & Day of the dead – L’inizio della fine

Night of the living dead (1968) e Day of the dead (1985) rappresentano rispettivamente l’inizio e la fine della trilogia originale degli zombie di George Romero, che ha come perno centrale il ben più famoso Dawn of the Dead (1978).

Rispetto al grande successo commerciale del capitolo mediano, gli altri due film ebbero un riscontro minore, ma comunque positivo: entrambi incassarono intorno ai 30 milioni di dollari, con un budget rispettivamente di 114 mila dollari e di 3,4 milioni.

Di cosa parlano Night & Day of the dead?

Come primo capitolo della saga, in Night of the living dead si racconta l’inizio dell’epidemia zombie e i primi tentativi di arginarla:

Al contrario, il capitolo conclusivo è ambientato negli Anni Ottanta e racconta i tentativi dei pochi sopravvissuti di ricostruire la società umana:

Vale la pena di vedere Night & Day of the dead?

Bub lo zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

In generale, sì.

Partiamo col dire che si tratta di due film molto diversi, sia per taglio narrativo che per tematiche proposte: in Night of the living dead troviamo una poetica ancora acerba, per cui Romero riflette sulla società umana, ma senza aver un target specifico come per Dawn of the Dead.

Al contrario Day of the dead è il film più vicino al capitolo mediano, che rappresenta in maniera anche piuttosto diretta un periodo storico molto lontano per noi, ovvero quello della politica reaganiana, con tutte le conseguenze nella mentalità e nella società con la Guerra Fredda agli sgoccioli e dopo il disastro della Guerra del Vietnam.

Insomma, da vedere.

Night of the Living Dead

Il film è stato interpretato in diverse direzioni, nessuna delle quali secondo me definitiva.

In questa sede, per puro divertissement, ho scelto di abbracciare la lettura sulla Guerra Fredda.

Molto umani

John zombie in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Uno dei grandi meriti di Romero, soprattutto in Night of the living dead, è il riuscire a portare in scena gli zombie con poco.

I non-morti infatti sono definiti esteticamente giusto da pochi tocchi di trucco, mentre l’efficacia dei loro personaggi risiede nell’ottima presenza scenica degli attori, che risultano assolutamente credibili – sicuramente grazie alla direzione piuttosto abile e consapevole di Romero.

In questo senso si apre il primo spunto nei confronti del tema della Guerra Fredda: gli zombie non sono così tanto indistinguibili dagli umani, tanto che nella primissima scena John non riesce a comprendere il pericolo imminente del cimitero, anzi schernisce Barbra per il suo essere spaventata.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

In questo elemento si può leggere una rappresentazione dell’isteria collettiva che serpeggiava negli anni di una guerra non più materiale, ma principalmente psicologia e di propaganda, in cui per gli statunitensi era davvero semplice dubitare di chiunque e di additarlo come nemico.

Per questo, gli zombie rappresenterebbero appunto i sovietici.

Una storia di uomini

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Come sarà poi anche per Dawn of the dead, il centro della storia non sono gli zombie, ma i personaggi umani.

Di fatto i non-morti sono degli elementi sostanzialmente di contorno, una minaccia presente e pressante, ma che raramente è al centro della scena, ma che anzi è posta ai margini della stessa fino all’ultimo atto, quando l’home invasion ha finalmente la sua esecuzione.

Barbra in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Nei rapporti fra i personaggi dentro la casa si può leggere una rappresentazione dei diversi atteggiamenti nel contesto post-bellico: se infatti da una parte troviamo un Ben che sceglie di stare in prima linea, con lo sguardo puntato sulla minaccia esterna e pronto a combatterla…

…dall’altra Harry insiste nel rifugiarsi nella cantina, che può essere letta come una rappresentazione dei rifugi anti-atomici che non pochi statunitensi avevano dentro le porte di casa, il rifugio estremo all’interno dell’angoscia costante del periodo.

Ma infine nessuna tecnica è vincente.

Divorati dall’interno

Ben in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Le morti dei personaggi sono estremamente esplicative.

Anzitutto la dipartita di Barbra, ormai distrutta dalla nevrosi, che si butta fra le braccia del fratello perduto e tanto ricercato, incapace di accettare che lo stesso è ormai un nemico – ovvero, secondo questa lettura, una spia sovietica.

Altrettanto interessante è la morte di Harry, che cercava un rifugio estremo e sicuro nella cantina, del tutto cieco davanti al pericolo che lui stesso ha in casa – in un altro senso, ignaro di come dei simpatizzanti col nemico fossero proprio dentro le mura domestiche.

Harry in una scena di Night of the living dead (1968) di George Romero

Ma la morte più indicativa è quella di Ben, che sembra essere riuscito a scampare la morte grazie alla sua intelligenza e lucidità, ma che viene abbattuto dai suoi stessi compatrioti, che neanche si sprecano nel controllare che il personaggio sia effettivamente un loro nemico.

Per questa scena si possono prendere due strade interpretative, che in realtà si congiungono: Ben è ucciso da un gruppo di bianchi che utilizzano la situazione solamente come occasione per perpetuare il loro razzismo violento…

…e che al contempo continuano a ricercare il nemico all’esterno, mentre la vera ostilità è interna agli Stati Uniti stessi.

Day of the Dead

Per Day of the Dead la tematica sottostante è più chiara: una critica piuttosto aspra al modello economico e sociale di Ronald Reagan, che all’uscita del film era alla vigilia del suo secondo mandato.

Ricostruire e distruggere

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Day of the dead si apre su un paesaggio desolante, in cui ormai gli zombie dominano il mondo e la civiltà umana è ridotta ad uno sparuto gruppo di personaggi.

Un barlume di speranza rimane nel laboratorio sotterraneo, dove si cerca di trovare una soluzione all’epidemia, ma è che è fin troppo sferzata da un Capitano Rhodes sempre più tirannico.

Nella visione di Romero, questo personaggio rappresenta il peggio della società reaganiana: una corsa alla soluzione facile e veloce, con uno stringente militarismo esaltato come eroico in una società americana appena uscita dalla Guerra in Vietnam e nel pieno della Guerra Fredda.

Il femminile anomalo

Sarah in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Altrettanto indicativo del pensiero reaganiano è il trattamento del femminile.

La Dottoressa Sarah è costantemente osteggiata dalla maggior parte dei personaggi maschili, proprio in quanto donna indipendente e senza figli, condizione che la rende un perfetto bersaglio da umiliare ed insultare.

Il suo personaggio è infatti troppo lontano dall’ideale femminile materno e casalingo, esaltato dalla politica reaganiana, contro invece personaggi femminili fin troppo indipendenti raccontati come il motivo del fallimento del modello familiare.

Proprio per questo Sarah perde tutta la sua dignità davanti agli altri uomini, che la umiliano costantemente per avere una relazione extra-matrimoniale.

Isteria

Bub zombie in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Nel trattamento dedicato agli zombie si può intravedere un racconto piuttosto crudele dell’attività politica reaganiana nei confronti dell’abuso di droghe.

Bub, lo zombie rieducato dal Dottor Logan, potrebbe in questo senso raccontare la figura del tossicodipendente che tenta una via di riabilitazione all’interno di un centro di cura, e così l’epidemia zombie può essere anche letta come un racconto del picco di dipendenza da sostanze che si registrò negli USA in quel periodo.

Rodhes in una scena di Day of the dead (1985) di George Romero

Così nell’atteggiamento totalmente ostile di Rhodes si può altresì leggere un racconto della semplificazione di Reagan nella sua lotta all’abuso di droghe, che sostanzialmente risultava nel dividere i cittadini fra buoni e cattivi.

In questo senso Bub agli occhi del Capitano è disgustoso ed irrecuperabile, al punto da sottovalutarlo e così da portare alla morte stessa del suo personaggio, aiutata in gran parte dal preciso colpo di pistola dello zombie, che non lo uccide, ma gli impedisce di fuggire…

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1997: Fuga da New York – L’eroe anarchico

1997: Fuga da New York (1981) è una delle opere più note della filmografia di Carpenter, nonché l’inizio del sodalizio artistico con Kurt Russell, proseguito poi con The Thing (1982)

Con un budget veramente miserevole – appena 6 milioni di dollari, circa 22 oggi – fu un discreto successo al botteghino, con un incasso di 25 milioni (circa 93 oggi).

Di cosa parla 1997: Fuga da New York?

1997, New York. Ormai da dieci anni l’isola di Manhattan è diventata una prigione da cui è impossibile scappare, autogestita dai prigionieri stessi. E se qualcuno di importante ci finisse dentro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1997: Fuga da New York?

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Assolutamente sì.

1997: Fuga da New York è un classico della filmografia carpenteriana, in cui il cineasta statunitense predilige una fantascienza urbana e dark, ma che non manca neanche di tinte orrorifiche tipiche della sua filmografia, soprattutto nel suo precedente cult Halloween (1978).

A fronte di un budget veramente ridotto, Carpenter fu in grado di produrre un cult che sarà ricordato nei decenni a venire, grazie alle sue incredibili capacità di messinscena e di uso della fotografia.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Carne da macello

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Snake Plissken – Iena in italiano – è un eroe imperscrutabile.

Inizialmente membro di spicco dell’apparato militare statunitense, questo misterioso personaggio ha deciso di punto in bianco di mordere la stessa mano che gli dava da mangiare, diventando un pericoloso criminale.

L’efficacia del protagonista deriva anche dall’ottima performance di Kurt Russell, che lavora totalmente di recitazione corporea, muovendosi con decisione all’interno degli spazi del film e godendo di una presenza scenica che da sola racconta il personaggio.

Snake è infatti un criminale senza scrupoli, che può essere riutilizzato come carne da macello nella missione suicida per salvare il Presidente, tanto più che, in caso di fallimento, si avrà una scusa per portarlo definitivamente fuori scena.

Chi vince, insomma, è sempre quell’opprimente governo

Atmosfere

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Con 1997: Fuga da New York Carpenter ha utilizzato il poco che aveva per caricare la scena di atmosfere quasi orrorifiche.

Per la prima parte del film infatti gli spazi sono terribilmente vuoti, e, proprio per questo, fanno molta più paura: le minacce si muovono come spettri, ombre che scivolano sui palazzi in rovina, che strisciano fuori dai tombini, pronti a saltarti addosso…

Così, sfruttando le diverse location notturne, la regia riesce a raccontare un piccolo mondo che mostra i danni dell’anarchia che lo domina, sfruttando le diverse luci diegetiche per offrire al suo protagonista anche una maggiore drammaticità scenica.

Un viaggio impossibile

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Infatti, Snake si immerge in un mondo totalmente sconosciuto.

Il protagonista non conosce né le dinamiche né le regole di questo luogo estremamente sinistro, e per questo si muove alla cieca, riuscendo subito e solo apparentemente a concludere la missione per come era stata inizialmente concepita.

Ma l’unica guida a disposizione è stata distrutta.

Kurt Russel e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

E così Snake deve risalire la scala gerarchica per arrivare fino al Duca, dovendo passare per i suoi sottoposti – Caddie e poi Brain – che cercano a loro volta di assicurarsi la favolosa carta dell’Esci gratis di prigione.

Ma se nella sua scalata Snake sembrava imbattibile, riuscendo a farsi strada nella folla inferocita e derubando il Duca di una delle sue macchine, non può fare a meno di soccombere sotto i colpi degli scagnozzi dello stesso.

Così si trova finalmente davanti al temibile signore della guerra di New York, di cui diventa sostanzialmente il giullare, coinvolto in una lotta all’ultimo sangue per il personale ludibrio del Duca e della sua corte.

Dall’alto del mio muro

Isaac Hayes e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

La lotta per il salvataggio del presidente rappresenta la classica dinamica in cui i personaggi secondari cadono come mosche, così che il protagonista risulti come unico vincitore.

Ma c’è di più.

La sequenza è un’occasione anche per mostrare il vero carattere dei personaggi, anche i più secondari come Maggie, che sono pronti persino a sacrificare la propria vita per dei principi imprescindibili – l’onore e la vendetta – capaci per questi anche di lottare a mani nude…

…a differenza del Presidente degli Stati Uniti, che da solo rappresenta la mediocrità della classe dirigente, incapace di gestire il picco di criminalità, trattando i carcerati come bestie da abbandonare a sé stesse, da mettere l’una contro l’altra…

E per questo Snake lo mette alla prova.

Ribellione

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Come lo spettatore, anche il protagonista arriva al finale con la consapevolezza della vera natura del Presidente e di tutto il suo entourage.

Ma Snake offre all’uomo un’ultima possibilità di redenzione, chiedendogli il conto per tutte le vite sacrificate per salvare la sua persona, o anche solo un senso di umana comprensione e perdono.

Ma il Presidente, lo stesso che non è stato capace di affrontare il Duca ad armi pari, crivellandolo di colpi dalla posizione sicura del muro di cinta, mette da parte con noncuranza questo pensiero, considerando anzi la morte di quegli individui come dovuta.

Per questo Snake, ormai liberatosi dalle catene, sceglie di rivoltarsi tacitamente contro il Governo, anzi arrivando ad umiliarlo, scambiando le importanti informazioni militari della cassetta con una musica da sala d’attesa…

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Il pianeta delle scimmie - Reboot Postapocalittico

Dawn of the Planet of the Apes – L’odio intestino

Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves è il secondo film della saga prequel reboot de Il pianeta delle scimmie (1968), sequel di Rise of the Planet of the Apes (2011).

Un capitolo che fu anche il più grande incasso dell’operazione: a fronte di un budget quasi raddoppiato (170 milioni), incassò ben 710 milioni di dollari.

Di cosa parla Dawn of the Planet of the Apes?

Dieci anni dopo Rise of the Planet of the Apes, Cesare ha costruito una realtà apparentemente solida e protetta per la sua tribù. E gli umani sembra che siano scomparsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the Planet of the Apes?

Cesare in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

Soprattutto se vi è piaciuto il primo film, non potete davvero perdervi questo secondo capitolo, dove finalmente la direzione passa a Matt Reeves – che, se ve lo foste dimenticato, è autore di quella meraviglia di The Batman (2022).

E si vede.

Le atmosfere oscure e piene di tensione, la recitazione – corporea e facciale – davvero sorprendente di Andy Serkis (Cesare) e Toby Kebbell (Koba) sono ingredienti imperdibili in una storia epocale e ricca di emozione.

Non mancano ancora tematiche fondamentali – ambientalismo, fragilità umana – già accennate nel precedente capitolo, ma in questa occasione ancora meglio esplorate, a fronte di una sceneggiatura ben costruita.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Dieci anni sono troppi?

Cesare in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Sulle prime devo dire che questa importante ellissi temporale di ben dieci anni mi ha lasciato leggermente stranita.

E così anche il drastico cambio di personaggi umani – che si ripeterà, fra l’altro, anche nel successivo War for the Planet of the Apes (2017) – di fatto rendendo debole ogni tipo di collegamento con la prima pellicola.

Ma alla fine ci ho ripensato.

Cesare e Will in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Fin dall’inizio i veri protagonisti della pellicola sono le scimmie, non gli umani, che in questo film in particolare vengono resi più dei topoi, del tutto funzionali alla trama, più che degli effettivi personaggi tridimensionali.

Infatti, se di fatto i protagonisti della pellicola sono Cesare e Koba, i personaggi umani sono dei vettori per approfondire le tematiche della trama e creare una sorta di parallelo fra l’esperienza delle scimmie e quella umana…

Due esperienze, due emozioni

Lo scontro fra Koba e Cesare nasce dalle loro due esperienze opposte.

Nonostante infatti entrambi siano di fatto stati delle cavie per gli esperimenti umani, Koba si porta sulle spalle un’esperienza ben più dolorosa e drammatica, che non gli ha permesso di conoscere altro che la malvagità degli uomini – come spiega anche lo stesso Maurice.

Al contrario, Cesare è riuscito a venire a contatto, tramite Will, ad un lato meno negativo – anche se secondo me non positivo – dell’umanità e alle sue ambizioni.

E, proprio per questo, nonostante la sua ostilità iniziale, si apre infine ad un contatto proficuo con il genere umano.

E, proprio per una maggior lucidità mentale, Cesare si rende conto di quanto umani e scimmie non siano così diversi.

Non a caso, da entrambe le parti si vedono due realtà molto simili

Nel difficoltoso contatto con il genere umano, Cesare si dimostra tutto sommato – pur con qualche reticenza iniziale – aperto al contatto e all’arricchimento reciproco, arrivando a considerare addirittura Malcom un suo amico.

Anche perché lo stesso rappresenta il lato propositivo dell’umano che cerca di venire ad un accordo pacifico e rispettoso verso l’altro, prima di tutto assicurandosi con ogni mezzo di non venire meno ai patti, ma, anzi, proponendosi come supporto e aiuto.

Koba dawn of the planet of the apes

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Al contrario, sia Carver che Koba rappresentano il lato antagonistico e distruttivo.

Entrambi infatti non solo non sono aperti al confronto, ma continuano a considerare l’altro come un nemico, senza mai provare a cambiare idea: se per Koba gli uomini sono dei mostri da distruggere, per Carver le scimmie non sono altro che bestie pericolose.

E non è un caso in questo senso che Carver sia ucciso proprio da Koba…

La profondità del tradimento

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Perché Cesare uccide Koba?

Per comprenderlo, bisogna fare un passo ulteriore rispetto a quanto detto esplicitamente nella scena: Cesare dice all’ex-amico che non può risparmiarlo in quanto scimmia, perché Koba non è più una scimmia.

Quella che all’apparenza potrebbe sembrare semplicemente una scusa, in realtà rappresenta la profondità del tradimento del compagno: nella sua incapacità di ragionare, di riuscire a superare il suo odio intestino, di fatto Koba ha finito per diventare lui stesso umano.

Koba in una scena di Dawn of the Planet of the Apes (2014) di Matt Reeves

Ed umano nel senso più negativo del termine: un uomo incapace di vedere con apertura mentale qualcuno di diverso da lui, incapace di distinguere le colpe del singolo con quelle della collettività, e del tutto concentrato su sé stesso…

Arrivando al punto di imbracciare armi umani – di cui, come si vede più volte, le scimmie non hanno alcun bisogno – sterminando il nemico senza alcuno scrupolo, anzi arrivando ad ingabbiarlo per un puro desiderio di vendetta.

E, soprattutto, sparando a suo fratello come un umano qualsiasi…

La fragilità umana

Anche se i film di fatto non lo raccontano in maniera esplicita, il punto di arrivo di questa saga dovrebbe essere lo sterminio della razza umana, per arrivare appunto a Il pianeta delle scimmie (1968).

Ma comunque il tema della fragilità umana è presente.

Anche oltre ad una linea di dialogo in cui gli uomini si rendono conto della fondamentale differenza fra loro e le scimmie – del tutto indipendenti da certe esigenze tutte umane, come l’elettricità e il calore – in generale è evidente quanto l’umanità siano dipendente dalle sue stesse creazioni.

Infatti, è bastato veramente poco perché gli umani si riducessero a poche sacche di sopravvissuti, destinati comunque all’inevitabile estinzione per l’incapacità di ricostruire quel mondo tanto comodo quanto necessario per la propria sopravvivenza.

E, allora, chi è veramente la specie dominante?

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Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Film di guerra Il pianeta delle scimmie - Reboot Postapocalittico Racconto di formazione

War for the Planet of the Apes – La fine del viaggio

War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves è l’ultimo (per ora) capitolo della saga reboot de Il pianeta delle scimmie.

Nonostante il riscontro commerciale fu buono, subì una battuta di arresto rispetto al precedente: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi 500 milioni.

Di cosa parla War for the Planet of the Apes?

Dopo il tradimento di Koba, la guerra è iniziata e Cesare dovrà prendere delle importanti decisioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere War for the Planet of the Apes?

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Assolutamente sì.

War for the Planet of the Apes è un ottimo punto di arrivo per la storia di Cesare, scegliendo un nuovo taglio narrativo: il viaggio.

L’aspetto registico e interpretativo rimane sempre altissimo, con Matt Reeves e Andy Serkis che ancora una volta sono elementi imprescindibili per portare in scena un blockbuster di altissimo livello.

Un capitolo ancora più cupo e sofferto, che non vi potete perdere.

La ricerca della pace

Cesare (Andy Serkis) in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Cesare manca dalla scena per buona parte dell’incipit.

Immergendoci in atmosfere alla Apocalypse Now (1979), scopriamo questa guerra autodistruttiva e insensata, in cui gli uomini sfidano la potenza delle scimmie, rimanendo inevitabilmente sopraffatti…

E dopo una lunga sequenza, Cesare riappare nella monumentalità interpretativa di Andy Serkis, che si dimostra come l’unico che cerca veramente la pace fra le forze in gioco, nel tentativo di preservare la sua tribù…

Ma ogni tentativo è inutile quando ci si trova davanti ad un nemico imperscrutabile come il Colonnello, che non si vuole fermare, il cui motore dell’azione è un principio che non si può sradicare…

Rimanere umani

Con l’uccisione della sua famiglia, Cesare rischia di ricadere nello stesso errore di Koba.

Ormai costretto ad imbracciare armi umane, ad essere molto più umano nei comportamenti di quanto avrebbe mai voluto, sceglie la via più immediata ed istintiva: la vendetta.

Ed è una vendetta necessaria.

Ma al contempo riesce a non cadere del tutto nell’errore di Koba, a non disprezzare tutta la razza umana per l’azione di un singolo. E questo proprio grazie all’incontro con la bambina, la cui presenza inizialmente lo disturba, ma che si rivelerà necessaria…

Nova è infatti una creatura docile e pura, anzi una creatura da proteggere, che fa parte di quella schiera di deboli e oppressi che Cesare si era proposto di salvare…

Un parallelismo doloroso

Bad Ape in una scena di War for the Planet of the Apes (2017) di Matt Reeves

Per quanto non venga detto esplicitamente, è evidente che il campo di concentramento faccia riferimento ad una pagina molto buia del Novecento…

Le scimmie, le bestie, vengono schiavizzate per portare avanti il folle piano del Colonnello, rinchiuse in recinti senza copertura, in balia dei cambiamenti del clima, senza protezione, nutriti alla peggio come maiali.

Non manca nondimeno anche una metafora cristologica nella figura del Cesare crocifisso, che si prende sulle spalle tutti i dolori del suo popolo e ne diventa il Salvatore, resistendo di fronte ad ogni forma di ingiustizia.

Eppure, proprio Cesare è considerato sacrilego…

Nascondersi

Il Colonnello rappresenta il volto più estremo dell’umanità.

Incapace di mettersi davvero davanti alle sue colpe, derubrica il suo fallimento, il suo disastro ad una punizione divina posta sopra al suo capo come sfida ultima dell’umanità per la sua salvezza.

Secondo questa concezione, l’uomo è l’unica specie che ha il diritto di vivere sulla Terra, e per questo deve essere indubbiamente destinato a salvarla, per evitare che diventi il pianeta delle scimmie.

Tuttavia, il Colonnello non si rende conto che il suo stesso tentativo di salvezza si tradurrà solo in ulteriore guerra, in ulteriore distruzione, che porterà ancora una volta l’umanità ad essere distruttrice di sé stessa.

The War for the Plane of apes Il finale

Il finale è il vero momento di riscatto di Cesare.

Arrivato al letto di morte del suo nemico mortale, è messo davanti ad una scelta: proseguire fino in fondo con la sua vendetta, oppure defilarsi per sempre da questo conflitto, non volendone essere partecipe in alcun modo.

E Cesare sceglie la seconda.

Sceglie di non essere neanche per un momento l’esecutore della distruzione dell’umanità, anche se in quel momento è stata ricercata, di non cadere così in basso nel distruggere il nemico, quando lo stesso ci riesce benissimo da solo…