Warfare (2025) è un film di guerra diretto e scritto a quattro mani da Ray Mendoza e Alex Garland, racconto di un reale evento avvenuto durante la guerra in Iraq.
A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 20 milioni di dollari – si sta rivelando un discreto flop al botteghino, riuscendo a malapena a coprire i costi di produzione in patria.
Di cosa parla Warfare?
La storia parla della reale tragedia avvenuta ad uno dei due registi, parte del reparto di Navy SEAL statunitense durante la Guerra in Iran il 19 novembre 2006.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Warfare?
In generale, sì.
Se si considera Warfare un film di Garland, probabilmente verrà ricordato fra i minori della sua produzione: interessante nella messinscena, nell’equilibrio dei toni e nel racconto delle emozioni strazianti…
…ma, forse, davanti alle potenzialità che aveva al suo interno, guardando anche alle altre narrazioni proprie del genere, per certi versi sembra un’occasione sprecata per raccontare qualcosa di veramente significativo.
Quotidianità
Proprio nel voler raccontare una storia di ricordi, la quotidianità comica domina il primo atto della pellicola.
L’apertura è fondamentale in questi senso per mostrarci come i soldati protagonisti non siano altro che un gruppo di scapigliati ragazzini addestrati a fare la guerra, che annullano ogni tipo di gerarchia per riunirsi in un rituale quasi edonistico.
E l’eco dell’incipit pervade anche le scene successive, che dovrebbero sulla carta essere più serie e riflessive, e invece il pesante silenzio che domina la sequenza è spezzato dai personaggi che ancora si divertono pensando a quel momento condiviso.
Una quotidianità che stona con l’invasione domestica di un’innocente famiglia locale, la cui casa casa diventa la nuova base per le operazioni militari dell’invasore, del tutto indifferente rispetto al disagio creato dalla sua ingombrante presenza.
Eppure, la stessa continua anche nei piccoli momenti di sciocco divertimento e degli scherzi fra i protagonisti, che si alterna alle operazioni di guerra volte a costruire una sorta di tensione sotterranea per l’esplosione della crudeltà visiva dell’atto centrale.
Ma anche quest’ultimo è del tutto coerente con quanto visto in precedenza.
Emozione
C’è poco di eroico nelle azioni dei personaggi.
Dopo la violenta esplosione, i tentativi di tenere insieme la squadra sono dilaniati dai continui e angoscianti particolari delle sofferenze delle vittime, per cui Garland non eccede in nessuna direzione, ma anzi equilibra i toni nel mostrare semplicemente quanto necessario, e nulla di più.
Ma bastano da soli gli angoscianti scambi fra vittime e soccorritori, in cui i del tutto comprensibili bisogni immediati dei feriti si scontrano con il più freddo – o tentato tale – intervento di chi cerca di tenerli in vita, riuscendo a trasmettere il dolore fisico straziante quanto penetrante provato in questi brevi momenti.
Eppure, forse, manca qualcosa.
Oltre
Non si può fare ad un film una colpa di non aver soddisfatto le aspettative dello spettatore.
Ma il confronto con altre opere di intenti simili è inevitabile.
È evidente che Garland avesse tutta l’intenzione di immergersi in un esperimento visivo che annullasse qualsiasi slancio tematico – di glorificazione o di condanna – per raccontare la mera quotidianità che spesso non è mostrata, per i più diversi motivi, all’interno delle narrazioni belliche.
Spunti di riflessione non sono per questo del tutto assenti – dall’accennato machismo della squadra di soccorso alla totale impotenza della famiglia davanti all’invasione nemica – ma diventano di fatto secondarie all’interno di un discorso con intenti diversi.
Eppure, davanti ad un regista di un’opera come Civil War (2024) e a prodotti che sono stati capaci di rappresentare il racconto del lato umano dell’eroe americano – da Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) fino alle sperimentazioni del nuovo millennio di 1917 (2019)…
…sorge in chi scrive una genuina perplessità davanti ad un’opera complessivamente piuttosto lodevole – ma, visti i nomi coinvolti, non ci si poteva aspettare niente di meno – ma che racchiude al suo interno un potenziale che, visto il pregresso del genere, risulta quasi sprecato nel panorama contemporaneo.
1945, Giappone. Un gruppo di marines appena arruolati si imbarca nell’importante missione di conquista di Iwo Jima. Ma la realtà del fronte è molto meno eroica di quanto potessero pensare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Flags of our fathers?
Assolutamente sì.
Se Lettere da Iwo Jima era un interessante spaccato sul valore della guerra per la parte nipponica, Flags of our fathers è una riflessione quanto mai lucida sul concetto fittizio di eroismostatunitense, mettendo in discussione la propaganda bellica che infestò la società statunitense per tutto il Novecento – e oltre.
E la narrazione visiva di Eastwood è precisa e puntuale, rendendo anche registicamente i temi affrontati e non caricando mai eccessivamente la scena di facile pathos, ma raccontando i momenti salienti con grande abilità e consapevolezza.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Indizi
La guerra è eroismo…
…oppure no?
Nel loro avvicinarsi al campo di battaglia, i giovani protagonisti cominciano ad allontanarsi dal sogno fittizio dell’eroismo sul campo di battaglia, come si vede nella graduale consapevolezza che li assale quando vedono uno dei loro compagni crollare in acqua:
So much for “No man left behind”.
E poi dicono “Nessuno viene lasciato indietro”.
Questa prima realizzazione li accompagna anche nello sbarco, quando si approcciano su un panorama apparentemente tranquillo, ma che in un istante si trasforma in una baraonda incontrollabile, in cui basta un attimo per passare da futuro eroe a cadavere cannibalizzato dalla propaganda.
E in questo frangente Eastwood brilla particolarmente con una regia dinamica e tridimensionale, che riesce ad abbracciare la scena da ogni punto di vista, raccontando semplicemente un gruppo di giovani che uno dopo l’altro, crollano a terra senza una parola.
In altre parole, delle pedine assolutamente sacrificabili…
…o facilmente vendibili.
Brandello
La bandiera protagonista della storia ha diversi significati.
Di fatto i media strappano da una realtà ben più complessa e dolorosa un brandello del tutto insignificante, vendendolo come la summa dell’esperienza al fronte e dell’impegno dei nostri ragazzi sul campo per tenere alto l’onore della patria.
O, in altro modo, vendendo quello che gli Stati Uniti vorrebbero.
La Seconda Grande Guerra fu un punto di partenza fondamentale per gli States nello scacchiere internazionale, portandoli ad essere protagonisti di diversi conflitti del tutto disinteressati, in realtà funzionali a cementificare il proprio potere militare su scala mondiale.
Per questo quella foto è così significativa: rappresenta il vero obbiettivo dell’intervento statunitense nel conflitto, ovvero riuscire ad imporre la propria importante presenza in una terra che non era la loro, con una bandiera progressivamente sempre più ingombrante e spettacolare…
…ignorando tutto il resto.
Spazio
La bandiera soffoca tutto il resto.
La comprensione dell’importanza simbolica della foto protagonista del film è raccontata fin da subito, quando la prima bandiera, troppo piccola e insignificante, viene presto sostituita da una più importante, che si ingrandisce sempre di pari passo alla progressione della storia…
…finendo per soffocare, con i suoi colori vivaci e chiassosi, l’individualità dei suoi stessi portatori.
Un elemento che si nota in particolare nella composizione delle figure umane fotografate: le stesse perdono progressivamente sempre di più colore – come già il fronte è caratterizzato da una fotografia desaturata – fino ad essere sigillate all’interno di un biancore candido della una statua celebrativa…
…ed, infatti uno dei suoi protagonisti fa notare che, se avesse saputo che la foto avrebbe avuto tutta quella importanza, si sarebbe mostrato in volto, e non di spalle.
E questa è la chiave per la comprensione del concetto cardine del film.
Eroe
Gli Stati Uniti hanno bisogno di eroi vuoti.
Infatti, più è sfumata l’identità di queste figure, tanto è più facile utilizzarla per scopi politici, tanto è più facile attribuire meriti inesistenti per riempire il vuoto lasciato dai soldati morti sotto quella stessa bandiera, e, infine, tanto è più facile per il pubblico riconoscersi in quegli eroi.
In una società dominata dall’individualismo più sfrenato, la guerra diventa la promessa di affermazione personale, una possibilità nelle mani di chiunque abbia il coraggio di abbracciare un fucile, e così questi presunti eroi diventano uno spauracchio per ingrossare ancora di più le fila dell’esercito.
Eppure, loro stessi non si sentono eroi.
Una volta lasciatasi alle spalle la propaganda, le false promesse e un’idea di guerra fittizia, il fronte si concretizza in tutta la sua brutalità e immediatezza: non una lotta per la patria, ma una lotta per la sopravvivenza di sé stessi e dei propri compagni.
Insomma, i giovani protagonisti vivono un dramma ulteriore: non solo la tragica impotenza davanti ad un futuro definito dalla pura casualità, ma anche il peso delle aspettative che la società ha nei loro confronti, ma che non si sentono di poter realisticamente soddisfare.
Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All’ovest niente di nuovo, è la più nota trasposizione dell’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque.
A fronte di un budget di 1.3 milioni (circa 24 oggi), è stato un ottimo successo commerciale:3.1 milioni in tutto il mondo (circa 56 milioni di dollari oggi).
Di cosa parla Niente di nuovo sul fronte occidentale?
Germania, 1916. Alle porte della Grande Guerra, un gruppo di giovani studenti è spronato a farsi avanti per il proprio paese. Ma la realtà del fronte è molto meno eroica di quanto promessa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Niente di nuovo sul fronte occidentale?
Assolutamente sì.
Anche se avete visto la versione del 2022, questa trasposizione è un’esperienza completamente diversa: in un’ottica a suo modo più ingenua, il film del 1930 riesce a tratteggiare una quotidianità che alterna il comico e il drammatico, con punte quasi grottesche.
Più che un film, uno spaccato di un nascente sentimento anti-bellico, che cercava di evadere la retorica nazionalista ed eroica della guerra, proprio quando questa si stava prepotentemente per ripresentare con il secondo grande conflitto del Novecento.
Insomma, da non perdere.
Sogno
Niente di nuovo sul fronte occidentale si apre un sogno.
Il paese è in festa per una nuova occasione di dimostrare il proprio valore e il proprio eroismo, con i cittadini semplicemente entusiasti per una tale prospettiva, mentre gradualmente la visione si sposta verso una classe apparentemente impegnata in una lezione di greco…
…in realtà presto rivelata come anch’essa parte dell’entusiasmo generale, con il professore che induce nelle menti dei giovanissimi studenti un sogno del tutto fittizio, ma che riesce infine a convincerli ad arruolarsi, forti degli orizzonti di gloriapromessi.
Ed è tanto più straziante vederli inseguire questo sogno impossibile quando affermano che in poco tempo saranno coperti di medaglie…
…quando in realtà il più grande regalo del fronte sarà un cambio di prospettiva.
Priorità
Il fronte è un mondo a parte.
I giovani volontari entrano nel microcosmo della trincea forti di capisaldi di una quotidianità civile che non valgono più nulla in un panorama cui il primario obbiettivo di ogni individuo è la semplice sopravvivenza, che sia sul campo di battaglia o nel nutrimento quotidiano.
Infatti presto i giovani protagonisti dovranno fare i conti con una routine in cui la sazietà è messa al bando, in cui un pasto effettivo diventa quasi una concessione, una breve quanto preziosa pausa da un fronte in cui il combattimento non sembra mai cessare.
E in questo contesto anche l’individuo è annullato.
Niente di nuovo sul fronte occidentale ci tiene particolarmente a mostrarci una guerra di uomini e non di paesi, in cui figure dall’appartenenza politica indistinguibile si scontrano crudelmente per la reciproca sopravvivenza.
E così un amico non è più un amico, ma un cadavere troppo pesante, troppo rischioso da portare in salvo, un paio di stivali nuovi non sono un semplice pezzo di abbigliamento, ma una piccola gioia temporanea da sottrarre al cadavere del malcapitato proprietario.
E, infatti, la prospettiva del fronte non è univoca.
Genuino
A differenza della più recente trasposizione, la versione del 1930 non ha una precisa finalità.
Se infatti il film di Edward Berger voleva programmaticamente – e comprensibilmente – spogliare il mito della guerra eroica e svelarne invece gli orrori, questa prima versione cinematografica desiderava semplicemente tratteggiare un fronte di gioie e dolori.
Così accanto a momenti veramente strazianti della trincea, fra la sostanzialmente perdita di senno dei soldati che vivono per giorni sotto al fuoco incrociato e che cercano disperatamente di mantenere in vita il loro compagno, si alternano scene di più semplice quotidianità.
La pellicola anzi non si risparmia nell’utilizzare dei toni più tipici della commedia, per raccontare momenti di leggerezza, che, inseriti all’interno di un contesto così tragico, risultano in realtà destabilizzanti nel mostrare una quotidianità dettata dalla mera sopravvivenza…
…in cui l’individuo non può concedersi neanche per un momento di abbassare la guardia.
Saigon, 1965. Adrian Cronauer è la nuova voce della radio locale dell’esercito americano. Ma non è proprio il tipo di persona da lasciarsi minacciare dall’autorità…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Good Morning, Vietnam?
In generale, sì.
Good Morning, Vietnam ricorda per molti versi il poco successivo L’attimo fuggente (1989): Robin Williams diede il meglio di sé nel ruolo di voce fuori dal coro che sbaraglia le carte in tavola in un contesto rigido e stringente, venendo per questo osteggiato dalle autorità in carica.
La narrazione circa la Guerra in Vietnam ovviamente non raggiunge i picchi di Vittime di guerra (1989), ma riesce comunque a puntellare un film sostanzialmente comico di momenti piuttosto drammatici e rivelatori sulla mala condotta statunitense durante il conflitto.
Insomma, un’opera meno conosciuta di questo magnetico interprete, ma che merita di essere riscoperta.
Presenza
Adrian Cronauer è fin da subito un personaggio fuori dagli schemi.
Introdotto dal neutro bollettino della radio locale, il protagonista sfida subito le autorità locali, dimostrandosi del tutto indifferente davanti alle velate minacce e al tentativo di imbrigliarlo all’interno di un sistema molto fragile e perfettamente calibrato.
E, infatti, fin dalla sua prima apparizione, dimostra di essere una minaccia.
Cronauer non ha infatti alcun rispetto nei confronti dei maldestri tentativi del suo esercito di mantenere una certa facciata, ed esplode in un’irresistibile sequela di siparietti comici e irriverenti, conquistando il cuore dei militari in un’inarrestabile popolarità.
Ma questo suo essere fuori dagli schemi si riflette molto anche nei suoi rapporti con la popolazione locale.
Consapevolezza
Il protagonista non ha consapevolezza del conflitto e delle sue regole non scritte.
Cronauer si scontra infatti continuamente col feroce razzismo che domina il panorama politico, ma a cui si contrappone sia indirettamente – intrecciando sinceri rapporti con la popolazione locale – sia direttamente – prendendo di petto le ingiustizie, pure a costo di scatenare una rissa.
E, più in generale, il suo comportamento è ben diverso dal resto dei suoi conterranei anche per come affronta l’educazione dei vietnamiti, non limitandosi ad un’istruzione di base, ma fornendo ai suoi nuovi amici degli strumenti effettivi per affrontare la scomoda presenza straniera.
In maniera invece ben più irriverente, la sua posizione ribelle è ben raccontata dalla scelta di diffondere ufficiosamente una delle più tristi e recenti realtà del conflitto – l’attentato al bar – proprio a risvegliare le coscienze di un esercito che vive di un sogno filtrato dalle comunicazioni ufficiali.
Ma quindi cosa vuole davvero raccontarci Good Morning, Vietnam?
Speranza
Pur nella sua semplicità,Good Morning, Vietnam è un racconto di speranza.
La pellicola non vuole né semplificare né attenuare la gravità del conflitto, ma anzi la vuole sottolineare proprio affiancando ad una piacevole comicità pochi momenti struggenti e significativi, come a rappresentare il sogno fittizio di pace venduto agli statunitensi che viene facilmente svelato.
E lo fa anche e soprattutto nel rappresentare i rapporti impossibili fra Cronauer e la popolazione locale: come una possibile relazione con Trinh è scoraggiata fin dall’inizio, anche la stessa amicizia con Tuan sembra minata dal profondo risentimento del giovane ragazzo verso la insopportabile presenza straniera.
Eppure, nonostante lo scoraggiamento temporaneo, il protagonista rimane fino all’ultimo una voce libera e irriverente, capace persino di sbeffeggiare il suo stesso presidente, rappresentazione, a più di dieci anni di distanza, della risposta di un paese affranto da una guerra bugiarda.
Land of mine (2014) di Martin Zandvliet è un dramma storico che racconta un capitolo piuttosto buio del secondo dopoguerra europeo.
A fronte di un budget piccolino – circa 6 milioni di dollari – nonostante la candidatura agli Oscar come Miglior film straniero, fu un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.
Di cosa parla Land of mine?
Danimarca, 1945. Dopo la resa della Germania, un gruppo di prigionieri di guerra tedeschi viene incaricato di ripulire le spiagge danesi dalle mine antiuomo nascoste sotto la sabbia. Ed è solo lo spunto per una riflessione ben più ampia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Land of mine?
Assolutamente sì.
Land of mine si inserisce in quel tipo di produzioni assolutamente necessarie, riuscendo a riflettere lucidamente su tematiche storiche spesso banalizzate e raccontate faziosamente, affiancandosi invece ad ottimi titoli come La caduta (2004) e Vittime di guerra (1989).
Resta per questo un film estremamente crudele, che, per quanto cerchi di mantenere un sguardo tutto sommato positivo e speranzoso sul futuro, non manca di includere non poche scene che lasciano poco spazio all’immaginazione…
Terra
Il sergente Rasmussen è il punto di partenza.
Basta la primissima sequenza per inquadrare sia il suo personaggio, sia, più in generale il risentimento che dominava il pensiero comune della Danimarca (e non solo): un odio cieco verso qualunque rappresentante di una Germania ormai sconfitta e inerme…
…ma che era stata per un intero lustro promotrice di una guerra destabilizzante e distruttiva.
E, se il vero nemico è irraggiungibile, non resta che prendersela con quello che resta.
Anche se quello che resta non è altro che un pugno di giovani che hanno buttato via la loro giovinezza per le aspirazioni di potere di qualcun altro, e che ora vivono nell’ansia perpetua di dover contribuire alla rinascita di una patria totalmente annichilita.
E, proprio per questo, vanno puniti.
Punizione
I tedeschi non sono più umani.
Sono strumenti.
Strumenti di un percorso di vendetta e, in qualche modo, di catarsi: liberare l’Europa della loro scomoda e odiosa presenza, ripulire ogni traccia della loro colpa, anche a costo di essere coinvolti in un’operazione ancora più assurda e mortale della stessa guerra che hanno appena combattuto.
Per questo non c’è alcun tipo di pietà e di compassione verso questi ragazzini poco più che adolescenti, che possono essere lasciati morire – con una mina in mano o con la pancia vuota – che possono umiliati come le bestie che sono.
Perché questi personaggi si trovano in una zona grigia, in un momento della storia in cui tutto è permesso, dove basta nominare il loro paese d’origine e gli ultimi dieci anni per scusare ogni tipo di azione, di punizione, di disumanizzazione.
E, quando tutto è permesso, siamo solo noi a decidere cosa vogliamo essere.
Ricominciare
Da dove vogliamo ricominciare?
Il percorso di consapevolezza di Rasmussen attraversa vie tortuose e contraddittorie, in cui il personaggio si rende progressivamente conto di come questi innocenti ragazzi siano diventati la valvola di sfogo di un continente stremato e accecato dal desiderio di vendetta.
Perché, anche se li vuole vedere come i colpevoli, come i fautori di una distruzione imperdonabile, in realtà gradualmente i suoi nemici si rivelano per quello che sono: compagni leali, indifesi e pieni di sogni, che possono davvero essere il punto di partenza di una indispensabile riappacificazione fra popoli.
Ma la maggiore consapevolezza è anche di come questi animi gentili possano essere schiacciati e annientati, come la storia si possa in qualche modo ripetere a parti alterne, in cui il nemico diventa la vittima, arrivando ad punto di esasperazione tale da scegliere la strada dell’autodistruzione.
Per questo Land of mine sceglie di lasciarci infine con una nota di speranza, di allungare l’occhio verso un futuro, un presente più consapevole.
Civil War (2024) è forse l’ultimo (?) film di Alex Garland, che porta in scena la sua nuova zampata nei confronti degli Stati Uniti e delle sue contraddizioni.
In futuro prossimo e molto possibile, un gruppo di giornalisti attraversa gli Stati Uniti devastati dalla guerra civile per raggiungere Washington prima che il Presidente venga assassinato…
Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo perché fa sembrare il film come quello che non è…
Vale la pena di vedere Civil War?
Assolutamente sì.
Civil War rappresenta una sorta di controparte contemporanea di La zona d’interesse(2023): Garland ci racconta un futuro purtroppo molto meno lontano di quello che si potrebbe pensare, prendendo come spunto l’Assalto al Campidoglio del 2021.
Ne deriva un ritratto degli Stati Uniti veramente anomaloper il cinema americano, in cui paradossalmente si concretizza il più grande sogno che ogni bravo statunitense porta nel cuore: ribellarsi al potere costituito grazie alle armi che lo stesso gli ha permesso di imbracciare.
Insomma, da riscoprire.
Ruolo
La colonna portante di Civil War è fin da subito drammaticamente rivelata.
Dopo aver liquidato distrattamente le parole dell’ormai inutile Presidente, in un attimo la protagonista, Lee, volge la sua attenzione al vero focus del suo lavoro: catturare momenti di reale e vendibile violenza per nutrire il suo pubblico.
Infatti dal suo lato della barricata si sviluppa il primo polo estremo degli Stati Uniti: un’attenzione maniacale, continua e sempre affamata di nuova, succosa e sanguinosa violenza da divorare, sempre più efferata e disumana finché…
…finché non ci lascia indifferenti.
E Lee è profondamente indifferente.
Dopo aver vissuto in prima persona una galleria piuttosto nutrita di brutalità, non ha più alcuna remore a cogliere i momenti in cui le armi vengono puntate, le interiora emergono, le teste scoppiano e i denti volano, protagonisti di scatti indimenticabili…
Ma la sua strada deve essere solitaria.
Eredità
Lee non vuole che Jessie la segua.
E in nessuno modo.
La ragazzina vorrebbe ripercorrere le orme del suo idolo: riuscire ad approfittare di ogni situazione, anche – e sopratutto – la più sconvolgente ed emotivamente devastante per portare a casa quelle fotografie che nessun altro sarebbe capace di scattare.
Ma purtroppoJessie non riesce ad essere indifferente, anzi spesso si lascia ancora profondamente sconvolgere dalle immagini degli Stati Uniti che divorano se stessi, che si sentono legittimati ad essere protagonisti di quella violenza sopita, ma sempre presente, che finalmente trova il suo sfogo.
Ma l’alternativa è essere un cane sciolto.
Fin dalla sua prima scesa in campo, Jessie è spesso tenuta al guinzaglio, ora da Joel, ora da Lee, che cercano di stringerla a sé per impedirle di farsi troppo trasportare dal momento, di avvicinarsi troppo a quella violenza di cui vuole essere solo spettatrice…
…ma di cui invece diventa inevitabilmente protagonista: il primo passo falso è il passaggio da una macchina all’altra, inizialmente assolutamente innocuo, anzi molto divertito, ma, che attraverso un drammatico climax, porta la protagonista prona su una pila di cadaveri.
Ma quel devastante risveglio non è abbastanza.
E non solo per lei.
Sentimento
Gli Stati Uniti hanno scelto da che parte stare.
Da una parte si sviluppa una escalation di violenza, sia indiretta che direttissima: si passa da un pubblico affamato di conoscere i dettagli più raccapriccianti della vicenda, per arrivare ad una radicalizzazione di sentimenti già profondamente radicati e difficili da scalzare.
Infatti, oltre al semplice emergere della violenza sopita, molti statunitensi hanno finalmente l’occasione per dare sfogo ai più disparati sentimenti di odio razziale – e non solo – che ben sono rappresentati nella scena con protagonista Jesse Plemons, che elimina sistematicamente dalla sua vista chiunque non sia un vero nordamericano.
Altrimenti si può essere solo – e davvero – indifferenti.
Più volte nei loro racconti sia Jessie che Lee raccontano – e si distinguono – i loro genitori, che hanno scelto un placido isolamento nelle loro fattorie, immersi nella loro indifferenza e nellaloro totale ignoranza del presente.
Un sentimento che è ancora più esacerbato nella ridente cittadina in cui i protagonisti si concedono una pausa, dove i suoi abitanti hanno programmaticamente scelto di non far parte del conflitto…nondimeno ricorrendo alla violenza per chiunque voglia turbare il loro equilibrio.
Sfuggire dalla violenza, insomma, è ormai impossibile.
Dopo
Il finale si definisce negli opposti.
Nonostante la sua morale ferrea, Lee è stata troppo brutalmente messa davanti ad una violenza che non può più derubricare come estranea, e crolla momentaneamente in un doloroso attacco di panico, sentendosi intrappolata in un vortice di brutalità senza via d’uscita.
Al contrario, il dolore dell’essere messa ripetutamente in faccia alla morte, sembra accendere l’entusiasmo di Jessie, che si sente sempre più sicura, sempre più audace e sfacciata nel mettersi nel mezzo del fuoco incrociato per catturare i momenti migliori.
E Lee cerca di salvarla.
Ma non dalla morte.
La donna cerca di salvare la ragazzina dal suo diventare come lei – se non peggio: una reporter interessata solamente all’ultimo scatto sensazionalistico, del tutto indifferente, anzi fin troppo entusiasta, davanti alla possibilità di partecipare e documentare la distruzione del suo stesso paese.
E infatti nel finale assistiamo all’ultimo capitolo dell’autodistruzione degli Stati Uniti, ormai guidati da una furia cieca che li porta a lasciare da parte ogni sentimento, ogni rimorso, ogni logica per fare semplicemente fuoco sul nemico.
Ma arriverá mai il momento di mettere via le armi?
Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.
A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.
Di cosa parla Jojo Rabbit?
Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?
Assolutamente sì.
Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:
con una risata.
Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.
Coniglio
Jojo è figlio del nazismo.
Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.
Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.
In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.
Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…
E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.
Padre
Hitler è una figura paterna.
Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.
Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.
A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.
Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.
Adulto
Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.
La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.
Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.
Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.
Sorella
Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…
…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.
La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.
Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.
Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.
Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.
Alleato
Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.
L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.
La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.
Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.
La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.
Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.
Nemico
Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.
Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.
Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.
Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…
…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.
Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.
La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.
La pellicola è una riscrittura piuttosto fantasiosa della vera storia dei Fratelli Niland, concentrandosi sul salvataggio dell’ultimo fratello rimasto.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Salvate il soldato Ryan?
Dipende.
A me personalmente questa pellicola ha profondamente infastidito, in quanto è ubriaca di una mentalità tutta statunitense – la guerra degli eroi, l’idea di star combattendo per liberare il mondo… – che non posso sopportare.
Come se non bastasse, il film manca di una qualsiasi riflessione sul tema.
E, dal momento che in quegli anni uscirono ripensamenti splendidi come La sottile linea rossa (1998) e Vittime di guerra (1989), per quanto mi riguarda è una mancanza difficilmente perdonabile.
Ma se cercate un classico film statunitense sulla guerra, è il prodotto per voi.
Alcune avvertenze buone un po’ per tutti.
Sia per chi vuole rileggere il film, sia per chi è allergico (come me) ad un certo tipo di prodotto.
Anzitutto, la storia è totalmente romanzata: sostanzialmente niente di quello che viene raccontato è reale, si ispira solo molto vagamente ad un fatto storico (un soldato che venne congedato grazie ad una legge speciale).
I personaggi non sono personaggi, ma perlopiù vettori per il messaggio del film, confezionato ad uso e consumo del pubblico statunitense. E non è un caso che lo sceneggiatore, Robert Rodat, abbia scritto sostanzialmente solo film di questo tipo…
Si nota una differenza sostanziale fra le morti dei personaggi statunitensi – unici protagonisti della scena – e le morti dei nemici: la maggior parte dei personaggi principali muore in una scena strappalacrime e coinvolgente.
Al contrario, sostanzialmente tutte le morti dei tedeschi sono veloci e spersonalizzate, seguendo una tecnica in realtà molto tipica del cinema bellico statunitense commerciale – vedasi Top Gun Maverick(2022) – in cui il nemico viene derubato di una propria umanità ed identità, diventando solamente il male da sconfiggere.
La valenza storica e riflessiva del film è sostanzialmente nulla: non solo, come detto sopra, la storia è totalmente inventata, ma la pellicola è infarcita di dialoghi che vogliono sembrare importanti e pensati…
…quando in realtà non è che un continuo ripetere concetti a tratti anche piuttosto disturbanti sulla guerra, sulla gloria e sul salvare il mondo dal male – ovvero i nazisti, una carta piuttosto facile da utilizzare e dietro cui nascondere tutto il resto.
Sopratutto sul finale.
Per concludere, una galleria di manifesti molto veri dell’epoca:
Sensazionalismo
La sequenza di combattimento iniziale vorrebbe essere incredibilmente scioccante…
…e per me non è nient’altro che questo.
Questa narrazione così dolorosa e intensa non mi è parsa altro che la rappresentazione di una costante della pellicola: il continuo tentativo di sconvolgere e, soprattutto, di strappare la lacrima facile allo spettatore, sviscerando il più possibile il dolore dei personaggi.
Tuttavia, cos’altro posso trarre da suddetta sequenza?
Un incipit che manca totalmente di un retroterra riflessivo, addirittura di una qualunque introduzione dei personaggi che mi faccia empatizzare con loro, rendendoli delle mere vittime di un bagno di sangue in cui lo spettatore statunitense vede i suoi ragazzi sacrificarsi per la patria comune.
E, anche senza andare a scomodare la ben più efficace scena analoga de La sottile linea rossa, anche solo ricordando il più semplice Niente di nuovo sul fronte occidentale(2022), io in questa scena vedo solamente dei giovani pieni di sogni resi carne da macello per il primo capitolo della virtuosa liberazione del mondo statunitense.
Famiglia
La famiglia è il nucleo emotivo di Salvate il soldato Ryan.
Il senso stesso della storia – ricordiamolo, del tutto inventata – è quello di conservare una famiglia americana che altrimenti sarebbe del tutto distrutta dalla guerra, come una sorta di favore che lo stato concede ad una madre che ha già sacrificato tre figli sull’altare della libertà.
Di fatto la pellicola ingentilisce una legge effettivamente esistente, la Sole Survivor Policy, promulgata a seguito della disastrosa vicenda dei Fratelli Sullivan, e a cui il cappellano Francis Sampson si appellò per far rimpatriare l’ultimo dei fratelli Niland – il soldato James Francis Ryan nel film.
Così il film regala smaccatamente al governo statunitense un merito immeritato, inventandosi una storia poco credibile, unicamente per portare avanti l’idea della bontà dell’operazione bellica, tanto da rendere il Generale Marshall un padre generoso che riporta alla madre l’ultimo dei figli che è riuscito a non mandare al macello.
La famiglia è anche presente nella scena in cui i soldati salvano una bambina dal campo di guerra, momento che ha ben poco significato nell’economia narrativa del film, ma che serve ad aggiungere un ulteriore elemento di emotività in una scena che già di per sé vorrebbe essere piuttosto toccante.
Oltretutto, la madre è richiamata in più momenti della pellicola nelle ultime parole dei vari soldati caduti in combattimento, volendoli proprio rendere il più possibile i figli del pubblico stesso…
… ma mancando ancora una volta di una seria riflessione riguardo alle dinamiche del fronte e dei giovani ingannati da una propaganda pensata unicamente per motivi politici.
E non è neanche la parte peggiore.
Merito
L’elemento a mio parere più genuinamente agghiacciante è il concetto del merito.
Il capitano Miller afferma chiaramente che il salvataggio di Ryan è il suo modo per meritarsi di tornare a casa, come a dire che, senza un sacrificio che determini il valore del singolo, questo non si meriti effettivamente di uscire da questo incubo, questo impegno che si è preso verso la propria patria benevola e verso il mondo intero.
In questa specifica circostanza storica – a differenza degli eventi bellici successivi – risulta in effetti incredibilmente semplice prendersi dei meriti per aver salvato il mondo, soprattutto giocandosi la carta sempreverde della lotta contro il nazismo…
…nonostante ridurre le intenzioni statunitensi solamente a quello – soprattutto avendo in mente il come hanno concluso la guerra – è incredibilmente naif.
Così vediamo i soldati venire progressivamente macellati, con una pellicola che tocca solo superficialmente il concetto di umanità che, in determinate circostanze, gli permette di evitare di ammazzare altri uomini solo perché con una divisa di un altro colore, senza mostrare mai l’effettivo dramma del fronte e senza di fatto mai rifletterci con onestà.
E, allo stesso modo, il Capitano Miller è solo l’ultima vittima che muore per Ryan, il quale, in un senso più generale, può essere letto come gli Stati Uniti stessi osservano pensosi i loro morti, chiedendosi infine nelle lacrime, se la loro morte è servita a qualcosa, se si sono meritati questa tragedia umana e se hanno vissuto una vita onestae che meritava di essere salvata.
1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere 1917?
Assolutamente sì.
1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.
Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.
Insomma, da non perdere.
Il risveglio
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)
L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.
Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.
Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.
Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.
Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.
Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.
Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.
Il limbo
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)
La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.
In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.
Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.
Lo stesso paesaggio è illusorio.
I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.
Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli…
E infatti…
Fervore
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)
Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.
Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.
Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.
La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.
Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.
Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:
Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?
Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?
La Genna
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)
Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da solo – Will si trova da solo nelprimo effettivo fronte…
…o il primo effettivo inferno.
E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)
Tenebra e fuoco.
Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.
A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…
La quiete
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)
L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.
La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad uninferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…
…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.
E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)
In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.
Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.
Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…
La corsa
È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.
Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.
Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)
Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.
La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.
Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…
City of life and death (2009) di Lu Chuan è un film di produzione cinese che racconta, con un taglio il più possibile imparziale e asciutto, il dramma del cosiddetto Massacro di Nanchino.
Sullo sfondo della tragedia di Nanchino, diversi personaggi si avvicendano sullo schermo con i loro drammi personali e collettivi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere City of life and Death?
Assolutamente sì.
Ma.
City of life and death è un’opera davvero di grande valore, che non solo racconta una delle vicende più agghiaccianti della storia del Novecento, ma sceglie di farlo con un taglio quasi documentaristico, preciso, e che non mostra più del necessario…
…ma che quel poco che mostra basta per raccontare dinamiche davvero difficili da digerire, e che probabilmente non tutti sono pronti ad affrontare, per quanto sia un prodotto che vale assolutamente la visione.
Insomma, vi ho avvertito.
City of life and death realtà
A cura di Carmelo.
Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.
Il Massacro di Nanchino, conosciuto anche come Stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese a Nanchino, all’inizio della seconda guerra sino-giapponese.
La città, in quel periodo capitale della Repubblica di Cina, era caduta in mano all’Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e per circa sei settimane, tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938, i soldati giapponesi uccisero circa 300.000 persone.
Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.
L’impossibilità della ragione
Fin dal suo incipit, in City of life and death sembra rimbombare la domanda fondamentale de La sottile linea rossa (1998):
This great evil…where’s it come from?
Questo grande male…da dove viene?
Eppure inizialmente in scena vediamo quello che forse è il minore dei mali dello Stupro di Nanchino: un’uccisione sistematica della popolazione cinese, portata avanti sulle prime da un’idea dell’annientamento sistematico del nemico.
La radice di questo grande male può infatti facilmente essere ritrovata all’interno del pensiero e della propaganda anti-cinese tipica di quegli anni in Giappone – un sentimento che non si è ancora del tutto spento – che rendeva del tutto normali certi tipi di azioni.
Un’eliminazione quasi meccanica, fredda, dettata unicamente dal dovere di proteggere la propria nazione dal nemico…
Ma la situazione diventa sempre più incomprensibile più ci si addentra nell’esplosione di violenza incontrollata, fino al punto in cui i soldati giapponesi penetrano negli ospedali improvvisati dei rifugiati per sparare in testa a civili indifesi…
E questo è solo il preludio di un atto ancora più incomprensibile.
Lo stupro sistematico.
Il male comune
C’è stato qualcuno che ha scritto: «L’inferno è l’impossibilità della ragione». Questo posto è così, è l’inferno.
Alle donne non basta privarsi del loro essere donne per poter non essere violate costantemente, così come agli uomini non basta fingere di non essere soldati per salvarsi come prigionieri civili: non esiste più la ragione, la razionalità.
L’unico elemento che rimane è la comunità.
E con due significati.
La comunità è quella che un pugno di donne, già ripetutamente violate e che hanno davanti agli occhi nient’altro che disperazione, miseria e lo stupro sistematico dei loro concittadini, scelgono di salvare.
Così, nella devastante sequenza dello stupro di gruppo, questi corpi ormai senza dignità – e, infine, anche senza vita – vengono sistematicamente violati, umiliati, distrutti, quasi a simboleggiare l’agghiacciante stupro che è calato sulla città stessa.
Ma il senso di comunità è anche quello che giustifica non un mero stupro, ma una costante violazione della vita e della dignità di altri esseri umani, una costante umiliazione e una violenza fuori controllo…
Perché, oltre al sentimento di comune disprezzo verso una razza inferiore, quello che muove le azioni dei soldati giapponesi è un senso diliberazione dalla colpa: se tutti sono colpevoli, se tutti stanno perpetrando lo stesso crimine, nessuno è davvero colpevole.
E allora cosa rimane?
Vita e morte
Life is more difficult than death
La vita è molto più ardua della morte
L’unico barlume di ragione dal lato giapponese è il personaggio di Kadokawa: il soldato cerca di ritrovare un qualche parvenza di normalità nel suo attaccamento a Yuriko, con cui spera di condividere qualcosa di più del semplice sesso.
Un amore e, forse, un matrimonio.
Ma la sua ricerca di un mondo razionale è costantemente contrastata da una realtà totalmente irrazionale, di cui fa inevitabilmente parte, e della cui colpa non può privarsi davanti al giudizio della Storia.
Per questo il finale si fonda su un tragico quanto potente contrasto.
Il soldato giapponese sceglie di togliersi la vita, ormai incapace di portarla avanti, tale è la colpa, tale è l’orrore che ha dovuto vedere e compiere, che non gli permetterebbe mai più di tornare ad una vita altra.
Ma la sua morte rappresenta anche la liberazione dei due prigionieri cinesi, in particolare il bambino, che corre spensierato con dei fiori fra i capelli, simbolo della profonda speranza, del profondo sentimento di rinascita che deve accompagnare un orrore che l’aveva ormai spenta.
Così, anche dal cadavere di Kadokawa, dalle rovine di Nanchino, potranno nascere nuovi boccioli.