Giappone, XI sec. Sullo sfondo di una tragica guerra fra clan, due ragazzi estremamente sfortunati saranno capaci di dare nuova linfa al panorama musicale del loro paese…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Inu-oh?
Assolutamente sì.
Inu-oh è una di quelle perle cinematografiche sostanzialmente sconosciute tranne agli appassionati, capace di distinguersi in maniera significativa dal resto del panorama del genere anime sia per lo stile visivo che per il taglio narrativo scelto.
Il primo atto di Inu-oh è un enigmatico intarsio narrativo.
La panoramica sulla scena politica e militare serve solo per darci un’infarinatura del mondo in cui si muovono i protagonisti, portando in scena momenti e personaggi apparentemente scollegati fra loro, accomunati da un taglio fantastico e misterioso insieme.
I due protagonisti sono infatti legati da un comune destino di sofferenza e di marginalizzazione, dovuto in entrambi casi all’avidità di personaggi terzi, che cercano di arricchirsi sulle loro pelle senza che loro neanche lo sappiano fino in fondo.
E, da questa maledizione comune, si sviluppano due temi fondamentali.
Memoria
La memoria è un elemento fondamentale in Inu-oh.
Infatti, nel contesto culturale in cui il sapere popolare è conservato nel ricordo della comunità, il più grande tesoro in realtà sono proprio le storie da raccontare e da tramandare, capaci di stupire un pubblico che ormai le ha dimenticate.
Per questo i suonatori biwa, i maggiori possessori di questo tesoro, sono due volte puniti: prima dalla tirannia dello shogun, che cerca di assoggettare questo patrimonio di parole ai propri bisogni politici, riducendo gli stessi a meri esecutori del suo potere…
…ma, soprattutto, sono vittime della spietata avidità del padre di Inu-oh, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per ottenere il totale controllo su questa inestimabile ricchezza, da utilizzare per sfidare lo stesso governo in carica in una disperata ricerca di popolarità.
E la memoria si intreccia perfettamente con il perno della vicenda.
Identità
L’identità è il cardine tematico di Inu-oh.
Entrambi i protagonisti sono accomunati da un’identità che li rende dei reietti sociali, ma si ritrovano proprio grazie alle loro comuni sfortune: Tomona è infatti l’unico che riesce a vedere la vera bellezza di Inu-oh, del tutto ignaro delle sua terribile deformazione.
La stessa si intreccia profondamente con le storie che i due scelgono di portare sul palco, che permettono gradualmente ad Inu-oh di liberarsi della sua maledizione, riacquistando ad ogni canzone un aspetto più umano…
…ad eccezione del volto.
Dal secondo atto sul palco si avvicendano una serie di maschere, da entrambe le parti: costretto a dover celare il suo aspetto, Inu-oh si nasconde ogni volta dietro ad una nuova faccia, fino ad arrivare allo svelamento del suo vero volto, quando però ormai questo è stato sanato dalla sua ultima canzone.
E lo stesso Tomona vive una ricerca dell’identità costante sia nell’aspetto che nel nome: il passaggio del tempo è infatti scandito, oltre che dalle maschere di Inu-oh, dal progressivo cambio di aspetto del protagonista, che passa da essere un anonimo biwa a vestire sembianze più prettamente femminili e teatrali.
Ma ancora più significativo è il cambio del nome: rimasto orfano, si sottomette prima al nominativo che lo rende succube dello shogun, per poi scegliere nuovamente di cambiarlo, allontanandosi dalla sua famiglia, e poi dal suo stesso amico da cui viene separato…
… finché il loro incontro non avviene a secoli di distanza, scandito dall’elemento che li aveva resi così affini:
Il film è stato distribuito limitatamente in poche sale prima di approdare in streaming su Apple TV Plus.
Di cosa parla The Tragedy of Macbeth?
L’opera di Joel Coen riprende passo passo l’opera shakespeariana, pur con qualche cambiamento per renderla appetibile al medium.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Tragedy of Macbeth?
Assolutamente sì.
Per quanto non sia un film di facile fruizione, The Tragedy of Macbeth è un’opera sublime sia dal punto di vista registico sia di trasposizione, che, pur tenendo fede al testo shakespeariano sostanzialmente alla lettera, non manca di qualche cambiamento piuttosto indovinato.
In questo senso raramente ho visto un’opera cinematografica che riesce a rendere così propria un testo tanto complesso, riuscendo a muoversi con agilità con una regia disegnata intorno alla storia e un adattamento consapevole e così riuscito.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Fedeltà
The Tragedy of Macbeth viaggia in due direzioni.
Da una parte, prendere l’opera shakespeariana e riportarne fedelmente le parole in scena, non volendo in alcun modo semplificare l’inglese poetico e arcaico, ricco di similitudini e metafore piuttosto ardite e non sempre immediate.
Dimostrazione che la prima opera da solista di Joel Coen è anche quella con cui potrebbe chiudere la sua carriera, tanta è la lucidità con cui è riuscito a portare in scena probabilmente il miglior Macbeth cinematografica del nuovo millennio.
Altrettanto suggestiva nel ricreare le atmosfere shakespeariane sono le scenografie, che fanno sembrare il film più un’opera teatrale che cinematografica, definita dai suoi spazi geometricamente perfetti, tagliati dalle lunghe ombre – fisiche e morali – che infestano gli spazi.
Ma, nondimeno, il regista si è preso le sue libertà.
Interpreti
Un altro elemento che rende The Tragedy of Macbeth più teatrale che cinematografica è la scelta degli interpreti.
Nel teatro è molto comune scegliere interpreti che non rispecchino per forza la fisionomia dei personaggi che portano in scena – quindi, includendo anche attori di etnie diverse da quelle canoniche – ma dare più che altro spazio alle capacità attoriali del singolo.
Proprio secondo questa idea, Joel Coen si è affidato alla bravura di un attore afroamericano, Danzel Washington, che è stato capace di portare in scena un climax caratteriale che parte da un Macbeth pensieroso prima dell’omicidio fino al turbato tiranno dell’ultimo atto.
E vi è un’intenzione precisa di includere attori anche più avanti con gli anni nella scelta della strepitosa Francis McDornan, che è riuscita a caricare della giusta drammaticità una delle figure più sanguinarie della letteratura europea, senza mai eccedere come altre prima di lei.
Ma non è l’unica differenza.
Adattare
Nonostante The Tragedy of Macbeth sia volutamente fedele all’opera originale, non manca di prendersi qualche libertà.
La più significativa è sicuramente le figure delle streghe, riunite in un unico personaggio che in vari modi si triplica – affiancata da altre figure dal volto sconosciuto, specchiandosi nell’acqua, o semplicemente dialogando con figure fuori scena.
Una parte così complessa affidata ad un’attrice che sembra nata per il ruolo, capace di portare in scena un personaggio al limite dell’umano, grottesco e incomprensibile, caricato di una particolare espressività che la rende sempre più enigmatica.
Altrettanto interessanti sono due momenti cardine dell’opera.
Anzitutto, l’arrivo del fantasma di Banquo, che nell’opera teatrale – anche per convenienza scenica – semplicemente si sedeva al posto di Macbeth al banchetto, mentre qui è un uccellaccio che il protagonista insegue convinto di vederci il suo vecchio amico.
Sempre seguendo la linea del sogno – e del delirio – Macbeth rincontra le streghe non davanti ad un calderone, ma in una stanza del palazzo che si riempie d’acqua, illudendolo con nuove profezie ed apparizioni.
Due scelte che raccontano molto bene la consapevolezza registica di non rimanere troppo vicino all’opera di partenza.
Ma c’è dell’altro.
Presagio
Una delle scelte più peculiari dell’opera di Joel Coen è la figura di Ross.
Come nell’opera shakespeariana era un personaggio contorno, non più che un messaggero, nel film appare come un sottile macchinatore, che intriga alle spalle di tutti, persino dello stesso Macbeth, diventando persino il misterioso terzo assassinodi Banquo.
Una scelta che caricare di un significato del tutto differente il finale: per Shakespeare la tragedia di Macbeth era una dolorosa parentesi a fronte di un futuro più felice sotto la dinastia discendente da Banquo – quella degli Stuart, al potere al tempo della pubblicazione dell’opera.
Al contrario, il fatto che Ross nasconda Fleance, il figlio di Banquo, per poi portarlo con sé verso orizzonti sconosciuti non rende il finale rassicurante, ma bensì inquietante, come andando a suggerire che un ulteriore inganno sta venendo tessuto nell’ombra…
…e un nuovo Macbeth potrebbe affacciarsi in futuro nella scena di Scozia.
Pochi anni dopo il primo film, Billy lavora per un’intraprendente multinazionale che, per vie traverse, viene in possesso di Gizmo. E la minaccia dei Gremlins è ancora più pressante…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Gremlins2?
Assolutamente sì.
Per quanto mi renda conto che questo secondo capitolo possa non essere nelle corde di tutti, al contempo è secondo me una visione irrinunciabile per godere di un Joe Dante in forma smagliante, che gioca con la sua creatura in maniera sempre più fantasiosa e improbabile.
Insomma, Gremlins 2 è stato, nel bene e nel male, un apripista per il più classico sequel Anni Novanta, che prende gli elementi del primo film e li esaspera all’inverosimile, in questo caso risultando però, nella sua follia, incredibilmente brillante.
Spaccato
Come per il primo film, anche in Gremlins 2 è presente l’elemento politico.
Di fatto la cornice della storia principale – ricordiamolo, dal taglio fantascientifico, quasi fantastico – è crudelmente reale, quasi satirica, ed inquadra perfettamente la grande corsa al capitale degli Stati Uniti degli Anni Ottanta e Novanta…
…in cui ogni dipendente, ogni ingranaggio deve sottostare precisamente allo schema aziendale, in cui ogni tipo di individualismo è immediatamente soppresso, ogni tentativo, anche il più innocuo, di non seguire il regolamento, è severamente punito.
E questo grottesco quadretto è chiuso proprio l’annuncio che segue il licenziamento del dipendente ribelle:
Casualità
Il film sa di dover ricreare il dramma del primo…
…ma deve essere quantomeno credibile.
In questo senso funziona bene la sequenza di eventi che conduce al rincontro fra Gizmo e Billy, e il motivo per cui il protagonista non può immediatamente portarlo con sé, mentre meno convincente è il modo in cui il mogwai finisce per bagnarsi.
Fra l’altro è piuttosto curioso come Gizmo venga relegato per gran parte del tempo fuori scena, limitato nel suo simpatico arco evolutivo sulle orme del suo eroe cinematografico – Rambo – venendo quasi subito messo ai margini dagli altri Gremlins e quasi dimenticato da Billy.
Infatti il vero protagonista della scena è la diversità.
Diversi
Joe Dante con Gremlins 2 vuole stupire lo spettatore – e sé stesso.
Per questo crea terreno fertile per sperimentazioni sempre più incredibili – il laboratorio – dove i suoi personaggi non sono semplicemente delle simpatiche varianti di Gizmo, ma bensì degli esperimenti mal riusciti via via sempre più assurdi.
Così vediamo il Gremlins a cui cresce la verdura addosso, quello che diventa un ragno, un femme fatale, un conduttore radiofonico, un pipistrello e via dicendo, tutti accomunati da una totale imprevedibilità e malvagità innata.
E, proprio perché in questo frangente il regista non ha più bisogno di far credere allo spettatore che i Gremlins nati da Gizmo siano uguali a lui, li distingue fin da subito con dei ghigni distorti e caratteristici al limite del grottesco.
Ed è proprio qui il punto di non ritorno.
Fine?
Gremlins 3 non può esistere.
Al di là dell’insuccesso economico che ha chiuso le porte ad un possibile continuo, Joe Dante è arrivato con Gremlins 2 a toccare degli apici creativi che lo pongono in una posizione di precario equilibrio fra il genio e il trash…
…e, con un terzo film, probabilmente sarebbe crollato in un insostenibile camp.
Perché, obbiettivamente, come si potrebbe superare in eleganza la scena metanarrativa in cui i Gremlins prendono possesso della pellicola bucando lo schermo, per poi essere rimessi al loro posto da niente poco di meno che Hulk Hogan…
…oltre alle diverse prese in giro che Joe Dante fa a sé stesso e al precedente film, accolto da entusiasmo ma anche feroci critiche da parte di genitori totalmente sconvolti dalla tremenda violenza in un film popolare anche fra i più piccoli?
Forse, per una volta, il flop commerciale è stato una fortuna…
Wicked (2024) di Jon M. Chu, più correttamente noto come Wicked: Parte I, è appunto la prima parte di una duologia tratta dall’omonimo musical.
A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 145 milioni di dollari – è già un successo commerciale:455 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Wicked?
La malvagia Strega dell’Ovest è sempre stata malvagia? O la storia è più complessa di come Il mago di Oz (1938) ci volesse far credere?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Wicked?
In generale, sì.
Per quanto abbia indubbiamente apprezzato Wicked, mi rendo conto che non sia un prodotto per tutti i palati: nonostante la parte musicale sia a mio parere gestita ottimamente, integrata in maniera molto naturale nella storia…
…al contempo rimane un musical che inciampa in piccole forzature ed ingenuità narrative, con una parte cantata fondamentale all’interno della narrazione stessa, che comunque è riuscita a incantare persino una non amante del genere come me.
Insomma, se fossi in voi gli darei una possibilità.
Fine?
L’inizio di Wicked è tanto più importante…
…proprio perché arriviamo alla fine.
Ricollegandosi direttamente al classico del 1938, l’attacco del film racconta la conclusione più classica della storia: la malvagia Strega dell’Ovest è stata uccisa e finalmente il regno può vivere in pace sotto le amorevoli cure della Strega dell’Est.
Ma, nonostante la gioia si diffonda in tutto il reame, nonostante la storia dominante si presenti con ben poche sfumature, una domanda dal pubblico diventa fondamentale per raccontare la vera storia dell’antagonista.
Ed è fondamentale avere già in mente il punto di arrivo sia per una dinamica molto classica del creare curiosità nella mente dello spettatore – che vuole ora scoprire come si è arrivati ad un finale tanto cruento…
…sia perché è necessario per il film giungere a conclusioni simili alla trama originale, ma con delle premesse ed un racconto ben diverso, che porti in scena le diverse sfumature di una storia altrimenti molto semplice e favolistica.
Ed è sempre su questi toni che si sviluppa anche il personaggio di Elphaba.
Mostro
Elphaba è un mostro.
E non viene mai messo in dubbio.
La sua nascita avviene sotto il segno dell’inganno, da un tradimento ed un sorso di troppo, così che la bambina sia fin da subito posta ai margini, nascosta, continuamente maltrattata solamente per il suo aspetto – e per i pregiudizi che ne conseguono.
Un odio che ci accompagna fino all’arrivo all’università della sorella, in cui Ephalba si dimostra ben poco propensa a lasciarsi ulteriormente maltrattare, anticipando le battute che le verranno rivolte, e subendo irremovibile gli sguardi di disgusto dei presenti.
E proprio in questo frangente il film mostra le sue carte.
Da una parte, una certa debolezza narrativa: la scelta della protagonista come pupilla da parte Madame Morrible avviene davvero in un battito di ciglia, mentre poteva essere meglio costruita ed approfondita – nonostante le premesse ci fossero assolutamente tutte.
Dall’altra, un ottimo uso dell’elemento musicale: come poteva essere un patchwork di momenti musical, Wicked utilizza le canzoni per dare particolare enfasi ai pensieri e ai discorsi dei personaggi, tramite climax ben controllati che rendono più naturale il passaggio dal parlato al cantato.
In questo caso, Ephalba canta il suo sogno.
Ma non è l’unica ad averne uno…
Influenza
Glinda è figlia del suo tempo.
Un personaggio che potrebbe sembrare la classica Regina George, ma che in realtà fin da subito si dimostra il prodotto della cultura che l’ha cresciuta con l’idea di essere la migliore, la più bella e, soprattutto, la più meritevole…
…come viene confermato anche dagli altri personaggi che la circondano e che vivono di luce riflessa.
Proprio su questa china Glinda continua a raccontarsi e riraccontarsi come personaggio di buon cuore, che concede alla sua compagna di stanza persino un angolino per vivere, e che per la sua bontà viene costantemente elevata…
…persino quando mette in mostra i suoi tratti apertamente manipolatori, particolarmente quando induce l’ingenuo Boq ad invitare Nessarose, la sorella di Glinda, alla festa segreta.
E la sua evoluzione si riflette molto bene anche nella sua controparte, Fiyero.
Risveglio
Glinda e Fiyero vivono un risveglio simile.
La presa di consapevolezza di entrambe queste figure di privilegiati, fino a quel momento ciechi davanti alla complessa realtà che li circonda, passa attraverso la visione di ingiustizie a cui, nonostante il loro passato, non riescono ad essere indifferenti.
Il percorso finora più completo è sicuramente quello di Glinda, che assiste ad una cattiveria che non può veramente sopportare, quando, in risposta alle ulteriori prese in giro dei suoi compagni, Ephelba improvvisa uno strano ballo in cui mette ancora più in mostra la sua stranezza.
E così unirsi a lei in questo momento è solo il primo passo per fare davvero qualcosa di altruista, e ha il suo apice nell’iconica Popular, – canzone che non cambia di fatto niente, se non aiutare la sua nuova amica ad essere un po’ più sicura di sé stessa e protetta dalle angherie altrui.
Ma non è un cambiamento del tutto positivo: rimane un’amarezza di fondo nell’assistere al cambio di passo degli altri personaggi solo per l’intervento benefico di Glinda nei confronti di Elphaba – la stessa, che fino ad un attimo prima era vittima di cattiverie del tutto gratuite…
Risveglio
Il cambiamento di Fiyero percorre invece altre strade.
Il ragazzo è fin da subito mostrato come l’alter ego di Glinda, forse pure più ingenuo nel bearsi della sua condizione, e anche di più nel non trovare alcun ribrezzo figura di Ephelba, ma anzi accettarla con amicizia e curiosità fin da subito.
La sua consapevolezza avviene davanti alla messa al bando del Dottor Dillamond e al cucciolo in gabbia portato a lezione, che Fiyero coglie la prima occasione per liberare, capendo, pur non avendo lo stesso background di Ephelba, di non poter accettare questa ingiustizia.
Ma la sua maturazione sta ancora muovendo i primi passi quando ci lasciamo alle spalle Shiz per avviarci verso la Città di Smeraldo, quando finalmente Glinda fa il primo passo indietro lasciando spazio a Ephelba per avere il suo meritato successo.
E a questo punto vale la pena di aprire una parentesi sulla trama politica.
Contorno
La trama politica di Wicked è quasi un contorno.
Per quanto sia fondamentale – e lo diventerà ancora di più probabilmente nella seconda parte – le viene concesso ben poco spazio, anzi è ridotta proprio agli elementi essenziali, svelando solo parte della macchinazione da parte del Mago di Oz.
Lo stesso Mago è raccontato fin da subito come un affabulatore, e neanche particolarmente scaltro, che, per dinamiche ancora tutte da chiarire – e che speriamo siano chiarire nella seconda parte – è riuscito a prendere posto a capo del regno, nonostante non abbia alcuna capacità magica.
E tornando proprio sull’argomento della debolezza narrativa, non si può dire che sia del tutto centrato il totale cambio di passo del Mago quanto di Madame Morrible, affrontato con fin troppa leggerezza, per quanto sia svelato nei suoi tratti essenziali.
E allora è il momento di ribellarsi.
Ribellione
La ribellione di Ephelba è il punto di arrivo naturale del suo personaggio.
Vivendo tutta la vita sotto l’egida della discriminazione e dell’isolamento sociale, le sta tanto più stretto il ruolo di simbolo di un sistema che vive dell’oppressione degli ultimi, che entrambi i villain avevano fin da subito preparato per lei.
Per questo la sua rivolta è tanto più importante in quanto racconta una riappropriazione di simboli più o meno imposti – il cappello, il mantello e, soprattutto, la pelle verde – tutti caricati di un valore negativo solo perché ormai propri della sua persona.
E se Ephelba non vuole più far parte di un sistema che la ribalta a suo piacimento, Glinda ne rimane succube, anche se con una consapevolezza aggiuntiva: la futura Strega dell’Est, per quanto finalmente realizzi il suo sogno di essere effettivamente una figura importante del panorama politico di Oz…
… è anche internamente consapevole di essere nient’altro che una pedina scelta per convenienza a fronte del voltafaccia della sua amica, verso cui si rivolge con poche parole estremamente significative per la definizione del loro rapporto:
Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.
Anno 10,191. Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, inaspettatamente incaricata di fare da ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…
O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.
Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Dune?
Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.
Dune è frutto di una produzione davvero scellerata, che ha preso un’opera nota per la sua complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.
Ne consegue che i personaggi non hanno mai lo spazio per svilupparsi e per raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo, spesso crollando nella totale ridicolaggine.
E Lynch ne è la più grande vittima.
In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.
Bollettino
L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).
Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…
…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti – alcuni, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – che qui sono raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.
E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma – che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale – ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili per avere un’infarinatura della storia.
Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e ad Arrakis – e così anche da quello dello stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.
Ma i problemi sono solo iniziati.
Mistero
In Dune di Lynch è impossibile avere un mistero.
Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato col dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo, che nel romanzo veniva gradualmente svelato.
E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico nel diventare un villain da operetta…
…esattamente come succede in questo caso.
Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo molto facilone il personaggio, con i bubboni, la bile e il sudore che diventano i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nel momento – pure censurato – dell’uccisione del malcapitato servo.
Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.
Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio caratterizzati.
Spazio
I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.
Uno dei motivi evidentemente per cui Villeneuve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente gli uni dagli altri.
E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.
Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza che riescano a raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…
…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato, che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.
E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…
…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.
Abominio
Alia è davvero un abominio.
Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottimaidea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…
…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, tramite la divisione di Villeneuve -per cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per poi comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.
Infatti Alia è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è indubbiamente il punto più basso dell’intera pellicola.
E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Duneridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.
Coraline (2009) di Henry Selick, noto anche col titolo piuttosto ingannevole di Coraline e la porta magica, è un classico dell’animazione in stop-motion.
A fronte di un budget medio per un film d’animazione – 60 milioni di dollari – e una produzione lunga tre anni, non è stato un grande successo commerciale alla sua uscita:125 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Coraline?
Coraline è una ragazzina che si è appena trasferita in un noioso sobborgo e cerca di riempire le giornate. Ma c’è qualcuno che ha proprio qualcosa di perfetto per lei…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Coraline?
Assolutamente sì.
Per quanto la pellicola cerchi di ammorbidire moltissimo i toni del romanzo di Gaiman, una favola horror che al tempo mi terrorizzò profondamente, proprio per il suo ribaltare le aspettative nel raccontare un mondo incantato che in realtà nasconde un orrore agghiacciante.
Inoltre, rimane un ottimo esempio di tecnica passo uno, per uno studio di animazione – Laika Entertainment – che oltre a questa pellicola non ha mai avuto purtroppo molta fortuna, anche per i costi e i tempi produttivi piuttosto impegnativi.
Ma anche per questo è da riscoprire.
Noia
Coraline vive la più grande maledizione per una ragazzina.
La noia.
La casa stessa sembra infatti un’estensione della grigia personalità dei suoi genitori, totalmente concentrati sul proprio lavoro da non poterle concedere alcuna attenzione, nemmeno riuscire a mettere in tavola un pasto allettante.
Ovviamente questa è la visione dagli occhi ingenui e di fatto capricciosi della protagonista, che in questo prima fase ha una visione molto limitata del mondo e delle sue sfumature: l’unica cosa giusta per lei sarebbe essere al centro del mondo.
E questo l’Altra Madre lo sa molto bene…
Esca
La porta è l’esca perfetta.
Dopo essere rimasta delusa davanti ad un muro di mattoni noioso come tutto il resto, Coraline viene attirata nella notte a riscoprire invece una realtà che è esattamente come lei vorrebbe fosse: un passaggio verso un luogo da scoprire, con meraviglie ad ogni angolo…
…create appositamente secondo i suoi desideri.
E la sua ingenuità iniziale è proprio non rendersi conto di quanto tutto sia troppo perfetto, di quanto quegli inquietanti occhi bottone raccontino una realtà artefatta, una facciata creata ad arte per attirarla nella trappola.
In questa prima notte infatti l’attrattiva è un pasto talmente godurioso e soverchiante che Coraline neanche riesce a finire quello che ha nel piatto che lo stesso le viene subito sostituto con una pietanza ancora più appetitosa…
…in un mondo dove lei è al centro di tutto, dove il giardino è un’esplosione di colori meravigliosi e creature che sembra uscite da una fiaba, non ultimo il dolcissimo papà che ha modellato la natura per corrispondere all’unico, vero oggetto del desiderio.
Coraline stessa.
Equilibrio
Coraline è consapevole di dover equilibrare il parallelismo fra i due mondi.
Per questo non carica immediatamente la scena di tutti i personaggi, ma divide la scoperta del mondo magico in due tranche: la prima focalizzata unicamente sui genitori e su Coraline, e la seconda sui personaggi secondari totalmente riscritti.
In linea generale, i mediocri teatranti in pensione del mondo reale diventano invece degli irresistibili portatori di meraviglie nell’altro mondo, in cui Coraline diventa spettatrice di spettacoli da sogno.
Ma davanti al massimo punto emotivo, in cui Coraline finalmente accarezza la possibilità di vivere in questo mondo dei sogni per sempre, finalmente la Madre si rivela per quella che è: una riscrittura moderna della strega di Hansel e Gretel.
E proprio da qui il controllo sembra scivolare dalle dita di Coraline, che si trova non più ospite, ma prigioniera di un mondo che comincia a crollare su se stesso, svelando la sua totale illusione proprio nella limitatezza dei suoi confini.
Per questo l’ultimo atto è così fondamentale.
Fuga
Sconfiggere l’Altra Madre è un passaggio fondamentale per la maturazione di Coraline.
E, per questo, deve essere orchestrato al meglio.
Infatti, per riuscire a far immergere adeguatamente lo spettatore nell’ultimo atto, è necessario definirne chiaramente le coordinate: Coraline non può entrare o uscire a suo piacimento dall’Altro Mondo, ma secondo la volontà dell’Altra Madre…
…che però non controlla totalmente la porta stessa, da cui in prima battuta Coraline scappa, per poi tornare sui suoi passi quando scopre che i genitori sono stati rapiti dalla Madre, il ricatto estremo per avere nuovamente la sua attenzione.
E così il pericolosissimo gioco con la Madre è in realtà il momento di passaggio in cui finalmente Coraline smette di essere una bambina egoista che pensa solo a se stessa, e sceglie invece di mettersi in gioco per salvare la propria famiglia e gli altri sfortunati bambini.
Ed è un climax splendido.
Frantumato
Il viaggio di Coraline nel finale è una riscoperta dell‘Altro Mondo mentre crolla su se stesso.
La magia sbiadisce poco a poco per lasciare spazio a dei meri fantocci incapaci di avere una propria volontà, che o sono grottesche vittime della volontà della Madre, o estensione della sua personalità…
E qui troviamo una messinscena piuttosto caricata dal punto di vista orrorifico, particolarmente funzionante nella riproposizione di Bobinsky, il cui corpo è letteralmente composto dai diabolici topolini…
…fino alla destrutturazione totale dell’Altro Mondo, che si riduce a mere linee nere su uno pagina bianca, che compongono la ragnatela della Madre nella sua forma primaria, quella del ragno.
E così il sogno diventa incubo, e finalmente Coraline comprende la limitatezza della sua visione, accettando invece una famiglia che non può esaudire subito i suoi desideri, ma può veramente amarla senza pretendere altro da lei.
Il sesto senso (1999) è stato non solo il punto di svolta per la carriera M. Night Shyamalan, ma anche per il genere tutto.
A fronte di un budget abbastanza importante – fra i 40 e i 55 milioni – è stato un enorme successo commerciale:672 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Il sesto senso?
Cole è un bambino molto timido e vittima di un continuo e crudele bullismo. Eppure, non è neanche quello il suo problema più grande…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il sesto senso?
Assolutamente sì.
Al tempo de Il sesto senso Shyamalan si trovava senza saperlo su un precipizio: un film veramente ottimo che lo lanciò come autore di punta del genere, ma che nel tempo si rivelò invece l’antipasto prima di crearsi una nomea non proprio felice, portando ad una serie di prodotti molto meno indovinati.
Anche in questo caso non mancano gli elementi che lo hanno reso più o meno felicemente celebre, che però, pur con qualche semplificazione sul finale assolutamente perdonabile, risultano incredibilmente funzionali a creare un horror indimenticabile.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Rimorso
Come si scoprirà solo nel finale, Malcom è tormentato da un profondo rimorso.
Raccontato come professionista che ha votato tutta la sua vita ad aiutare i suoi pazienti, anche a discapito della felicità del suo matrimonio, proprio nel momento in cui potrebbe finalmente vivere i frutti dei suoi sforzi, finisce invece vittima degli stessi.
E forse in questo contesto la sua angoscia più importante non è tanto il doloroso colpo in pancia per mano di uno dei suoi ex pazienti, ma piuttosto la consapevolezza di non aver aiutato un bambino che si era totalmente affidato a lui, facendo diventare un adulto inquieto.
E se quello sparo sembra solo una piccola macchina su un curriculum immacolato…
Finzione
Cole è vittima di una finzione di sua stessa fattura.
Essendo già di per sé un ragazzino molto timido ed insicuro, il peso del suo segreto lo spinge ancora di più a cercare di fingersi un bambino normale, anche per proteggere la madre, già abbastanza addolorata dalla perdita della genitrice e dall’abbandono del marito.
E proprio in questo contesto si inseriscono gli ingenui teatrini in cui, in cambio di denaro, il protagonista finge di avere alle spalle delle solide amicizie, e non di essere solo la vittima preferita del bullismo dei suoi compagni di classe.
E infatti, il vero orrore non è tanto il vedere i fantasmi…
Adulto
Cole deve crescere troppo in fretta.
Una grande eleganza della messinscena è di non abusare delle più classiche tecniche del jump scare o simili, spesso utilizzate per nascondere una scrittura poco pensata e incapace di riuscire effettivamente a spaventare lo spettatore.
Invece il senso di angoscia della pellicola è causato proprio dai problemi che questi fantasmi portano avanti, spesso questioni fin troppo impegnative persino per un adulto – suicidio, violenza domestica, abusi – figuriamoci per un bambino di appena nove anni.
E tanto basta per creare un orrore piuttosto raffinato, che riesce forse un po’ semplicisticamente a dissiparsi quando, grazie a Malcom, il protagonista finalmente affronta questi spettri e le loro richieste, in modo che possano morire in pace.
E proprio su questa china arriviamo allo scioglimento.
Dialogo
Entrambi i protagonisti devono riuscire a comunicare.
Malcom crede di vivere in un matrimonio ormai finito, in cui Anna gli è ormai indifferente, anzi si è già impegnata con altri uomini, che il marito cerca di scalzare senza mai intervenire direttamente, senza mai riuscire ad affrontare la questione faccia a faccia.
Ma la presa di consapevolezza della sua vera condizione, che rappresenta anche l’ottimo colpo di scena finale, chiude finalmente questo capitolo della sua vita, in cui è riuscito a salvare un altro bambino potenzialmente problematico e, per consiglio dello stesso, il suo stesso matrimonio.
Allo stesso modo, Cole vive nel costante timore di rivelare il suo sesto senso alla madre, per paura di non essere creduto o, ancora peggio, di ferirla irrimediabilmente e spezzare il loro importante quanto fragile rapporto.
Ma è proprio rendendo possibile il dialogo che Lynn non riesce ad avere con la madre defunta che Cole riallaccia i rapporti con la genitrice, che finalmente riesce ad accettare la perdita di un affetto tanto importante, e a ricostruire il rapporto con un figlio che credeva di poter più capire.
Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.
A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Midnight in Paris?
Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Midnight in Paris?
In generale, sì.
Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…
…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.
Pioggia
I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.
Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.
Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.
Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.
Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.
Ma c’è una via di fuga.
Esclusiva
La magia di Parigi non è per tutti.
La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.
E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.
Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.
Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.
Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.
Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.
Consapevolezza
Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.
La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.
Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…
Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…
Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.
A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.
Di cosa parla Inside out?
Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Inside out 2?
Assolutamente sì.
Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.
L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.
Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.
Stabilità
All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.
Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.
Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.
Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.
In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.
E basta.
E proprio qui sta il punto.
Shock
Lo shock della pubertà sembra ingestibile.
Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…
Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.
E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.
Emozioni
La rappresentazione di Ansia è perfetta.
Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevroticoche prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.
Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.
Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.
Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.
Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.
Nuova
Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…
… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.
In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile…
…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…
Ma non ci sono solo due Riley.
Consapevolezza
Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.
Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.
Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.
E per questo il finale è così importante.
Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabileper il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.
Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.
Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto delcocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.
L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motiondi Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox(2009).
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.
Di cosa parla L’isola dei cani?
Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere L’isola dei cani?
Assolutamente sì.
Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…
…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.
Insomma, da non perdere.
Guerra
L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.
Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.
Tuttavia, il presente non è più consolante.
Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.
Selvaggio
L’isola dei cani è un luogo selvaggio.
E Chief si sente a casa.
Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…
…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.
Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.
Equilibrio
In L’isola dei caniWes Anderson è (ancora) in stato di grazia.
Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.
Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…
… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.
Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel(2016).
Rinascita
La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.
Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.
Così ne segue un apparente distacco definitivo…
…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…
…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.
Lieto fine
Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.
Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombrasceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina.
Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…
Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.
Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.