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E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.

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Pinocchio – Brutalmente educativo

Pinocchio (1940) è il secondo classico Disney basato sul romanzo per ragazzi di Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio (1881 – 1883).

Nonostante fosse uscito poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 2,6 milioni di dollari, incassò 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pinocchio?

Walt Disney prende le mosse dal classico di Collodi per raccontare sofferte quanto educative avventure di Pinocchio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Assolutamente sì.

Rispetto a Biancaneve (1937), Pinocchio si distingue per un impianto narrativo più solido, una collezione di avventure dal forte sapore educativo, che non manca comunque di una componente quasi orrorifica.

Infatti, riscrivendo il protagonista in una veste più positiva ed ingenua, le sfortune di Pinocchio hanno un impatto molto più potente, volendo mostrare le insidie del mondo e il come riuscire ad evitarle affidandosi alle giuste figure adulte.

Pinocchio tecnica animazione

Pinocchio non doveva essere un film.

La storia venne proposta a Disney a più riprese e da diverse persone, inizialmente neanche come un lungometraggio, che cominciò a prendere forma solamente nel 1937.

Il punto di svolta fu la lettura di Walt Disney di una versione tradotta dell’opera di Collodi, che gli permise di innamorarsi della storia e di abbracciare finalmente il progetto, che inizialmente doveva essere il terzo classico Disney.

Invece, per via dei problemi produttivi di Bambi (1942), la produzione venne anticipata.

Ma ci volle un intero anno prima che i lavori partissero.

La prima versione del film fu incredibilmente ostica, per via della difficoltà degli argomenti e della natura della storia, che presentava un protagonista abbastanza negativo e pochi momenti di comicità.

La prima stesura fu presa e cestinata da Walt Disney, facendo ricominciare la produzione da zero.

Estetica Pinocchio

L’estetica fu profondamente contaminata.

Nonostante Pinocchio sia ambientato in Italia, gli spazi e i vestiti dei personaggi ricordano più la Baviera, con anche elementi più moderni e propri della cultura statunitense, come la sala da biliardo nel Paese dei Balocchi.

Il reparto produttivo si sbizzarrì nella creazione di elementi da cui prendere spunto, con centinaia di oggetti di scena fra marionette, orologi e miniature dei personaggi, per la prima volta nella storia della Disney.

Fra le prime idee scartate, la più importante fu il character design di Pinocchio: nato come una marionetta pagliaccesca, per volontà dello stesso Disney la sua identità traslò progressivamente sempre di più verso una immagine umana e accessibile.

Così fu anche più umanizzata la figura del Grillo, il primo personaggio Disney aiutante e guida del protagonista.

Il grillo risulta infine non tanto un insetto, ma più un piccolo omino cortese e un po’ dongiovanni, messo sempre alla prova per la sua piccola statura davanti a personaggi negativi giganteschi e minacciosi.

Ancora una volta per le animazioni ci si affidò a malincuore al rotoscopio, ma in maniera differente rispetto a Biancaneve.

Infatti, l e scene in live action non vennero semplicemente ricalcate per la pellicola animata, ma decisamente ampliate per dare maggiore dinamicità e realismo ai personaggi.

Per la voce di Pinocchio si scelse il giovanissimo cantante Dickie Jones, mentre il Grillo prese la voce di Cliff Edwards, e la Fata Turchina fu fatta sul modello di Evelyn Venable, anche modella per il logo della Columbia Pictures.

Intuibile

Se si confronta col Pinocchio di Collodi, ma anche con la riproposizione in stop-motion di Guillermo del Toro, il personaggio di Geppetto è molto meno caratterizzato: non sappiamo molto sul suo carattere né sulla sua storia.

Possiamo solo intuirlo dal contesto e dalle parole della Fata Turchina: Geppetto è un uomo buono che ha fatto tanto bene agli altri, probabilmente tramite le sue creazioni, e che vive senza figli, ma con due pimpanti animali da compagnia.

Pinocchio e Geppetto in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

In questo modo, proprio come il Principe Azzurro, Geppetto è un personaggio con una funzione molto stringente: rappresentare la figura genitoriale buona ma anche apprensiva, che più che guidare, cerca di proteggere Pinocchio dal farsi del male da solo.

E proprio sta qui il punto della storia.

Ingenuo

Pinocchio e il Grillo Parlante in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Paradossalmente, il Classico Disney è per certi versi più educativo del romanzo di Collodi.

Infatti, come vedremo in coda, il personaggio originale era molto più cattivo e dispettoso, quindi rappresentava in maniera molto semplice ed immediata la sorte sfortunata di un bambino disobbediente, che infine veniva premiato per aver invece imboccato la retta via.

Al contrario, il Pinocchio disneiano è un bambino qualunque, preda della sua stessa ingenuità che lo porta a lasciarsi adescare dalla prima proposta allettante, dal primo adulto di cui si fida ciecamente, diventando così preda delle peggiori macchinazioni.

Pinocchio e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Insomma, Walt Disney sembra voler ammonire i bambini del suo tempo di dare fede alle parole dei propri genitori ed educatori, perché dette solamente per il loro bene, e invece di guardarsi dalle proposte di successo facile e fin troppo allettante.

Altrimenti le conseguenze sono terribili…

Animale

Postiglione in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Pinocchio è quasi orrorifico.

Il protagonista viene infatti non solo ripetutamente privato della sua libertà, ma proprio anche della sua stessa umanità: già piuttosto raccapricciante l’idea di diventare un fenomeno da baraccone chiuso in una gabbia da Mangiafuoco…

…ma ancora più devastante è la disavventura del Paese di Balocchi.

Postiglione e un asino in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Agli occhi dello spettatore odierno tutta la situazione appare davvero brutale, fin dalle eloquenti conseguenze di Pinocchio che si fa provocare da Lucignolo, aspirando il sigaro in maniera esagerata.

Ma l’apice dello sconvolgimento è la scoperta della vera natura del luogo e del piano del Postiglione, che rapisce i bambini per trasformarli in asini da mandare a lavorare – e a morire – nelle miniere di sale.

E al riguardo salta all’occhio un elemento ancora più agghiacciante…

Minaccia

Il Gatto e la Volpe in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

La maggior parte delle storie Disney sono a lieto fine.

E un aspetto fondamentale delle conclusioni è la sconfitta dell’antagonista, proprio con un’idea del bene che sconfigge il male, nel caso dei cattivi Disney con delle morti o degli annientamenti spesso non per azione dei protagonisti, ma per una sorta di autodistruzione.

In Pinocchio questo elemento è drammaticamente mancante.

Pinocchio e Il Grillo in una scena di Pinocchio (1940), secondo Classico Disney

Che sia voluto o meno, per quanto la conclusione sia positiva, le varie minacce che hanno insidiato il protagonista durante le sue disavventure sono ancora presenti in agguato, e Pinocchio potrebbe ricaderci in ogni momento se non starà abbastanza attento.

E se la furba Volpe è riuscita ad ingannarlo per ben due volte di fila, cosa impedisce alla stessa o ad altri antagonisti di imbrogliarlo nuovamente?

Maturazione

La maturazione di Pinocchio è fondamentale.

Con un classico deus ex machina, la Fata Turchina offre al protagonista l’occasione per riscattarsi, dal momento che le sue ingenuità hanno influenzato anche la drammatica sorte di Geppetto, il personaggio che meno di meriterebbe una morte così tragica e sfortunata.

Così l’insegnamento finale è anche più importante: Pinocchio si ingegna, passa dall’essere un personaggio passivo e guidata da altri – il Grillo e la Fata – a figura invece attiva e risolutiva, trovando la Balena e riuscendo a salvare sia sé stesso che Geppetto.

Ed è per questo che infine viene premiato.

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Millennium Actress – Una vita da ricordare

Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue (1997).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.

Di cosa parla Millennium Actress?

Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Millennium Actress?

Chiyoko Fujiwara come Gheisha in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Assolutamente sì.

Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…

…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.

Insomma, da non perdere.

Macerie

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.

Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.

Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.

E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…

Chiave

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Chiyoko nasce in un mondo turbolento.

Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.

Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.

Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.

Ma, ancora una volta, è un destino imposto.

Destino

Chiyoko non può scappare.

Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.

Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…

Ti odio più di quanto tu possa sopportare, e ti amo più di quanto io possa sopportare.

…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.

Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.

Perdita

Chiyoko Fujiwara nelle macerie in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.

La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammatica e realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.

Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.

Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…

…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.

Scoperta

L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.

Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.

Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.

Chiyoko Fujiwara sulla luna in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.

Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…

Perché dopo tutto, è il fatto di inseguirlo ciò che amo davvero

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Avventura Azione Comico Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Horror La trilogia del cornetto Racconto di formazione Recult

Shaun of the Dead – Un mostruoso immobilismo

Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.

A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.

Di cosa parla Shaun of the dead?

Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Assolutamente sì.

Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead (1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.

E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.

Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!

Immobile

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è immobile.

La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…

…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.

Ma anche il resto del mondo è immobile.

gli zombie in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.

Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.

Proprio come il Winchester.

Indifferente

Bill Nighy in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è anche indifferente.

Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…

…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.

Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.

Regressione

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Ma la rottura non porta ad un miglioramento.

Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.

Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.

Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.

Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.

Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...

Ma ormai non è più possibile.

Scoperta

L’ultimo atto è il momento della scoperta.

Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…

E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.

Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…

…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo (1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.

Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.

Cambiamento

Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.

E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.

Simon Pegg e Nick Frost nel finale di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

E infine, cosa è cambiato?

Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.

E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.

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Darren Aronofsky Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Horror Thriller

Il cigno nero – Lineare

Il cigno nero (2010) con protagonista Natalie Portman, è fra le opere più note della filmografia di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 13 milioni di dollari – fu un grande successo al botteghino, con 330 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Il cigno nero?

Nina è una ballerina di grande talento, che però rischia di precludersi il successo per via della sua fragilità emotiva. Ma l’unico vero nemico è lei stessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il cigno nero?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi nel consigliare questa pellicola, in quanto personalmente la trovo molto meno brillante rispetto al precedente Requiem for a dream (2000), dove il regista statunitense riusciva meglio a bilanciare l’aspetto più surreale e fantastico con un profondo contenuto riflessivo.

In questo caso invece Aronofsky, forse anche per adattarsi ai gusti di un pubblico più ampio, sceglie una regia più contenuta, meno sperimentale, e più invece vicina al taglio tipico dell’horror commerciale, con, in non pochi casi, l’abuso del taglio dark fantasy.

Uovo

Nina è ancora nell’uovo.

La protagonista è costantemente sferzata dalla madre per ottenere una tecnica perfetta, rimanendo però confinata in un guscio inscalfibile – la camera da letto – un ambiente in cui è costretta a rimanere ancorata ad un’identità infantile e illibata.

Per questo, nel ruolo del cigno bianco, questa figura eterea cristallizzata in una realtà senza tempo, è l’interprete perfetta – come gli conferma lo stesso Thomas – quasi come una ballerina giocattolo che non sbaglia mai un passo.

Ma non basta.

Istinto

La tecnica di Nina manca di carattere.

La protagonista si limita a seguire pedissequamente la parte, a portare una performance impeccabile, ma senza riuscire ad entrare nell’essenziale dualità del suo personaggio, motivo per cui inizialmente sembra perdere la parte.

In realtà, fin dall’inizio Nina è spinta da una forza contraria a quella della madre.

Infatti, Leroy la spinge ad un cambiamento caratteriale, senza mancare comunque di approfittarsi in qualche misura di questa innocente quanto manipolabile ragazza, che spinge soprattutto alla scoperta sessuale, così da farla evadere da questo perpetuo carattere virginale.

Anzitutto la mette alla prova mentendole sull’aver ottenuto la parte, portandola a mostrare un lato della sua natura che fino a quel momento gli aveva nascosto: quel morso sul labbro per sottrarsi dalla sua stretta è solo il primo degli indizi di un istinto sotterraneo…

…ma pronto ad emergere.

Alieno

Nina è alienata.

La protagonista è alla disperata ricerca di un nemico per giustificare la sua ossessione, il suo fallimento, cercandolo proprio in quelle figure che sente così lontane da sé, ma al contempo così desiderabili: le sue compagne, ma, soprattutto, Lily.

Infatti, in questa fascinosa ragazza Nina vede la sua peggiore contendente, la principale causa della sua ossessione, sempre pronta non solo a rubarle il ruolo, ma anche ad essere vincente dove la protagonista si sente una perdente.

Ovvero, nella seduzione.

In realtà, Nina è in lotta contro sé stessa.

Anche se la protagonista crede il contrario, la donna che ride sommessamente, la presenza nell’ombra che la perseguita, non è altro che la rappresentazione di un altro lato della sua interiorità, che lei cerca ora di combattere, ora di far emergere.

Questi sprazzi di verità emergono tutte le volte in cui Nina vede il suo volto sui corpi di quella che crede le sue nemiche, fino ad arrivare a confrontarsi ripetutamente con sé stessa allo specchio, quando ormai la trasformazione è in atto.

Pelle

La metamorfosi di Nina non può essere che violenta.

Costretta in una pelle che non riesce più a sopportare, fin dall’inizio la protagonista si continua a ferire, a graffiare, persino a strappare la pelle, come per permettere a quell’altra sé di, finalmente, emergere.

Una ferita che è anche una crepa su quell’aspetto così perfetto e, appunto virginale, su quell’uovo così intoccabile, che Nina ha il continuo istinto di distruggere, per liberarsi della vecchia pelle e diventare qualcos’altro.

La trasformazione definitiva è la parte che mi ha meno convinto.

Dopo aver ampiamente giocato con i più classici topos dell’horror di largo consumo, Aronofsky spinge fortemente l’acceleratore sull’elemento dark fantasy, andando a rendere visivamente una simbologia che sarebbe risultata molto più elegante se più contenuta.

In questo senso, Il cigno nero si salva, per così dire, insistendo in più momenti su come queste visioni orrorifiche siano completamente interne all’immaginazione di Nina, così da non sporcare una pellicola in cui l’elemento fantastico funziona fino ad un certo punto.

Realizzazione

La realizzazione finale è fondamentale per la definizione del personaggio.

Nina riscopre anzitutto il personaggio di Lily, che, per l’ennesima volta, si dimostra tutto tranne che una sua nemica – incoraggiandola anzi per la sua ottima performance – e, di conseguenza, comprende la sua vera natura.

Una natura che, tuttavia, non è veramente pronta ad accogliere, ma piuttosto a distruggere, per poi prenderne almeno temporaneamente il posto, entrando a tal punto nel personaggio da portare in scena l’esibizione perfetta, ma la sua tragica conclusione…

Il cigno nero sesso

Osservando le scene di sesso de Il cigno nero si potrebbe sostenere che in questo film la sessualità femminile venga demonizzata, o che comunque l’atto sessuale venga ricondotto a qualcosa di sporco, oscuro.

In realtà, credo che il film intenda imbastire un discorso più complesso.

Nonostante sicuramente il sesso sia rappresentato in maniera disturbante, questa scelta risulta funzionale ad offrire un commento, forse persino una critica, alla dualità sociale a cui spesso la donna è sottoposta.

Ovvero, santa o puttana.

In questo caso, cigno bianco e cigno nero.

L’intento potrebbe essere quello di raccontare la condizione di una donna – Nina – che si ritrova intrappolata fra un archetipo e l’altro: da una parte la società le dice devi lasciarti andare, sei frigida, dall’altra la ammonisce, accusandola di essere una puttana.

Secondo questa linea di pensiero, le scene di sesso vengono mostrate in maniera disturbante proprio perché è la protagonista stessa a sentirsi sporca, ma senza che il film intervenga esplicitamente per confermare la sua visione.

In questo è indicativo come la regia non esprima un giudizio sulla sessualità della rivale Lily, più libera e sicuramente più matura – da ogni punto di vista – rispetto invece a Nina.

Invece, secondo alcuni Nina viene punita per la sua sessualità.

In realtà, benché il film resti volutamente ambiguo al riguardo, mi sento comunque di dissentire: seguendo la storia de Il Lago dei Cigni, capiamo che la protagonista, come Odette, nella morte ritrova la libertà.

Di fatto in quel momento, riuscendo ad incarnare entrambi gli archetipi di cui sopra, può finalmente considerarsi perfetta per la società patriarcale: ha assolto al proprio compito, ora è libera dalle pressioni sociali.

Il cigno nero sesso

Tuttavia, in quello stesso momento muore perché si tratta di un obbiettivo fondamentalmente impossibile da raggiungere.

È letteralmente impossibile essere una donna.

In conclusione, secondo questa visione la società – rappresentata dal suo insegnante, Thomas – la spinge ad incarnare la sua versione illibata – il cigno bianco – ma la vuole anche nel ruolo di seduttrice il cigno nero.

Quindi finisce per ingabbiare la donna in uno o nell’altro stereotipo, anziché lasciarla libera di scegliere come approcciarsi alla sessualità, e, soprattutto impedendole di abbracciare anche una sana via di mezzo.

Ovvero, al di fuori di quel sistema rigido e binario.

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Avventura Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror Ingmar Bergman

L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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Requiem for a dream – Dipendenti e soli

Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentale di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.

Di cosa parla Requiem for a dream?

Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Requiem for a dream?

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Sì, ma…

Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.

Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.

Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.

Sogno

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.

Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.

Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.

Ma è un sogno fragile.

Vuoto

Jared Leto in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.

Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…

…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Ma la caduta è progressiva.

Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.

Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.

Ma l’eroina non è l’unica droga.

Vincente

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.

O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.

In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.

E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.

Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culture e della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.

Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.

Aiuto

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.

Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…

…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomodo dal tessuto sociale.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.

Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.

Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…

…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.