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The To Do List – Riscoprirsi

The To Do List (2013) è un teen movie con protagonista Audrey Plaza e diretto da Maggie Carey.

A fronte di un budget piccolissimo – 1.5 milioni di dollari – anche per la distribuzione molto limitata, ha avuto un riscontro veramente minimo.

Di cosa parla The To Do List?

Nell’estate prima dell’inizio del collage, Aubrey scopre qualcosa che non si sarebbe mai aspettata: la sua sessualità.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The To Do List?

Assolutamente sì.

The To Do List è stata una grande sorpresa all’interno di un genere che era rimasto per molti versi stagnante dopo le sfavillanti proposte da Mean Girls (2004) a She’s the man (2006), fino a picchi di orrore di Easy A (2010).

E proprio con quest’ultimo, in un certo senso, la pellicola apre un dialogo per scardinare molta della narrazione demonizzante della sessualità femminile e, più in generale, del voler prendere una strada diversa da quella già tracciata.

Insomma, una piccola perla, ancora troppo sconosciuta.

Presupposti

I presupposti per scrivere un secondo Easy A a pochi anni di distanza c’erano tutti.

La protagonista nerd e maniaca del controllo apparentemente allergica al sesso, la sorella che invece ne ha fatto una malattia, e l’amico sfigato di turno che stravede per lei – quasi un Pretty in Pink (1986) a trent’anni di distanza.

Allo stesso modo, sembra quasi scontato l’interesse amoroso di turno, il bello e impossibile, con cui Brandy ha un breve intercorso sessuale, stroncato sul nascere da una battuta di troppo, che è anche il momento epifanico in cui la protagonista si rende conto di essere finalmente pronta alla pubertà.

Ma si cominciano a vedere i primi segnali della particolarità della pellicola proprio quando la protagonista muove i primi passi verso la scoperta sessuale, andando a stilare una lista per nulla scontata, che le permette di esplorare in tutte le direzioni, sia per dare che per ricevere.

Ma un altro elemento è assolutamente significativo per mettere un punto al senso della pellicola.

Stigma

Un elemento molto tipico della narrazione femminile, soprattutto nei primi anni del Nuovo Millennio, è lo stigma per il cambiamento.

Che sia per motivi sessuali – come nel già citato Easy A – che per scelte di altro tipo – come il più classico Il diavolo veste Prada (2006) – non è raro che la protagonista esca dal seminato e venga per questo punita dalla comunità, entrando in una spirale involutiva che la porta infine a tornare sui suoi passi.

Non è il caso di The To Do List – e per fortuna.

Per quanto ci sia sicuramente una certa curiosità e qualche sopracciglio alzato nei confronti del suo progetto, la protagonista è per la maggior parte incoraggiata nello stesso, particolarmente dalle sue amiche – che la vedono finalmente sbocciare – e, a sorpresa, anche dalla madre e dalla sorella.

Ma per lo stesso è necessario un discorso a parte.

Eredità

Il dialogo fra genitore e figlio in ambito sessuale è sempre stato estremamente complesso.

E una dinamica che tipicamente viene messa in scena da questo tipo di prodotti è lo sguardo apprensivo del regista quanto del genitore nel valutare la disordinata vita sessuale dei protagonisti, che solitamente corrisponde anche alla morale del film stesso.

Ma, ancora una volta, non è il caso di The To Do List.

La madre è per tutta la durata della pellicola il personaggio di supporto che rappresenta quello che il genitore dovrebbe essere: una guida senza imbarazzo in tutti gli aspetti della scoperta sessuale, cercando anche di rendere la stessa il più sicura e piacevole possibile.

E, anche se sembra una spinta contraria, il padre racconta – o, meglio, esaspera in maniera programmatica – un’altra faccia della genitorialità: quella genuinamente preoccupata per la salvezza della prole, tanto da diventare paranoico e sperare di utilizzare il divieto come arma.

Ma Brandy – per fortuna – è una forza inarrestabile.

Scoperta

L’esplorazione della sfera erotica è una maturazione molto più profonda di quanto potrebbe sembrare.

Forse anche per il suo essere stata estranea all’argomento per così tanto tempo, Brandy affronta il tema senza lasciarsi frenare da quelli che sono i tipici pregiudizi sulla sessualità femminile – che è meglio che sia modesta e passiva, se non totalmente assente.

E, in particolare, la ricerca di Brandy mette al centro la scoperta di un elemento spesso lasciato ai margini: il piacere femminile, non subordinato a quello maschile, e, per questo, quasi spaventoso agli occhi di molti personaggi…

…e che parte proprio da un argomento incredibilmente tabù: la masturbazione.

Ma sono tutti mattoncini che compongono una crescita personale della protagonista assolutamente inaspettata, che la porta al momento del confronto con Rusty in un modo che neanche il ragazzo si aspettava: Brandy sceglie di avere una posizione dominante perché vuole avere il controllo della sua sessualità.

Ed è tanto più interessante che la conclusione del rapporto sia positiva solo per Rusty, che racconta da solo tutta la mediocrità maschile nel vedere il sesso anche e soprattutto come un’affermazione sociale, del tutto annullata dalla presa di posizione di Brandy, che invece rivendica con forza il suo diritto ad essere soddisfatta.

Ma il vero finale è un altro.

Soddisfazione

Cameron è, possibilmente, ancora più mediocre.

Nelle narrazioni più classiche sarebbe il punto di arrivo del percorso della protagonista per la consapevolezza dell’importanza dei sentimenti rispetto al puro piacere carnale, che invece qui si risolve con un rimettere tutto in prospettiva.

Infatti il problema non è aver scoperto la sessualità e non aver dato a Cameron quello che voleva, ma bensì aver sottovalutato l’importanza dei suoi sentimenti e aver agito in maniera molto sistematica ed egoista: errori lungo il percorso, che verranno riassorbiti nel puntualissimo finale.

È importante sottolineare come per Brandy la storia raccontata nel film sia una parentesi della propria vita, come ben racconta il rincontro con un Cameron molto più consapevole sessualmente e pronto a continuare la scoperta sessuale ad armi pari.

Ed infatti entrambi si dimostrano ben più consapevoli in quello che è finalmente un intercorso che soddisfa entrambi, e che si conclude con un atto in cui solitamente il piacere femminile è precluso: la tanto temuta back door che non si poteva aprire…

…e che invece, sfacciatamente, è il punto di arrivo di una protagonista finalmente soddisfatta.

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Ari Aster Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Horror

Midsommar – Riscrivere il trauma

Midsommar (2019) è la seconda opera di Ari Aster con protagonista Florence Pugh.

A fronte di un budget piccolino – appena 9 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 47 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Midsommar?

Dani ha appena subito un profondo lutto, ma la risoluzione…non è quella che si aspetta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Midsommar?

Assolutamente sì.

Con Midsommar Ari Aster gioca ancora una volta con i topos di genere, riuscendo a portare in scena un horror veramente peculiare, girato quasi totalmente alla luce del sole, in cui l’orrore è quanto più visibile e scioccante.

Ma il vero terrore è più profondo, legato all’evoluzione – o involuzione? – della protagonista, che rivive per certi versi il suo trauma, ma legato ad una risoluzione del tutto diversa, e più…confortante?

Aggrapparsi

Dani ha solo bisogno di un sostegno, di qualcosa a cui aggrapparsi.

E quel qualcosa – purtroppo – è Christian.

Il ragazzo appare fin da subito circondato da persone che gli consigliano spassionatamente di lasciarsi alle spalle la sua attuale fidanzata, rea di essere sempre alla ricerca di attenzioni per la sua tumultuosa situazione familiare, legata in particolare all’ambigua figura della sorella.

E ancora di più Christian appare inadatto nel gestire la situazione, soprattutto quando la stessa esplode nello straziante omicidio-suicidio di Terri, per cui Dani si perde in una comprensibile spirale depressiva per la perdita, quanto, soprattutto, per la sua impotenza.

In altre parole, Dani sentiva di poter agire, ma di non aver agito.

E la sua inerzia è il motore che porta avanti una relazione tenuta insieme solamente dal senso di colpa del fidanzato, che però, in maniera più o meno consapevole, continua a condurre la sua vita oltre a Dani, specificatamente nell’organizzazione del viaggio in Svezia…

…in cui coinvolge la ragazza solamente nella convinzione che non verrà.

Ma c’è in agguato un elemento che il ragazzo non aveva previsto.

Trappola

Dani finisce…in trappola?

Anche se ad una prima visione Pelle sembra un personaggio innocuo, che vuole semplicemente fare le sue condoglianze alla protagonista, si rivela infine un adescatore, che ha scelto consapevolmente di mettere un dito nella piaga quando la ferita del lutto era ancora aperta…

…convincendo così Dani, sull’onda dell’emotività, a seguire effettivamente il gruppo in Svezia.

La stessa dinamica, in altri termini, è anche propria della sezione introduttiva alla comunità, in cui la droga assunta dal gruppo getta Dani in un totale delirio che esaspera i suoi sotterranei timori: la sensazione di isolamento, di esclusione e di sostanziale perdita del sé.

Ed è fondamentale per il contrasto invece con la pace delle scene successive.

Ruolo

Ogni personaggio, a suo modo, acquisisce un ruolo all’interno della nuova comunità.

E servono sia eroi che antagonisti.

Infatti, anche se il gruppo cerca di mantenersi ai margini della scena e di trattare la situazione come se fosse quasi un’attrazione turistica, inevitabilmente ne risulta attratto, ma nella maniera più sbagliata: Mark desacralizza l’albero degli antenati, Josh cerca di rubare i segreti della comunità e Simon, semplicemente, cerca di andarsene prima del tempo.

Christian invece ha un doppio ruolo.

La funzione del ragazzo è puramente strumentale, sia per l’evoluzione di Dani – che merita un discorso a parte – sia per la comunità stessa, che usa – letteralmente – il suo corpo per compiere il rito di accoppiamento e garantire la proliferazione della comunità stessa.

Ma, proprio essendo solo un corpo, il suo valore è limitato.

Proprio come doveva essere quello di Dani.

Mimo

Con la nuova comunità, Dani rivive il suo lutto…

…ma riscrivendolo in positivo.

La radice del problema è quantomai evidentemente il suo attaccamento a Christian, unico appoggio, pur passivo, che le è rimasto in una vita definita esclusivamente dal lutto e dal rimorso, a cui è capace di perdonare tutto, persino l’essere così negligente da dimenticarsi il suo compleanno, da dimenticarsi sostanzialmente di lei.

Eppure Dani continua a giustificarlo, continua a cercarlo, continua a sentirsi sola e dispersa persino nei momenti in cui è più accolta, persino quando la comunità cerca di alienarla con la droga per includerla all’interno del gruppo, e anzi farla risaltare rispetto allo stesso come nuova Regina di Maggio.

E allora, deve rivivere il trauma.

Midsommar finale

Anche se realisticamente la colpa non è di Christian, totalmente e ingenuamente sottomesso alla volontà di altri, il suo diventare strumento sessuale è espressione della sua continua negligenza e disattenzione, del suo essere totalmente passivo alle situazioni.

E così Dani deve rivivere ancora una volta una situazione di turbamento che in qualche modo sospettava, ma che non era pronta ad affrontare…

…con la differenza che ora non è più ridotta alle attenzioni disattente di un fidanzato assente, ma è avvolta dalle cure di un intero gruppo di donne pronte a soffrire insieme a lei, a davvero farla sentire compresa e accolta, permettendole così finalmente di rendersi conto della situazione che stava testardamente subendo.

Ed è proprio in questa dinamica che si sviluppa il lato forse più grottescamente sorprendente della pellicola: come Dani sembra sempre più abbracciata e immersa nel suo nuovo ruolo, più sembra anche divorata da una rabbia cieca che la porta infine a condannare a morte il suo ormai ex fidanzato.

Eppure, davanti a quella chiusura così tragica di tutti i personaggi divorati dalle fiamme e ridonati alla terra contro la loro volontà, di un Christian ormai totalmente inerme e rinchiuso nella rappresentazione del suo ruolo meschino e divoratore – l’orso – infine Dani sorride…

…felice di aver finalmente e realmente risolto il suo trauma.

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2025 Dramma romantico Drammatico Film Horror

Together – Essere diversi, essere caotici

Together (2025) è un body horror nonché l’esordio alla regia di Michael Shanks.

A fronte di un budget anche abbastanza consistente per un’opera prima – 17 milioni di dollari – anche se non è ancora stato distribuito in tutti i mercati, ha già doppiato i costi di produzione.

Di cosa parla Together?

Tim e Millie sono una coppia che sembra essere pronta a separarsi da un giorno all’altro…fino a trovarsi più vicini del previsto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Together?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi né in positivo né in negativo sulla suddetta pellicola in quanto contiene al suo interno elementi di indubbio fascino – il soggetto quanto alcuni momenti di regia – ma, al contempo, si incarta in una struttura narrativa poco centrata.

Infatti, come è tipico di molte pellicole del cosiddetto elevated horror, l’opera prima di Shanks vive del suo potenziale e del suo soggetto, ma, soprattutto in questa rincorsa al voler essere diverso a tutti i costi, e si perde in un racconto mediocremente strutturato nei toni quanto nei passaggi logici.

Insomma, non tutti da buttare, ma ci si aspettava ben di più.

Paradosso

Il paradosso di Togheter è chiarissimo…

…almeno sulla carta.

L’incipit gira intorno alla relazione ormai da tempo in crisi di Tim e Millie, forzatamente portata avanti per volontà principalmente di quest’ultima, soprattutto visto il moto di ribellione del protagonista maschile, più volto ad una autodeterminazione mancata che alla (ri)costruzione del loro rapporto.

Tuttavia, questo racconto manca fin dall’inizio di adeguato respiro per poter funzionare, rimanendo una narrazione in ultima analisi abbastanza superficiale e affidata principalmente agli espliciti scambi fra i protagonisti, più che ad una messa in scena che dialoghi col pubblico.

Un elemento che diventa problematico soprattutto nelle ultime battute, nei momenti decisivi in cui la coppia dovrebbe prendere le decisioni più importanti, che invece sono affidate più a necessità di trama che all’effettiva costruzione del racconto.

Ma non è neanche la questione più problematica.

Paura

Un moto di ribellione pervade l’horror che non vuole essere commerciale.

Una problematica piuttosto ricorrente in questo tipo di narrazione è l’essere costruita intorno a dei continui jumpscare piuttosto banali e ridondanti, tendenza che appunto il cosiddetto elevated horror vuole evadere in favore di uno schema della paura ben più interessante ed efficace.

Purtroppo, al riguardo, Together fallisce due volte.

Da un lato, anche se prova a costruire la suspense con delle immagini più ricercate, finisce inevitabilmente per proporre lo stesso schema incredibilmente ripetitivo delle brutte sorprese in camera da letto costruite sempre nel medesimo modo, e che, soprattutto, mancano di un abbastanza essenziale crescendo.

Infatti, per motivi ignoti, Together sceglie di costruire la parte centrale legata alla scoperta della minaccia in maniera piuttosto dispersiva, quando sarebbe bastato un semplicissimo climax – iniziato, ma mai sviluppato – per mostrare la progressione della maledizione.

E, proprio nel momento drammatico fondamentale, la pellicola mi lascia più dubbi.

Scelte

Together sembra mancare di una direzione.

È come se internamente alla pellicola ci fosse la volontà di voler evadere il classico schema, ma finendo solo per confermarlo, anzi per perdersi proprio in questo tentativo, a cominciare dall’andamento scostante del tono, che si evince soprattutto a partire dalla scena della motosega.

Dopo la sequenza, anche piuttosto interessante, in cui i due si intrecciano nel corridoio, si arriva all’esplosione della drammaticità e della violenza, Shanks sceglie di spezzarla con un momento comico improvviso e fuori contesto, che viene subito soffocato dalla ripresa del crescendo drammatico nell’atto finale.

Una conclusione, fra l’altro, che è forse la parte più problematica.

La parte dedicata allo scioglimento della vicenda soffre infatti del suddetto tentativo di evadere lo schema classico, finendo per non riuscire a definire in maniera soddisfacente l’origine della minaccia – non a caso, Jamie rimane in scena il tempo necessario per raccontarla…

…e, al contempo, si perde nel labirinto contraddittorio di cambi di passo dei protagonisti, che non ha purtroppo basi abbastanza solide da essere giustificato e che altresì vive di collegamenti logici fin troppo deboli, tanto che la scelta finale dei protagonisti risulta incomprensibile ai fini narrativi…

…ma del tutto giustificabile all’interno della volontà del regista di chiudere la pellicola con un grottesco colpo di scena.

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Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Il dramma della storia Paul Thomas Anderson

Licorice Pizza – I miei uomini terribili

Licorice Pizza (2022) è il terzo film storico di Paul Thomas Anderson – quasi, per certi versi, un sequel spirituale di Vizio di forma (2014) – nonché l’esordio attoriale di Alana Haim.

A fronte di un budget medio per il regista – 40 milioni di dollari – è stato un pesante flop commerciale, non riuscendo a raggiungere neanche i costi di produzione.

Di cosa parla Licorice Pizza?

California, 1973. Gary e Alama sono due sognatori…nell’epoca sbagliata in cui sognare.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Licorice Pizza?

Assolutamente sì.

Anche se probabilmente non rientra tra le pellicole più significative della carriera di Anderson, Licorice Pizza è, ancora una volta, il racconto di un’epoca di sogni perduti, di speranze spezzate e di un cambiamento che nessuno si aspettava – nè desiderava.

E, se in Vizio di forma ci trovavamo alle porte dei più cinici Anni Settanta, qui i due giovani protagonisti si immergono totalmente in quest’epoca angosciante e piena di inquietudini, ma ancora carichi delle promesse dei decenni del dopoguerra.

Ambizioso

Gary è spregiudicatamente ambizioso.

Appena vede una donna di suo interesse – Alana – decide immediatamente che dovrà essere sua, e la corteggia sfacciatamente e senza preoccuparsi né dell’importante differenza di età, né delle sue legittime proteste, arrivando fino a dichiarare poco dopo che è la donna che sposerà.

Una situazione che potrebbe sembrare un classico comportamento di un adolescente che vuole fare la voce grossa, trattando sostanzialmente Alma come un trofeo per raccontare il suo status, ma in realtà la donna è solo l’ultimo capitolo di un racconto di ambizione sfacciato quanto ingenuo.

In altre parole, Gary è cresciuto in seno al sogno americano per cui tutto è possibile, per cui la carriera da giovane attore è solo un punto di partenza per avviare il suo brillante percorso da imprenditore, rincorrendo le mode del momento per realizzare affari immediatamente vincenti…

…ma anche sicuramente fallimentari.

Ma tutto è possibile quando ti puoi permettere di fallire grazie ad una famiglia che ti copre continuamente le spalle – dettaglio che molto spesso si dimentica nelle narrazioni dei grandi imprenditori americani – e che per questo ti permette di passare senza problemi da un fallimento ad un altro.

E così ogni oggetto può essere il prossimo grande trionfo – che siano i materassi ad acqua o il pinball – e così vale tutto – persino fare inside trading – l’importante è avere il successo, i soldi, lo status…e soprattutto una bella donna da mostrare al proprio fianco.

Ma Alana non è una donna qualsiasi.

Limbo

Alana è bloccata in un limbo.

Anche se inizialmente dà l’impressione di essere una giovane donna con i piedi per terra che si può permettere di guardare dall’alto al basso un ragazzino così sfrontato, in realtà, più la protagonista prosegue la pellicola, più si rivela per la sua incertezza e insicurezza, soprattutto mettendosi in confronto con Gary.

Infatti, a differenza di quello sbarbato quindicenne, Alana non ha una famiglia facoltosa alle spalle, anzi deve vivere nella continua competizione con le sorelle, continuamente osteggiata dal padre e faticando a smarcarsi da un’esistenza con orizzonti ben più limitati…

…e con uno slancio del tutto fallimentare.

A suo modo, anche Alama è una sognatrice, e, per quanto possa criticare Gary per i suoi metodi ed i suoi obbiettivi, rimane fortemente legata al un sogno di cambio di status, il cui primo passo imprescindibile è trovarsi un compagno, rincorrendo ambizioni romantiche sempre più impossibili, nonostante i buoni intenti.

E fallisce continuamente, e viene continuamente svalutata.

Ambizioni

Qual è l’ambizione di Alama?

Per quanto screditi il capriccioso percorso di Gary, la protagonista è altrettanto caotica nel suo agire, nonostante – soprattutto nel finale, quando partecipa alla campagna elettorale di Joel – si faccia forte di una morale che invece il ragazzino ignora totalmente, mostrandosi interessato unicamente al successo e al guadagno.

E altrettanto capricciosa è nel cercare di riappropriarsi di un corpo che non è mai veramente suo, ma di tutti gli uomini – prima di tutto Gary – che se ne vogliono impossessare per motivi anche non sessuali – come sempre Joel, usandola come copertura per la sua relazione clandestina ed inconfessabile…

…ma, soprattutto, come trofeo da esibire e di cui disfarsi a piacimento – come nel caso di Jack Holden – arrivando fino esasperare la situazione per puro gusto della vendetta – o forse per volontà di riappropriazione – quando improvvisa una seduzione telefonica per vendere un materasso, al solo fine di indispettire Gary.

Ma Gary è davvero migliore?

Lo scioglimento della vicenda sembra quello tipico della rom-com – fra gli altri, Harry ti presento Sally (1989) – ma, in realtà, osservando momenti che rischiano di sfuggire ad uno sguardo più superficiale, ci si rende conto che lo stesso è tutt’altro che felice: fino all’ultimo Alama è un trofeo da esibire nella sala giochi…

…e Gary è, infine, l’ennesimo uomo che tradirà la sua fiducia, tanto che, immersa nel suo sogno romantico, nel finale la protagonista è l’unica che dichiara sentimenti che probabilmente il suo nuovo compagno non ha mai provato realmente nei suoi confronti.

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Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Il dramma della storia Noir Paul Thomas Anderson Surreale

Vizio di forma – Un sogno a perdere

Vizio di forma (2014) è la seconda collaborazione di Paul Thomas Anderson con Joaquin Phoenix dopo The Master (2012).

A fronte di un budget ridotto rispetto ad altre produzioni del medesimo autore – 21 milioni di dollari – è stato un discreto disastro commerciale, non riuscendo neanche a coprire i costi di produzione.

Di cosa parla Vizio di forma?

Doc, un investigatore privato hippie, viene coinvolto nel misterioso rapimento del magnate Mickey Wolfmann…o almeno così sembra.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vizio di forma?

In generale, sì.

Mi risulta onestamente difficile scegliere se consigliare o sconsigliare questa pellicola, in quanto si tratta, senza ombra di dubbio, dell’opera più complessa di Paul Thomas Anderson, proprio perché vuole essere complessa.

Infatti il senso della pellicola si comprende solo ad un livello metanarrativo, andando ad indagare le scelte espositive del regista, che costruisce una sorta di pastiche noir per raccontare un periodo di transizione piuttosto travagliato per gli Stati Uniti.

Sogno

Shasta è un sogno da riconquistare.

Proprio come la voce narrante ci spiega, la donna riappare nella vita del protagonista all’improvviso, inaspettata ma ancora seducente, e introduce Doc in un caso che si rivela poco a poco come un labirinto, il cui esito è incerto e volutamente insoddisfacente.

Doc è infatti rappresentazione della morente culturale hippie e di un’epoca piena di promesse e di illusioni che si scontrarono con la straziante era della Guerra in Vietnam, della speculazione edilizia e, più in generale, di un capitalismo rampante in un mondo sempre più disilluso.

Eppure, proprio all’alba di questo angosciante panorama, il protagonista crede ancora di poter riconquistare quel sogno non ancora perduto, ma che gli scompare più volte fra le mani, mentre cerca di trovare il filo giusto da tirare per risolvere il mistero e, così, riconquistare Shasta.

Ma Shasta non è più sua da molto tempo…

Potere

Wolfman è a sua volta vittima.

L’internamento del magnate è la perfetta rappresentazione del cambio del sogno e, anzi, dell’adattamento dello stesso ad un nuovo panorama: la cultura hippie non è più una realtà alternativa e libera da ogni controllo, ma bensì una forma di business raccontata attraverso la clinica Chryskylodon, apparentemente luogo spirituale new age…

…in realtà spazio di controllo e di rieducazione.

Così, paradossalmente, Shasta stava cercando di salvare la cultura hippie da lei incarnata in una nuova forma, seppur paradossale, di un capitalista che va contro se stesso, che voleva dare via tutto il suo denaro e tenere intatte le comunità senza lanciarsi una speculazione selvaggia.

Ma la realtà è quella del Channel View Estate, una futura mostruosità edilizia che appare come una città fantasma – perfetta rappresentazione della successiva cultura del non-luogo – e le cui dinamiche sono volutamente sibilline, costruite per nascondere qualcos’altro.

E la sensazione di non detto è dominante nella pellicola.

Paranoia

La trama di Vizio di forma è talmente labirintica da risultare quasi paranoica.

Doc raccoglie – ma non riesce a spiegare – una serie di indizi che sembrano puntare da una parte in un’unica direzione – l’onnipresente Gold Fang – e, al contempo, in direzioni del tutto diverse, raccontando un panorama confuso, in continua trasformazione e di difficile comprensione.

Proprio per questo spesso le indagini di Doc vengono derubricate a pura paranoia hippie proprio da quella che dovrebbe essere la massima espressione dell’ordine – Bigfoot – ma che invece rema continuamente contro al protagonista e alla sua ricerca della verità.

In altri termini, Doc è continuamente incastrato in una situazione che non comprende o che vuole renderlo colpevole, e i vari rappresentanti della presunta giustizia – la polizia quanto l’FBI – gli sono spesso ostili e dichiarano apertamente i loro metodi poco ortodossi.

E, infine, nulla viene veramente risolto, ma invece quel problema, quel vizio di forma, intrinseco nel cambiamento del nuovo decennio continua ad essere in agguato, vanificando la reale riconnessone fra Doc e Shasta…

…e mostrandoli dirigersi verso un orizzonte indefinito, ricco di inquietudini appena emerse.

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Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Il peso della solitudine Paul Thomas Anderson

Il filo nascosto – Il cerchio impossibile

Il filo nascosto (2017) è la seconda collaborazione di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis dopo Il petroliere (2007).

A fronte di un budget tipico per questo autore – 35 milioni di dollari – è stato un discreto disastro commerciale, riuscendo di poco a superare il budget di partenza.

Di cosa parla Il filo nascosto?

Reynolds Woodcock è uno stilista affermato che sembra interessato solamente ai suoi modelli e al trovare la sua prossima musa. Ma forse la sua prossima vittima non sarà così…sottomessa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il filo nascosto?

Assolutamente sì.

Per quanto non sia personalmente fra i miei preferiti della sua produzione, con Il filo nascosto Paul Thomas Anderson continua il racconto di codipendenza distruttiva iniziato con The Master (2012) e poi continuato con Licorice Pizza (2022).

Ne risulta una pellicola di assoluta raffinatezza, che rende il racconto solo apparentemente prevedibile fin dalla prima inquadratura, e invece sorprendendoci nell’intreccio di un rapporto velenoso e senza via d’uscita.

Capriccio

Reynolds è un uomo capriccioso e insofferente.

La scena di apertura, in cui quella che scopriremo essere la sua ennesima conquista lamenta la mancanza di attenzioni nei suoi confronti, perseguiterà la nostra percezione per la maggior parte del film, facendoci credere che quello sarà indubbiamente anche il destino di Alma.

In effetti, il ciclo sembra piuttosto ripetitivo: Reynolds si impossessa di donne perfette da manipolare per renderle le sue prossime modelle per abiti da sogno, coprendole di attenzioni anche ossessive, per poi svuotarle di importanza, rendendole dei meri manichini sullo sfondo. 

E proprio Alma, la giovane e ingenua cameriera, viene facilmente rapita dall’interesse di Reynolds, vantando di poter essere lei – e solamente lei – la modella perfetta ed insostituibile, capace di sottostare alle sue manie e alle sue esigenze, raccontandolo anche con una punta di arroganza e, persino, di vanità.

Eppure è proprio lei la prima a scomparire nello sfondo, passando progressivamente dall’essere la musa, la modella di primo piano, ad una grigia osservatrice della scena, che cerca di ribellarsi con dei vaghi capricci e di riconquistare le attenzioni di Reynolds con tentativi a vuoto…

…oppure no?

Controllo

L’unico modo per avere le attenzioni di Reynolds è annientandolo.

Comprendendo che le sue attenzioni come musa ispiratrice si sono ormai esaurite, Alma sceglie invece di amplificare quei brevi momenti di vulnerabilità del compagno avvelenandolo e costringendolo a letto, prendendo quasi il ruolo della madre che Reynolds continua a sognare.

Ed effettivamente la malattia ha il suo eco anche successivamente, facendo mettere all’uomo tutto in prospettiva e accettando Alma nella sua vita non più come interesse passeggero, ma come compagna con cui vuole condividere la sua vita, sottoponendosi a quel matrimonio che aveva sempre rifuggito.

Ma basta poco perché il marito si rinchiuda nuovamente in sé stesso, sottraendosi alle sue richieste di turbare la routine costruita e persino andando a recuperare dal suo insensato capriccio della testa del Dr. Hardy, fino a sentirla come un peso insopportabile, financo la causa del suo fallimento.

E se il finale poteva essere prevedibile…

Gioco

Reynolds è consapevole del gioco di Alma?

La risposta sembrerebbe emergere dal loro scontro durante la festa di Natale, in cui Alma si lamenta della loro partita e Reynolds la rimbecca dicendole che, se stesse vincendo, non si lamenterebbe tanto, invitando a lasciare il posto ad una nuova giocatrice.

Ed è proprio poche scene dopo che, sotto gli occhi attenti dell’uomo, Alma gli serve il pasto avvelenato, che Reynolds accetta in maniera giocosa e provocatoria di inghiottire, lasciando che la donna gli riveli il piano che probabilmente aveva già intuito, ma di cui è solo che felice di far parte.

E così i due si ritrovano intrappolati in un gioco perverso di avvelenamento e di inganni svelati, in cui l’uno si bea degli stimoli continui, per quanto mortiferi, della donna nel presente, mentre Alma sogna un futuro impossibile in cui Reynolds sarà totalmente assoggettato ai suoi desideri.

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Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Paul Thomas Anderson

The Master – Una prigione per un’altra

The Master (2012) è forse uno dei film più intrinsecamente complessi di Paul Thomas Anderson, e il primo con protagonista Joaquin Phoenix – che tornerà a collaborare con il cineasta per il successivo Vizio di forma (2014).

A fronte di un budget abbastanza impegnativo – 35 milioni di dollari – non è riuscito neanche a coprire i costi produttivi.

Di cosa parla The Master?

Freddie è un veterano di guerra che non riesce a riconnettersi al mondo materiale e reale per una serie di psicosi di difficile risoluzione. Ma forse quello che gli serve veramente è una nuova famiglia…?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Master?

Assolutamente sì.

Nonostante, come detto, The Master sia probabilmente uno dei film più complessi della filmografia di Paul Thomas Anderson, anche per questo vale una o, meglio, più visioni per comprenderne la complessa simbologia e struttura.

Se, infatti, a primo impatto la pellicola apparirà sostanzialmente incomprensibile, ad una successiva visione, appena se ne sarà interiorizzata la complessità, comincerà a svelarsi davanti ai nostri occhi nella sua spettacolare meraviglia.

Simbolo

Freddie vive in una prigione di simboli vuoti.

Lo stress postraumatico non è il ricordo della trincea, ma bensì l’essere costretto ad abbandonare una realtà accogliente, costruita sui simboli più immediati e selvaggi del machismo, della sfacciata oggettificazione del femminile, e della conseguente convinzione di poterlo possedere a proprio piacimento.

Ne è chiara immagine la sequenza sulla spiaggia – che, non a caso, chiuderà anche la pellicola – in cui il protagonista mima l’atto sessuale su una sagoma di donna ricreata proprio per questo fine, tanto da apparire quasi come una bambola gonfiabile posticcia.

Eppure, l’atto sessuale, come si vede subito dopo, è solitario e ambiguo: Freddie non possiede effettivamente una donna e il suo è semplicemente un modo per dare sfoggio di un’identità da uomo dominante e sicuro di sé nel manipolare un femminile che in realtà non possiede.

Chiude il cerchio la sequenza dell’annuncio radiofonico della fine della guerra, in cui assistiamo ad un Freddie intrappolato in un sottomarino che continua a lavorare per trovare conforto – l’acqua – in una realtà – la guerra – che l’ha intrappolato, ma che al contempo gli ha permesso di esprimersi nella sua forma più semplice ed istintuale.

E la costrizione è continua.

Costrizione

Freddie è costretto ad essere l’uomo che non vuole essere…

…e che non riesce ad essere.

Il passaggio dal mondo militare al mondo reale è definito da due sedute psicologiche, in cui la società cerca di inquadrarlo e quindi di spezzare la facciata machista, fallendo al primo tentativo – le macchie di Rorschach sono solo un’ulteriore occasione di ostentazione – ma riuscendo, con la seconda, a penetrare la radice del problema.

L’identità di Freddie è così fragile proprio perché cerca un rifugio immediato dopo la perdita del punto di riferimento fondamentale: la famiglia, che sogna riunita intorno ad un tavolo a celebrare un momento quotidiano che gli sarà per sempre precluso, portandolo ad un’opprimente solitudine che è incapace di contrastare.

E la via d’uscita è rappresentata da Doris, giovane donna che prenderà una forma fisica solamente nel secondo atto, ma che in questo primo frangente è un convitato di pietra nel racconto, anzi nella giustificazione del pianto improvviso per la lettera da lei ricevuta, a cui Freddie non ha mai avuto il coraggio di rispondere.

E allora non resta che scappare, in eterno.

Ruolo

Freddie cerca costantemente di piegare il mondo alle sue necessità, ma fallisce continuamente.

Dalla fine del primo atto di The Master assistiamo ad un intersecarsi più intelligibile fra realtà e sogno, a cominciare dalla presunta relazione con la donna intravista al centro commerciale, che si intrufola nell’immaginario di Freddie come un fantasma per vivere una storia d’amore clandestina…

…che però si scontra con una realtà ben più insoddisfacente, come racconta la scena di chiusura al ristorante.

A quel punto, vivendo il suo insuccesso come colpa del ruolo che Freddie non può assumere – compagno e marito – cerca fisicamente di distruggere il presunto consorte della donna, scoppiando in una rissa da cui si immagina di uscire vincitore, portandosi dietro la donna fantasma che, almeno nel sogno, ha ormai conquistato.

E la distruzione del maschile nemico ha il suo apice nell’ultima scena del primo atto, quando Freddie viene accusato di aver avvelenato quell’uomo che aveva proprio le sembianze del padre, che Freddie sente come di aver la colpa e il rimorso di aver distrutto, scatenando così anche la distruzione del nucleo familiare e la sua conseguente solitudine.

Per questo, in un certo senso, Freddie ha bisogno di un nuovo padre.

Famiglia

Per Freddie è incredibilmente facile farsi assorbire da Don.

Il capo del culto tuttavia non lo internalizza immediatamente, ma piuttosto lo rende silenziosamente parte di una scena che Freddie può solo ammirare come spettatore, ovvero la composizione di un ulteriore nucleo familiare sotto alla propria guida…

…proprio come il sogno di Freddie stesso.

E così il protagonista osserva anche le sedute oniriche senza riuscire veramente a comprenderle, anzi cercando di comunicare con gli unici mezzi che possiede – le richieste di sesso – venendo tormentato dalla nuova moglie del figlio di Don, che ha le medesime sembianze ora di Doris, ora della sua proiezione – la donna del primo atto.

La manipolazione di Don è quindi più sottile e controllata, e attira il protagonista nella sua trappola facendogli credere di essere stato lui stesso a volerla, e costringendolo in una serie di regole apparentemente insensate, in realtà utili per costringerlo sotto al suo magistrale controllo, come a volerlo domare.

La prima seduta diventa così strumento per Don per comprendere fino in fondo la profondità del trauma di Freddie, che sembrava aver concretamente la possibilità di intraprendere un percorso relazionale, anzi insistendo a questo fine, per poi vederselo strappare da una realtà – quella militare – in cui si era felicemente rinchiuso.

E la chiusura di quella scena, con un brindisi del distillato di Freddie, suggella il loro rapporto all’interno della concretizzazione del sogno iniziale del protagonista – la famiglia che beve intorno ad un tavolo – che definisce la totale dipendenza di Freddie da Don e dal suo sogno.

Ed è un sogno veramente allettante…

Identità

Don e Freddie sono codipendenti.

Anche se inizialmente potrebbe sembrare che Don sia un guru da manuale, in realtà, più la storia prosegue, più appare evidente la sua estrema convinzione verso la Causa, verso questa idea di liberazione dal presente e dal corpo materiale, abbracciando le infinite possibilità del corpo immateriale e atemporale.

Infatti, accettare il presente come realtà solo temporanea, permette di aprirsi alle infiniti scenari passati e futuri, così da non essere schiavi di un tempo che sembra che ci definisce in maniera stringente, aprendoci invece a nuovi panorami, più fluidi e dalle infinite potenzialità.

Per questo Freddie è la preda perfetta.

Il protagonista è infatti estremamente definito dal suo presente e della sue scelte passate, bloccato in un sistema di simboli netti e senza via di fuga, che lo rendono solo e caotico nel suo agire, eternamente spinto verso la ricostruzione di un nucleo familiare con la donna amata – Doris – che gli è precluso per le sue stesse scelte.

Non a caso Don è l’unico che realmente crede nella possibilità di salvezza di Freddie, nonostante le proteste di tutti gli altri personaggi – specificatamente di Peggy – ed è l’unico che lo insegue anche nella sua continua fuga da una gabbia che crede solo di poter evadere, e in cui ritorna ciclicamente.

Questo concetto è ben raccontato dalla lunga sessione finale, soprattutto quando Freddie vaga da una parete all’altra, come a riconoscere la prigione in cui è intrappolato, ma sostenendo di poterne uscire quando vuole, cercando anche di sforzarsi oltre l’immediato – come nel cambio di colore degli occhi di Peggy.

E, quando infine Don crede di averlo domato, Freddie sfugge totalmente al suo controllo.

Tornare

La conclusione di The Master è una non-conclusione.

Freddie scappa dalla Causa e cerca di tornare alla realizzazione di quel sogno che si era negato – Doris – per vederlo sfumare davanti ai suoi occhi, davanti ad un ulteriore uomo che ha preso il posto che il protagonista ha sempre ricercato, ma mai raggiunto, in un’opprimente circolarità che lo porta inevitabilmente ad essere di nuovo solo.

Come un oracolo, Don cerca nuovamente di penetrare nella sua vita, cerca di ingannarlo raccontagli una vita passata in cui erano compagni di guerra, mettendolo quindi sul suo stesso piano e illudendolo – e forse illudendo anche se stesso – di una relazione non di master e pupil, ma bensì di comune impegno per la causa comune…

…sempre illudendolo di una possibile scelta.

Ma, a sorpresa, Freddie sceglie di irridere Don e la sua causa, fingendo ulteriori possibilità in una vita futura, dove invece Don dichiara che saranno nemici eterni, concludendo il loro incontro con una crudele canzone che racconta il sogno d’amore che Freddie non ha mai potuto realizzare.

E così infine si ritorna agli stessi simboli, alle stesse donne facilmente e sessualmente conquistate – che siano reali o meno, a questo punto, ha poca importanza – con cui Freddie cerca di mimare la sessione di Don, volendo dimostrare a sé stesso di averla ormai assorbita, di saperla facilmente replicare…

…finendo, infine, costretto di nuovo alla situazione iniziale, accanto ad un simbolo scarnificato.

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The Life of Chuck – L’attesa

The Life of Chuck (2025) è un film drammatico diretto da Mike Flanagan con protagonista Tom Hiddleston.

A fronte di un budget sconosciuto, per ora ha avuto un incasso piuttosto misero.

Di cosa parla The Life of Chuck?

La Terra per come la conosciamo rischia di cadere a pezzi, simbolo per simbolo…ma se fosse qualcosa di più personale?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Life of Chuck?

Assolutamente sì.

Con The Life of Chuck, dopo una lunga parentesi orrorifica, Flanagan intraprende un racconto drammatico e riflessivo veramente inaspettato, andando a ricalcare una filosofia non estranea alla sua filmografia, ma arricchita da un taglio più speranzoso che mancava nelle sue recenti più recenti produzioni.

Non manca uno spaesamento iniziale verso una storia che sembra raccontare tutt’altro, ma che merita di essere scoperta  atto dopo atto, diventando limpida solamente nelle sue ultime, fondamentali, battute che riescono perfettamente a chiudere il cerchio.

Didascalia

Tutta la prima parte della pellicola è una incomprensibile didascalia…

…finché non diventa comprensibile.

Flanagan sulle prime sembra portare in scena un film sci-fi dal sapore post-apocalittico, costellato da scomparse improvvise e dal graduale decadimento delle connessioni interne e delle certezze che componevano l’universo umano, con un gruppo di personaggi che sembra vivere solo per raccontarsi.

Eppure, arrivati al finale, il primo atto acquista un significato del tutto diverso.

L’universo rappresentato in realtà non è altro che l’immensità contenuta internamente da Chuck, che progressivamente si sgretola insieme al suo corpo e alla sua memoria – come testimoniano i personaggi che progressivamente scompaiono di scena.

Gli stessi comunque emergono come ricordi flebili nel tempo, massime che hanno definito la vita del protagonista e modellato la sua esistenza in qualcosa di straordinario, che merita di essere celebrato, pur consapevole della fine imminente e del suo essere un personaggio sostanzialmente anonimo.

O, meglio, un personaggio bloccato nell’attesa.

Attesa

Chuck non può controllare la propria esistenza.

La sua pallida vita adulta è stata matematicamente ordinata in un lavoro che il protagonista ha sempre rigettato in favore di una vita dedita ad un movimento più spontaneo e incontrollato – la danza – ma in cui infine si è trovato intrappolato, seguendo le medesime impronte del nonno.

La tragica visione della sua morte imprime evidentemente in Chuck un senso di impotenza, che rende imperativo riprendere il controllo sulla propria esistenza tramite i numeri, lasciandosi alle spalle il sogno danzante e chiudendosi in un controllato grigiore…

…ma non senza una via d’uscita.

La straziante attesa della fine viene spezzata da uno – ma forse non l’unico – momento in cui Chuck ha abbracciato una felice imprevedibilità, in cui si è ricordato degli insegnamenti della nonna, di quel momento in cui l’ha vista rinascere nonostante anche lei, inconsapevolmente, fosse in attesa della propria morte.

In questo modo il protagonista fa suo l’insegnamento di entrambe le figure genitoriali: da un lato si adegua all’idea di attesa e di controllo della stessa, al guardare oltre ai meri numeri per vedere l’immensità che gli stessi nascondono, dall’altra ad abbracciare una vita, nel suo piccolo, semplicemente meravigliosa.

E qui, alla fine, sta tutto il punto della pellicola.

Anonimo

Chi è Chuck?

È una domanda che si rincorre per le bocche dei protagonisti per tutto il primo atto, specchio proprio di un senso di mediocrità che il protagonista sente di soffrire, ma splendidamente incorniciata da una consapevolezza di grandiosità che esiste solo se Chuck stesso accetta che esista.

Nella lezione della sua maestra infatti il protagonista scopre come nel suo essere non contiene solo carne, ossa e un cervello pensante, ma un’immensità di persone, ricordi, oggetti, situazioni che formano un prezioso universo interiore, dotato di una propria vita ed importanza.

Così, in questa piccola ma significativa riflessione a sorpresa dopo produzione più recente segnata dall’orrore e dal rimorso, Flanagan ci racconta come fare propria la meraviglia del piccolo, del quotidiano, come siamo noi stessi padroni di una vita meravigliosa e che vale assolutamente la pena di essere vissuta…

…e non come un’attesa dolorosa della dipartita che arriva inevitabilmente per tutti, ma come una grande, meravigliosa occasione.

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Senior Year – Cosa abbiamo imparato?

Senior Year (2022) di Alex Hardcastle è il suo esordio alla regia ed è un teen movie che ripercorre diversi stereotipi del genere di inizio del Millennio.

Il film è stato distribuito direttamente su Netflix.

Di cosa parla Senior Year?

Steph è all’ultimo anno del liceo e sembra pronta a fare il botto…finché qualcuno non lo fa per lei.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Senior Year?

In generale, sì.

Senior Year forse non si può annoverare fra i prodotti più brillanti del genere teen movie post-Anni Duemila, ma offre comunque degli spunti interessanti per raccontare come i prodotti dell’inizio del Millennio abbiano influito sull’immaginario generazionale.

E così, anche nel suo impianto narrativo semplicistico e la sua morale fin troppo buonista, riesce a dare un insegnamento non banale, ma che, paradossalmente, è più pensato per gli adulti attuali che le nuove generazioni.

Schema

Il racconto del passato di Senior Year è uno specchio perfetto del genere all’inizio del millennio.

Le sciocche manie di protagonismo e la continua competizione fra Stephanie e Tiffany potrebbero essere proprie di un qualunque teen movie del periodo, e sono racconto di un sistema distorto finalizzato unicamente all’apparenza e al divorarsi a vicenda…

…basando la propria esistenza su dei miopi sogni di un futuro perfetto come naturale eco del successo presente, basando la propria felicità sulle esigenze più immediate di approvazione, appartenenza e popolarità – pena rimanere infelicemente ai margini.

Ma è un sogno fragile, derivato da un’esigenza immediata.

Stephanie ricerca nella popolarità una via di fuga da una vita di cui ha già subito abbastanza per la sua giovane età – dal cambio forzato di panorama sociale alla morte prematura della madre – andando a ricercare così una vita apparentemente perfetta che possa cancellare tutti i suoi problemi.

Ma il presente è davvero migliore?

Ideale

Il racconto del presente di Senior Year sembra non giungere davvero al punto.

Da una parte rappresenta il racconto di una società i cui problemi del passato sembrano essersi trasmessi al presente solamente dietro una facciata diversa, senza cancellare le inquietudini che gli adulti ora al comando soffrono ancora.

Per questo la gestione della popolarità di Bri sembra da un lato derivata effettivamente dalle sue azioni lodevoli, dall’altra del tutto montata da sua madre, l’ormai adulta Tiffany, che non ha mai veramente abbandonato le vesti da reginetta del ballo, portando così a delle rappresentazioni incerte sul piano narrativo.

In alcuni frangenti la figlia sembra agire di propria sponte e con gli stessi atteggiamenti della madre – dal non voler seguire Stephanie su Instagram al fare delle feste per VIP a cui né Janet né Jaz sono invitati – altre volte sembra ribellarsi a lei e al suo inseguimento di un sogno che non le appartiene.

Allo stesso modo, la cancellazione di ogni possibilità della discriminazione che Martha ha dovuto subire da adolescente è un evidente nonché maldestro tentativo di aggirare un problema, quando in realtà lo stesso – in maniera ben poco credibile – non sembra proprio esistere, in quanto tutti gli studenti sembrano incredibilmente positivi nel loro agire.

Forse perché la lezione non è per chi vive l’adolescenza oggi, ma per adulti che l’hanno dovuta subire ieri?

Focus

Nella sua semplicità, la morale di Senior Year è un insegnamento intergenerazionale.

La pellicola ci racconta oggi come ieri che l’inseguimento di questo fantomatico successo – ancora più amplificato dall’esposizione sui social media – non sia la reale chiave per la felicità come spesso si pensa, ma anzi che questa folle corsa ad essere i protagonisti della scena può essere più stancante che premiante.

Infatti emerge chiaramente nel corso della pellicola come Stephanie si sia esaurita all’interno di un’effettiva ossessione che l’ha portata a dare più importanza a qualcosa di insignificante e passeggero piuttosto che all’affetto delle persone effettivamente importanti per la sua vita.

Un’ossessione che, fra l’altro, l’ha portata a non rendersi conto della pluralità delle esperienze dei suoi amici, che hanno vissuto in tutt’altra direzione la sua felicità perfetta, e che ne pagano le conseguenze nella vita adulta, nella loro insoddisfazione e inquietudine – mai realmente risolta neanche nel finale.

Ma, paradossalmente, il personaggio più importante è quello di Deanna Russo, che racconta come le possibilità di una giovane donna possano andare molto più in là di una semplice gara di popolarità – la stessa che Tiffany sta vivendo nel presente…

…proprio per bocca di un’attrice come Alicia Silverstone, diva degli Anni Novanta per Clueless (1995), mai riuscita ad affermarsi realmente altrove.

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Bottoms – Tutto cambia, nulla cambia

Bottoms (2023) è il secondo film di Emma Seligman, dopo lo splendido esordio di Shiva Baby, nonché la sua seconda collaborazione con Rachel Sennott.

A fronte di un budget piccolino – 11 milioni di dollari – con la sua limitata distribuzione cinematografica è riuscito appena a coprire i costi di produzione.

Di cosa parla Bottoms?

PJ e Josie sono due ragazze gay, brutte e senza talento – ma sono discriminate solamente per quest’ultime due caratteristiche. Eppure, dal bottom al top la strada – forse – non è così impervia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bottoms?

Assolutamente sì.

In un panorama di genere dove sembrava non ci potesse essere un altro Not Another Teen Movie (2001), Emma Seligman arriva con la sua seconda opera con uno spoof movie assolutamente inaspettato e incredibile sottile nei temi.

Infatti, dietro alla facciata irresistibilmente e surrealmente comica, Bottoms racconta un panorama sociale drammatico e straziante, lo deride e lo ritrae amaramente con un lieto fine che non è veramente lieto…

Rivelazione

Bottoms non rivela subito le sue carte.

Anche se il sottofondo comico è evidente, l’incipit della pellicola sembra la classica apertura che racconta il tentativo di rivalsa di due sfigate nel nuovo anno scolastico, e così i ridicoli accenni al presunto passato burrascoso delle due – il riformatorio e gli omicidi – sembrano un contorno comico e nulla di più.

Ma il fallimento della loro rivalsa è proprio il punto di partenza dell’assurdità comica che pervade la pellicola, e che si rivela soprattutto nel lunghissimo monologo di Josie riguardo alle sue prospettive future – su cui si fa fin troppo coinvolgere emotivamente.

Eppure proprio in questo frangente, più nascosto, troviamo il primo seme dell’importante riflessione della pellicola.

La ridicola dinamica di Jeff che viene aggredito esplode nella tragica sequenza dei suoi compagni che vengono in suo aiuto, e ha il suo eco anche nella scena successiva del ritorno a scuola, quanto il quarterback paventa delle indispensabili stampelle e, di seguito, quando le protagoniste vengono chiamate dal preside per lo stesso motivo.

E così l’importanza della terribile aggressione oscura l’effettivo problema che viene annunciato, e poi dimenticato nella sua drammaticità: la ragazza effettivamente aggredita da un ignoto componente della squadra di football, la cui centralità nel discorso è appunto tale da soffocare tutto il resto.

In questo senso, l’irresistibile battuta di Tim ci racconta già tutta la situazione:

More violence. Just what this school needs.

Altra violenza. Proprio quella di cui questa scuola aveva bisogno…

Combattere

Il Fight Club nasce per tutti i motivi sbagliati.

Bottoms – come in un certo senso era già stato in Booksmart (2019) – gioca molto sul ribaltamento di un topos piuttosto classico del genere – da She’s all that (1999) in poi – in cui il personaggio maschile intraprende una relazione con la protagonista per finalità ben poco lodevoli.

Per questo PJ trascina Josie in questa suo folle progetto, con finalità ben più materiali rispetto a quelle paventate: riuscire ad avvicinarsi alla sua ragazza dei sogni con l’inganno, facendosi forza di una rete di bugie che, per stessa ammissione della protagonista, è veramente sorprendente per quanto sia intricata.

Tuttavia, l’esito del progetto è ben più importante rispetto al conquistare Isabel.

Come viene più volte ribadito, anche indirettamente, tutte le ragazze prendono parte al club per motivi diversi, ma accomunati, al netto dell’ironia, da una condivisa necessità di trovare un luogo sicuro in cui poter raccontare i loro disagi e le loro preoccupazioni.

Per questo, anche se disordinatamente, le ragazze imparano a mettersi in delle situazioni che altrimenti non si sarebbero mai azzardate ad affrontare, riuscendo a ritrovare quella solidarietà femminile che effettivamente mancava nel contesto sociale della scuola.

E in questo senso Jeff è una storia a sé.

Prodotto

Jeff è il prodotto di un sistema.

Per quanto il quaterbeck sia il frontman della scuola e del sistema che la governa, in realtà è solo la facciata di una realtà ben più profonda e radicata, tanto da apparire veramente come una marionetta senza forza di volontà e incapace di reagire alle situazioni, ma perfetto da usare come fantoccio.

Non a caso, nella sua ingenuità, Jeff agisce seguendo un set di regole preimpostate che neanche comprende – come si vede molto bene nella scena in cui cerca di giustificarsi con Isabel per il tradimento – e la sua forza sta proprio nell’essere spalleggiato da personaggi come Tim.

Il secondo al comando è di fatto la vera mente e braccio dell’operazione, che ragiona sulla base di un concetto ancora estremamente contemporaneo – e già ampiamente affrontato in Mean Girls (2004) e il suo erede spirituale Do Revenge (2022): divide et impera.

Così Tim attacca l’anello debole della catena, Hazel, la prima sostenitrice del progetto nonché fautrice delle improbabili voci di corridoio sulle protagoniste, quando si sente tradita dal gruppo in cui si era ritrovata e così usata come cavia per raccontare il fallimento del progetto del Fight Club.

Ma è a questo punto che Bottoms diventa veramente sottile.

Cambiamento

Nel finale di Bottoms cambia qualcosa?

L’atto finale della pellicola è una gustosissima parodia prima del momento di passaggio legato ai contrasti interni fra i protagonisti – che ha il suo apice nel momento in cui, senza alcun motivo, PJ mangia dei disgustosi ravioli in scatola – e poi della ricerca dell’aiuto nella figura adulta.

Ma lo stesso non è altro che un pretesto per dare modo al finale di esistere, costruendo una sorta di trama thriller che viene sistematicamente smentita dai fatti – nessun atto sacrificale, solo un becero boicottaggio della squadra avversaria – che permette però al gruppo protagonista di ritrovarsi in scena e dare prova del proprio cambiamento…

…se si può effettivamente definire tale.

Le ragazze finiscono per combattere un problema di facciata, che non esiste realmente se non nelle improbabili teorie di Rhodes, e a salvaguardare l’incolumità di Jeff, unico punto di interesse dell’intera comunità scolastica, e per questo vengono acclamate come se avessero tutti giocato verso il medesimo obbiettivo.

Ma tutto il resto non viene effettivamente risolto.

Non sappiamo nulla sull’aggressione della sera della festa, le ragazze vengono riconosciute solo per i servizi resi alla scuola e non per aver dimostrato di sapersi difendere, e, soprattutto, la sottotrama dello school shooting viene proprio esclusa dalla scena.

Per questo, infine, Bottoms sceglie di evadere il classico epilogo risolutore solitamente utilizzato per raccontare il rinnovato panorama sociale: nulla è veramente mutato, ma si è continuato a tenere gli occhi puntati sul problema minore – la sicurezza di un personaggio già ampiamente privilegiato in questo senso…

…ignorando, di fatto, tutto il resto.