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2023 Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Surreale

Estranei – Una vita di fantasmi

Estranei (2023) di Andrew Haigh è una pellicola queer dal forte taglio onirico e simbolico.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 5 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 20 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Estranei?

Adam è un uomo solo con il blocco dello scrittore. E senza risolvere i drammi del suo passato non può abbracciare neanche il suo presente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Estranei?

Assolutamente sì.

Estranei è un conguaglio di elementi che mi hanno facilmente conquistata: una trama profondamente onirica, quasi lynciana, che ci fa immergere nella psiche del tormentato protagonista, lasciandoci sempre in bilico fra sogno e realtà.

Insomma, una pellicola a tema queer diversa dal solito, che indaga più profondamente i drammi che facilmente ognuno di noi si porta dall’infanzia fino alla vita adulta, come cristallizzati nel tempo, e per sempre irrisolti.

Entrare

Paul Mescal in una scena di Estranei (2023) di Andrew Haigh

Andam non può lasciar entrare nessuno.

Il tentato approccio di Harry è probabilmente l’unico momento realmente reale dell’intera pellicola e, anche se sul momento sembra una situazione insignificante, in realtà è fondamentale nel definire la dinamica di entrata e uscita dei personaggi in scena.

Cosi, chiudendo la porta ad Harry, Adam ne apre un’altra, ma in realtà si chiude dentro se stresso, dentro il ricordo fin troppo felice dei genitori persi precocemente, ma che ancora il protagonista proietta nelle loro versioni giovani e aitanti, bloccate proprio in un ricordo d’infanzia perfettamente cristallizzato.

Andrew Scott in una scena di Estranei (2023) di Andrew Haigh

E altrettanto idealizzato è il rapporto immaginario con Harry, che lo guida alla riscoperta del proprio corpo e della propria sessualità, mentre il protagonista è ancora imprigionato in sentimenti irrisolti verso i propri genitori, con cui non ha avuto il tempo di chiarire la sua scoperta della sessualità – ma non solo.

E la risoluzione, con significati diversi, è proprio la chiave.

Ricordo

Andrew Scott in una scena di Estranei (2023) di Andrew Haigh

Adam sa di non dover essere lì.

Eppure, deve esserci.

Il suo senso di inadeguatezza è ben visibile nei vari momenti in cui vive proprio come se fosse ancora un bambino con il suo pigiamino che si infila terrorizzato nel letto dei suoi genitori di notte, che si rimmerge in dinamiche quotidiane ma sicure come mettere l’ultimo addobbi all’albero di Natale.

Allo stesso modo, lo stesso è visibile soprattutto nel confronto con la madre, che, in un misto di rabbia e preoccupazione, rigetta il coming out del figlio anche e soprattutto nell’idea di una supposta vita infelice e piena di preoccupazioni, per il quale è Adam stesso a doverla rincuorare sulla società più accogliente in cui è immerso.

Eppure, questo dialogo è parte di un confronto essenziale e, idealmente, risolutivo con le figure genitoriali.

Andrew Scott in una scena di Estranei (2023) di Andrew Haigh

Il senso di insicurezza se per la madre è nel presente, per il padre è nel passato, un passato in cui la figura genitoriale ammettere con rammarico di non essere stata presente e risolutiva come avrebbe dovuto – o voluto? – essere, lasciando il figlio in balia di un mondo ostile e opprimente.

In altri termini, Adam ricerca nel passato delle sicurezze che il presente non gli concede, e che si vanno definitivamente a frantumare davanti alla definitiva impossibilità di avere delle risposte concrete dei suoi genitori ormai scomparsi nel presente, e che appaiono come fantasmi in una casa ormai abbandonata.

Per questo, infine, la risoluzione si sposta al di fuori della casa.

Rinascita

Andrew Scott e Paul Mescal in una scena di Estranei (2023) di Andrew Haigh

Il passaggio all’esterno è fondamentale per la chiusura del film.

Il cambiamento comincia in seno alla sicura stanza da letto genitoriale, dove la madre prima comincia a chiedergli di raccontargli il dopo la sua morte, e a cercare in qualche modo certezze che il figlio non sia stato di fatto abbandonato nonostante la loro scomparsa, per poi farsi guida per il passaggio materiale all’esterno della casa.

Di fatto sono i suoi fantasmi a guidarlo verso la risoluzione del suo dramma, ovvero evadere un sogno da cui sembra impossibile fuggire, ma che di fatto si dissolve nel presente in cui Adam può solo mantenere vivo il ricordo dei suoi genitori, senza però poterci più parlare effettivamente, infine arrendendosi davanti a questa realtà.

Ma c’è ancora un fantasma da risolvere.

Il finale di Estranei (2023) di Andrew Haigh

Costruendo un immaginario perfetto di relazione con Harry, Adam torna sicuro sui suoi passi per provare concretamente a cominciare la relazione, ma si ritrova invece davanti ad una persona ancora più fragile di lui stesso, che si è lasciato inghiottire, con grande angoscia e vergogna, dai suoi demoni.

Per questo, infine, i ruoli si scambiano.

Adam, che è rimasto per tutta la pellicola come intrappolato nel ruolo della vittima, del personaggio da consolare e bisognoso di curo, diventa invece autore di un abbraccio quasi astrale con cui continua a far vivere Harry nel presente e, forse, ne mantiene viva una memoria più felice e meno vergognosa, che lo porti, a suo tempo, ad accettare la sua scomparsa.

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Giulietta degli spiriti – Il sussurro liberatorio

Giulietta degli spiriti (1965) è uno dei film più propriamente onirici della filmografia di Federico Fellini, che mise ancora una volta al centro della scena la moglie e musa Giulietta Masina.

A fronte di un budget – pur mai confermato – di 2 milioni di euro, ha incassato meno di 100 mila euro in tutto il mondo.

Di cosa parla Giulietta degli Spiriti?

Giulietta è una donna sola e nevrotica, intrappola in un matrimonio infelice. Eppure, la risposta ai suoi problemi potrebbe venire da una persona inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Giulietta degli spiriti?

In generale, sì.

Non mi sbilancio nel consigliare questa pellicola in quanto siamo definitivamente entrati nella seconda fase della filmografia felliniana, scandita da impianti onirici e fantastici, pregni di simbolismi complessi e sfuggenti…

…che potreste comprensibilmente mal digerire.

Eppure, Giulietta degli spiriti è anche uno dei film più intimi e personali di Fellini, dove affronta nuovamente temi già portati in scena in (1983) ma cambiando prospettiva: non più l’uomo che tradisce (lui stesso) ma la donna tradita e la sua liberazione (sua moglie).

Prigione

Giulietta è in gabbia.

Proprio come per , la protagonista è introdotta di spalle, mentre istericamente cerca una sua identità, e ne getta via molte altre, all’interno di uno dei tanti tentativi di riprendere il controllo del suo matrimonio – e, per estensione, della sua vita – con la festa a sorpresa per il marito.

E invece è Giorgio infine a mostrarsi nella sua natura di personaggio invasivo e opprimente, che ribalta i piani di un incontro intimo e raccolto per far inondare la casa di una fiumana di diversi e grotteschi personaggi, dietro i quali si barrica per nascondere la sua infedeltà e il suo disinteresse per il proprio matrimonio.

Giulietta è così bloccata all’interno della trappola borghese per eccellenza: il matrimonio infelice, in parte già raccontato in Lo sceicco bianco (1956), e che qui viene nuovamente tratteggiato nei suoi silenzi e nei suoi detti per mantenere un’apparenza compatta e rispettabile.

Ma le radici di questa situazione sono ben più profonde…

Radici

I simboli dell’oppressione sono duplici.

La figura più squisitamente borghese è indubbiamente la madre, rappresentante in una certa misura il punto di arrivo ideale per Giulietta e per il suo matrimonio: incredibilmente elegante e altezzosa, non lasciandosi definire dalla sciocca infedeltà del marito, e che, per questo, si permette di giudicare costantemente la figlia.

E, non a caso, è anche la figura chiave che porta Giulietta ad affrontare piena di angoscia l’infedeltà del marito, all’interno di una dinamica che, più che un aiuto, sembra un’imposizione – e l’ambientazione così esplicitamente scolastica e cattolica non fa che incrementare la sensazione che Giulietta abbia bisogno di una lezione.

Non a caso, proprio in questo frangente prende piede l’altro incubo fondamentale della protagonista: l’educazione religiosa, che parte dagli investigatori con vesti clericali e arriva fino al momento fondamentale di definizione della protagonista, ovvero la recita in cui, fin da bambina, ha preso le vesti di una martire.

Una condizione che ben si riflette anche nel presente, in cui Giulietta subisce colpo su colpo le umiliazioni di Giorgio, restandogli sempre fedele e devota, financo silente anche davanti ai più evidenti comportamenti di infedeltà malcelata, infine costretta a vedere il tradimento in diretta.

Eppure, una via di fuga è possibile.

Sussurro

Parlando col mondo immateriale, in realtà Giulietta parla con sé stessa.

Le figure chiave in questo senso sono capovolte: la fuga materiale dalla prigione borghese è il ricordo del padre e del suo tradimento così sciocco e plateale, che si va però ad incastrare anche con la liberazione della figlia stessa dagli stretti lacci dell’educazione religiosa, rappresentati proprio dal suddetto spettacolo.

Infatti, nel contesto della recita scolastica così silenziosamente accettata dal resto del pubblico, la figura paterna è infine quella liberatoria, l’unica che vuole strappare la figlia da un futuro infelice e di sofferenza.

Una lezione che si trasmette anche nel presente, nell’ambigua figura di Susy, la vicina di casa e padrona della vita e di numerosi personaggi che compongono un quadro surreale, onirico e al limite del circense – da cui proprio la donna proviene.

Ma neanche lei è la liberazione.

Il personaggio di Sandra Milo è infatti racconto di un punto di arrivo che la protagonista non vuole davvero abbracciare – nonostante sarebbe la scelta più desiderabile – che ha la sua enfasi nel complesso e intrigante mondo degli spiriti che le continuano a sussurrare di seguirla e di fidarsi…

…mentre infine Giulietta segue solo se stessa: libera prima la stessa bambina dai lacci di un’educazione opprimente e poi evade la prigione borghese – il matrimonio – ma anche la casa degli spiriti e di una vita dissoluta, per scegliere, infine, solo per sé.

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Comico Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film Surreale

8½ – Lo squallido catalogo dei miei errori

(1963) di Federico Fellini rappresenta forse il film più intimo e sentito della sua filmografia, oltre ad un apripista per la seconda parte della sua carriera, più vicina all’onirico e al surreale che al neorealismo (se così si può chiamare).

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 213 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla ?

Guido è un regista che deve assolutamente preparare il suo prossimo film, incalzato da produttori, attori e amanti per qualcosa che non riesce davvero a concepire…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 8½?

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

rappresenta la più sublime ed intensa riflessione felliniana, uno spaccato che ci permette realmente di penetrare la mente del regista e che rappresenta il punto di passaggio perfetto da La dolce vita (1960) al resto della sua carriera, con una formula che il nostro cinema tentò più nel tempo volte di replicare con scarso successo.

E la bellezza dell’opera sta proprio nel modo in cui Fellini si mette a nudo, in maniera davvero sincera verso se stesso e verso il proprio pubblico, con le sue manie e i suoi peccati quasi ridicoli, ma perfettamente portati in scena da un superbo Mastroianni, che seppe così dimostrare la pluralità delle sue capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Stallo

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è malato di sé stesso.

La sua situazione iniziale è quasi desolante: un uomo poco più che quarantenne confinato in un ritiro per la terza età, sottoponendosi a delle cure che sono più dei palliativi rigenerativi per un’angoscia esistenziale che si riflette anche sul suo aspetto tremendamente invecchiato e fragile.

Una ricerca di pace e di serenità che è facilmente guastata ora dall’imperiosa figura del Commendatore, che lo intima a più riprese di dare effettivamente avvio alla produzione del film – rappresentazione piuttosto ovvia delle case di produzione che assillavano Fellini dopo il successo de La dolce vita

Marcello Mastroianni e Sandra Milo in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

…ora dalla miriade di attrici e attori che esigono, pretendono e non danno mai nulla indietro, se non la costante sensazione di essere infestato da problemi che Guido non si sente in grado di risolvere, riuscendo solo a modellare gli interpreti in figure del suo passato e del suo presente, demoni di cui non riesce a liberarsi.

Infatti, è anche e soprattutto un racconto di liberazione della colpa.

Colpa

Anouk Aimée in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è colpevole.

Ad un livello più superficiale e immediato la sua colpa è l’infedeltà nei confronti della moglie – alter ego di Giulietta Masini, compagna e musa – per tutto il primo atto un convitato di pietra insieme al marito dell’amante, che è costantemente richiamato dalle parole di Carla, facendo sentire Guido un eterno secondo…

…e che infine, richiamata proprio dal protagonista, appare in scena, scontrandosi immediatamente, già solo con la sua presenza semplice e austera, con la figura invece chiassosa dell’amante, venendo presa al laccio dal desiderio del marito di modellare e riraccontare il suo presente, ma rifiutandosi quasi immediatamente.

L’intento di Guido è infatti metterle così in scena il suo passato e presente così da poterlo finalmente controllare e quindi capire, per potersi infine depurare da quelle colpe che sente che lo tengono a terra, impedendogli di librarsi verso gli orizzonti che desidera fare suoi.

Ma la colpa più importante – e anche più profonda – è l’educazione clericale: la stessa è proprio rappresentata come incastonata in un luogo segreto ed impenetrabile, che si apre solo per pochi momenti agli occhi del protagonista e solo per ribadirgli di dover tornare sotto i dettami della chiesa altrimenti…

Extra Ecclesiam nulla salus

Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.

Ma questa colpa, questo peccato originale viene da lontano…

Passato

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il tormento presente è in gran parte derivato dal passato.

Il passato ha infatti per Guido una doppia valenza: da una parte è un ricordo felice e rasserenante, con i suoi piccoli riti segreti che ancora vivono nella mente presente, con le cure amorevoli di molte donne – prima di tutto la madre – che ora non fanno più parte della sua vita.

Infatti la nostalgia per questo passato ben più semplice è identificata anche dall’angosciante visione di una sorta di aldilà in cui Guido può finalmente rivedere i suoi genitori – principalmente il padre – costretti in un paesaggio acre e angosciante, financo lugubre – con il padre che si stende nella fossa – e comunque con continui richiami al presente – la moglie e il Commendatore.

Particolarmente quest’ultima è una figura chiave che svela la seconda e fondamentale valenza del passato, ovvero quella della colpa, particolarmente la colpa sessuale: come il padre chiede all’imperiosa figura presente del produttore del comportamento del figlio, ricevendo un sordo brontolio di insoddisfazione, lo stesso si propaga anche nella colpa, anzi nelle colpe passate.

Una delle origini delle sue disperazioni presenti, soprattutto nei confronti delle donne, è proprio il peccato di aver voluto assistere allo spettacolo erotico di Saraghina, per cui viene punito proprio dall’ordine clericale che lo tormenta ancora nel presente, e che lo porta a relazioni amorose così disordinate.

Insomma, Guido vorrebbe solo ordine.

Obbiettivo

Claudia Cardinale in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il protagonista vive nell’ombra di un sogno impossibile.

In questo senso il cinema si intreccia con la vita reale, in un sogno ad occhi aperti in cui finalmente Guido riesce a mettere in ordine le figure passate e presenti, creando un harem in cui viene meticolosamente servito e coccolato, e dove può scegliere arbitrariamente quali donne avere ancora intorno e quali scartare.

Con questa scena si svela quindi il pensiero quasi infantile che domina la mente del protagonista, e che si espande anche nel sogno cinematografico di raggiungere la perfezione filmica, rappresentata dalla eterea presenza di Claudia Cardinale, simbolo di purezza, ordine e serenità che Guido vorrebbe finalmente raggiungere.

Per questo, il finale è duplice.

Davanti alla grottesca parata dei provini per il film, per cui Guido appare insoddisfatto nel suo plateale ribadire il disperato tentativo di controllo, la scena si sposta nella surreale ambientazione della navicella spaziale in costruzione, che diventa sfondo per il definitivo fallimento dell’operazione, in cui Guido si spara un colpo alla testa e così mette un punto a tutto il grottesco spettacolo…

…oppure no?

Il vero finale di è inafferrabile: Guido assume definitivamente le vesti di regista – del film e della vita – e riordina la sua esistenza in una parata di cui però non è solo orchestratore, ma anche attivo partecipe, riducendo così a riconciliarsi con tutti i suoi demoni in una rassicurante atmosfera carnevalesca e circense…

…che ci racconta, forse, un Fellini finalmente libero di esprimere la sua arte al di fuori di paure ed imposizioni.

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Commedia Dramma romantico Dramma storico Drammatico Federico Fellini Film

La dolce vita – L’età dell’amarezza

La dolce vita (1960) è probabilmente il titolo più famoso della filmografia di Federico Fellini, che ne definì la popolarità non solo in Italia, ma anche oltreoceano.

A fronte di un budget di 800 milioni di lire – circa 400 mila euro – è stato un enorme successo commerciale: 19 milioni di dollari in tutto il mondo, compresi gli incassi per il noleggio.

Di cosa parla La dolce vita?

Marcello è un giornalista di costume che sembra vivere la vita dei sogni, fra feste, VIPS e amori impossibili…o forse no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La dolce vita?

Federico Fellini e Marcello Mastroianni nel backstage de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Nonostante il titolo – e tutto l’immaginario che si è creato intorno – possa far credere ad uno spaccato dell’Italia del Boom dai toni ironici, in realtà, al pari del poco successivo Il sorpasso (1962), La dolce vita racconta la profonda tragedia del sogno inconsistente e passeggero della sua epoca.

Infatti, se ci si ferma ad ascoltare la pellicola nei momenti in cui davvero ci parla, si può cogliere l’amarezza crescente dei suoi personaggi, immersi in un sogno che sembra non finire mai, ma che li rende anche privi di un punto di arrivo, di uno scopo, di un motivo per essere vivi.

Idolo

L'inizio de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

L’apertura della pellicola racconta tutto di sé stessa.

Un grottesco quanto attraente Gesù in oro massiccio sorvola le cime di Roma, attraendo prima lo sguardo della strato sociale più basso, e poi giungendo alla vetta, e cercando brevemente di dialogare con la sua classe di rappresentanza, ma senza riuscirci.

In altre parole, La dolce vita ci parla di idoli…

…e di idoli passeggeri, interscambiabili, per nulla legati ad una morale cristiana – come racconta bene il passaggio dal Gesù d’oro alla divinità esotica rappresentata dal danzatore nel club – ma anzi con lo sguardo sempre puntato altrove, specificatamente verso gli Stati Uniti.

Per questo l’avvenente stella del cinema, Sylvia, è davvero il simbolo della pellicola.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

In un primo momento Marcello la disdegna – quantomeno a parole – proprio come il suo paese in parte si faceva forte di non essere influenzato dalla cultura d’oltreoceano, ma finendo infine per essere inevitabilmente innamorato, seguendola nella sua sciocca esplorazione dei simboli nostrani.

Infatti, il personaggio di Anita Ekberg prima si appropria delle vesti religiose per salire sulle guglie del Vaticano e quasi prendere il posto del Papa, poi si immerge nel suo abito vaporoso e avvenente nello scenario posticcio dell’Antica Roma, più volte protagonista dei peplum statunitensi.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

E il sogno si autoalimenta nella sua crescente bellezza, finendo per immergersi nelle acque intoccabili della Fontana di Trevi, dove lo schiocco del bacio fra Marcello e Sylvia è al contempo il punto d’arrivo del climax di passione e il momento del risveglio dal sogno.

Così infine il protagonista si trova nell’imbarazzo dell’essere scoperto in pieno giorno, finendo malmenato per strada dalla Grande America.

E l’avventura finisce così…

…o no?

Circo

Marcello Mastroianni in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Lo spettacolo non può mai finire.

La sensazione di un circo infinito domina la pellicola in ogni sua parte, sia nella sua scansione narrativa – che ci porta da una situazione all’altra senza soluzione di continuità – sia nel suo atto centrale, nella sequenza del Cha Cha, in cui ad uno spettacolo ne segue immediatamente un altro, e poi un altro ancora…

E la fugacità del sogno è rappresentato proprio dalla sua immediata attrattiva: che si tratti dell’ultimo scandalo di celebrità o del supposto miracolo popolare, i media – che siano i paparazzi o la televisione – sono sempre pronti all’assalto della notizia, per darla in pasto ad un pubblico immerso in un’euforia apparentemente senza fine.

Marcello Mastroianni e Alain Cuny 
in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Ma è proprio nel secondo quadro de La dolce vita – quello dedicato alla festa a casa di Steiner – che emerge effettivamente il dramma della pellicola, impersonato dalla figura del futuro suicida, che racconta prima la sua volontà di ridimensionarsi – come persona e come sogno:

Se mi vedessi bene, sapresti che persona piccola che sono.

…e poi con il suo angosciante tentativo di fuga, rappresentato dai suoni ambientali di cui ormai si è privato, troppo immerso nel fracasso costante a cui la vita mondana lo costringe, troppo intrappolato in quel quadro felice da esserne incapace di fermarsi e di coglierne la vera natura:

Mi sembra che sia solo un’apparenza e che nasconda l’inferno.

E proprio nella mancanza di punti fermi si trova una delle maggiori angosce della pellicola.

Legami

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Marcello non può legarsi a nessuno.

La sua vita è scandita da amori passeggeri e scostanti, dall’incapacità di amare la donna che lo ricambia – Emma – e dall’impossibilità di ottenere la donna che desidera – Maddalena – con cui finisce solo per inseguirsi, persino appartarsi nella segretezza della casa di una prostituta.

Entrambe le figure femminili sono sfuggenti, desiderate, respinte e respingenti, in una dinamica di inseguimento che non riesce mai a concludersi, dove vengono dette parole importanti, sia ingiuriose – come nel caso di Emma – sia appassionate – nei confronti di Maddalena…

…per trovarsi sempre al punto di partenza, in un’insopportabile stasi.

Marcello è quindi solo e inascoltato, vive sempre in potenza di qualcosa che potrà succedere – da cui l’emblematica spiegazione della sua vita al padre – e, quando si ferma, riscopre la sua immobilità e solitudine, come proprio nella scena della stanza del Castello, in cui infine Maddalena scompare fra le braccia di un altro uomo.

Infatti, proprio come a teatro, i personaggi entrano ed escono di scena, a volte senza un reale motivo, ma causando la reale sofferenza del protagonista, che si rende conto di non avere un rapporto concreto e significativo con nessuno, nemmeno col padre che prima viene assorbito dalla vita del figlio…

…ma che, infine, senza nessun motivo, deve abbandonarlo.

E proprio in questa occasione si introduce il tema della incomunicabilità.

Comunicare

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

I personaggi non possono cambiare anche perché non possono comunicare.

La baraonda delle loro vite è troppo importante, troppo imprevedibile perché possa essere evasa, la parata in cui vengono coinvolti per entrare e uscire di scena è troppo travolgente per non farne parte, per non essere rinchiusi in una vita perfetta, in realtà profondamente disconnessa e senza significato.

Per questo, le strade possibili sono solo due.

L’uscita di scena, quella definitiva, di Steiner, che, consapevole di non poter mai essere ascoltato, di non poter mai pretendere una vita differente, se la toglie, lasciando Marcello nella consapevolezza di non aver veramente ascoltato l’amico, di non averlo mai veramente conosciuto nel suo profondo ed incompreso dolore.

Oppure, lasciarsi sopraffare.

Marcello Mastroianni nella scena finale de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

La profonda tragedia della perdita di Steiner spinge Marcello ancora più al centro della scena, sempre più inconsistente e frivolo, quasi folle nel suo agire, nel suo voler comporre la scena a suo piacimento, per continuare in eterno una festa da cui non può fuggire.

Per questo, ormai in ginocchio sulla spiaggia, non riesce ad ascoltare niente di diverso, nemmeno la voce innocente e forse alternativa di Paola, che lo distanzia solo di pochi metri eppure che non riesce a penetrare la bolla in cui Marcello si è rinchiuso…

…in cui sceglie infine di ritornare, con un mezzo sorriso sornione di cui ormai ha accettato un’infelice esistenza.

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Le notti di Cabiria – Dall’alto al basso

Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini è una pellicola dedicata all’omonimo personaggio già apparso brevemente in Lo sceicco bianco (1953).

A fronte di un budget di circa 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) fu un enorme successo commerciale700 mila dollari – grazie anche alla vittoria come Miglior film straniero agli Oscar del 1958.

Di cosa parla Le notti di Cabiria

Cabiria è una prostituta che sembra essersi presa tutte le sfortune della vita. Ma forse una speranza c’è ancora…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le notti di Cabiria?

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Le notti di Cabiria è una splendida esplorazione felliniana dei numerosi strati sociali della Roma della fine del Decennio, spaziando fra diversi tagli narrativi, dalla più serena comicità alla dramma più straziante.

Difficile comprendere a così grande distanza di tempo la portata storica del racconto di una figura sociale così scandalosa come la prostituta, all’interno fra l’altro di un panorama di personaggi senza una particolare distinzione fra buoni e cattivi, ma con un’accattivante scala di grigi.

Amarezza

Cabiria è un personaggio profondamente incattivito.

L’apertura ci racconta un panorama idilliaco, in cui una coppia di innamorati passeggia allegramente nelle campagne romane, per poi improvvisamente mutare tono: l’uomo sottrae la borsetta alla donna e la getta nel fiume, dove questa rischia di morire.

Un momento di passaggio fondamentale in cui la protagonista muore e rinasce, di nuovo consapevole delle sua sua posizione di emarginata sociale per cui è impossibile riscattarsi, allergica ad ogni tipo di umanità nei suoi confronti, che non può altro che portare ad un giudizio di valore:

È una che fa la vita…

Espressione antiquata per indicare una donna che fa la prostituta.
Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

E la sua antipatia si espande a tutti i rapporti con gli altri personaggi, a cominciare da Wanda, la sua vicina di casa, da cui non vuole essere assolutamente aiutata, pena l’ammettere di essere stata gabbata in un momento di leggerezza in cui ha abbassato la guardia.

Infatti, Cabiria vive in un sogno.

Margine

Cabiria e Alberto Lazzari in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Nonostante il suo carattere turbolento, la protagonista crede che un riscatto sia ancora possibile.

E questo avviene ancora una volta nell’incontro con Alberto Lazzari, che, abbandonato dalla fidanzata, sceglie invece la compagnia di Cabiria, che si illude di essere effettivamente al centro dell’interesse del divo del cinema, di poter essere la sua nuova compagna.

Ma basta poco per essere scalzata dalla bellezza eterea della compagna di Alberto, che ritorna improvvisamente nella sua vita, spingendo la protagonista nuovamente ai margini della scena – e dell’interesse dell’attore, che prima la rinchiude in bagno, poi la congeda con una mazzetta.

E, giunti così in alto, non si può che scendere…

…molto in basso.

Prospettiva

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria vive in uno stato di potenza…

…di fallimento o di rinascita.

Nonostante la sua posizione sociale marginale, la protagonista ci tiene a rimarcare di essere riuscita a costruirsi una vita dignitosa – anzi, si scoprirà nel finale che è riuscita a mettere da parte una cospicua cifra sempre in funzione di un possibile riscatto futuro.

Ma Cabiria sa anche di essere in bilico.

E la prospettiva della pericolosità della sua ambigua posizione le appare chiara solo nel viaggio nelle grotte, sede dei veri emarginati sociali, crollati nella miseria più assoluta e sorretti dalla fragile e occasionale carità di pochi uomini buoni.

In questa amara desolazione emerge particolarmente la figura di Elsa, un tempo protagonista delle notti romane, ora definitivamente scomparsa dalla circolazione, vivendo delle illusorie speranze di potere ancora recuperare il suo precedente status.

E questa prospettiva, apparentemente così fine a sé stessa, è fondamentale per il terzo atto.

Ciclo

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria è bloccata in un ciclo?

Il drammatico scherzo ai danni della protagonista a teatro è solo un’ulteriore rappresentazione – anzi, forse la più straziante – di quel sogno che la protagonista sembra incapace di abbandonare, nonostante le umilianti conseguenze, tali da farla nascondere per ore all’interno del teatro.

Eppure la vita sembra darle un’occasione nuova di zecca per riscattarsi, per abbracciare quel destino che Frate Giovanni le racconta come assolutamente naturale e auspicabile – il matrimonio – persino con un uomo che conosce da pochissimo tempo, ma che sembra genuinamente interessato a lei.

E così lo spettatore è ottimamente rappresentato dalla figura di Wanda, che osserva preoccupata il totale abbandonarsi di Cabiria a questo nuovo sogno, scegliendo consapevolmente di liberarsi di tutti i suoi averi di troppo per cominciare una nuova vita.

E l’angoscia non fa che crescere più la protagonista mostra i suoi averi e più la coppia si avvicina al dirupo davanti al quale Cabiria crolla nell’ennesima consapevolezza di essere stata usata solo per soldi, e pure tramite una costruzione astrusa quanto genuinamente straziante.

Eppure, non è finita.

L’ultimo momento della pellicola, in cui Cabiria sembra definitivamente destinata alla miseria precedentemente mostrata, viene invece illuminato dalla giocosa apparizione della folla festante, per cui la dolorosa lacrima sul volto della protagonista diventa quasi un vezzo, quasi un trucco da pagliaccio felice.

Per raccontarci che, nonostante tutto, una speranza di rinascita c’è ancora…

…e ancora.

…e ancora.

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David Cronenberg Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film L'ultimo orrore di Cronenberg Mistero

The Shrouds – Dialogo morto

The Shrouds (2024) di David Cronenberg è un dramma fantascientifico incentrato sul tema dell’elaborazione del lutto.

Di cosa parla The Shrouds?

Karsh affronta la morte della moglie in maniera piuttosto particolare: continuando ad osservare il contenuto della sua tomba. Ma non tutti sono d’accordo con questa tecnologia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Shrouds?

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

In generale, no.

Purtroppo con The Shrouds Cronenberg si perde totalmente in uno spunto che poteva anche essere interessante – quanto tipico della sua produzione – ma che è fatto a pezzi da una trama confusionaria, una trattazione tematica pasticciata, e un didascalismo sconcertante.

A questo si aggiunge un racconto di non poche tematiche con ben poca lucidità, ai limiti dell’imbarazzante…

Spunto

L’incipit di The Shrouds poteva a suo modo essere interessante.

Karsh vive nel sogno – o incubo – della moglie morta, e progetta uno speciale sistema per poter essere con lei anche nell’oltretomba, circondandosi di fotografie che ne raccontino il lugubre presente, ma anche la sicurezza della sua condizione, piuttosto che uno sfumato passato.

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Così la figura di Becca è onnipresente, sia nella tomba digitale – che allontana possibili nuove partner – sia nella realtà fittizia, ora del sogno – in cui la moglie è costantemente fatta a pezzi – ora della sua assistente virtuale, che ne mantiene le fattezze.

Altrettanto interessante poteva potenzialmente essere l’atto di vandalismo ai danni del cimitero, che ci portava sulla strada di un giallo fantascientifico, proprio grazie alla presenza delle misteriose protuberanze sullo scheletro di Becca…

…e invece, nessuna strada è veramente percorsa.

Scioglimento

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

È onestamente difficile seguire la via tracciata da Cronenberg in The Shrouds.

Non perché si tratti di un racconto enigmatico ed inafferrabile come l Videodrome (1983), ma bensì perché il regista sembra prima voler rendere il mistero centrale alla vicenda, per poi spingerlo ai margini della scena, intrappolandolo in uno scioglimento piuttosto confuso ed estremamente didascalico.

Infatti, non vi è alcuna costruzione del mistero e della tensione, ma la soluzione viene semplicemente espressa tramite i dialoghi dei personaggi, ma senza che vi sia un retroterra narrativo significativo, ma piuttosto perché gli stessi o sentono improvvisamente di volersi confessare…

…oppure perché arrivano alle soluzioni senza doverci davvero pensare.

E così bastano pochi passi falsi per fare perdere ogni tipo di interesse verso la storia, rendendo lo scioglimento della vicenda un calderone dove buttare molti concetti senza comprenderne veramente nessuno, pescando vari temi di stretta attualità, nemici vecchi e nuovi – i cinesi quanto i russi – finendo per perdersi in un ingestibile caos.

E non è neanche la parte più problematica della pellicola.

Attualità

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

E piuttosto comune per il genere fantascientifico collegarsi ad argomenti di attualità. 

Ma non è un obbligo.

Durante la sua produzione cinematografica Cronenberg non ha mai voluto avere un collegamento così stringente con la sua contemporaneità, spesso spaziando invece in possibili futuri grotteschi o in revisioni del presente più sui toni dell’onirico o persino del fantastico.

Per The Shrouds Cronenberg ambienta la vicenda in un futuro non troppo lontano, inserendo alcuni concetti di strettissima attualità – macchine che si guidano sole, Intelligenza Artificiale – ma senza riuscire ad indovinarne in realtà nessuna, ma anzi spesso perdendosi nelle stesse. 

Vincent Cassel e Sandrine Holt in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Particolarmente strana è la questione dell’Intelligenza Artificiale, che sulla carta sembra voler denunciare il nostro ingenuo abbandono ad una tecnologia che non è altro che un burattino, una facciata per metterci a nudo e manipolare le nostra vite…

…ma in conclusione non si comprende chiaramente in quale direzione voglia andare, dimostrando effettivamente la tesi di cui sopra, ma senza che sia chiaro quale sia il motivo – o effettivamente il modo, dal momento che le paure di Karsh si erano concretizzate con quell’aspetto solo in sogno.

E, allora, di cosa vuole parlare The Shrouds?

Focus

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Se mettiamo da parte la questione fantascientifica e morale, cosa rimane a The Shrouds?

Forse, quello di cui veramente voleva parlare.

Osservando l’andamento della vicenda e l’importanza che viene data ai personaggi, Cronenberg sembra in realtà voler parlare dell’elaborazione del lutto, particolarmente della difficoltà del protagonista di allontanarsi fisicamente dalla figura della moglie defunta…

…ma volendo al contempo farla a pezzi, quasi sezionarla, e infine punirla per essersi in parte concessa ad un altro uomo – un importante convitato di pietra che entra in scena solamente da morto – per una punizione che è solo un modo per liberarsi dalla sua presenza.

Tuttavia, l’aver arricchito una narrazione con così tanto potenziale di elementi che non sono riusciti ad incastrarsi fra di loro, l’averla conclusa sempre tramite la bocca del protagonista e senza un minimo di pathos effettivo, ha per me privato l’opera di tutto il suo potenziale interesse.

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Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

I Vitelloni – Costretti alla vita

I Vitelloni (1953) è uno dei film più noti della fase neorealista della filmografia di Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, la pellicola è stata un successo internazionale, riuscendo ad arrivare molto oltre i confini italiani, dove comunque incassò più di 28 mila euro.

Di cosa parla I Vitelloni?

La vicenda si incentra sulle vicende di un gruppo di bambini troppo cresciuti, incapaci di abbracciare la vita adulta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Vitelloni?

Assolutamente sì.

Come era stato per il precedente Lo sceicco bianco (1952), anche in questo caso Fellini porta in scena un racconto dissacrante della società italiana, della fragilità del sogno piccolo borghese intrappolato in una serie di codici che non riesce a sostenere…

…ben rappresentato dai cinque protagonisti che si fanno largo in una vita dove vogliono essere capifamiglia, inguaribili dongiovanni, artisti incompresi…per ritrovarsi ad essere solo dei bambinoni (o Vitelloni, appunto) incapaci di diventare adulti e di prendersi anche solo la minima responsabilità sulle spalle.

Incidente

Riccardo Fellini e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

L’incipit è un perfetto spaccato della condizione iniziale dei protagonisti.

La simpatica occasione di incontro paesano ruota intorno all’incoronazione della reginetta di bellezza, ultimo momento del racconto di un sogno di giovinezza che sembra non avere mai fine, in cui i Vitelloni ne sono il degno contorno…

…ma che viene spezzato da un temporale improvviso e inarrestabile, quanto è inarrestabile l’incidente della gravidanza di Sandra, che, soffocata dal peso della responsabilità, sviene in mezzo alla folla rivelando così il peccato giovanile che la forzerà immediatamente alla vita adulta.

Franco Fabrizi e Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

In questo senso Fausto è l’apoteosi dei Vitelloni, che sogna una vita al di fuori di ogni responsabilità, soprattutto quella di una donna fissa al suo fianco, che cerca di fuggire alla prima occasione, ma che viene subitamente riportato coi piedi per terra dall’arcigno patriarca.

Ed è solo l’inizio.

Fuga

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

I Vitelloni vivono in una continua fuga.

Fausto cerca ogni occasione per fuggire dalle responsabilità del suo matrimonio, non scegliendo una particolare alternativa allo stesso, ma semplicemente avventandosi su ogni donna gli sembri anche vagamente interessante, incapace di rimanere fedele alla dolce e innocente Sandra.

E per lui è ancora più straziante rimanere bloccato in un limbo costrittivo e soffocante, in cui è tecnicamente un adulto – in quanto sposato – ma deve sottostare ai controlli pressanti di una famiglia che non è neanche la sua e che lo trattiene come in un bozzolo, in attesa che possa sbocciare – o maturare.

Franco Fabrizi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

E la sua immaturità non è solo nel suo continuo e testardo rifuggire la trappola matrimoniale, ma nel comportarsi senza aspettarsi nessuna conseguenza – che sia per le donne o per gli stupidi furti – finendo anzi continuamente punito e sconfitto.

E gli altri?

Ruolo

E se il sogno fosse troppo?

Nessuno dei Vitelloni è capace di affrontare davvero la vita adulta: persino il sognatore Leopoldo, che vede finalmente le sue notti di studio maturare i primi frutti nelle lodi e promesse entusiastiche del commediografo, con la promessa di evadere la realtà provinciale in cui è costretto…

…fugge spaventato davanti ad una realizzazione del sogno non così idealizzata come si immaginava, in cui la via per la gloria può essere lastricata di insidie e di attenzioni non richieste, come quelle ambigue che gli rivolge il drammaturgo sulla spiaggia.

Alberto Sordi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Ma quello più bloccato in un limbo paradossale è Alberto.

Fra tutti, è il protagonista che abbraccia di più il suo lato infantile, che ha il suo apice nella festa di Carnevale, in cui si traveste scioccamente da donna, ma che si manifesta anche nelle stupide scommesse di cavalli e nelle ubriacature deliranti che gli impediscono di assumere quel ruolo tanto ricercato.

Infatti Alberto vorrebbe essere il patriarca di una famiglia senza padre, vorrebbe proteggere la sorella, anzi decidere della sua vita, quando la stessa è ormai economicamente indipendente, e sceglie consapevolmente di evadere ogni norma sociale con il suo amante…

…e infine fuggendo da una realtà che ormai gli sta troppo stretta.

Ma il lieto fine è possibile?

Futuro

Come spesso nei film di Fellini, il finale de I Vitelloni è volutamente ambiguo e amaramente ironico.

Il punto di arrivo dovrebbe rappresentare finalmente la maturazione di Fausto, messo davanti alle conseguenze delle sue malefatte, rischiando di perdere la moglie che diventa finalmente il suo unico desiderio, tanto da scacciare la femme fatale su cui aveva messo avidamente gli occhi qualche mese prima.

Eppure, le parole di chiusura di questa scena sono estremamente eloquenti:

La storia di Fausto e Sandra finisce qui, per ora.

Così Fellini non prospetta un finale lieto in cui il sogno borghese si è ricomposto, ma piuttosto ci lascia con una chiusura provvisoria che non esclude che nel futuro Fausto possa ricadere nei medesimi comportamenti, né risolve di fatto nessuna delle vicende dei suoi protagonisti.

Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Nemmeno la fuga di Moraldo è risolutiva, anzi è significativa per confermare il limbo in cui i protagonisti sono intrappolati, immaginandoli come passeggeri del medesimo treno con una destinazione ancora incerta, e infine in bilico su una rotaia solitaria, fra due vite, senza appartenere a nessuna delle due…

…proprio come Gaetano nella chiusura della pellicola.

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Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Il medioevo

Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.

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2024 2025 Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Musical Oscar 2025 Surreale

Emilia Pérez – La bizzarra seconda occasione

Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard è un musical con protagoniste Zoe Saldana e Karla Sofía Gascón.

A fronte di un budget discreto – 21 milioni di euro – è stato un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Candidature Oscar 2025 per Emilia Pérez (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior film internazionale
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Karla Sofía Gascón
Migliore attrice non protagonista per Zoe Saldana
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore canzone originale
Miglior trucco e acconciatura
Migliore sonoro

Di cosa parla Emilia Pérez?

Rita è un’avvocata praticante sistematicamente sfruttata dal suo studio legale. Ma un’occasione di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emilia Pérez?

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

In generale, sì.

Emilia Pérez è stato, fra le altre cose, ampiamente discusso per il taglio narrativo, che presenta non pochi inserti musicali piuttosto bizzarri, che rendono la narrazione al limite del fantastico, del teatrale, pur raccontando tutto sommato una storia molto semplice.

Infatti, se riuscirete a digerire la particolarità del lato musical, potreste arrivare ad apprezzare una pellicola che infine non è altro che un dramma piuttosto toccante sulla seconda occasione di personaggio insospettabile: un boss di un cartello della droga messicano.

Insomma, dategli una chance.

Spaesamento

Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Personalmente, ho mal digerito l’elemento musicale di Emilia Pérez.

Ma forse è proprio questo il punto.

Fin dalle sue primissime battute la pellicola gioca su questo peculiare contrasto fra un racconto piuttosto amaro e angosciante, che esplode improvvisamente in numeri musicali più propri forse del teatro che del cinema, soprattutto per le sue coreografie decisamente bizzarre.

Selena Gomez in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

L’elemento musicale è inoltre uno strumento fondamentale per definire la protagonista, che ci appare in prima battuta come una spietata boss del crimine, ma che nel cantato esprime i suoi più intimi sentimenti di cambiamento, di cui la transizione è solo il primo passo.

E proprio qui si sviluppa il discorso cardine della pellicola.

Rinascita

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia vuole rinascere.

La nuova vita che la protagonista regala a Rita è solamente il primo passo della sua sistematica ridefinizione del sé, che la porta a ripercorrere le strade già battute della scena criminale messicana, ma in una veste del tutto nuova: non più aguzzina, ma salvatrice di un popolo di oppressi.

E la protagonista vuole raccontarsi in questa nuova identità anche nei confronti della famiglia che ha di fatto abbandonato, ma con cui cerca di ricongiungersi proprio nella sua immagine di salvatrice di un nucleo affettivo profondamente colpito dall’abbandono del padre.

Un tentativo di riappacificazione piuttosto disordinato e disattento, in cui Emilia sembra incapace di mantenere intatta questa nuova identità, dimostrandosi cambiata di aspetto ma non di atteggiamento, continuando a comportarsi con i suoi figli e, soprattutto, con la moglie, come se nulla fosse successo.

Infatti, il suo linguaggio è rivelatorio.

Passato

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia può davvero rinascere?

Nonostante i buoni sentimenti del suo progetto, la protagonista ricade ripetutamente in comportamenti che l’avevano definita nel passato, con il linguaggio della violenza domina costantemente la scena, persino in opere di bene come il salvataggio della vedova…

Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Un comportamento che si riflette in grande nella scelta dei benefattori per la sua causa umanitaria, in piccolo nel rapporto con la sua famiglia, da cui si rifiuta di separarsi, vivendo il nuovo matrimonio della moglie – e la sua personale rinascita – come un profondo ed imperdonabile tradimento.

Ma violenza è da entrambe le parti.

La stessa Jessi è cresciuta in un contesto in cui la violenza è la moneta di scambio, rispondendo colpo su colpo ai beceri tentativi di Emilia di limitare la sua libertà, la sua autodeterminazione, in un disordinato ultimo atto che porta tutti i protagonisti all’inevitabile autodistruzione.

E la chiusura della pellicola è assolutamente emblematica nel suo essere volutamente grottesca mentre mostra Emilia Pérez definitivamente consacrata nel suo ruolo di salvatrice, con tratti volutamente cristologici, raccontando come un cambiamento, tutto sommato, sia effettivamente avvenuto.