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Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…

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L’uomo che non c’era – Una realtà frammentata

L’uomo che non c’era (2001) di Joel e Ethan Coen è un film neo-noir con protagonista Billy Bob Thornton.

A fronte di un budget di circa 20 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Di cosa parla L’uomo che non c’era?

Ed è un barbiere totalmente alienato dalla vita e, soprattutto, dal suo matrimonio. E infatti è l’ultima persona che accuseresti di omicidio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uomo che non c’era?

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Con L’uomo che non c’era i fratelli Coen si trovano in una fase in cui la loro produzione, nonostante conservi indubbiamente un grande fascino registico ed un’innegabile verve narrativa, sembra che non riesca davvero a centrare il punto.

Infatti, pur con un utilizzo molto abile del bianco e nero, e con un attore protagonista così azzeccato e in parte, la storia della pellicola mi è parsa non arrivare effettivamente da nessuna parte, ma piuttosto di vivere di suggestioni non adeguatamente esplorate.

Ma dategli comunque un’occasione.

Vuoto

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed è alienato.

Immerso in un inarrestabile flusso di coscienza, il protagonista vive la sua vita non come l’attore principale, ma come un mero spettatore, che lascia che gli eventi si susseguano davanti ai suoi occhi senza voler intervenire.

In particolare, del tutto consapevole del tradimento in atto della moglie, sceglie con malcelato nichilismo di lasciarlo esistere al di là dei suoi occhi, preferendo meditare sulla insensatezza del suo stesso matrimonio fin dalle sue inconsistenti origini.

E, allora, cosa serve per farlo smuovere?

Piena

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed non è in controllo della propria vita.

Diventando per la prima volta agente attivo della sua sorte, si lascia facilmente coinvolgere nella banale proposta truffaldina di Creighton Tolliver, nonostante tutti gli indizi in scena bastino per mettere insieme il quadro dell’inganno in atto.

Ma è solo la miccia.

Solo marginalmente turbato dalla possibilità di essere scoperto come mandante del ricatto ai danni dell’amante della moglie, il protagonista si incastra involontariamente in una rete criminale che era sempre stata sotto i suoi occhi.

E allora non può fare altro che difendersi.

Ma neanche così può raccontare la sua storia.

Riscrivere

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

La vita di Ed è scritta da altri.

Per quanto il protagonista cerchi infatti di prendere posto in scena, nonostante confessi esplicitamente il suo crimine, non vi è mai spazio per lui: la sua è una versione come tante altre, anzi è forse della meno interessante e credibile.

Infatti il vero burattinaio è proprio il malizioso avvocato Riedenschneider, pronto in ogni momento ad afferrare, deformare e riscrivere gli eventi a proprio piacimento, mentre gli altri personaggi sono marionette prive di volontà.

E proprio come un fantoccio Ed vive la sua vita, diventando colpevole dell’omicidio sbagliato, potendo vivere la sua verità solamente all’interno del mondo della finzione, e infine accettando l’uscita di scena da una vita che non ha mai veramente vissuto.

E forse dall’altra parte avrà più fortuna…

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Dune – Addio, Hollywood!

Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.

E il box office gli diede ragione: a fronte di un budget piuttosto ambizioso – 45 milioni di dollari, ben più alto anche solo di Il ritorno dello Jedi (1983) – non arrivò a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Dune?

Anno 10,191. Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, inaspettatamente incaricata di fare da ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…

O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.

Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.

Dune è frutto di una produzione davvero scellerata, che ha preso un’opera nota per la sua complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.

Ne consegue che i personaggi non hanno mai lo spazio per svilupparsi e per raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo, spesso crollando nella totale ridicolaggine.

E Lynch ne è la più grande vittima.

In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.

Bollettino

La principessa Irulan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…

…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti – alcuni, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – che qui sono raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.

La Madre Superiora e l'Imperatore  in una scena di Dune (1984) di David Lynch

E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma – che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale – ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili per avere un’infarinatura della storia.

Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e ad Arrakis – e così anche da quello dello stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.

Ma i problemi sono solo iniziati.

Mistero

Il Barone Harkonnen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

In Dune di Lynch è impossibile avere un mistero.

Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato col dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo, che nel romanzo veniva gradualmente svelato.

E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico nel diventare un villain da operetta

…esattamente come succede in questo caso.

Sting e l'altro nipote del Barone Harkoennen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo molto facilone il personaggio, con i bubboni, la bile e il sudore che diventano i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nel momento – pure censurato – dell’uccisione del malcapitato servo.

Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.

Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio caratterizzati.

Spazio

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.

Uno dei motivi evidentemente per cui Villeneuve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente gli uni dagli altri.

E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza che riescano a raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…

…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato, che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.

E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…

…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.

Abominio

Alia in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Alia è davvero un abominio.

Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottima idea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…

…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, tramite la divisione di Villeneuve -per cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per poi comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Infatti Alia è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è indubbiamente il punto più basso dell’intera pellicola.

E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Dune ridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.

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Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

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The Nice Guys – Bruciare lo spunto

The Nice Guys (2016) di Shane Black è un buddy movie con protagonisti Ryan Gosling e Russell Crowe.

A fronte di un budget non particolarmente importante – 50 milioni di dollari – è stato un disastro al box office: appena 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Nice Guys?

Jackson e Holland sono due personaggi con impieghi piuttosto particolari: l’uno un investigatore privato approfittatore, l’altro un hitman disilluso dalla vita. Ma una causa comune li farà incontrare in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nice Guys?

Sì e no.

Se da una parte The Nice Guys è un film incredibilmente mediocre sotto ogni punto di vista – totale mancanza della chimica fondamentale dei protagonisti, direzione attoriale non pervenuta, scrittura approssimativa che viaggia per frasi fatte…

…dall’altra non è niente di peggio di un qualunque altro action di poco spessore che potete guardarvi per passare due ore in spensieratezza, spegnendo completamente il cervello – magari riuscendo persino a ridere.

Ve lo auguro.

Spunto

The Nice Guys parte da uno spunto tutto sommato interessante.

Ogni buddy movie che si rispetti ha come protagonisti due personaggi per qualche motivo disillusi dalla vita, impegnati in qualche attività al limite del legale che li rende egocentrici, approssimativi e assolutamente intrattabili…

…insomma due che non potrebbero mai lavorare insieme.

E già in questa fase il film cerca di inserire i primi elementi di ironia che raccontino il carattere turbolento dei personaggi – Jackson che conta al centesimo i soldi di Amelia e Holland che si approfitta della buona fede di una vecchia signora.

E l’ironia sta proprio nel fatto che siano considerati dei bravi ragazzi dalle persone che aiutano, ma che lo diventino effettivamente quando si mettono in gioco per il bene comune, pur rischiando la loro stessa vita.

Questa, almeno, sarebbe la storia sulla carta.

Poi arriva l’esecuzione.

Chimica

Due sono sostanzialmente i problemi interconnessi della pellicola.

La mancanza di chimica fra gli attori e la direzione attoriale.

Uno degli elementi portanti del genere è proprio l’importante costruzione del rapporto fra i due protagonisti, che partono da una soluzione di totale antagonismo per arrivare a collaborare in maniera improbabile, e infine a ricongiungersi in una ritrovata e imprevedibile amicizia.

Da questo punto di vista film come 48 ore (1982) hanno fatto la storia del genere nel mettere in scena attori dal grande carisma, capaci di rendere vivo un copione che altrimenti sarebbe apparso molto banale e con poco mordente…

…esattamente come in questo caso.

Fra i due l’unico che veramente ci prova è Ryan Gosling, al tempo lanciatissimo per La La Land (2016), dove aveva già dimostrato di saper evadere i ruoli strettamente drammatici per offrire interpretazioni ben più sfaccettate e variegate.

Purtroppo, lo stesso si deve scontrare con un Russel Crowe che ormai da anni ha disimparato a recitare, e che in questo caso si perde in una recitazione inutilmente drammatica e riflessiva, che non lascia mai il fianco al suo coprotagonista per creare un effettivo rapporto.

Insomma, arrivando alla fine della pellicola, lo spettatore non ha alcun motivo per pensare che i due ora potranno lavorare insieme.

Ma le vere vittime sono altre.

Possibilità

Per un giovane interprete ad Hollywood purtroppo è sempre sfida riuscire a trovare la parte giusta, il regista capace di valorizzarli.

Non è il caso di Shane Black.

La meno penalizzata è forse l’allora giovanissima Margaret Qualley, che ha dimostrato nel tempo una capacità attoriale ben superiore, ma che in questa pellicola porta in scena una recitazione incredibilmente macchiettistica e assolutamente dimenticabile.

Ma la vera vittima sacrificale di questa conduzione scellerata è la povera Angourie Rice, a cui viene affibbiata una parte che speravo fosse stata ormai abbandonata dal cinema contemporaneo: l’insopportabile bambina che vuole impicciarsi nelle faccende degli adulti, dimostrando di saperne ben più di loro.

Ed è veramente struggente vederla annaspare nel cercare di rendere vive battute così stereotipate e che evidentemente non sente sue…

E più in generale, è deprimente vedere come il film cerchi continuamente di far ridere lo spettatore, persino di giocare con i tropoi del genere, ma fallendo da ogni punto di vista, risultando apertamente ridicolo in una produzione che è davvero il disastro perfetto.

E, per una volta, do ragione al botteghino.

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Il grande Lebowski – Il piccolo Drugo

Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen fu la pellicola che segnò definitivamente il successo di questo talentuoso duo di registi.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 15 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale47 milioni in tutto il mondo – diventando nel tempo un grandissimo cult.

Di cosa parla Il grande Lebowski?

Jeffrey Lebowski, detto il Drugo, è un annoiato nullafacente che vive la sua vita alla giornata. Ma una curiosa omonimia sarà l’inizio di una grande avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il grande Lebowski?

Jeff Bridges e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Assolutamente sì.

Il grande Lebowski fu solo la naturale continuazione di Fargo (1996), volendo ancora raccontare, con imprevedibili toni comici e surreali, una parentesi di irresistibile di violenza e criminalità all’interno di una vita quietamente soddisfacente…

…arricchendo la scena con una folla di personaggi sempre più improbabili e indimenticabili, in una storia a scatole cinesi di cui è anche difficile tenere il passo – ma proprio qui sta anche la bellezza del film.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Shock

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo vive la vita più serena che si possa immaginare.

Una seducente voce fuori campo ci introduce ad un panorama che sulla carta sembra quasi proprio di un western, con protagonista un eroe leggendario e imperscrutabile, che invece si rivela un adorabile fannullone, così pigro da pagare persino pochi centesimi di spesa con un assegno.

Pochi tocchi di colore che, come già dimostrato nel precedente Fargo, bastano per rendere poliedrico e iconico il protagonista, che seguiamo nella sua disimpegnata routine, senza un pensiero al mondo…

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

…che viene improvvisamente interrotta dalla prima delle numerose incursioni, in cui vengono affibbiati al nostro protagonista delle caratteristiche via via sempre meno credibili: se all’inizio possiamo credere che sia in debito con personaggi poco raccomandabili…

…molto meno verosimile che il Drugo abbia una moglie a carico – come lui ci tiene particolarmente a sottolineare – fra l’altro riducendo a non perdere la sua irresistibile vena ironica neanche mentre gli affondano la testa nel water:

Where’s the money, Lebowski? Where’s the fucking money, shithead?
(Drugo) It’s uh… uh… it’s down there somewhere, let me take another look.

Dove sono i soldi, Lebowski? Dove cazzo sono i soldi stronzo?
Sono…em…qua dentro da qualche parte, fammi dare un’altra occhiata.

Ma le preoccupazioni del Drugo sono molto limitate.

Tappeto

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Lebowski ha una sola preoccupazione.

Il suo tappeto rovinato.

Niente più che un fastidio che il protagonista inizialmente non vuole neanche affrontare, ma che infine si decide a risolvere incoraggiato da suoi altrettanto strambi amici, in particolare Walter, che non ha mai abbandonato il campo di battaglia – e così il suo senso di giustizia.

Così, con la visita al grande Lebowski, il Drugo si immerge in un universo di apparenze, in cui le presunte prove della bontà del miliardario – il suo impegno sociale e le sue amicizie politiche – vengono insistentemente sottolineate dall’ingenuo assistente del miliardario, Brandt.

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Ma, nonostante le sue grandi conquiste caritatevoli, il magnate risponde con grande insofferenza alle richieste del Drugo, convinto che sia solo l’ennesimo personaggio che cerca di immergere le mani nel suo importante portafoglio.

Ma se Drugo è un uomo dalle vedute ristrette, nondimeno si dimostra piuttosto abile nell’ottenere quello che vuole senza particolare sforzo: fare leva sulla genuina bontà del segretario e sulla sua assoluta convinzione della bontà del suo superiore…

…per portarsi a casa un tappeto pure più bello.

Ma i problemi sono appena iniziati.

Occasione

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Con Il grande Lebowski i fratelli Coen si prendono apertamente gioco di un topos narrativo piuttosto tipico.

Ovvero, la storia di un improbabile eroe.

In prima battuta sembra infatti che il Drugo sia riuscito senza sforzo a tornare alla sua vita di totale indifferenza, nonostante i diversi disturbi esterni che cercano insistentemente di ottenere la sua attenzione tramite la segreteria telefonica.

Jeff Bridges, Steve Buscemi e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

E così il suo godersi appieno il suo nuovo tappeto viene ancora una volta improvvisamente disturbato da una nuova intrusione, da un nuovo giocatore in questa sciocca prova di potere, che però inizialmente non viene rivelato.

Infatti la nostra attenzione – e quella del Drugo – viene immediatamente distolta dal ritorno in scena del vero Lebowski, che introduce il grande mistero della pellicola: il rapimento della seducente Bunny, la moglie trofeo.

E il suo quieto vivere ne è sempre più turbato…

Fuga

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è sempre più immerso in una storia da cui vorrebbe solo fuggire.

Con momenti di irresistibile ironia – come il cercapersone a cui il protagonista non può rispondere durante il torneo di bowling – si articola così il complesso scambio della valigetta, ancora più complicato dall’intrusione di Walter, che vorrebbe approfittarsi della situazione.

E il Drugo ne paga tutte le conseguenze.

Perdendo sia la valigetta sia la macchina, il protagonista si trova intrappolato in una rete di bugie ed intrighi da cui non riesce a districarsi, aggravato anche dall’intervento di un nuovo personaggio, Maude, la figlia di Lebowski, che conferma i sospetti sul finto rapimento.

Il mistero si infittisce con il coinvolgimento del giovane Larry Sellers, apparentemente autore del furto, il primo momento della grottesca ironia già sperimentata in Fargo, che spoglia il racconto di ogni vena drammatica, mettendo ancora più in luce l’improbabilità dei personaggi coinvolti.

Ma esiste una via d’uscita?

Bandolo

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è molto meno stupido di quanto si potrebbe credere.

Raccogliendo indirettamente gli indizi che gli arrivano quasi casualmente, il protagonista riesce a comporre più chiaramente il quadro della situazione, confermata dal ritorno di Bunny, che smaschera tutte le presunte vittime e criminali in scena. 

Ma l’elemento interessante, di totale disillusione del film, è che non vi è nessuna conseguenza per il grande Lebowski, se non l’essere definitivamente umiliato dalla paranoia di Walter, che pensa che tutto sia un inganno, persino la disabilità del finto miliardario.

Ancora più ridicolo è infine il confronto con i presunti rapitori, che decidono comunque, proprio per principio, di derubare i protagonisti, diventando autori dell’unica nota veramente amara della pellicola: la morte di Donny.

E così ancora una volta il film si conclude con una nota agrodolce, in cui il protagonista non è cambiato per nulla, ma la sua maggiore preoccupazione è ancora il prossimo torneo di bowling…

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Eraserhead – Storia di un parassita

Eraserhead (1977), noto anche come Eraserhead – La mente che cancella, è il primo film di David Lynch.

A fronte di un budget veramente minuscolo – appena 100 mila dollari, circa 500 mila oggi – è stato un sorprendente successo commerciale: 7 milioni in tutto il mondo (circa 36 oggi).

Di cosa parla Eraserhead?

Lo vorrei sapere anche io.

Provate a vedere il trailer e forse ci capirete qualcosa:

Vale la pena di vedere Eraserhead?

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Assolutamente sì.

In questa prima, piccola opera, si capiva già l’immensa portata di Lynch, che, con un budget inesistente, riuscì a portare in scena un piccolo capolavoro del surreale, che offre poche chiavi di lettura allo spettatore, proprio con la volontà di aprirsi ad un ventaglio potenzialmente infinito di interpretazioni.

Personalmente l’esperienza di visione è stata simile a Il ragazzo e l’airone (2023): per due terzi del film brancolavo nel buio, poi ho colto quello che penso sia il bandolo della matassa e ho cominciato a scavare per elaborare una possibile interpretazione.

E per me non c’è niente di più stimolante.

Nascita

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry vuole rinascere.

All’inizio il protagonista è tripartito: da una parte vi è l’uno unito, malato e deformato, immerso in una scena che riflette il degrado della sua condizione, che guarda la sua proiezione: l’umano incorrotto e il germe della corruzione, da cui si è infine scisso.

Entrambi crollano in una paesaggio in cui possono apparentemente vivere due esistenze distinte: Henry uomo può tornare al suo squallido appartamento, ma avere ancora tutta una vita da scrivere, magari con la fascinosa vicina…

…mentre il germe rimane sullo sfondo, in agguato.

E non possono fare a meno di ricongiungersi.

Costrizione

Jack Nance e Charlotte Stewart in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Tutto è corpo.

Henry scopre di essere stato invitato a cena da una donna che non vedeva da molto tempo, ma che lo aspetta ansioso per metterlo sotto processo davanti alla sua opprimente famiglia, che ormai ha preso fisicamente possesso della sua abitazione.

La casa è infatti come un corpo vivo, sensibile, in cui il taglio del pollo arrosto – rituale fondamentale nella famiglia media americana – diventa invece un tagliare, dissezionare e puntellare i fisici stessi degli ospiti.

Ed è solo l’antipasto per un corpo ancora più ingombrante.

Sogno

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Nonostante il bambino gli sia imposto, Henry fa di tutto per ignorarlo.

Ed è proprio così che lui stesso comincia ad assumere degli atteggiamenti infantili, nel suo distendersi gongolante sul letto, spiando attraverso il calorifero un piccolo teatro immaginario.

Un sogno che rappresenta una delle due facce del riscatto possibile: una donna ridente, che parla di paradiso e di beatitudine, mentre schiaccia compiaciuta quei germi che piovono sul palco come fiori dal pubblico…

Laurel Near in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

…e la donna avvenente e desiderabile, con cui infine Henry riesce ad intrattenersi, dimenticandosi totalmente del germe e unendosi a lei in questo brodo primordiale, pronto finalmente a rinascere.

Ma la rinascita incorrotta è veramente possibile?

Faccia

Il bambino in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry è il germe.

Nonostante cerchi costantemente di ignorarlo, di affidarlo esclusivamente alle cure della sua moglie imposta, l’orrore in fasce continua a gemere incessantemente, tanto da spingere la stessa Mary ad abbandonare esasperata il tetto domestico.

Un’esasperazione che però non gli impedisce prima di inginocchiarsi ai piedi del letto e cercare di cullare disperatamente Henry, per poi invadere anche lo stesso giaciglio prendendo la forma dell’ingombrante embrione.

Infatti lo sgorbio è una presenza talmente infestante da infine far cadere la maschera, la testa di Henry, che si rivela un fragile involucro che neanche può più godersi la bellezza dello spettacolo onirico, e che viene deriso dal germe stesso quando tenta di riavvicinarsi all’avvenente vicina.

La sua testa anzi diventa matrice per una gomma da cancellare, che viene testata immediatamente e con successo, proprio a sottolineare la natura aleatoria del protagonista umano, e il suo disperato tentativo di ricominciare da capo. 

E proprio per questo non gli conviene andare troppo a fondo…

Interiora

Testa in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

La curiosità di Henry è fatale.

Davanti alla risata insistente dell’embrione, il protagonista sceglie infine di aprire quello strano essere che rappresenta al contempo rinascita e annullamento, seme e germe, per indagarne le interiore e scoprirne la vera natura.

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

E così inevitabilmente Henry si immerge nella realtà della sua condizione, ritorna su quel pianeta, su quel nucleo che racchiude la sua vera faccia, l’io unito e deformato non può più mantenere viva la sua proiezione.

E così la stessa si annulla, immersa in una luce calda e accogliente, dove la donna del sogno lo aspetta a braccia aperte per avvolgerlo nella sua beatitudine, come unica forma incorrotta a cui questo è permesso.

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Fargo – Una parentesi criminale

Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.

Di cosa parla Fargo?

Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fargo?

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.

Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Mediocre

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.

Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.

Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…

…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.

William H. Macy e Kristin Rudrüd in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.

E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…

Improvvisazione

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.

Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.

Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.

E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.

Alternativa

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Marge è una protagonista piuttosto particolare.

Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.

E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.

Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…

…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.

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The Substance – Poca sostanza

The Substance (2024) di Coralie Fargeat è un film horror vincitore della Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes 2024.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 17.5 milioni di dollari – si prospetta già un ottimo successo commerciale.

Di cosa parla The Substance?

Elisabeth Sparkle è una ex-star del cinema ormai caduta nel dimenticatoio. Ma forse un’altra occasione per ricominciare è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Substance?

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Dipende.

Nel complesso The Substance è un buon film horror con un cast veramente azzeccato e in splendida forma, che riesce altrettanto bene ad essere un film denuncia della fragilità dello star system, grazie anche ad un ottimo uso del body horror.

Tuttavia sul finale la pellicola vanifica in parte gli sforzi fatti fino a quel momento e l’aspettativa creata nello spettatore, con diversi inciampi di scrittura e con una struttura tematica che finisce per diventare ridondante e estremamente prevedibile.

Però, andandoci con le giuste aspettative, può essere una visione piacevolissima.

Declino

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth è arrivata al capolinea.

Già il prologo racconta perfettamente il declino della sua carriera: la sfolgorante stella sulla Walk of Fame è prima oggetto di grande interesse dal pubblico, che però col tempo diventa progressivamente sempre più indifferente, calpestandola, insozzandola e rovinandola.

Allo stesso modo il racconto visivo del corridoio che dovrebbe mostrare la sua sfolgorante carriera televisiva si trasforma invece in una passerella della vergogna, del progressivo spegnersi della bellezza della protagonista, ultimo residuo di un’epoca ormai tramontata.

L’apice di questo drammatico climax è ovviamente l’involontario incontro con Harvey, personaggio raccontato dalla regia subito come repellente e chiassoso, elemento confermato anche dalla scena immediatamente successiva, in cui divora in maniera davvero disgustosa un piatto di crostacei…

…mentre liquida con indifferenza la protagonista, perché non ha più quel quid che le serve per essere interessante.

Ma non è finita qui.

Bozzolo

Elizabeth rinasce come da un bozzolo.

Particolarmente brillante il racconto del kit di The Substance, che non lascia nessun dubbio sul funzionamento della sostanza riuscendo così a costruire una solida mitologia, che tornerà molto utile nel prosieguo della pellicola.

E con la nascita del clone assistiamo alla prima prova di un body horror come non lo vedevamo da tanto tempo, indubbiamente debitore di classici del genere come La mosca (1986) e The Thing (1982), ma riuscendo ad essere assolutamente al passo con i tempi.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

In questa fase particolarmente importante è stata la scelta di un cast così capace di mostrarsi nudo in scena con tutte le sue imperfezioni, creando un contrasto molto angosciante fra il corpo non più desiderabile di Elizabeth e la frizzante bellezza giovanile di Sue.

E allora è il momento di riprendersi il proprio posto.

Inizio

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth può cominciare da capo…

…un’altra vita infelice.

La protagonista infatti sembra del tutto incapace di accettare l’idea di allontanarsi da un mondo così ingiusto e rapace, pronto a nutrirsi fino all’osso delle star del momento, per poi liberarsene senza vergogna quando non fanno più notizia…

…ricominciando la propria scalata dallo stesso punto di trent’anni prima: un corridoio vuoto e pieno di promesse, in cui viene posta la prima pietra di un folgorante successo di pubblico, dopo che la carriera della vecchia sé è stati rimossa e dimenticata nel giro di un pomeriggio.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Ed è proprio davanti a questa sfolgorante occasione che Sue comincia sempre di più ad odiare la sua matrice, disprezzandola per essere così imperfetta, inadatta, non riuscendo più a vederci se stessa, ma solo un ingombrante ricordo da lasciarsi alle spalle.

E proprio in questa ottica Elizabeth comincia a divorarsi da sola, a succhiare tutto il possibile dalla sua matrice e prendendone sempre più il posto – con una parabola non dissimile dallo stesso comportamento che lo star system ha avuto nei suoi confronti.

E, proprio nell’ultimo atto, The Substance fallisce.

Corpo

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Al centro di The Substance vi è il corpo.

Un corpo continuamente mostrato nella sua perfezione e imperfezione, nella sua bellezza e bruttezza, un corpo pronto a tradirci, a farci sfigurare, a farci desiderare da un mondo che pretende una perfezione eterna, pena una rovina repentina e irreprensibile.

E proprio del suo corpo, continuamente messo alla berlina, Elizabeth ha un disgusto sempre più crescente, tanto che le basta pochissimo per decidere di non farsi più vedere fuori casa in questo aspetto vergognoso, così lontano invece dalla sua nuova versione.

E proprio Sue è lo spettro che la perseguita, che odia per la sua avventatezza, ma di cui non può fare a meno…

…concetti chiarissimi, limpidi e spiegati senza bisogno di parola alcuna, che, per motivi incomprensibili, devono essere invece esplicitati proprio nel momento in cui Elizabeth accetta finalmente l’idea di liberarsi di quella odiosa copia…

…andando a vanificare un’ottima costruzione simbolica che funzionava benissimo da sola.

Ridondante

In questo senso, meglio funziona la sequenza successiva alla morte di Elizabeth, in cui Sue sceglie finalmente di liberarsi dal peso del suo passato per brillare finalmente come la star di un tempo

…finendo invece per essere perseguitata da un corpo che le si rivolta contro.

E purtroppo nel finale Coralie Fargeat sembra incapace di portare in scena qualcosa di effettivamente nuovo e interessante, di evadere o di arricchire il canovaccio classico e prevedibile su cui si è basata, puntando invece tutto su un body horror indubbiamente d’effetto…

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

…ma che sembra, infine, l’unico elemento di effettivo interesse di The Substance, a fronte di uno scioglimento veramente banale in ogni sua parte, dalla caccia a Frankenstein in chiave splatter fino al totale decomporsi del corpo di Elisabeth sopra la sua amata stella, per essere dimenticata il giorno dopo.

Ovvero, lo stesso identico concetto espresso all’inizio.

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Il sesto senso – Precipizio

Il sesto senso (1999) è stato non solo il punto di svolta per la carriera M. Night Shyamalan, ma anche per il genere tutto.

A fronte di un budget abbastanza importante – fra i 40 e i 55 milioni – è stato un enorme successo commerciale: 672 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il sesto senso?

Cole è un bambino molto timido e vittima di un continuo e crudele bullismo. Eppure, non è neanche quello il suo problema più grande…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sesto senso?

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Assolutamente sì.

Al tempo de Il sesto senso Shyamalan si trovava senza saperlo su un precipizio: un film veramente ottimo che lo lanciò come autore di punta del genere, ma che nel tempo si rivelò invece l’antipasto prima di crearsi una nomea non proprio felice, portando ad una serie di prodotti molto meno indovinati.

Anche in questo caso non mancano gli elementi che lo hanno reso più o meno felicemente celebre, che però, pur con qualche semplificazione sul finale assolutamente perdonabile, risultano incredibilmente funzionali a creare un horror indimenticabile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Rimorso

Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Come si scoprirà solo nel finale, Malcom è tormentato da un profondo rimorso.

Raccontato come professionista che ha votato tutta la sua vita ad aiutare i suoi pazienti, anche a discapito della felicità del suo matrimonio, proprio nel momento in cui potrebbe finalmente vivere i frutti dei suoi sforzi, finisce invece vittima degli stessi.

E forse in questo contesto la sua angoscia più importante non è tanto il doloroso colpo in pancia per mano di uno dei suoi ex pazienti, ma piuttosto la consapevolezza di non aver aiutato un bambino che si era totalmente affidato a lui, facendo diventare un adulto inquieto.

E se quello sparo sembra solo una piccola macchina su un curriculum immacolato…

Finzione

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole è vittima di una finzione di sua stessa fattura.

Essendo già di per sé un ragazzino molto timido ed insicuro, il peso del suo segreto lo spinge ancora di più a cercare di fingersi un bambino normale, anche per proteggere la madre, già abbastanza addolorata dalla perdita della genitrice e dall’abbandono del marito.

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E proprio in questo contesto si inseriscono gli ingenui teatrini in cui, in cambio di denaro, il protagonista finge di avere alle spalle delle solide amicizie, e non di essere solo la vittima preferita del bullismo dei suoi compagni di classe.

E infatti, il vero orrore non è tanto il  vedere i fantasmi…

Adulto

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole deve crescere troppo in fretta.

Una grande eleganza della messinscena è di non abusare delle più classiche tecniche del jump scare o simili, spesso utilizzate per nascondere una scrittura poco pensata e incapace di riuscire effettivamente a spaventare lo spettatore.

Invece il senso di angoscia della pellicola è causato proprio dai problemi che questi fantasmi portano avanti, spesso questioni fin troppo impegnative persino per un adulto – suicidio, violenza domestica, abusi – figuriamoci per un bambino di appena nove anni.

Haley Joel Osment e Toni Collette in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E tanto basta per creare un orrore piuttosto raffinato, che riesce forse un po’ semplicisticamente a dissiparsi quando, grazie a Malcom, il protagonista finalmente affronta questi spettri e le loro richieste, in modo che possano morire in pace.

E proprio su questa china arriviamo allo scioglimento.

Dialogo

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Entrambi i protagonisti devono riuscire a comunicare.

Malcom crede di vivere in un matrimonio ormai finito, in cui Anna gli è ormai indifferente, anzi si è già impegnata con altri uomini, che il marito cerca di scalzare senza mai intervenire direttamente, senza mai riuscire ad affrontare la questione faccia a faccia.

Ma la presa di consapevolezza della sua vera condizione, che rappresenta anche l’ottimo colpo di scena finale, chiude finalmente questo capitolo della sua vita, in cui è riuscito a salvare un altro bambino potenzialmente problematico e, per consiglio dello stesso, il suo stesso matrimonio.

Allo stesso modo, Cole vive nel costante timore di rivelare il suo sesto senso alla madre, per paura di non essere creduto o, ancora peggio, di ferirla irrimediabilmente e spezzare il loro importante quanto fragile rapporto.

Ma è proprio rendendo possibile il dialogo che Lynn non riesce ad avere con la madre defunta che Cole riallaccia i rapporti con la genitrice, che finalmente riesce ad accettare la perdita di un affetto tanto importante, e a ricostruire il rapporto con un figlio che credeva di poter più capire.