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La dolce vita – L’età dell’amarezza

La dolce vita (1960) è probabilmente il titolo più famoso della filmografia di Federico Fellini, che ne definì la popolarità non solo in Italia, ma anche oltreoceano.

A fronte di un budget di 800 milioni di lire – circa 400 mila euro – è stato un enorme successo commerciale: 19 milioni di dollari in tutto il mondo, compresi gli incassi per il noleggio.

Di cosa parla La dolce vita?

Marcello è un giornalista di costume che sembra vivere la vita dei sogni, fra feste, VIPS e amori impossibili…o forse no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La dolce vita?

Federico Fellini e Marcello Mastroianni nel backstage de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Nonostante il titolo – e tutto l’immaginario che si è creato intorno – possa far credere ad uno spaccato dell’Italia del Boom dai toni ironici, in realtà, al pari del poco successivo Il sorpasso (1962), La dolce vita racconta la profonda tragedia del sogno inconsistente e passeggero della sua epoca.

Infatti, se ci si ferma ad ascoltare la pellicola nei momenti in cui davvero ci parla, si può cogliere l’amarezza crescente dei suoi personaggi, immersi in un sogno che sembra non finire mai, ma che li rende anche privi di un punto di arrivo, di uno scopo, di un motivo per essere vivi.

Idolo

L'inizio de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

L’apertura della pellicola racconta tutto di sé stessa.

Un grottesco quanto attraente Gesù in oro massiccio sorvola le cime di Roma, attraendo prima lo sguardo della strato sociale più basso, e poi giungendo alla vetta, e cercando brevemente di dialogare con la sua classe di rappresentanza, ma senza riuscirci.

In altre parole, La dolce vita ci parla di idoli…

…e di idoli passeggeri, interscambiabili, per nulla legati ad una morale cristiana – come racconta bene il passaggio dal Gesù d’oro alla divinità esotica rappresentata dal danzatore nel club – ma anzi con lo sguardo sempre puntato altrove, specificatamente verso gli Stati Uniti.

Per questo l’avvenente stella del cinema, Sylvia, è davvero il simbolo della pellicola.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

In un primo momento Marcello la disdegna – quantomeno a parole – proprio come il suo paese in parte si faceva forte di non essere influenzato dalla cultura d’oltreoceano, ma finendo infine per essere inevitabilmente innamorato, seguendola nella sua sciocca esplorazione dei simboli nostrani.

Infatti, il personaggio di Anita Ekberg prima si appropria delle vesti religiose per salire sulle guglie del Vaticano e quasi prendere il posto del Papa, poi si immerge nel suo abito vaporoso e avvenente nello scenario posticcio dell’Antica Roma, più volte protagonista dei peplum statunitensi.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

E il sogno si autoalimenta nella sua crescente bellezza, finendo per immergersi nelle acque intoccabili della Fontana di Trevi, dove lo schiocco del bacio fra Marcello e Sylvia è al contempo il punto d’arrivo del climax di passione e il momento del risveglio dal sogno.

Così infine il protagonista si trova nell’imbarazzo dell’essere scoperto in pieno giorno, finendo malmenato per strada dalla Grande America.

E l’avventura finisce così…

…o no?

Circo

Marcello Mastroianni in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Lo spettacolo non può mai finire.

La sensazione di un circo infinito domina la pellicola in ogni sua parte, sia nella sua scansione narrativa – che ci porta da una situazione all’altra senza soluzione di continuità – sia nel suo atto centrale, nella sequenza del Cha Cha, in cui ad uno spettacolo ne segue immediatamente un altro, e poi un altro ancora…

E la fugacità del sogno è rappresentato proprio dalla sua immediata attrattiva: che si tratti dell’ultimo scandalo di celebrità o del supposto miracolo popolare, i media – che siano i paparazzi o la televisione – sono sempre pronti all’assalto della notizia, per darla in pasto ad un pubblico immerso in un’euforia apparentemente senza fine.

Marcello Mastroianni e Alain Cuny 
in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Ma è proprio nel secondo quadro de La dolce vita – quello dedicato alla festa a casa di Steiner – che emerge effettivamente il dramma della pellicola, impersonato dalla figura del futuro suicida, che racconta prima la sua volontà di ridimensionarsi – come persona e come sogno:

Se mi vedessi bene, sapresti che persona piccola che sono.

…e poi con il suo angosciante tentativo di fuga, rappresentato dai suoni ambientali di cui ormai si è privato, troppo immerso nel fracasso costante a cui la vita mondana lo costringe, troppo intrappolato in quel quadro felice da esserne incapace di fermarsi e di coglierne la vera natura:

Mi sembra che sia solo un’apparenza e che nasconda l’inferno.

E proprio nella mancanza di punti fermi si trova una delle maggiori angosce della pellicola.

Legami

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Marcello non può legarsi a nessuno.

La sua vita è scandita da amori passeggeri e scostanti, dall’incapacità di amare la donna che lo ricambia – Emma – e dall’impossibilità di ottenere la donna che desidera – Maddalena – con cui finisce solo per inseguirsi, persino appartarsi nella segretezza della casa di una prostituta.

Entrambe le figure femminili sono sfuggenti, desiderate, respinte e respingenti, in una dinamica di inseguimento che non riesce mai a concludersi, dove vengono dette parole importanti, sia ingiuriose – come nel caso di Emma – sia appassionate – nei confronti di Maddalena…

…per trovarsi sempre al punto di partenza, in un’insopportabile stasi.

Marcello è quindi solo e inascoltato, vive sempre in potenza di qualcosa che potrà succedere – da cui l’emblematica spiegazione della sua vita al padre – e, quando si ferma, riscopre la sua immobilità e solitudine, come proprio nella scena della stanza del Castello, in cui infine Maddalena scompare fra le braccia di un altro uomo.

Infatti, proprio come a teatro, i personaggi entrano ed escono di scena, a volte senza un reale motivo, ma causando la reale sofferenza del protagonista, che si rende conto di non avere un rapporto concreto e significativo con nessuno, nemmeno col padre che prima viene assorbito dalla vita del figlio…

…ma che, infine, senza nessun motivo, deve abbandonarlo.

E proprio in questa occasione si introduce il tema della incomunicabilità.

Comunicare

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

I personaggi non possono cambiare anche perché non possono comunicare.

La baraonda delle loro vite è troppo importante, troppo imprevedibile perché possa essere evasa, la parata in cui vengono coinvolti per entrare e uscire di scena è troppo travolgente per non farne parte, per non essere rinchiusi in una vita perfetta, in realtà profondamente disconnessa e senza significato.

Per questo, le strade possibili sono solo due.

L’uscita di scena, quella definitiva, di Steiner, che, consapevole di non poter mai essere ascoltato, di non poter mai pretendere una vita differente, se la toglie, lasciando Marcello nella consapevolezza di non aver veramente ascoltato l’amico, di non averlo mai veramente conosciuto nel suo profondo ed incompreso dolore.

Oppure, lasciarsi sopraffare.

Marcello Mastroianni nella scena finale de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

La profonda tragedia della perdita di Steiner spinge Marcello ancora più al centro della scena, sempre più inconsistente e frivolo, quasi folle nel suo agire, nel suo voler comporre la scena a suo piacimento, per continuare in eterno una festa da cui non può fuggire.

Per questo, ormai in ginocchio sulla spiaggia, non riesce ad ascoltare niente di diverso, nemmeno la voce innocente e forse alternativa di Paola, che lo distanzia solo di pochi metri eppure che non riesce a penetrare la bolla in cui Marcello si è rinchiuso…

…in cui sceglie infine di ritornare, con un mezzo sorriso sornione di cui ormai ha accettato un’infelice esistenza.

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Le notti di Cabiria – Dall’alto al basso

Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini è una pellicola dedicata all’omonimo personaggio già apparso brevemente in Lo sceicco bianco (1953).

A fronte di un budget di circa 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) fu un enorme successo commerciale700 mila dollari – grazie anche alla vittoria come Miglior film straniero agli Oscar del 1958.

Di cosa parla Le notti di Cabiria

Cabiria è una prostituta che sembra essersi presa tutte le sfortune della vita. Ma forse una speranza c’è ancora…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le notti di Cabiria?

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Le notti di Cabiria è una splendida esplorazione felliniana dei numerosi strati sociali della Roma della fine del Decennio, spaziando fra diversi tagli narrativi, dalla più serena comicità alla dramma più straziante.

Difficile comprendere a così grande distanza di tempo la portata storica del racconto di una figura sociale così scandalosa come la prostituta, all’interno fra l’altro di un panorama di personaggi senza una particolare distinzione fra buoni e cattivi, ma con un’accattivante scala di grigi.

Amarezza

Cabiria è un personaggio profondamente incattivito.

L’apertura ci racconta un panorama idilliaco, in cui una coppia di innamorati passeggia allegramente nelle campagne romane, per poi improvvisamente mutare tono: l’uomo sottrae la borsetta alla donna e la getta nel fiume, dove questa rischia di morire.

Un momento di passaggio fondamentale in cui la protagonista muore e rinasce, di nuovo consapevole delle sua sua posizione di emarginata sociale per cui è impossibile riscattarsi, allergica ad ogni tipo di umanità nei suoi confronti, che non può altro che portare ad un giudizio di valore:

È una che fa la vita…

Espressione antiquata per indicare una donna che fa la prostituta.
Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

E la sua antipatia si espande a tutti i rapporti con gli altri personaggi, a cominciare da Wanda, la sua vicina di casa, da cui non vuole essere assolutamente aiutata, pena l’ammettere di essere stata gabbata in un momento di leggerezza in cui ha abbassato la guardia.

Infatti, Cabiria vive in un sogno.

Margine

Cabiria e Alberto Lazzari in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Nonostante il suo carattere turbolento, la protagonista crede che un riscatto sia ancora possibile.

E questo avviene ancora una volta nell’incontro con Alberto Lazzari, che, abbandonato dalla fidanzata, sceglie invece la compagnia di Cabiria, che si illude di essere effettivamente al centro dell’interesse del divo del cinema, di poter essere la sua nuova compagna.

Ma basta poco per essere scalzata dalla bellezza eterea della compagna di Alberto, che ritorna improvvisamente nella sua vita, spingendo la protagonista nuovamente ai margini della scena – e dell’interesse dell’attore, che prima la rinchiude in bagno, poi la congeda con una mazzetta.

E, giunti così in alto, non si può che scendere…

…molto in basso.

Prospettiva

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria vive in uno stato di potenza…

…di fallimento o di rinascita.

Nonostante la sua posizione sociale marginale, la protagonista ci tiene a rimarcare di essere riuscita a costruirsi una vita dignitosa – anzi, si scoprirà nel finale che è riuscita a mettere da parte una cospicua cifra sempre in funzione di un possibile riscatto futuro.

Ma Cabiria sa anche di essere in bilico.

E la prospettiva della pericolosità della sua ambigua posizione le appare chiara solo nel viaggio nelle grotte, sede dei veri emarginati sociali, crollati nella miseria più assoluta e sorretti dalla fragile e occasionale carità di pochi uomini buoni.

In questa amara desolazione emerge particolarmente la figura di Elsa, un tempo protagonista delle notti romane, ora definitivamente scomparsa dalla circolazione, vivendo delle illusorie speranze di potere ancora recuperare il suo precedente status.

E questa prospettiva, apparentemente così fine a sé stessa, è fondamentale per il terzo atto.

Ciclo

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria è bloccata in un ciclo?

Il drammatico scherzo ai danni della protagonista a teatro è solo un’ulteriore rappresentazione – anzi, forse la più straziante – di quel sogno che la protagonista sembra incapace di abbandonare, nonostante le umilianti conseguenze, tali da farla nascondere per ore all’interno del teatro.

Eppure la vita sembra darle un’occasione nuova di zecca per riscattarsi, per abbracciare quel destino che Frate Giovanni le racconta come assolutamente naturale e auspicabile – il matrimonio – persino con un uomo che conosce da pochissimo tempo, ma che sembra genuinamente interessato a lei.

E così lo spettatore è ottimamente rappresentato dalla figura di Wanda, che osserva preoccupata il totale abbandonarsi di Cabiria a questo nuovo sogno, scegliendo consapevolmente di liberarsi di tutti i suoi averi di troppo per cominciare una nuova vita.

E l’angoscia non fa che crescere più la protagonista mostra i suoi averi e più la coppia si avvicina al dirupo davanti al quale Cabiria crolla nell’ennesima consapevolezza di essere stata usata solo per soldi, e pure tramite una costruzione astrusa quanto genuinamente straziante.

Eppure, non è finita.

L’ultimo momento della pellicola, in cui Cabiria sembra definitivamente destinata alla miseria precedentemente mostrata, viene invece illuminato dalla giocosa apparizione della folla festante, per cui la dolorosa lacrima sul volto della protagonista diventa quasi un vezzo, quasi un trucco da pagliaccio felice.

Per raccontarci che, nonostante tutto, una speranza di rinascita c’è ancora…

…e ancora.

…e ancora.

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Animazione Avventura Commedia Disney Drammatico Film Il medioevo

Red e Toby – Crescere divisi

Red e Toby (1981) di Art Stevens, Ted Berman, Richard Rich è il ventiquattresimo classico Disney, nonché l’ultimo in cui venne usata unicamente la tecnica tradizionale.

A fronte di un budget abbastanza alto per il periodo – 12 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 63 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Red e Toby?

Durante una sanguinosa battuta di caccia, la madre di Red lo deve abbandonare per salvargli la vita. E l’incontro con l’umano è croce e delizia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Red e Toby?

Assolutamente sì, ma…

Avevo memoria di quanto fosse struggente il racconto del film, ma avevo totalmente dimenticato il livello di violenza e il come la stessa viene portata in scena, rendendolo un film per molti versi persino disturbante, pur essendo proprio per questo forse tra i titoli più realistici di casa Disney. 

Infatti, a differenza di molti suoi predecessori, Red e Toby evade una struttura piuttosto insidiosa per cui il film non è un film, ma piuttosto una raccolta di momenti uniti da una spesso debole trama, risultando invece ben strutturato, con solo un inserto narrativo che sembra una pausa dalla narrazione.

Insomma, da riscoprire.

Sottrazione

Nella consapevolezza di dover gestire una trama piuttosto violenta, Red e Toby lavora per sottrazione.

Così non ci risparmia tutti i momenti di angoscia pressante nella fuga disperata della madre di Red, che per molti versi ricorda il momento analogo in Bambi (1942), ma che risulta infine ammorbidito grazie alla scena immediatamente successiva di aiuto degli altri animali nei confronti del protagonista…

…ma che non ci risparmia l’orrore nel sentire lo sparo in lontananza e l’inevitabile morte della volpe.

In altre parole, è come se ci fossero due livelli.

Il livello più adulto, più strettamente realistico – rappresentato da questo e da altri momenti in cui la violenza è presente ma più o meno sublimata, come gli spari con svolazzi di piume o la pila di pelli di animale che appare molto eloquentemente nel camion di Amos Slad, fino al terribile terzo atto…

…e il livello più infantile, più giocoso, che riassume in altri termini la vicenda in atto: la sciocca caccia di Sbuccia e di Cippi verso il povero bruco, che viene costantemente insidiato nella sua tana, ma che riesce in qualche modo ad averla sempre vinta e a salvarsi la vita.

Infatti, ogni barlume di speranza è facilmente soffocato.

Amici

Red e Toby possono essere amici?

La rappresentazione iniziale del loro rapporto – e del loro comportamento in generale – è tipica della fase infantile, del non riuscire a vedere le barriere sociali naturalmente imposte, cercando invece in un compagno di giochi un amico per la vita.

Un comportamento così ignaro dei pericoli che porta ad una totale inconsapevolezza di Red nel tentare nuovamente un approccio con Toby nonostante gli avvertimenti di quest’ultimo, creando un’aperta discordia fra gli umani stessi, racconto di una mentalità testarda e delirante, potenzialmente trasmessa anche agli animali.

Insomma, per i protagonisti è ora di crescere a immagine somiglianza dei padroni?

Crescere

Tutta la dinamica della crescita di Red e Toby riprende molto bene il concetto di growing apart.

Infatti, nonostante fossero inizialmente accomunati dalla medesima innocenza infantile, la stessa si va a scontrare con un mondo adulto ben più crudele, di cui all’inizio solo Toby sembra capirne le regole, riuscendo a diventare il cane di punta del suo padrone per le sue spietate battute di caccia.

Una consapevolezza che ben si riflette anche nel nuovo incontro con Red, la cui crescita – rappresentata da un character design veramente indovinato, con i baffetti non ancora formati che indicano come il personaggio sia un adulto di primo pelo – è solo visiva, e non mentale, tanto che si comporta ancora come un cucciolo…

…mettendo infine un punto alla sua amicizia con Toby, per una sfortunata concatenazione di eventi che lo porta prima il cane a salvare Red, poi a rivoltarsi contro di lui, accompagnandoci verso uno dei momenti più struggenti della storia della Disney: l’abbandono di Red incorniciato da una malinconica melodia.

Ed è qui che la pellicola cerca di ribilanciare i toni.

Scontro

Per dare modo a Red di maturare, il film gli concede una parentesi tutta sua…

…e solo apparentemente molto fine a sé stessa.

Infatti grazie all’incontro con Vicky, la volpe si affaccia finalmente al mondo selvaggio a cui non è mai appartenuto, definito da riti di accoppiamento da cui non esce immediatamente vincitore, anzi dovendosi scontrare con un’inabilità al vivere devastante e vergognosa, ma che è anche un tassello fondamentale per definire il terzo e ultimo atto.

La parte finale della pellicola è quella più apertamente spaventosa – ma anche più educativa: si giunge al punto massimo del climax ascendente dello scontro, in cui Amos si lancia all’attacco insieme a Toby per vendicare Fiuto, con metodi violenti quanto meschini, che infiammano entrambe le parti, facendoli persino mutare d’aspetto.

Ma la parte educativa è paradossalmente il personaggio dell’orso, in cui Amos dovrebbe rivedere se stesso nella sua furia omicida e distruttiva, andando ad incastrarsi nelle sue stesse, diaboliche trappole, per poi risultare del tutto irriconoscente davanti alla inaspettata umanità di Red, che decide di salvare entrambi i suoi nemici.

Ed è infine Toby a mettere fine alla lotta…

…ma senza ricomporre il quadro iniziale: nonostante la pellicola si chiuda con un siparietto comico fra Amos e la signora Tweed, la vera chiusura è lo sguardo di Red verso il suo vecchio amico e la sua nuova vita, che non si azzarda più a intralciare, rimanendo fisso ai margini nella scena, ancorato al suo nuovo contesto sociale.

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David Cronenberg Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film L'ultimo orrore di Cronenberg Mistero

The Shrouds – Dialogo morto

The Shrouds (2024) di David Cronenberg è un dramma fantascientifico incentrato sul tema dell’elaborazione del lutto.

Di cosa parla The Shrouds?

Karsh affronta la morte della moglie in maniera piuttosto particolare: continuando ad osservare il contenuto della sua tomba. Ma non tutti sono d’accordo con questa tecnologia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Shrouds?

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

In generale, no.

Purtroppo con The Shrouds Cronenberg si perde totalmente in uno spunto che poteva anche essere interessante – quanto tipico della sua produzione – ma che è fatto a pezzi da una trama confusionaria, una trattazione tematica pasticciata, e un didascalismo sconcertante.

A questo si aggiunge un racconto di non poche tematiche con ben poca lucidità, ai limiti dell’imbarazzante…

Spunto

L’incipit di The Shrouds poteva a suo modo essere interessante.

Karsh vive nel sogno – o incubo – della moglie morta, e progetta uno speciale sistema per poter essere con lei anche nell’oltretomba, circondandosi di fotografie che ne raccontino il lugubre presente, ma anche la sicurezza della sua condizione, piuttosto che uno sfumato passato.

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Così la figura di Becca è onnipresente, sia nella tomba digitale – che allontana possibili nuove partner – sia nella realtà fittizia, ora del sogno – in cui la moglie è costantemente fatta a pezzi – ora della sua assistente virtuale, che ne mantiene le fattezze.

Altrettanto interessante poteva potenzialmente essere l’atto di vandalismo ai danni del cimitero, che ci portava sulla strada di un giallo fantascientifico, proprio grazie alla presenza delle misteriose protuberanze sullo scheletro di Becca…

…e invece, nessuna strada è veramente percorsa.

Scioglimento

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

È onestamente difficile seguire la via tracciata da Cronenberg in The Shrouds.

Non perché si tratti di un racconto enigmatico ed inafferrabile come l Videodrome (1983), ma bensì perché il regista sembra prima voler rendere il mistero centrale alla vicenda, per poi spingerlo ai margini della scena, intrappolandolo in uno scioglimento piuttosto confuso ed estremamente didascalico.

Infatti, non vi è alcuna costruzione del mistero e della tensione, ma la soluzione viene semplicemente espressa tramite i dialoghi dei personaggi, ma senza che vi sia un retroterra narrativo significativo, ma piuttosto perché gli stessi o sentono improvvisamente di volersi confessare…

…oppure perché arrivano alle soluzioni senza doverci davvero pensare.

E così bastano pochi passi falsi per fare perdere ogni tipo di interesse verso la storia, rendendo lo scioglimento della vicenda un calderone dove buttare molti concetti senza comprenderne veramente nessuno, pescando vari temi di stretta attualità, nemici vecchi e nuovi – i cinesi quanto i russi – finendo per perdersi in un ingestibile caos.

E non è neanche la parte più problematica della pellicola.

Attualità

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

E piuttosto comune per il genere fantascientifico collegarsi ad argomenti di attualità. 

Ma non è un obbligo.

Durante la sua produzione cinematografica Cronenberg non ha mai voluto avere un collegamento così stringente con la sua contemporaneità, spesso spaziando invece in possibili futuri grotteschi o in revisioni del presente più sui toni dell’onirico o persino del fantastico.

Per The Shrouds Cronenberg ambienta la vicenda in un futuro non troppo lontano, inserendo alcuni concetti di strettissima attualità – macchine che si guidano sole, Intelligenza Artificiale – ma senza riuscire ad indovinarne in realtà nessuna, ma anzi spesso perdendosi nelle stesse. 

Vincent Cassel e Sandrine Holt in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Particolarmente strana è la questione dell’Intelligenza Artificiale, che sulla carta sembra voler denunciare il nostro ingenuo abbandono ad una tecnologia che non è altro che un burattino, una facciata per metterci a nudo e manipolare le nostra vite…

…ma in conclusione non si comprende chiaramente in quale direzione voglia andare, dimostrando effettivamente la tesi di cui sopra, ma senza che sia chiaro quale sia il motivo – o effettivamente il modo, dal momento che le paure di Karsh si erano concretizzate con quell’aspetto solo in sogno.

E, allora, di cosa vuole parlare The Shrouds?

Focus

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Se mettiamo da parte la questione fantascientifica e morale, cosa rimane a The Shrouds?

Forse, quello di cui veramente voleva parlare.

Osservando l’andamento della vicenda e l’importanza che viene data ai personaggi, Cronenberg sembra in realtà voler parlare dell’elaborazione del lutto, particolarmente della difficoltà del protagonista di allontanarsi fisicamente dalla figura della moglie defunta…

…ma volendo al contempo farla a pezzi, quasi sezionarla, e infine punirla per essersi in parte concessa ad un altro uomo – un importante convitato di pietra che entra in scena solamente da morto – per una punizione che è solo un modo per liberarsi dalla sua presenza.

Tuttavia, l’aver arricchito una narrazione con così tanto potenziale di elementi che non sono riusciti ad incastrarsi fra di loro, l’averla conclusa sempre tramite la bocca del protagonista e senza un minimo di pathos effettivo, ha per me privato l’opera di tutto il suo potenziale interesse.

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La Strada – Cane mangia cane

La Strada (1954) è universalmente considerato il primo capolavoro di Fellini – e forse il momento più significativo della sua fase neorealista.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 61 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La strada?

Dopo aver visto partire (e mai tornare) la sorella, Gelsomina è scelta dal feroce Zampanò come prossima compagna di viaggio per la sua compagnia circense. Ma la prospettiva è molto meno piacevole del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Strada?

Assolutamente sì.

La Strada è il primo effettivo dramma felliniano, che sposta l’occhio dalla fragilità della piccola borghesia alla società degli ultimi, facendone emergere un ritratto apparentemente estremamente scontato, in realtà profondamente drammatico e significativo.

La pellicola dove, dopo la breve quanto significativa apparizione in Lo sceicco bianco (1952), la musa felliniana – nonché compagna di vita – Giulietta Masina poté finalmente mettere in mostra le sue ottime capacità di artista versatile e sfaccettata.

Insomma, da riscoprire.

Destino?

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Gelsomina è destinata ad un’avventura di strada…

…o al patibolo?

Il racconto della protagonista si apre con il ricordo della sorella ben più meritevole di lei, prematuramente scomparsa nel viaggio infernale con Zampanò, per una vita sulla carta piena di sorprese e di successi, nella realtà ben più misera e insidiosa.

E il pianto della madre, che fa dà sfondo a tutta la sequenza iniziale, è uno spaccato dolorosissimo di una classe sociale che, pur comprendendo la tragedia a cui sta andando incontro, non può scamparla, proprio in mancanza di altre prospettive a cui aggrapparsi.

In altre parole, Gelsomina può morire a casa, o può morire per strada.

Sbocciare

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Il rapporto fra Zampanò e Gelsomina è volutamente paradossale.

La giovane serba dentro di sé una scintilla che deve solo essere sfruttata, nascosta dietro quella facciata invece più timida e riservata, ma che viene fatta emergere a forza di schiaffi di uno Zampanò deciso nel modellare la figura della giovane come perfetto accompagnamento per i suoi spettacoli.

Ed effettivamente la protagonista prende progressivamente colore a fianco del suo padrone, diventando prima il suo accompagnamento, poi effettiva protagonista dei suoi spettacoli, tanto da riuscirne ad ampliare il repertorio e non limitarlo ad una sola prova di forza.

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Tuttavia non mancano i continui abusi, al punto da fare arrestare Zampanò e a permettere così a Gelsomina di liberarsi della sua ingombrante presenza, per unirsi alla ben più accogliente compagnia circense, ma scegliendo invece di rimanere fedele al suo aguzzino per una sorta di sindrome di Stoccolma…

…oppure no?

Cane

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Il vero protagonista drammatico è proprio Zampanò.

Per quanto sembri apparentemente solo un buzzurro attaccabrighe, in realtà è un personaggio ben più sfaccettato, come emerge gradualmente dai suoi discorsi, che hanno come comune denominatore una insofferenza insaziabile nei confronti di un mondo ingiusto che non sembra fare altro che punirlo.

Di fatto Zampanò è un personaggio profondamente incattivito, che ha scelto di rinchiudersi in sé stesso e nella solitudine del proprio piccolo inattaccabile mondo, dove anche il minimo cambiamento – come il coinvolgimento di Gelsomina nel nuovo spettacolo – alimenta la sua inarrestabile ira.

Per questo diventa infine vittima di sé stesso, incapace di reagire lucidamente, ma solo con la forza bruta, portandolo ad una frattura insanabile sia nel corpo del Matto, sia nella mente di Gelsomina, che rimane come cristallizzata in quella violenza incomprensibile che la fa uscire di senno.

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

E, anche se a parole Zampanò rinnega l’importanza della ragazza nella sua vita, tanto da abbandonarla in mezzo alla strada, la stessa rimane un’eco costante che lo perseguita anche nel presente, venendo a sapere del suo totale spegnersi nella solitudine e nella pazzia solo per bocca d’altri…

…abbandonandosi infine in un pianto disperato davanti all’ennesimo fallimento della sua infernale esistenza.

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I Vitelloni – Costretti alla vita

I Vitelloni (1953) è uno dei film più noti della fase neorealista della filmografia di Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, la pellicola è stata un successo internazionale, riuscendo ad arrivare molto oltre i confini italiani, dove comunque incassò più di 28 mila euro.

Di cosa parla I Vitelloni?

La vicenda si incentra sulle vicende di un gruppo di bambini troppo cresciuti, incapaci di abbracciare la vita adulta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Vitelloni?

Assolutamente sì.

Come era stato per il precedente Lo sceicco bianco (1952), anche in questo caso Fellini porta in scena un racconto dissacrante della società italiana, della fragilità del sogno piccolo borghese intrappolato in una serie di codici che non riesce a sostenere…

…ben rappresentato dai cinque protagonisti che si fanno largo in una vita dove vogliono essere capifamiglia, inguaribili dongiovanni, artisti incompresi…per ritrovarsi ad essere solo dei bambinoni (o Vitelloni, appunto) incapaci di diventare adulti e di prendersi anche solo la minima responsabilità sulle spalle.

Incidente

Riccardo Fellini e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

L’incipit è un perfetto spaccato della condizione iniziale dei protagonisti.

La simpatica occasione di incontro paesano ruota intorno all’incoronazione della reginetta di bellezza, ultimo momento del racconto di un sogno di giovinezza che sembra non avere mai fine, in cui i Vitelloni ne sono il degno contorno…

…ma che viene spezzato da un temporale improvviso e inarrestabile, quanto è inarrestabile l’incidente della gravidanza di Sandra, che, soffocata dal peso della responsabilità, sviene in mezzo alla folla rivelando così il peccato giovanile che la forzerà immediatamente alla vita adulta.

Franco Fabrizi e Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

In questo senso Fausto è l’apoteosi dei Vitelloni, che sogna una vita al di fuori di ogni responsabilità, soprattutto quella di una donna fissa al suo fianco, che cerca di fuggire alla prima occasione, ma che viene subitamente riportato coi piedi per terra dall’arcigno patriarca.

Ed è solo l’inizio.

Fuga

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

I Vitelloni vivono in una continua fuga.

Fausto cerca ogni occasione per fuggire dalle responsabilità del suo matrimonio, non scegliendo una particolare alternativa allo stesso, ma semplicemente avventandosi su ogni donna gli sembri anche vagamente interessante, incapace di rimanere fedele alla dolce e innocente Sandra.

E per lui è ancora più straziante rimanere bloccato in un limbo costrittivo e soffocante, in cui è tecnicamente un adulto – in quanto sposato – ma deve sottostare ai controlli pressanti di una famiglia che non è neanche la sua e che lo trattiene come in un bozzolo, in attesa che possa sbocciare – o maturare.

Franco Fabrizi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

E la sua immaturità non è solo nel suo continuo e testardo rifuggire la trappola matrimoniale, ma nel comportarsi senza aspettarsi nessuna conseguenza – che sia per le donne o per gli stupidi furti – finendo anzi continuamente punito e sconfitto.

E gli altri?

Ruolo

E se il sogno fosse troppo?

Nessuno dei Vitelloni è capace di affrontare davvero la vita adulta: persino il sognatore Leopoldo, che vede finalmente le sue notti di studio maturare i primi frutti nelle lodi e promesse entusiastiche del commediografo, con la promessa di evadere la realtà provinciale in cui è costretto…

…fugge spaventato davanti ad una realizzazione del sogno non così idealizzata come si immaginava, in cui la via per la gloria può essere lastricata di insidie e di attenzioni non richieste, come quelle ambigue che gli rivolge il drammaturgo sulla spiaggia.

Alberto Sordi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Ma quello più bloccato in un limbo paradossale è Alberto.

Fra tutti, è il protagonista che abbraccia di più il suo lato infantile, che ha il suo apice nella festa di Carnevale, in cui si traveste scioccamente da donna, ma che si manifesta anche nelle stupide scommesse di cavalli e nelle ubriacature deliranti che gli impediscono di assumere quel ruolo tanto ricercato.

Infatti Alberto vorrebbe essere il patriarca di una famiglia senza padre, vorrebbe proteggere la sorella, anzi decidere della sua vita, quando la stessa è ormai economicamente indipendente, e sceglie consapevolmente di evadere ogni norma sociale con il suo amante…

…e infine fuggendo da una realtà che ormai gli sta troppo stretta.

Ma il lieto fine è possibile?

Futuro

Come spesso nei film di Fellini, il finale de I Vitelloni è volutamente ambiguo e amaramente ironico.

Il punto di arrivo dovrebbe rappresentare finalmente la maturazione di Fausto, messo davanti alle conseguenze delle sue malefatte, rischiando di perdere la moglie che diventa finalmente il suo unico desiderio, tanto da scacciare la femme fatale su cui aveva messo avidamente gli occhi qualche mese prima.

Eppure, le parole di chiusura di questa scena sono estremamente eloquenti:

La storia di Fausto e Sandra finisce qui, per ora.

Così Fellini non prospetta un finale lieto in cui il sogno borghese si è ricomposto, ma piuttosto ci lascia con una chiusura provvisoria che non esclude che nel futuro Fausto possa ricadere nei medesimi comportamenti, né risolve di fatto nessuna delle vicende dei suoi protagonisti.

Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Nemmeno la fuga di Moraldo è risolutiva, anzi è significativa per confermare il limbo in cui i protagonisti sono intrappolati, immaginandoli come passeggeri del medesimo treno con una destinazione ancora incerta, e infine in bilico su una rotaia solitaria, fra due vite, senza appartenere a nessuna delle due…

…proprio come Gaetano nella chiusura della pellicola.

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Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Dramma familiare Drammatico Film Surreale

The Father – La mente a pezzi

The Father (2020) di Florian Zeller è un dramma familiare con protagonista Anthony Hopkins.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 6 milioni di dollari – anche grazie alla vittoria del suo attore protagonista agli Oscar 2021 – è stato un ottimo successo commerciale: 24 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Father?

Anthony è un anziano signore piuttosto strambo e sopra le righe, che sembra riuscire a vivere serenamente da solo. Sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Father?

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Assolutamente sì.

La visione di The Father vale anche solo per la straordinaria performance di Anthony Hopkins, che riesce magistralmente a spaziare fra una grande varietà di toni e di tagli interpretativi, rendendo il suo personaggio incredibilmente tridimensionale e vicino allo spettatore.

Oltre a questo, la pellicola è una rappresentazione sostanzialmente perfetta del punto di vista di un paziente malato di Alzheimer, intrappolato in un incubo surreale senza via d’uscita, in cui le scene sembrano ripetersi sempre uguali, ma con facce diverse e sconosciute…

Insomma, da non perdere.

Tempo

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Inizialmente, Anthony sembra un personaggio assolutamente nella norma.

Le sue stramberie riguardo al presunto furto del suo prezioso orologio da parte della badante appaiono come i più classici, quanto innocui, deliri di un anziano che detesta avere sconosciuti nei suoi spazi personali – e la crisi sembra immediatamente risolta con il ritrovamento del maltolto.

E invece l’orologio è un simbolo incredibilmente significativo.

Anthony è costantemente alla ricerca del suo orologio, disperato quando non lo trova e sicuro che qualcuno glielo abbia sottratto, proprio a rappresentare la sua costante angoscia di non avere più il controllo sulla propria vita, sul proprio tempo…

…e che lo stesso gli sia stato sottratto da misteriose figure che si intrufolano all’interno del suo prezioso appartamento, rappresentazione della sua stessa, labirintica mente, in cui avvicendano diversi personaggi e facce, senza che riesca sempre a riconoscerli.

Ma, di fatto, i protagonisti della scena sono due.

Intruso

Il personaggio di Paul è quello forse più inafferrabile.

Scopriamo solo alla fine che la sua figura è contaminata dalla faccia dell’infermiere, che si va a sovrapporre al volto del vero marito di Anne, che assume sostanzialmente il ruolo di antagonista della vicenda, il colpevole dell’abbandono della casa, e della conseguente reclusione all’interno della casa di cura.

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Infatti fin da subito Paul è un intruso, che si trova nel bel mezzo della casa del protagonista senza che questo sappia neanche chi sia, e la sua presenza diventa sempre più ingombrante quando esplica i suoi veri pensieri riguardo alla salute precaria di Anthony.

Ma la realtà di questi episodi non è mai realmente chiara: verrebbe da pensare che l’unica scena veramente accaduta è il bisticcio a cena, e che i successivi maltrattamenti – fino all’effettiva aggressione fisica – siano una proiezione delle paure del protagonista, che si vede sbattere in faccia una verità che non può accettare.

Ovvero, non avere più il controllo sulla propria vita.

Abbandono

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

La figura della figlia – anzi, delle figlie – è legata alla paura dell’abbandono.

Tutta la vicenda sembra infatti svolgersi nel giro di una giornata, i cui contorni temporali sono sempre più confusi, ma il cui obbiettivo è chiaro: Anthony deve riuscire a superare la prova definitiva che gli permetta di essere ancora padrone della propria casa e della propria famiglia…

…ma la stessa è resa ancora più complessa dall’aspetto – probabilmente fittizio – della sua nuova badante, che così tanto assomiglia alla figlia scomparsa, che il protagonista continua a richiamare come ancora di salvezza davanti all’inevitabile abbandono della figlia maggiore.

Anthony Hopkins nel finale di The Father (2020) di Florian Zeller

Si articola così un climax piuttosto angosciante, in cui la Anne deve infine accettare l’idea di dover proseguire con la propria esistenza senza il padre, che infine si ritrova rinchiuso all’interno di una stanza che non conosce, popolata da volti che non riesce a collocare…

…riconoscendo infine l’abbandono della figlia, di essere lasciato solo in balia della sua mente e dei suoi ricordi contraddittori, finendo infine per recedere alla fase fetale, richiamando una impossibile figura materna che ha ricercato – quanto rinnegato – più e più volte…

…e che ora può solo concretizzarsi solo nella figura dell’infermiera.

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Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Il medioevo

Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.