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Deadpool 2 – Un film per famiglie

Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.

A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore: appena 734 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool 2?

Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool 2?

Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.

In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.

Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…

…che, di fatto, non vedremo mai.

Continuità

Deadpool sui barili di petrolio in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.

Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.

Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.

Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.

Solo un corpo da distruggere.

A pezzi

Deadpool X-Man in prova in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool deve essere rimesso insieme.

Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.

Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.

Russell in prigione in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.

Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio

…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.

Squadra

La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…

…pur andandole a vanificare un momento dopo.

La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.

Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.

Ma il team si deve ricomporre altrove.

Comporre

Deadpool in una scena del trailer di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

L’ultimo atto è un grande azzardo.

Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.

Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.

Deadpool X-Man  in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi tutto viene riscritto.

Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.

Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…

…forse ancora di più in vista di Deadpool e Wolverine (2024).

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Deadpool – Una origin story tutta sua

Deadpool (2016) di Tim Miller è il primo capitolo della trilogia (?) omonima dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget abbastanza basso per un cinecomic – circa 58 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 782 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool?

Wade Wilson è un mercenario che vive alla giornata e che, incredibilmente, trova la sua anima gemella. Ma l’amore è solo una tragedia con qualche spot commerciale…

Vi lascio il trailer per farmi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool?

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Assolutamente sì, soprattutto se, come me, siete saturi della Marvel.

Infatti, per quanto Deadpool sia un film con un Ryan Reynolds ancora col freno tirato, si pose come un’interessante alternativa in un panorama di origin story che al tempo – pur con ottime eccezioni come Homecoming (2016) – apparivano spesso blande e poco originali.

In questo senso il primo capitolo del mercenario chiacchierone era in tutto e per tutto un film per adulti – e non a caso era un rated R – colmo di battute sessuali e di una volgarità piuttosto spinta, ma mai fuori luogo, ma anzi piuttosto piacevole.

Insomma, da riscoprire.

Forward

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Forse anche consapevole di non godere di una trama particolarmente avvincente, Deadpool parte dalla fine.

Di fatto Deadpool rischia nel sacrificare il climax narrativo piuttosto classico che porta l’eroe della storia a comprendere i suoi poteri, individuare il suo antagonista e scontrarsi con lo stesso, scegliendo invece di mettersi nella sua versione finale già al centro della scena.

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

E dai titoli di testa la pellicola dà la sua prima zampata, riscrivendo gli stessi per deridere il genere di riferimento, mettendo anche le mani avanti per un prodotto che comunque – probabilmente non per volontà di Reynolds – risulta spesso molto standard e prevedibile.

Eppure lo stesso attore protagonista cerca costantemente di rianimarla con gli sfondamenti della quarta parete e con vari siparietti piuttosto fuori dagli schemi, come il disegno di Francis che Deadpool utilizza come identikit o la piccola avventura comica del tassista.

Poi, si torna indietro.

Alternativa

Ryan Reynolds e Morena Baccarin in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Nel racconto del suo passato e della relazione con Vanessa, Deadpool vuole essere il più scorretto possibile.

In un altro contesto probabilmente avremmo visto un mercenario di buon cuore che alla fine, grazie alla scoperta dei suoi poteri, decideva di cambiare vita e di passare da anti-eroe a eroe effettivo, magari riuscendo al contempo a dare una vita più dignitosa alla sua sciagurata fidanzata.

Ma questo è un film che non vuole essere né MCU né Fox…

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

…e che non segue nessuna di queste regole.

Così effettivamente il punto di partenza del protagonista non è altro che un modo per permettergli di arrivare alla sua nuova identità con già l’esperienza da assassino su commissione, che comunque non viene caricata di un’eccessiva drammaticità, ma anzi mantenuta piacevolmente comica.

Allo stesso modo, il primo scambio fra Vanessa e Wade è definito da una serie di irresistibili battute piuttosto pesanti e sicuramente non family friendly, che sono solo l’antipasto per il racconto piuttosto spinto dello sviluppo della loro relazione, con un umorismo davvero irresistibile.

Ma ogni storia d’amore ha la sua tragedia.

Svolta

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Deadpool non avrebbe dovuto essere Deadpool.

Solitamente nel genere la trama drammatica che porta alla deviazione morale è un’esclusiva dei villain, che servono molto spesso a caricarli di una maggiore tridimensionalità – con risultati altalenanti, che vanno da Thanos in Infinity war (2018) all’imbarazzo di Dar-Benn in The Marvels (2023).

Al contrario, la pellicola sceglie, pur mantenendo un buon equilibrio con il versante comico, di spogliare il più possibile Deadpool dalle vesti supereroistiche, e persino da quelle di anti-eroe, rendendolo il più possibile un personaggio con i piedi per terra.

Per questo il protagonista si fa attirare nella trappola di Francis, nella promessa di una seconda vita…

…non tanto per acquisire dei poteri, ma piuttosto per utilizzare gli stessi per sopravvivere al cancro e continuare il sogno d’amore con Vanessa, dovendo affrontare un processo che, come racconta lo stesso Deadpool, ha i toni propri del genere orrorifico.

Ma la rinascita sembra impossibile.

Senza ritorno

Deadpool ha intrapreso una strada senza ritorno.

Per quanto riesca con la sua furbizia a liberarsi dalla sua prigione, il suo aspetto mostruoso sembra un ostacolo insuperabile davanti al suo ricongiungimento con Vanessa, con una scena discretamente straziante in cui, mentre cerca di approcciarla, viene additato dai passanti.

Per questo a Deadpool rimane solamente la strada della vendetta, che si accompagna alla più classica creazione del costume, un momento sempre molto delicato di ogni origin story, ma che viene arricchito dalla dinamica piuttosto divertente della lavanderia.

A questo punto il film prende le strade più classiche della origin story, in cui l’interesse amoroso viene rapito dal villain di turno come esca per scatenare la battaglia finale – nonostante Vanessa non sia per niente una donzella da salvare, anzi.

In questo ultimo frangente Deadpool riesce un po’ a fatica ad evadere i più classici topoi del genere, proprio appesantito da una coppia di villain veramente stereotipati, ma risulta infine vincente grazie alla sua più grande provocazione.

Distinto

Infatti ci si aspetterebbe che Deadpool scelga infine di diventare effettivamente un eroe, abbandonando i suoi desideri di vendetta…

…mentre invece il protagonista si avvicina ancora di più allo spettatore scegliendo di piantare giustamente in fronte al suo carnefice un proiettile, con cui il film riesce chiaramente a definirsi come alternativo rispetto al resto del genere – che, a posteriori, lo ripagherà moltissimo.

Allo stesso modo ben riuscito il ricongiungimento con Vanessa, raccontato con toni mai eccessivi, ma anzi con un taglio che riesce a mantenersi sulla linea della credibilità, con una battuta finale che racconta molto bene il loro rapporto fuori dagli schemi:

After a brief adjustment period and a bunch of drinks…it’s a face I’d be happy to sit on.

Dopo un breve periodo di adattamento e un bel po’ di drink…è una faccia su cui sarei felice di sedermi.
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Moneyball – L’ingiusta vittoria

Moneyball (2011) di Bennett Miller, in Italia noto anche come L’arte di vincere, è un film sportivo che racconta la vera storia del GM Billy Beane.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – non è stato purtroppo un grande successo: appena 112 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Moneyball?

Billy Beane è il General Manager di una squadra di eterni perdenti, gli Oakland Athletics. Ma forse una via alternativa è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moneyball?

Assolutamente sì.

Moneyball si pose come un’alternativa alla narrazione molto romantica del baseball e dello sport in genere, raccontando un dietro le quinte del settore molto più crudo e spietato, in cui i giocatori vengono scambiati come figurine da una squadra all’altra.

Fra l’altro, un’ottima occasione per vedere i primi tentativi di Brad Pitt di cominciare la sua seconda giovinezza artistica, evadendo i ruoli da sex symbol e scegliendo invece delle parti più drammatiche e riflessive, in cui dimostra le sue grandi capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Capolinea

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

All’inizio di Moneyball, la squadra sembra al capolinea.

Trovandosi un team sguarnito e le casse che piangono, Billy Beane comincia a percorrere le più classiche vie del recruiting, intavolando fin da subito dinamiche piuttosto calcolatrici che rappresentano il dietro le quinte del mondo sportivo.

La stessa via viene anche intrapresa dal suo team di consiglieri, che studiano le nuove promesse da portare in campo, ragionando con i soliti sistemi di intuito e di capacità di osservazione per valutare il valore e le potenzialità dei giocatori che hanno davanti.

Ma c’è un’altra via.

Scoperta

Jonah Hill in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Quando sembra ormai essere arrivato alla fine della corsa, si aggiunge un giocatore in campo.

Basta un breve scambio con il giovane Peter Brand per scoprire un’altra, interessante faccia della questione: lasciare da parte intuito, fama e prezzi di mercato, e ridurre i potenziali giocatori a semplici dati su una tabella, da inserire in un sistema che ne valuti non tanto le capacità, ma le potenzialità dell’investimento.

Questo particolare sistema, in cui i giocatori sembrano dei cartellini ambulanti, viene testato immediatamente dal protagonista stesso, che vede confermata la convinzione che lo insegue da una vita: essere un mediocre giocatore di baseball che non avrebbe mai raggiunto il successo.

E allora è la svolta.

Sistema

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

Al fianco di Peter Brand, Billy mette in campo un sistema chirurgico.

Come il suo team gioca sul campo, così il protagonista gioca con loro nelle retrovie, mettendo in campo un sistema di offerte e di raggiri che assomiglia molto a giocare in borsa, ma in questo caso agendo su una complessa rete di amicizie e rapporti che finiscono per scontrarsi fra loro.

Di fatto Billy vive fuori dal campo – non volendo mai assistere alle partite per scaramanzia – e lontano dai suoi stessi giocatori, con cui parla in pochi momenti della pellicola – per reclutarli o per avvisarli che sono stati venduti ad un’altra squadra.

Appare così come un personaggio apatico, interessato solo al guadagno…

Consapevolezza

Brad Pitt in una scena di Moneyball (2011) di Bennett Miller

…ma, in realtà, la sua è solo paura.

La consapevolezza di non essere un bravo giocatore, e di poter quindi solo aspirare ad essere un recruiter, a vivere ai margini del campo, è stata una ferita talmente profonda da impedirgli di vivere in prima persona la realizzazione del suo progetto, proprio per il timore di fallire.

E così il vedere il suo progetto sgretolarsi davanti ai suoi occhi, vedere un incomprensibile fallimento della sua squadra nonostante il robusto streak di vittorie che ha segnato la storia del baseball, lo porta ad un crollo psicologico che si svolge nell’intimità del campo da baseball.

Ma, proprio come lo stesso Brand gli fa notare, il protagonista stava guardando dalla parte sbagliata: così sicuro del suo fallimento, Billy ha avuto occhi solamente per l’unica sconfitta, e non per la grande vittoria che ha ottenuto, non per quell’home run fenomenale che l’ha consacrato alla storia dello sport.

Eppure, comunque il protagonista non accetta la sua ricompensa

…forse non sentendosi di meritarla davvero.

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E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

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The Fighter – L’ingiusta ombra

The Fighter (2010) di David O’Russell è un dramma familiare che racconta la vera storia del pugile Micky Ward.

A fronte di un budget di 11 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 129 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Fighter?

Micky, una potenziale stella del pugilato, deve vivere nell‘ingombrante ombra dello sgangherato fratello maggiore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fighter?

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Assolutamente sì.

Mi sento di consigliarlo in maniera così sentita perché The Fighter non è altro che un dramma familiare con un pizzico di film sportivo – proprio i due generi che più difficilmente riescono a convincermi, a meno che non si tratti di film di particolare valore.

E la pellicola di O’Russell è riuscita a conquistarmi proprio per la sua scrittura azzeccata e mai eccessiva sul lato drammatico, ma che anzi racconta una appassionante storia di presa di consapevolezza nell’aspro sfondo della provincia americana.

Insomma, da riscoprire.

Eroe

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Dickie è un eroe?

Il suo personaggio riesce ad elevarsi dall’aridità del suo mondo proprio perché gli basta pochissimo: per un gruppo così sgangherato e senza speranza di redneck è sufficiente essersi anche di poco avvicinati alla fama per diventare delle leggende viventi.

E, di conseguenza, tutto il resto sparisce.

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Spariscono così le evidenti dipendenze di Dickie, sparisce il suo essere scostante e scorretto nei confronti del fratello, e scompare anche la disordinata vita criminale che il personaggio porta avanti sotto gli occhi di tutti.

E, di conseguenza, sparisce anche Mickie.

Ombra

Christian Bale e Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Mickie vive nell’ombra del fratello.

Il protagonista non può essere altro che un’estensione, la versione depotenziata del fratello campione, che sta cercando timidamente di inseguire una fama già propria di Dickie, apparendo per questo un eterno secondo.

Oltretutto, seguire il fratello – e la sua famiglia in generale – lo fa partire già in svantaggio.

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Forti della convinzione di essere riusciti a conquistare quel briciolo di fama senza una particolare programmaticità, i parenti di Mickie continuano a spingerlo in situazioni in cui è inevitabilmente destinato a perdere…

…al punto da portarlo alla nomea di essere l’eterno perdente che diventa il pugile sacrificale per permettere ai suoi contendenti di salire di livello, proprio per la sicurezza che non potranno mai essere battuti.

Eppure, evadere il seminato è impossibile.

Intrusa

Amy Adams in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Charlene è un’intrusa.

La sua relazione con Mickie è l’occasione per il protagonista per cominciare ad aprire gli occhi, per capire quanto la sua famiglia sia inutilmente aggressiva ed ingiustamente convinta di poterlo far vincere secondo i propri metodi.

Ed è anche più grave perché la ragazza non si lascia mai mettere i piedi in testa, anzi prende la parola al posto di Mickie – in più occasioni ammutolito ed impotente – e arriva ad abbassarsi al livello della famiglia del suo fidanzato senza particolari remore. 

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Ma la soluzione non è così semplice.

Ancora fin troppo legato alla figura mitica del fratello, a Mickie serve vederlo sbattuto in prigione per il suo ennesimo piano sgangherato per scegliere finalmente di smarcarsi dai suoi consigli, e prendere una strada apparentemente più vincente.

La situazione sembra arrivare ad un capolinea con la trasmissione del documentario, che depotenzia definitivamente la leggenda di Dickie, riducendolo a mero tossichello di provincia – e che viene usato dalla ex-moglie di Mickie per svalutarlo indirettamente agli occhi della figlia.

Compromesso

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

L’ultimo atto di The Fighter è splendido.

Arrivato sul ring sicuro di poter vincere grazie alla sua nuova tecnica, Mickie raggiunge una sorta di epifania, che lo porta a rendersi conto che non potrà mai veramente vincere senza seguire i consigli fondamentali del fratello, che rimane il convitato di pietra per tutto il tempo.

E, se il suo voler avere un piede in due scarpe non viene accettato da nessuna delle due parti, a sorpresa la presa di consapevolezza di Dickie è determinante per riuscire a portare il fratello alla vittoria, per riuscire finalmente a spalleggiarlo…

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

…e mettersi così da parte.

In questo ultimo atto Dickie infatti comincia a spogliarsi di quell’eroismo di cui sia la sua comunità, sia il fratello stesso si nutriva, a mettere in discussione le sue presunte vittorie – in realtà nient’altro che biechi colpi di fortuna.

Così il leggendario fratello maggiore rimane saldo ai lati del ring, accompagna e conferma la gloria del protagonista e, durante l’intervista doppia, esce volontariamente di scena, per lasciare tutto lo spazio necessario alla vera star che merita di essere celebrata.

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RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

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Dallas Buyers Club – Una vita che non posso vivere

Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée è un film drammatico basato sulla vera storia di Ron Woodroof.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 55 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Dallas Buyers Club?

Texas, 1985. Ron è un rude texano che vive fra scommesse, dipendenze e sesso occasionale. Ma una visita imprevista in ospedale gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dallas Buyers Club?

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Assolutamente sì.

Dallas Buyers Club è uno splendido spaccato – per certi versi anche molto attuale – della vergogna sociale che nacque intorno all’HIV e alla comunità queer negli Anni Ottanta, e al contempo anche della poca incisività di un sistema sanitario basato – ancora oggi – su un mero giro di affari.

Fra l’altro, un film tanto più imperdibile per la coppia esplosiva di Matthew McConaughey e Jared Leto: l’uno nel momento di rinascita artistica appena prima di True Detective (2014), l’altro in uno degli ultimi ruoli significativi prima di sporcarsi le mani col cinema di serie B.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Origine

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron è definito dal suo ambiente.

Visto che l’HIV non è altro che un affare dei froci (faggot), né Ron né i suoi degni compari si devono preoccupare nel loro essere coinvolti in un sesso occasionale e disordinato, che si svolge nel dietro le quinte della massima espressione del machismo – il rodeo.

Allo stesso modo, il loro utilizzo di droghe e di siringhe condivise racconta la totale impreparazione degli Stati Uniti davanti alla nuova minaccia sanitaria, incapace di creare la giusta comunicazione che metta in guardia persino le persone non queer dai rischi a cui potevano andare incontro.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Una situazione che determina anche la totale casualità della diagnosi, che avviene per tutt’altro motivo, per un semplice incidente sul lavoro, che però porta i dottori ad alzare qualche dovuto sopracciglio davanti alla stranezza degli esami del protagonista.

E per questo Ron parte da una negazione…consapevole.

Negazione

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La negazione di Ron è estremamente violenta.

Del tutto convinto del pensiero comune – l’HIV ce l’hanno solo i ricchioni – il protagonista vive la sua diagnosi sulle prime più come un’accusa alla sua sessualità e al suo stile di vita – anche prevedendo il tipo di esclusione sociale che seguirà…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Così il protagonista si confida con uno dei suoi compari per avere conferma dell’impossibilità della sua diagnosi, sicuramente derivata da un mischiare il suo sangue da vero uomo con quello di qualche esemplare umano di minor valore.

Eppure questa sua confidenza, seguita dalla sua consapevolezza involontaria che lo porta a non voler intrattenersi con le donne quella sera, lo rendono nel giro di una notte un reietto sociale, il protagonista di tutta la tragica vergogna di essere in realtà un omosessuale.

Ma non esiste un’alternativa.

Solo

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron deve fare da solo.

Dalla Buyers Club racconta perfettamente la situazione ancora molto attuale degli ospedali negli Stati Uniti, in cui un giro di soldi abbastanza importante permette di prendere i vergognosi pazienti dell’HIV e renderli dei topi da laboratorio.

Davanti all’impossibilità della certezza della cura, davanti alla prospettiva di una morte sicura in meno di un mese, Ron comincia a procurarsi sottobanco questo farmaco miracoloso, finendo così solo per intossicarsi e per distruggere più o meno inconsapevolmente il suo corpo.

E, anche in questo caso, la salvezza è del tutto casuale.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Dopo essere nuovamente rimesso su un letto d’ospedale senza nessuna prospettiva di vita, il protagonista sorpassa il confine e comincia ad assumere una nuova, pericolosa consapevolezza grazie ad un altro emarginato: un dottore radiato dall’albo che deve curare in clandestinità.

Fuori dal giro d’affari dell’AZT, questa medicina miracolosa si rivela infatti un killer del sistema immunitario, che agisce molto più alla cieca di quanto dovrebbe – mentre la rinascita di Ron è dovuta a ben altro…

E allora comincia la lotta.

Ombra

La lotta di Ron avviene nell’ombra.

Consapevole dell’impossibilità di vendere quelle medicine che potrebbero davvero salvare delle vite, il protagonista riesce ad agire nelle zone d’ombra, a creare un club farmaceutico in cui si paga solo il costo d’ingresso, e poi si riceve in omaggio le effettive medicine.

Comincia così una lotta senza quartiere, in cui Ron è costantemente vessato dal governo, che gli continua a sfilare da sotto le mani il suo prodotto potenzialmente salvifico, nonché la sua possibilità di portare avanti una ricerca indipendente.

Eppure il protagonista non si arrende mai, non si fa mai veramente sottomettere da un sistema che non è mai stato al suo fianco, ma che anzi ha voluto impedirgli di rivaleggiare con case farmaceutiche ben più ricche e potenti – e quindi le uniche che hanno diritto di parola.

E, per una volta, non è solo.

Alleato

Ron ha al suo fianco degli improbabili alleati.

Da una parte la dottoressa Eve, interpretata da una Jennifer Garner che purtroppo scompare davanti a due attori di così grande talento, ma che porta in scena un personaggio assolutamente necessario per riequilibrare le parti in gioco.

Il suo personaggio infatti assume una graduale consapevolezza al pari di Ron, pur rimanendo per molto tempo instancabilmente legata all’idea che tutto quello che succede al di fuori dell’ospedale è fin troppo pericoloso – nonostante lei stessa mostri dei dubbi fin da subito sul AZT.

Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ma, ancora più importante, Ron ha al suo fianco Rayon.

Da buon texano machista, sulle prime il protagonista è sostanzialmente disgustato da questo strambo personaggio, che per lui non è altro che un orribile travestito da cui non vuole neanche lasciarsi toccare…ma che infine sceglie come suo braccio destro.

E il loro rapporto effettivamente si dimostra fino alla fine estremamente ostile, ma sempre meno per l’identità sessuale del personaggio, ma invece per il continuo pungolare dello straordinario Jared Leto – per esempio, quando inquina la parete del porno di Ron con le sue fotografie.

Eppure, la sua morte è fondamentale.

Vittoria

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La crescita di Ron è sorprendente.

La sua lotta comincia come una battaglia per la propria salvezza, contro un sistema ingiusto, parallelamente riuscendo anche a lucrarci sopra, e rimanendo ancora per molto tempo insofferente alla presenza di Rayon.

Eppure, durante la pellicola il protagonista cambia profondamente se stesso, evade da quel mondo piccolo e meschino del machismo texano e si avventura nel più fragile ruolo del rivoluzionario…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

…persino difensore degli ultimi, che costringe il suo ex-compare a stringere la mano a quel disgustoso travestito, a cui infine si lega al tal punto emotivamente che, quando infine scompare dalla sua vita, il protagonista abbandona persino i sogni di guadagno e lascia entrare chiunque nel suo club.

Forse Ron Woodroof non è riuscito infine a salvarsi, ma è riuscito a combattere per avere quel tanto di vita che gli bastava per minare la credibilità di un governo classista, per vivere una vita dignitosa, morendo da uomo libero – e non ucciso da quello stesso sistema che millantava di salvarlo.

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La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

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Challengers – Un virtuosismo vuoto

Challengers (2024) è un film sportivo con protagonista Zendaya per la regia di Luca Guadagnino.

Il film è stato un pesante insuccesso commerciale: a fronte di un budget medio di 55 milioni di dollari, ha incassato appena 94 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Challengers?

Patrick e Art sono due amici fraterni e giocatori di tennis molto promettenti. Ma una donna diventerà la loro pietra della discordia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Challengers?

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Sì, ma…

Mi rendo conto di essermi approcciata a questa pellicola con uno sguardo piuttosto critico e spietato, dovuto alle lodi sperticate che avevo sentito, che mi hanno portato a giudicare la pellicola e le sue mancanze con una maggiore severità.

Tuttavia, se lo approcerete con atteggiamento più tranquillo, pronti a farvi stupire dal grande esercizio di stile di Guadagnino (e solo quello, nella maggior parte dei casi) probabilmente rimarrete profondamente coinvolti da una vicenda sportiva che in realtà si definisce da un sottofondo erotico piuttosto incalzante.

Insomma, dipende da voi.

Esplicito

Zendaya e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Nell’incipit di Challengers, la relazione fra Art e Tashi mi aveva molto convinto.

Pur non godendo di una regia particolarmente emozionante, le prime sequenze a loro dedicate lavorano molto bene di sottrazione, raccontando come il loro rapporto si sia infine andato a fossilizzare esclusivamente nella dicotomia atleta/allenatrice.

In particolare, tutta la dinamica affettiva è esclusivamente ricercata da Art, che cerca di guidare il loro rapporto altrove, ma che viene subito rimesso in riga dalla moglie, che lo mette davanti ad un aut aut: continuare a giocare, o diventare un ricco nullafacente che lei non potrà mai apprezzare.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E qui Challengers ha il suo primo inciampo.

In quello scambio Ti amo / Lo so – più o meno consapevolmente memore di Episodio V (1980) – si nota un incomprensibile bisogno di Guadagnino di esplicitare una dinamica già perfettamente chiara, già perfettamente raccontata dalla suddetta messinscena.

Sembra una piccolezza, ma a mio parere è solo il primo indizio di un film mancante di un’idea chiara, non sempre sicuro di quello che vuole raccontare e non sempre sicuro di come lo vuole raccontare – dinamica che si nota particolarmente, come vedremo, nella regia stessa.

Origine

Zendayain una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tralasciando il fatto che personalmente avrei preferito che il ritorno al passato fosse stato meglio preparato, anche in questo caso l’origine del rapporto fra Tashi e i due protagonisti mi ha convinto molto in certi momenti, molto di meno in altri.

Il primo approccio con Tashi assume un significato ulteriore con il procedere della vicenda, ma tutta la dinamica dei due protagonisti che rimangono letteralmente a bocca aperta davanti all’apparizione della ragazza, e che poi cercano letteralmente di inseguirla, l’ho trovata eccessivamente patetica.

Josh O'Connor e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Quantomeno, nel differente approccio dei personaggi, la scrittura torna a lavorare di sottrazione, affidando alle stesse battute dei protagonisti il compito di definire le loro diverse indoli: come Patrick ha evidentemente un approccio unicamente sessuale…

…al contrario Art fin da subito – e paradossalmente, visto il suo futuro con lei – è interessato a lei solo come campionessa, e per questo cerca di far virare la conversazione sul tennis, pur sentendosi comunque scalzato da un Patrick che cerca continuamente di depotenziarlo sessualmente.

Ma non sono loro il problema.

Controllo

Zendaya, Mike Faist e Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tashi cerca solo il controllo.

Il controllo anzitutto sulla sua vita e sulla sua carriera, non lasciandosi travolgere dai primi successi che la incoronano già come la prossima promessa del tennis, ma volendo tenersi un piano B dal punto di vista accademico.

Così, fin dal primissimo incontro sessuale, Tashi ha il completo controllo della situazione, mettendosi sempre nella posizione di essere prima pronta a ricevere, per poi passare ad una posizione dominante – sopra a Patrick o, anche meglio, osservando i due ragazzi che mettono in scena la loro sessualità repressa.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E in entrambi i casi Tashi è la grande protagonista della scena, grazie ad una Zendaya davvero magnetica, ma non particolarmente aiutata dalla regia, che mantiene perlopiù la camera fissa e lascia che siano i personaggi a parlare – e per questo, a mio parere, depotenziando la scena stessa.

Al contempo, Tashi ha il controllo perché in almeno due momenti interrompe il rapporto.

E proprio qui c’è il punto di svolta.

Interesse

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Il focus dell’interesse per Tashi è variabile.

Con Patrick sulle prime sembra che l’interesse sia solamente sessuale, tanto da respingere con forza le accuse di Art riguardo la mancanza di sentimenti romantici del suo fidanzato – dando per scontato che fosse quello che la ragazza stesse cercando.

Invece, con ogni evidenza, il connubio tennis – sesso è fondamentale per Tashi, tanto da respingere il suo partner sessuale quando lo stesso le viene negato, preferendo in ogni caso lo sport rispetto all’intrattenimento sessuale – che, senza l’elemento agonistico, perde per lei totalmente di significato.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Per questo, l’incidente è quasi un’epifania.

Tralasciando il modo in cui è messo in scena – che ho trovato al limite del trash – la presenza di Art in quel momento, e l’assenza invece di Patrick è fondamentale per Tashi per realizzare quale sarà il centro delle due relazioni: con Patrick solo il sesso, con Art solo il tennis.

Per questo è così drammatico nel presente il desiderio di Art, ormai marito di Tashi, di abbandonare la carriera sportiva, avendo già da tempo spostato la sua attenzione altrove, ovvero sul piano affettivo e familiare, in cui il sesso non esiste e in cui la moglie appare più come una madre che una compagna.

E a questo punto va aperta una parentesi fondamentale.

Represso

Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Challengers, più che essere saturo di metafore sessuali, è colmo di simboli fallici.

Di fatto, Art e Patrick sono in una continua competizione sessuale, e per questo si mettono continuamente in mostra, mangiando cibi dalle forme eloquenti e sfoggiando in maniera esagerata i loro fisici statuari o con le loro enormi racchette. 

Di fatto la conquista di Tashi diventa per molti versi una sfida di potere, per decretare chi è il maschio più possente e più meritevole delle attenzioni sessuali della ragazza, che però rimane sostanzialmente esterna, più un’osservatrice che parte effettivamente attiva della vicenda.

E questo perché Tashi, come noi spettatori, ha notato l’omosessualità repressa dei due personaggi.

Infatti, tutte le dinamiche di potere dei due protagonisti possono facilmente essere ribaltate nell’ottica di un corteggiamento quasi inconsapevole fra i due – che, fra l’altro, avrebbe avuto una vita molto più soddisfacente se avessero messo da parte Tashi e si fossero concentrati sul loro rapporto.

Una dinamica che appare in maniera eclatante in occasione del loro primo rapporto con la ragazza: consapevole di essere il desiderio sessuale di entrambi, Tashi li spinge invece a mettere a nudo le loro vere pulsioni, per poi osservare compiaciuta quella che potrebbe essere la vera soluzione alla loro conflittualità…

Orgasmo

La chiusura di Challengers è quella che mi ha lasciato più dubbi.

Da una parte, ho trovato del tutto confusionario il rapporto fra Tashi e Patrick: sembra come se la ragazza si stia prostituendo – esattamente quello che criticava al suo partner – per ottenere la vittoria del marito nella sfida finale – e, di conseguenza, la sua serenità mentale.

D’altra parte, mi ha personalmente urtato questo utilizzo così poco consapevole di scelte registiche estremamente intraprendenti – come la soggettiva della pallina – che si perdono nel marasma di una messinscena invece molto più banale, non aggiungendo di fatto nulla alla scena a livello concettuale.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

D’altra parte, nel complesso ho apprezzato il finale.

L’ultimo atto della sfida fra Patrick e Art è il punto di arrivo del loro rapporto con Tashi: da una parte, finalmente i due accettano la natura sessuale del loro rapporto, impegnandosi davvero nella partita – e nel loro rapporto, finendo abbracciati…

…d’altra parte, riescono finalmente a garantire un effettivo orgasmo a Tashi, visibilmente eccitata davanti alla visione del vero tennis, del tennis come lei aveva sempre sognato – ma mai più concretizzato, per via dell’incidente – facendola esplodere in un sentito urlo di vittoria.

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Invictus – Il primo passo

Invictus (2009) di Clint Eastwood è un film sportivo e un racconto storico legato ai primi passi da Presidente del Sudafrica di Nelson Mandela.

A fronte di un budget medio – 60 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo commerciale: 122 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Invictus?

Da poco liberato di prigione e appena eletto Presidente, Mandela si trova a gestire una delicata situazione politica in maniera peculiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Invictus?

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

In generale, sì.

Anche se forse non è fra i film più incisivi della carriera di Eastwood, Invictus è un’opera comunque di valore, in cui l’elemento sportivo non è mai esasperato, ma mantenuto nei limiti della credibilità, reso di fatto strumento per approfondire il progetto di Mandela.

In questo senso il difetto forse più evidente è la questione razziale, appena accennata e risolta fin troppo velocemente, scegliendo di offrire uno scenario fin troppo ottimistico e consolatorio, soprattutto nelle sue battute finali.

Ma, nel complesso, da vedere.

Divisione

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

L’incipit di Invictus è estremamente simbolico.

Se da una parte troviamo un gruppo di ragazzini neri che si divertono a giocare, che salutano con gioia il passaggio di Mandela, dall’altra una squadra di atleti rigorosamente bianchi che invece accoglie il passaggio del futuro presidente con un sincero disappunto.

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

E, nel mezzo, appunto, Mandela.

Il suo passaggio fra queste due realtà è emblematico per anticipare il suo progetto futuro di unione e di riappacificazione fra due popoli fino a quel momento profondamente divisi – per legge e per cultura – e che finalmente hanno la possibilità di vivere da pari.

Eppure l’ostacolo sembra incolmabile.

Simbolo

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

I Springbok non sono una semplice squadra di rugby…

…ma, piuttosto, un simbolo.

Agli occhi dei nativi sudafricani, infatti, il team rappresenta tutto quello che c’era prima, il doloroso ricordo dell’apartheid: non una squadra che sia il simbolo di tutto il paese, ma solamente del potere dominante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Per questo, dovrebbe essere smantellato immediatamente, con anche un cambio di nome che rappresenti la trasformazione del paese stesso, e la nascita di una nuova realtà più inclusiva – anche se, forse, non davvero per tutti…

Ma Mandela non ci sta.

Vendetta

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Proprio per il suo valore simbolico, per Mandela smantellare la squadra sarebbe contro la sua politica.

Infatti, il nuovo presidente non vuole comportarsi come gli stessi invasori che gli hanno tolto la libertà e la voce, vendicandosi direttamente verso una squadra che li rappresenta, così da schiacciarli a sua volta.

Un’impresa virtuosa, anche se…

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Il clima politico di Invictus mi ha lasciato qualche perplessità: come anticipato, il discrimine razziale è appena accennato, si notano degli attriti non indifferenti, una divisione piuttosto netta fra due parti che si guardano con ostilità…

…ma forse manca una rappresentazione davvero credibile di quale era il clima di profondo odio, difficile da sradicare, che aveva portato alle leggi così dure e discriminanti dell’apartheid – una sostanziale continuazione della colonizzazione del paese.

Forse, per una scelta politica del regista?

Scoperta

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La scelta di Mandela è apparentemente incomprensibile.

In particolare, la scoperta della storia del presidente da parte di Francois è il filo portante della trama, portando Invictus ad avere un taglio molto più politico che sportivo – tanto che, come detto, il rugby è più che altro una continuazione del progetto di Mandale.

In particolare, la visita alla cella è determinante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La visione di quel piccolo spazio vitale, in cui Mandela non poteva neanche permettersi un vero letto dove stendersi, e la consapevolezza che comunque il suo presidente non ha mai voluto rivalersi sui suoi aguzzini, rappresenta l’epifania del protagonista.

Lo stesso sceglie proprio di chiudersi per un momento dentro la cella, e da quella rinascere come da un bozzolo per diventare l’esecutore materiale del sogno di Mandela, comprendendo finalmente il vero valore della vittoria del campionato per il suo paese.

Invincibile

Ancora di più, il progetto di Mandela è un’affermazione personale.

Proprio nello scegliere di non rivalersi sui suoi nemici, di non ribaltare la situazione politica a favore solamente della sua gente, il presidente si dimostra effettivamente come invincibile, inscalfibile dal clima vendicativo che lo circonda.

E questo proprio perché non è stato piegato dalla prigionia, ma è riuscito a portare abbastanza avanti il suo progetto tanto da potersi godere la visione della sua vera vittoria: un paese unito.