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Joker: Folie à Deux – Ricomincio da Quinn 

Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips è il sequel dell’acclamato Joker (2019), con protagonisti Joaquin Phoenix e Lady Gaga.

A fronte di un budget decisamente più importante rispetto al precedente – 200 milioni di dollari – ha aperto con un primo weekend ben poco promettente: 144 milioni in tutto io mondo.

Di cosa parla Joker: Folie à Deux?

Dopo i suoi multipli omicidi, Arthur è segregato nel carcere di massima sicurezza di Arkham. Ma un incontro inaspettato gli cambierà la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Joker: Folie à Deux?

Joaquin Phoenix in una scena nella prigione di Arkham in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Magari no.

Che piaccia o meno, è purtroppo assolutamente evidente che Joker: Folie à Deux non fosse né previsto né voluto in prima battuta: lo dimostra anche solamente il fatto che l’incipit vanifichi completamente il finale della prima pellicola.

Quindi non stupisce di trovarsi davanti ad un film con qualche buona idea alla base, ma gestita in maniera del tutto insufficiente, con una povertà di scrittura allarmante e l’inserimento dell’elemento musical che sembra nient’altro che una passerella per Lady Gaga.

Però, sentitevi liberi di farvi la vostra idea.

Ma io non sarò complice della vostra visione. 

Annullamento

Joaquin Phoenix in una scena nella prigione di Arkham in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Joker: Folie à Deux riesce ad essere incoerente fin dalla sua prima scena.

Dopo un corto animato che dovrebbe anticipare il tema della pellicola – ma che ci riesce molto limitatamente – ci immergiamo immediatamente nelle lugubri atmosfere di Arkham, con una costruzione scenica che vuole farci desiderare vedere l’apparizione di Arthur Fleck, in un’ottima occasione per distinguerlo dallo squallore degli altri detenuti…

…e invece, risultando in un momento finalizzato a caricare il più possibile la scena di un pietismo che personalmente ho trovato davvero insopportabile – già presente comunque nella prima pellicola, ma in quel caso in maniera ben più contestualizzata e interessante.

Joaquin Phoenix piange sotto la pioggia in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Invece in questo primo frangente Arthur non sembra altro che un cane bastonato – non a caso, molti sono i riferimenti alla figura canina – dalle barzellette alla scena in cui viene legato ad un palo – andando così ad annullare l’importante punto di arrivo del precedente film.

Una scelta che, per quanto non mi convinca in principio, poteva essere salvata da un’adeguata contestualizzazione, che risulta invece del tutto mancante: sappiamo solo che Arthur si è spento e ha ripudiato il personaggio di Joker – e le gioie che gli aveva regalato.

Ma ci sono figure anche più fumose…

Identità

Lady Gaga si punta una pistola alla testa in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Chi è Harley Quinn?

È veramente spiacevole notare come, scena dopo scena, il personaggio di Lady Gaga riveli sempre di più la sua inconsistenza, finendo per essere nient’altro che un intermezzo musicale del tutto scommesso, un motore della trama totalmente pretestuoso e forzato. 

Infatti, nonostante il film cerchi di giustificare il suo personaggio e le sue intenzioni, nulla è realmente spiegato: dovremmo credere che Lee si sia fatta internare apposta per conoscere Joker, così ossessionata dalla sua figura e dalla sua storia da volerne prendere parte…

Lady Gaga esce dal tribunale in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

…ma tutto ciò è raccontato solamente a parole, senza che le azioni in scena abbiano un minimo di credibilità che possa giustificare come il suo personaggio entri ed esca da Arkham a suo piacimento – stesso luogo, ricordiamolo, in cui vige il pugno di ferro.

In generale, Lee dovrebbe rappresentare la voce di quella folla che, alla fine di Joker, vedevamo acclamare il personaggio nel suo momento di massima follia – la stessa che, per il resto, è sostanzialmente assente dalla scena – ma senza inserire neanche un significativo disegno politico che la renda di qualche interesse.

Ma la sua inconsistenza ha radici ben più profonde…

Negazione

Joaquin Phoenix nell'auto della polizia in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Joker: Folie à Deux è l’apoteosi della negazione del personaggio.

Volendo maliziosamente leggere fra le righe, il percorso del protagonista può essere letto come un racconto del malcelato sentimento del regista: dopo l’inaspettato successo della prima pellicola, Phillips è tornato alla regia evidentemente controvoglia e privo di idee.

Joaquin Phoenix vestito di bianco in una scena di Arkham in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Così, come Joker è costantemente trascinato nel ruolo, come nei suoi sogni musicali appare nelle sue fattezze più classiche – e, per quanto mi riguarda, desiderabili – del personaggio fumettistico, infine entra in scena come un villain da operetta, rappresentando la massima esasperazione del personaggio.

Ovvero, un mero pagliaccio.

Joaquin Phoenix e Lady Gaga in tribunale in una scena di Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

E in questo contesto è anche più doloroso vedere un personaggio del genere prendere parte a momenti musicali così mal integrati nella storia da sembrare degli inserimenti fatti solamente perché andavano fatti, mancanti di qualunque riflessione in merito.

Infatti sarebbe veramente bastato pochissimo, sarebbe bastato mostrare la dicotomia fra il sogno musicale e la realtà, sarebbe bastato mostrare la totale dissociazione mentale di Arthur – come, d’altronde, era stato fatto nel primo film – financo la ridicolaggine delle sue azioni.

Invece, tranne la breve ma quantomeno funzionante scena della fuga, il tutto si perde in una pochezza devastante…

Fuga

Joaquin Phoenix di Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

Il Joker di Todd Phillips non ha un futuro.

E non vuole averlo.

Nel finale della pellicola Arthur è bruscamente riportato a quella realtà che l’aveva in prima battuta spento, subendo indicibili violenze da parte delle guardie che vogliono nuovamente rimetterlo al suo posto, preparandosi così per il patibolo.

Così il momento della difesa si trasforma il momento della confessione, della negazione del Joker – riuscendo in ultimo ad evitare l’angosciante opzione della personalità multipla – ancora più sottolineata dalla sua fuga da uno dei suoi tanti ammiratori che lo vogliono costringere ad un ruolo da cui vuole solo fuggire.

Joaquin Phoenix e Lady Gaga in Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips

E invece, negando ulteriormente lo splendido finale del primo film in cui Joker abbracciava questa malata connessione fra follia e amore, vedendo infrangere i sogni insieme alla sua (immaginaria?) Harley Quinn, Arthur torna nuovamente a spegnersi.

E allora forse la morte in scena è la morte che il Joker di Philips infligge a se stesso per mano di un altro – vero? – pagliaccio sadico, risultando incapace di soddisfare chiunque…

…prima di tutto sé stesso.

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Deadpool & Wolverine – La parata dei dimenticati

Deadpool & Wolverine (2024) di Shawn Levy è il terzo capitolo della (finora) trilogia dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget piuttosto importante – 200 milioni di dollari – ha aperto splendidamente al primo weekend: 438 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool & Wolverine?

Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?

Dipende.

Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…

…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.

Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.

Dissacrare

Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.

La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.

Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.

Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura

…con risultati discutibili.

Ma andiamo con ordine.

Crisi

Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.

Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.

Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.

In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.

E qui cominciano i primi problemi.

Paradox

Paradox poteva essere l’unico villain.

Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.

Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.

Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.

Ma è solo l’inizio.

Vuoto

La vera partita si gioca nel Vuoto.

Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.

E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.

Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.

Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…

…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmente rivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…

…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.

Da qui in poi, il delirio.

Sovrappopolazione

In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…

…oppure no?

Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.

La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.

Ma il peggio arriva dopo.

Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …

…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.

E così il sovraffollamento è inevitabile.

Spazio

In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.

Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…

Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.

E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.

Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…

…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.

Intralcio

Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.

E lo stesso è il punto più basso del film.

Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.

Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.

Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.

E qui nascono i miei maggiori dubbi.

Rapporto

Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.

Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…

…peccato che manchi qualcosa.

Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.

Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…

…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.

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Challengers – Un virtuosismo vuoto

Challengers (2024) è un film sportivo con protagonista Zendaya per la regia di Luca Guadagnino.

Il film è stato un pesante insuccesso commerciale: a fronte di un budget medio di 55 milioni di dollari, ha incassato appena 94 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Challengers?

Patrick e Art sono due amici fraterni e giocatori di tennis molto promettenti. Ma una donna diventerà la loro pietra della discordia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Challengers?

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Sì, ma…

Mi rendo conto di essermi approcciata a questa pellicola con uno sguardo piuttosto critico e spietato, dovuto alle lodi sperticate che avevo sentito, che mi hanno portato a giudicare la pellicola e le sue mancanze con una maggiore severità.

Tuttavia, se lo approcerete con atteggiamento più tranquillo, pronti a farvi stupire dal grande esercizio di stile di Guadagnino (e solo quello, nella maggior parte dei casi) probabilmente rimarrete profondamente coinvolti da una vicenda sportiva che in realtà si definisce da un sottofondo erotico piuttosto incalzante.

Insomma, dipende da voi.

Esplicito

Zendaya e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Nell’incipit di Challengers, la relazione fra Art e Tashi mi aveva molto convinto.

Pur non godendo di una regia particolarmente emozionante, le prime sequenze a loro dedicate lavorano molto bene di sottrazione, raccontando come il loro rapporto si sia infine andato a fossilizzare esclusivamente nella dicotomia atleta/allenatrice.

In particolare, tutta la dinamica affettiva è esclusivamente ricercata da Art, che cerca di guidare il loro rapporto altrove, ma che viene subito rimesso in riga dalla moglie, che lo mette davanti ad un aut aut: continuare a giocare, o diventare un ricco nullafacente che lei non potrà mai apprezzare.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E qui Challengers ha il suo primo inciampo.

In quello scambio Ti amo / Lo so – più o meno consapevolmente memore di Episodio V (1980) – si nota un incomprensibile bisogno di Guadagnino di esplicitare una dinamica già perfettamente chiara, già perfettamente raccontata dalla suddetta messinscena.

Sembra una piccolezza, ma a mio parere è solo il primo indizio di un film mancante di un’idea chiara, non sempre sicuro di quello che vuole raccontare e non sempre sicuro di come lo vuole raccontare – dinamica che si nota particolarmente, come vedremo, nella regia stessa.

Origine

Zendayain una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tralasciando il fatto che personalmente avrei preferito che il ritorno al passato fosse stato meglio preparato, anche in questo caso l’origine del rapporto fra Tashi e i due protagonisti mi ha convinto molto in certi momenti, molto di meno in altri.

Il primo approccio con Tashi assume un significato ulteriore con il procedere della vicenda, ma tutta la dinamica dei due protagonisti che rimangono letteralmente a bocca aperta davanti all’apparizione della ragazza, e che poi cercano letteralmente di inseguirla, l’ho trovata eccessivamente patetica.

Josh O'Connor e Mike Faist in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Quantomeno, nel differente approccio dei personaggi, la scrittura torna a lavorare di sottrazione, affidando alle stesse battute dei protagonisti il compito di definire le loro diverse indoli: come Patrick ha evidentemente un approccio unicamente sessuale…

…al contrario Art fin da subito – e paradossalmente, visto il suo futuro con lei – è interessato a lei solo come campionessa, e per questo cerca di far virare la conversazione sul tennis, pur sentendosi comunque scalzato da un Patrick che cerca continuamente di depotenziarlo sessualmente.

Ma non sono loro il problema.

Controllo

Zendaya, Mike Faist e Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Tashi cerca solo il controllo.

Il controllo anzitutto sulla sua vita e sulla sua carriera, non lasciandosi travolgere dai primi successi che la incoronano già come la prossima promessa del tennis, ma volendo tenersi un piano B dal punto di vista accademico.

Così, fin dal primissimo incontro sessuale, Tashi ha il completo controllo della situazione, mettendosi sempre nella posizione di essere prima pronta a ricevere, per poi passare ad una posizione dominante – sopra a Patrick o, anche meglio, osservando i due ragazzi che mettono in scena la loro sessualità repressa.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

E in entrambi i casi Tashi è la grande protagonista della scena, grazie ad una Zendaya davvero magnetica, ma non particolarmente aiutata dalla regia, che mantiene perlopiù la camera fissa e lascia che siano i personaggi a parlare – e per questo, a mio parere, depotenziando la scena stessa.

Al contempo, Tashi ha il controllo perché in almeno due momenti interrompe il rapporto.

E proprio qui c’è il punto di svolta.

Interesse

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Il focus dell’interesse per Tashi è variabile.

Con Patrick sulle prime sembra che l’interesse sia solamente sessuale, tanto da respingere con forza le accuse di Art riguardo la mancanza di sentimenti romantici del suo fidanzato – dando per scontato che fosse quello che la ragazza stesse cercando.

Invece, con ogni evidenza, il connubio tennis – sesso è fondamentale per Tashi, tanto da respingere il suo partner sessuale quando lo stesso le viene negato, preferendo in ogni caso lo sport rispetto all’intrattenimento sessuale – che, senza l’elemento agonistico, perde per lei totalmente di significato.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Per questo, l’incidente è quasi un’epifania.

Tralasciando il modo in cui è messo in scena – che ho trovato al limite del trash – la presenza di Art in quel momento, e l’assenza invece di Patrick è fondamentale per Tashi per realizzare quale sarà il centro delle due relazioni: con Patrick solo il sesso, con Art solo il tennis.

Per questo è così drammatico nel presente il desiderio di Art, ormai marito di Tashi, di abbandonare la carriera sportiva, avendo già da tempo spostato la sua attenzione altrove, ovvero sul piano affettivo e familiare, in cui il sesso non esiste e in cui la moglie appare più come una madre che una compagna.

E a questo punto va aperta una parentesi fondamentale.

Represso

Josh O'Connor in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

Challengers, più che essere saturo di metafore sessuali, è colmo di simboli fallici.

Di fatto, Art e Patrick sono in una continua competizione sessuale, e per questo si mettono continuamente in mostra, mangiando cibi dalle forme eloquenti e sfoggiando in maniera esagerata i loro fisici statuari o con le loro enormi racchette. 

Di fatto la conquista di Tashi diventa per molti versi una sfida di potere, per decretare chi è il maschio più possente e più meritevole delle attenzioni sessuali della ragazza, che però rimane sostanzialmente esterna, più un’osservatrice che parte effettivamente attiva della vicenda.

E questo perché Tashi, come noi spettatori, ha notato l’omosessualità repressa dei due personaggi.

Infatti, tutte le dinamiche di potere dei due protagonisti possono facilmente essere ribaltate nell’ottica di un corteggiamento quasi inconsapevole fra i due – che, fra l’altro, avrebbe avuto una vita molto più soddisfacente se avessero messo da parte Tashi e si fossero concentrati sul loro rapporto.

Una dinamica che appare in maniera eclatante in occasione del loro primo rapporto con la ragazza: consapevole di essere il desiderio sessuale di entrambi, Tashi li spinge invece a mettere a nudo le loro vere pulsioni, per poi osservare compiaciuta quella che potrebbe essere la vera soluzione alla loro conflittualità…

Orgasmo

La chiusura di Challengers è quella che mi ha lasciato più dubbi.

Da una parte, ho trovato del tutto confusionario il rapporto fra Tashi e Patrick: sembra come se la ragazza si stia prostituendo – esattamente quello che criticava al suo partner – per ottenere la vittoria del marito nella sfida finale – e, di conseguenza, la sua serenità mentale.

D’altra parte, mi ha personalmente urtato questo utilizzo così poco consapevole di scelte registiche estremamente intraprendenti – come la soggettiva della pallina – che si perdono nel marasma di una messinscena invece molto più banale, non aggiungendo di fatto nulla alla scena a livello concettuale.

Zendaya in una scena di Challengers (2024) di Luca Guadagnino

D’altra parte, nel complesso ho apprezzato il finale.

L’ultimo atto della sfida fra Patrick e Art è il punto di arrivo del loro rapporto con Tashi: da una parte, finalmente i due accettano la natura sessuale del loro rapporto, impegnandosi davvero nella partita – e nel loro rapporto, finendo abbracciati…

…d’altra parte, riescono finalmente a garantire un effettivo orgasmo a Tashi, visibilmente eccitata davanti alla visione del vero tennis, del tennis come lei aveva sempre sognato – ma mai più concretizzato, per via dell’incidente – facendola esplodere in un sentito urlo di vittoria.

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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

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Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.

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American Fiction – Il n**** artificiale

American Fiction (2023) di Cord Jefferson è un’opera profondamente provocatoria e satirica, che riflette sull’immagine degli afroamericani negli Stati Uniti contemporanei.

A fronte di un budget di 10 milioni di dollari, ha incassato 23 milioni in tutto il mondonon malissimo, considerato che, per esempio in Italia, è stato distribuito direttamente in streaming.

Di cosa parla American Fiction?

Thelonious Ellison, detto Monk, è uno scrittore afroamericano che non vuole essere ridotto alla sua etnia. Ma uno scherzo finito male gli farà cambiare prospettiva…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Fiction?

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Assolutamente sì.

American Fiction è una delle pellicole satiriche che riesce a riflettere con grande lucidità sul nuovo panorama statunitense dell’inclusione, con tutte le sue pesanti contraddizioni e ipocrisie.

Un film da leggere su più livelli, che intavola un dialogo continuo e sottilmente metanarrativo con lo spettatore, a cui richiede una visione più profonda dell’immediato impatto che si potrebbe avere ad una prima visione…

Outsider

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Monk è un outsider.

Anche la sua appartenenza etnica, il protagonista apre la pellicola con una forte provocazione, basata su una delle parole più impronunciabili ad oggi nella cultura statunitense: la cosiddetta n-word.

Già così Monk – e il film stesso – rivela l’incoerenza di fondo degli Stati Uniti contemporanei: un mondo – molto ironicamente – bianco e nero, in cui i bianchi dettano legge anche su come gli afrodiscendenti dovrebbero raccontarsi.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma Monk non ci sta.

Non volendo essere ridotto a semplice simbolo, non volendo scrivere solo per accontentare l’ignorante pubblico mainstream, il protagonista non vuole essere altro che sé stesso: uno scrittore, un intellettuale – e basta.

Ma, nonostante i suoi tentativi, la situazione è fuori dal suo controllo: nella libreria è vincolato ad essere uno dei tanti rappresentanti della cultura nera, ghettizzato in uno scaffale che vuole solo all’apparenza essere inclusivo.

Ma allora qual è l’alternativa?

Vittoria

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

La proposta vincente è quella di Sintara.

Un libro che – almeno all’apparenza – avalla tutti gli stereotipi peggiori della comunità nera, infarcendo la narrazione e i dialoghi di slang, di un inglese incredibilmente sgrammaticato, e di situazioni al limite del parodistico.

Eppure, è proprio il prodotto che i lettori sembrano desiderare: immobile davanti ad un pubblico estremamente coinvolto in questa narrazione che fino a prima aborriva, Monk capisce in quel momento qual è l’unica strada per il successo.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Eppure, tutto parte come uno scherzo.

Con dinamiche simili all’indimenticabile puntata di South Park The Tale of Scrotie McBoogerballs (14×02), Monk si avventura nella sua versione del romanzo di Sintara, in questo caso però con volontà esplicitamente provocatorie.

E invece proprio da questo romanzo parte al contempo la decostruzione e l’imprevedibile successo del protagonista, costretto a presentarsi in una versione sempre più improbabile del misterioso autore di un bestseller così deliziosamente provocatorio…

Banalizzarsi

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma perché Monk accetta questa nuova identità?

Parallelamente alla provocazione, American Fiction inserisce un importante elemento di realismo: il protagonista è incastrato in una situazione familiare piuttosto spinosa, fra l’infermità mentale della madre e l’imprevedibilità del fratello.

Così, schiacciato ancora una volta da quella società che lo mette sotto i riflettori solo quando si banalizza, Monk accetta a malincuore questa nuova situazione per ottenere abbastanza soldi per permettere alla genitrice di avere una vita dignitosa.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Proprio in questa scelta, American Fiction inserisce un ulteriore livello di lettura.

Arrivando al finale, lo spettatore potrebbe rimanere con un certo senso di vuoto, come se la pellicola non si fosse spinta abbastanza in là nella sua provocazione, rimanendo fin troppo ancorata al livello del realismo.

E, invece, sta proprio qui il punto: la storia raccontata è anche troppo realistica e attuale, e non ha bisogno di nessuna esagerazione, nessun grande colpo di scena come quelle immaginate nel finale ad uso e consumo del pubblico.

E, infatti, la drammaticità di fondo è già abbastanza dolorosa.

Indistinguibili

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Il romanzo di Sintara non è banale…

…e, soprattutto, non è stato scritto per i bianchi.

L’autrice si pone come una novella Toni Morrison per raccontare una parte della realtà afroamericana ancora oggi purtroppo molto presente e che merita di essere mostrata: gli emarginati, il ghetto, la specificità linguistica quasi comica…

Ed è quindi solo un problema dei lettori più ignoranti se non sono in grado di comprendere la differenza fondamentale fra un’opera unicamente provocatoria come Fuck e uno spaccato ben più studiato come We’s Lives in Da Ghetto.

Ma è forse proprio per colpa di romanzi come questo che la comunità afroamericana viene ridotta a pochi, facili e vendibili stereotipi, per decenni parodiati, e oggi riportati in auge come racconto reale e vibrante di una fetta importante del Paese.

E così il racconto di Sintara è solo una rappresentazione molto divertente della quotidianità del ghetto, così Fuck è la graffiante storia di un criminale, e Monk può solo guardare impotente un attore che indossa una delle poche vesti accettabili per un afroamericano nell’immaginario comune:

lo schiavo.

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2024 Alex Garland Avventura Azione Drammatico Film Film di guerra Futuristico Nuove Uscite Film

Civil War – Il limite dell’indifferenza

Civil War (2024) è forse l’ultimo (?) film di Alex Garland, che porta in scena la sua nuova zampata nei confronti degli Stati Uniti e delle sue contraddizioni.

A fronte di un budget di 50 milioni – il più alto mai investito dalla A24 – ha aperto molto nel primo weekend, con 49 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Civil War?

In futuro prossimo e molto possibile, un gruppo di giornalisti attraversa gli Stati Uniti devastati dalla guerra civile per raggiungere Washington prima che il Presidente venga assassinato…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo perché fa sembrare il film come quello che non è…

Vale la pena di vedere Civil War?

Assolutamente sì.

Civil War rappresenta una sorta di controparte contemporanea di La zona d’interesse (2023): Garland ci racconta un futuro purtroppo molto meno lontano di quello che si potrebbe pensare, prendendo come spunto l’Assalto al Campidoglio del 2021.

Ne deriva un ritratto degli Stati Uniti veramente anomalo per il cinema americano, in cui paradossalmente si concretizza il più grande sogno che ogni bravo statunitense porta nel cuore: ribellarsi al potere costituito grazie alle armi che lo stesso gli ha permesso di imbracciare.

Insomma, da riscoprire.

Ruolo

La colonna portante di Civil War è fin da subito drammaticamente rivelata.

Dopo aver liquidato distrattamente le parole dell’ormai inutile Presidente, in un attimo la protagonista, Lee, volge la sua attenzione al vero focus del suo lavoro: catturare momenti di reale e vendibile violenza per nutrire il suo pubblico.

Infatti dal suo lato della barricata si sviluppa il primo polo estremo degli Stati Uniti: un’attenzione maniacale, continua e sempre affamata di nuova, succosa e sanguinosa violenza da divorare, sempre più efferata e disumana finché…

…finché non ci lascia indifferenti.

E Lee è profondamente indifferente.

Dopo aver vissuto in prima persona una galleria piuttosto nutrita di brutalità, non ha più alcuna remore a cogliere i momenti in cui le armi vengono puntate, le interiora emergono, le teste scoppiano e i denti volano, protagonisti di scatti indimenticabili…

Ma la sua strada deve essere solitaria.

Eredità

Lee non vuole che Jessie la segua.

E in nessuno modo.

La ragazzina vorrebbe ripercorrere le orme del suo idolo: riuscire ad approfittare di ogni situazione, anche – e sopratutto – la più sconvolgente ed emotivamente devastante per portare a casa quelle fotografie che nessun altro sarebbe capace di scattare.

Ma purtroppo Jessie non riesce ad essere indifferente, anzi spesso si lascia ancora profondamente sconvolgere dalle immagini degli Stati Uniti che divorano se stessi, che si sentono legittimati ad essere protagonisti di quella violenza sopita, ma sempre presente, che finalmente trova il suo sfogo.

Ma l’alternativa è essere un cane sciolto.

Fin dalla sua prima scesa in campo, Jessie è spesso tenuta al guinzaglio, ora da Joel, ora da Lee, che cercano di stringerla a sé per impedirle di farsi troppo trasportare dal momento, di avvicinarsi troppo a quella violenza di cui vuole essere solo spettatrice

…ma di cui invece diventa inevitabilmente protagonista: il primo passo falso è il passaggio da una macchina all’altra, inizialmente assolutamente innocuo, anzi molto divertito, ma, che attraverso un drammatico climax, porta la protagonista prona su una pila di cadaveri.

Ma quel devastante risveglio non è abbastanza.

E non solo per lei.

Sentimento

Gli Stati Uniti hanno scelto da che parte stare.

Da una parte si sviluppa una escalation di violenza, sia indiretta che direttissima: si passa da un pubblico affamato di conoscere i dettagli più raccapriccianti della vicenda, per arrivare ad una radicalizzazione di sentimenti già profondamente radicati e difficili da scalzare.

Infatti, oltre al semplice emergere della violenza sopita, molti statunitensi hanno finalmente l’occasione per dare sfogo ai più disparati sentimenti di odio razziale – e non solo – che ben sono rappresentati nella scena con protagonista Jesse Plemons, che elimina sistematicamente dalla sua vista chiunque non sia un vero nord americano.

Altrimenti si può essere solo – e davvero – indifferenti.

Più volte nei loro racconti sia Jessie che Lee raccontano – e si distinguono – i loro genitori, che hanno scelto un placido isolamento nelle loro fattorie, immersi nella loro indifferenza e nella loro totale ignoranza del presente.

Un sentimento che è ancora più esacerbato nella ridente cittadina in cui i protagonisti si concedono una pausa, dove i suoi abitanti hanno programmaticamente scelto di non far parte del conflitto…nondimeno ricorrendo alla violenza per chiunque voglia turbare il loro equilibrio.

Sfuggire dalla violenza, insomma, è ormai impossibile.

Dopo

Il finale si definisce negli opposti.

Nonostante la sua morale ferrea, Lee è stata troppo brutalmente messa davanti ad una violenza che non può più derubricare come estranea, e crolla momentaneamente in un doloroso attacco di panico, sentendosi intrappolata in un vortice di brutalità senza via d’uscita.

Al contrario, il dolore dell’essere messa ripetutamente in faccia alla morte, sembra accendere l’entusiasmo di Jessie, che si sente sempre più sicura, sempre più audace e sfacciata nel mettersi nel mezzo del fuoco incrociato per catturare i momenti migliori.

E Lee cerca di salvarla.

Ma non dalla morte.

La donna cerca di salvare la ragazzina dal suo diventare come lei – se non peggio: una reporter interessata solamente all’ultimo scatto sensazionalistico, del tutto indifferente, anzi fin troppo entusiasta, davanti alla possibilità di partecipare e documentare la distruzione del suo stesso paese.

E infatti nel finale assistiamo all’ultimo capitolo dell’autodistruzione degli Stati Uniti, ormai guidati da una furia cieca che li porta a lasciare da parte ogni sentimento, ogni rimorso, ogni logica per fare semplicemente fuoco sul nemico.

Ma arriverá mai il momento di mettere via le armi?

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La zona di interesse – L’insostenibile indifferenza

La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer è una delle proposte più interessanti a tema Olocausto degli ultimi anni.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato 40 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per La zona d’interesse (2023)

in neretto le vittorie

Migliori film
Miglior regista
Miglior film internazionale
Migliore sonoro
Miglior sceneggiatura non originale

Di cosa parla La zona di interesse?

Polonia, Anni Quaranta. La famiglia Höß conduce una vita semplice in una località amena: Auschwitz.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La zona di interesse?

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Assolutamente sì.

La zona d’interesse si propone in un mercato ormai saturo sull’impegnativo tema della Shoah, e, proprio come JoJo Rabbit (2019), propone un punto di vista diverso: l’insostenibile indifferenza dei complici della tragedia.

E a fronte di prodotti in cui spesso si cannibalizza sul tema, mostrando la violenza e il dolore nella maniera più sfacciata e strappalacrime possibile, Glazer sceglie invece una regia fredda per raccontare una tragedia che per i protagonisti non era nient’altro che un sottofondo…

Insomma, davvero imperdibile.

Spettatore

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Una particolare finezza de La zona di interesse è il taglio registico.

Una regia molto statica, con montaggio rapido e analitico che racconta i diversi momenti della vita di questa famiglia, senza mettere quasi mai un vero protagonista in scena, ma lasciando che questo gruppo di personaggi si muova liberamente negli spazi filmici.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Tanto più che non penetriamo mai la mente di questi individui, ma ne scopriamo i caratteri nei loro brevi dialoghi, o nei rarissimi momenti in cui gli stessi esprimono a parole i loro sentimenti, limitandosi per il resto ad essere raccontati dal contesto.

In questo modo lo spettatore diventa il testimone inconsapevole della vicenda, assorbendo così un concetto fondamentale che la pellicola suggerisce in maniera molto sottile: in circostanze diverse, avremmo potuto essere noi al loro posto.

Sottofondo

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

La pellicola è definita dalla mancanza.

In rari e sfuggenti momenti sentiamo effettivamente e chiaramente la testimonianza sonora dello sterminio in atto, mentre per la maggior parte del tempo le urla di dolore e l’abbaiare feroce dei cani in sottofondo si mischia alle voci, alle risate e alle urla felici dei protagonisti.

In questo modo risalta in tutta la sua potenza l’insostenibile indifferenza della famiglia Höß, nello specifico di Hedwig, la padrona di casa, mentre gestisce la delicata economia domestica, mentre mostra ai suoi ospiti la bellezza di questo felice spazio vitale che è riuscita a costruirsi.

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Il resto si definisce nei dettagli.

Scampoli di dialoghi, che coinvolgono tutti i personaggi, dalla felicità nello scovare nuovi vestiti sottratti agli ebrei, così come i loro preziosi ingegnosamente nascosti, il giocare coi denti d’oro dei bambini fino alle più serie conversazioni su come ottimizzare lo sterminio.

Così i protagonisti non vengono mai raccontati come malvagi, ma piuttosto sono ritratti nella loro serena indifferenza, mentre ridono delle loro vittime, mentre ragionano freddamente sulle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale.

Sporco

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

L’elemento più disturbante dei protagonisti de La zona d’interesse è la loro scala valoriale.

Libero dalla pesante eredità di prodotti che negli anni hanno banalizzato la figura del nazista, Glazer carica i suoi protagonisti non sono di una devastante indifferenza, ma anche di una serie di priorità quasi surreali.

Infatti, nel cuore dello sterminio, la più grande preoccupazione della famiglia Höß è il contatto con quegli sporchi ebrei: così l’emergenza si scatena quando per caso si scoprono immersi nelle ceneri delle loro vittime, e si impongono una pulizia quasi ossessiva…

…e la stessa riappare quando il capofamiglia, pur concedendosi ad un’ebrea, si infila nei sotterranei per ripulirsi clinicamente e sistematicamente quella parte di sé che è venuta a contatto con un essere indegno, in una scena ai limiti dello squallido.

E questo contribuisce molto di più a caratterizzarli e a contestualizzarli di quanto abbiano fatto molti decenni di cinema sul tema finora.

Paradiso

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Hedwig Höß non vuole andarsene.

L’unico momento in cui davvero si scompone è quando viene minacciata di essere sottratta di quell’angolo felice di paradiso che ha creato per sé stessa e per la sua famiglia, in un luogo da cui milioni di vittime avrebbero voluto fuggire, ma che lei invece ricerca disperatamente.

E infatti questa stringente normalità è rifiutata solamente da una felice arrampicatrice sociale, quando per la prima volta viene messa davanti al conto da pagare per la sua nuova posizione: la suocera, l’unica che abbandona volontariamente questo luogo paradossale.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Ma noi siamo davvero non indifferenti?

Nell’unica semi-soggettiva che Glazer concede a Rudolf Höss, è come se il gerarca spiasse verso il futuro, verso il nostro presente, osservando come Auschwitz sia diventata una sorta di tempio, che freddamente racchiude una testimonianza fondamentale del suo presente.

E, mostrando le inservienti che puliscono in maniera pedissequa, ma senza mostrare altresì alcun sentimento o emozione, il film parla direttamente a noi: anche se non siamo stati complici nel passato, stiamo affrontando con la giusta profondità una macchia così devastante della nostra storia?

Forse no.

La zona d’interesse bambina bianco e nero significato

La bambina che porta le mele è una scena apparentemente incomprensibile e distaccata dal resto del film.

In realtà il regista ha spiegato che le sequenze dedicate al suo personaggio hanno diversi significati: anzitutto, raccontano un frammento di speranza nell’oscurità rappresentata sia dal contesto storico, sia dai personaggi che lo popolano.

Infatti la bambina porta un elemento di nutrimento, di vita.

La mela.

Ma ha anche un valore storico.

Il personaggio della misteriosa bambina è ispirato ad una donna polacca, Alexandria, che ha raccontato di aver lavorato per la resistenza polacca durante il Nazismo quando aveva solo 12 anni, girando con la sua bicicletta per distribuire mele.

Non a caso, la casa in cui la bambina torna dopo le sue spedizioni, la bicicletta e i vestiti indossati dall’attrice sono proprio quelli di Alexandria, che è morta poche settimane dopo essersi incontrata col regista.

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Dune – Parte due – La centrale monunentalitá

Dune – Parte due (2024) di Denis Villeneuve è il sequel di Dune (2021) e il secondo capitolo di una probabile trilogia di film tratta dai romanzi cult di Frank Herbert.

A fronte di un budget di 190 milioni di dollari – quindi poco superiore al primo – ha aperto molto bene al botteghino, con 180 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune – Parte due?

Dopo essere stato accettato dai Fremen, Paul Atreides deve scegliere il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune – Parte due?

Assolutamente sì.

Ma…

Dune – Parte due è un film monumentale, con una regia talmente elegante e precisa da poter essere paragonata ad altri grandi cult della fantascienza, con una resa visiva forse persino superiore al primo capitolo.

I difetti imputabili alla pellicola sono, a mio parere, veramente pochi, circoscritti ad una sceneggiatura in alcuni punti troppo affrettata, nonostante offra allo spettatore tutti gli elementi per comprendere la storia.

Gli altri difetti che potreste trovare riguardano la natura stessa dell’opera, che è inevitabilmente molto compassata nei ritmi, molto complessa nei concetti, nonostante la trama di fondo sia in realtà molto lineare.

Fremen

Paul vuole solo essere un Fremen.

Per due interi atti il protagonista si ribella al destino che gli è stato imposto, in maniera per lunghi tratti anche molto più violenta rispetto al primo film, andando a sfidare i piani non solo delle Bene Gesserit, ma soprattutto di sua madre.

Proprio per questo atteggiamento riesce infine a conquistare Chani, personaggio – al pari della sua controparte letteraria – davvero testardo ed insipido, molto legato alle sue origini e allergico al fanatismo religioso che serpeggia nel suo popolo.

La relazione fra i due personaggi l’ho decisamente più apprezzata rispetto al romanzo: Villeneuve ha voluto renderla molto più affettuosa e partecipata, caricandola di ulteriori significati, che danno maggior valore all’importanza della scelta finale di Paul.

La prova definitiva – cavalcare un verme, e persino un verme davvero grosso – corona questo piccolo arco evolutivo del protagonista, impreziosito da una regia impeccabile e profondamente coinvolgente.

Ma è un momento che rappresenta molto di più.

Ruolo

La gestione di Jessica è per me la meglio riuscita.

Il suo punto di partenza è la ribellione alle Bene Gesserit, pur incerta ed influenzata da una forte venerazione nei confronti delle stesse, e il cui momento di passaggio è l’accogliere all’interno del suo corpo e della sua mente le memorie di generazioni di Madri Superiori…

…e della sua stessa figlia.

La sua involuzione è definita anche dal suo cambio di aspetto.

Jessica prima si spoglia della sua identità di concubina del Duca Leto, si lascia inghiottire dal deserto, e rinasce come Madre Superiora, sempre più definita da un aspetto sontuoso e minaccioso – dai tatuaggi eloquenti al vestiario sempre più identitario.

La donna, insomma, intraprende anticipatamente il percorso che lo stesso figlio dovrà affrontare, sopportando il peso di una conoscenza così ampia che un tempo sarebbe stata possibile solo per una macchina, ma che in Dune – Parte due è nelle mani di pochi, potentissimi individui.

E il suo comportamento conferma le accuse del suo stesso figlio.

Nonostante per certi versi il destino di Paul sia definito e definibile, non si sarebbe mai avverato senza l’intervento di Jessica, senza la sua spinta anche piuttosto aggressiva, che arriva infine a costringere Chani a prendere parte al processo.

Un processo che deve prendere forma, nonostante le angoscianti prospettive di miseria e di distruzione di cui, non a caso, Jessica è l’assoluta protagonista, perseguendo il grande piano delle Bene Gesserit di prendere parte a svolgimenti secolari ed essere sempre vicine al potere.

Fanatismo

Le Bene Gesserit si nutrono del fanatismo che loro stesse hanno creato.

In questo senso Stilgar rappresenta proprio il frutto di questa operazione, andando a ricercare nei felici tentativi di Paul di integrarsi nel suo popolo tutti i segnali del compimento del suo destino come Lisan al Gaib, con reazioni a tratti persino ilari.

Così il capo dei Fremen riesce ad alimentare quella religiosità più prettamente popolare, diventando un vettore per il piano stesso delle Bene Gesserit, che vivono in una realtà troppo lontana e distaccata dal presente per intervenirvi così direttamente.

Ma Stilgar è anche un avvertimento per Paul: in questo personaggio il protagonista intravede il fanatismo a cui andrebbe incontro se si immergesse nelle misteriose terre meridionali di Dune, dove, scegliendo i giusti gesti, le giuste parole, sarebbe incoronato come Messia.

E l’opposizione è debole…

Piccolo

Gli Harkonnen sono minuscoli.

Infatti, quello che potrebbe sembrare un difetto – il poco spessore di questi villain – è in realtà totalmente funzionale a raccontarne la piccolezza, nella loro stupida rincorsa al potere e al guadagno immediato.

Così Rabban è solo l’anello più debole del piano della casata: convinto di poter stanare i Fremen nel loro stesso pianeta, chiamandoli ratti, infine fugge come un coniglio davanti alla loro evidente superiorità numerica e strategica.

Per questo, gli Harkonnen hanno bisogno di un nuovo campione.

E questo dovrebbe essere Feyd-Rautha, personaggio che ha vissuto coccolato all’interno di un’arena costruita apposta per farlo vincere, con persino dei combattenti messi ai lati per impedire che il Na-Barone venga messo in difficoltà o anche solo ferito…

Per questo, il Barone sceglie di metterlo alla prova, e il più giovane nipote Harkonnen dimostra, a differenza del cugino, di saper non solo essere crudele e aggressivo, ma anche capace di affrontare gli imprevisti.

Ma anche Feyd-Rautha è una pedina.

Per quanto possa essere raccontato come intelligente e astuto, in realtà basta una qualunque Bene Gesserit per insidiarlo, per farlo perdere dentro la sua stessa casa, per requisire il suo seme e tenerlo in serbo come piano alternativo.

Un personaggio insomma funzionale a raccontare come il destino di Paul dipenda tutto da lui stesso, e di come le Bene Gesserit siano unicamente interessate ad essere dalla parte giusta della storia – quella con il potere.

Trasformazione

Paul infine accetta la sua trasformazione.

Il suo cambio di passo così repentino è per me l’unico difetto davvero imputabile al film, che avrebbe dovuto investire maggiormente nello spiegare la trasformazione del protagonista, nonostante ci siano tutti gli elementi che, a mente fredda, la rendono chiara.

Semplicemente, Paul finalmente accede ad una comprensione onnicomprensiva della storia, vede chiaramente i futuri possibili e capisce che l’unico modo per riuscire a salvare Arrakis è comportarsi come i suoi nemici.

Così, diventa tutto quello che Chani odiava.

Paul si impone nel consiglio dei Fremen e ne ribalta le regole, mettendo in grande sfoggio i suoi neo acquisiti poteri, che gli permettono di avere un controllo sul presente e soprattutto sul futuro, cominciando così la sua vertiginosa scalata al potere.

Insomma, il protagonista prende infine in maniera significativa in mano il suo destino, comincia ad utilizzare quelle armi che aveva ignorato per lungo tempo, dopo che da più parti gli era stato quasi urlato in faccia quanto potenzialmente potessero essere fruttuose.

Ma non è finita.

Nonostante Paul sembri ormai il dominatore incontrastato di Arrakis, in realtà deve sottostare al rituale del duello per sottomettere definitivamente l’Imperatore e, soprattutto, per riportare dalla sua parte le dubbiose Bene Gesserit.

E, in ogni caso, la conclusione non è una conclusione: è solo l’inizio di una Guerra Santa disastrosa, dello spezzarsi del rapporto con Chani, puntando lo sguardo ad un probabile terzo capitolo in cui l’unico antagonista di Paul sarà lui stesso…

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Anatomia di una caduta – Dissezione

Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet è stato uno dei film più chiacchierati della Stagione dei Premi 2024, grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6,2 milioni di dollari – complessivamente è stato un successo commerciale: 26 milioni di incasso in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Anatomia di una caduta (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior regia
Migliore attrice protagonista a Sandra Hüller
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anatomia di una caduta?

Samuel muore per via di una misteriosa caduta. E tutto punta verso la moglie, Sandra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anatomia di una caduta?

Sandra Hüller e Swann Arlaud in una scena di Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet

Assolutamente sì.

Anatomia di una caduta è uno splendido legal drama che riesce dove molti film del genere di riferimento falliscono: essere una storia credibile, in cui molti spettatori possono potenzialmente riconoscersi.

Infatti, in qualche modo noi stessi diventiamo i giurati che assistono alla cinica e spietata dissezione della vita della protagonista e del suo rapporto col marito, tutto tranne che chiaro, anzi piuttosto fraintendibile…

Insomma, da non perdere.