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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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She’s the man – Bloccati in un genere

She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla She’s the man?

Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She’s the man?

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Assolutamente sì.

She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.

Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.

Insomma, da riscoprire.

Definizione

Amanda Bynes in una scena in spiaggia di She's the man (2006) di Andy Fickman

L’incipit di She’s The Man è fondamentale.

Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, un maschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.

Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…

…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.

Seminato

Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.

Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.

E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…

Modello

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.

Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.

Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma sono dei modelli fragili.

Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.

E invece queste figure hanno molto da raccontare…

Successo

Amanda Bynes e Laura Ramsey in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

La chiave del successo di Viola è cangiante.

Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.

Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.

E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.

Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.

Traguardo

She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.

Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.

In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.

Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.

E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…

Interiore

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.

Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.

Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità

…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.

Aspetto

Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.

Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).

Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.

Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.

Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.

Equivoci

L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.

Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.

Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.

Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.

Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.

Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…

…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.

Rivelazione

L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.

Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.

Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.

Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.

Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.

E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.

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Not another teen movie – La parodia definitiva

Not another teen movie (2001) di Joel Gallen, noto anche come Non è un’altra stupida commedia americana, è un film parodia del genere teen movie Anni Ottanta – Novanta.

A fronte di un budget di appena 15 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 66 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Not another teen movie?

Mescolando le trame di She’s all that (1999) e 10 cose che odio di te (1999), con un pizzico di Varsity Blues (1999) e Cruel Intentions (1999), è la solita storia di una scommessa per conquistare una ragazza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Not another teen movie?

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Sì, ma…

È molto difficile consigliare questo film a chi non sia estremamente addentro al genere: come parodia funziona solo se si conoscono i film di partenza – e i titoli citati e parodiati sono davvero moltissimi.

Ma, se volete intraprendere questo viaggio, vi consiglio di dare prima un’occhiata, oltre ai titoli prima citati, a Pretty in Pink (1986), Breakfast Club (1985), Mai stata baciata (1999) e Bring it on (2000).

A quel punto, sarete (forse) pronti.

Pubblico

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

L’incipit di Not another teen movie può essere letto in più modi.

Ad un livello più superficiale è un grandissimo schiaffo nei confronti di un genere cinematografico che per anni aveva messo al centro delle sue storie e demonizzato la sessualità femminile, accostando due elementi apparentemente inconciliabili:

una ragazza sfigata e innamorata dei classici della commedia romantica, e un’intesa masturbazione.

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Ma, se volessimo andare ad un livello più profondo, il fatto che appena Janey cominci a darsi piacere da sola irrompa non solo la sua famiglia, ma anche l’intera comunità che assiste al suo piuttosto spettacolare orgasmo è piuttosto eloquente.

Come se la sessualità di una donna, soprattutto così giovane, fosse in qualche modo affare di tutti – e così l’essere scoperta deve essere il più possibile vergognoso e fuori luogo.

Ma è solo l’inizio.

Passerella

Mia Kirshner e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Il primo atto è una grande passerella di personaggi – e citazioni.

Assolutamente irresistibile l’entrata di Jake, che ripercorre passo passo il percorso del suo alter ego in She’s all that, ma con due importanti differenze: l’esasperazione dell’ammirare del suo ritratto appeso in corridoio – con uno scatto che lo immortala mentre lo osserva…

…e un racconto molto più esplicito di quanto il personaggio sia al centro di moltissime attenzioni sessuali – anche non apprezzate – che raggiungono l’apice del esasperazione con l’arrivo di Catherine, una ripresa quasi 1:1 della focosa protagonista di Cruel Intentions.

Mia Kirshner in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Infatti il suo personaggio vive di una presenza scenica esplosiva e di una serie di battute che indicano una conoscenza quasi maniacale del prodotto di partenza: come nel cult del ’99 si ripeteva ossessivamente you’ve been dumped (sei stato mollato) …

…Catherine fa una serie di battute su come lei faccia un dump (volgarmente, grossa cagata) sui suoi partner, a cui concede di metterglielo dove vogliono – facendo riferimento al particolare più succoso per cui Sebastian accettava la scommessa con la sorellastra nella pellicola originale.

E poi c’è Priscilla.

Incontro

Priscilla è un incontro fra passato e futuro.

Al tempo non era altro che la ripresa della velenosa Taylor di She’s all that, che sceglie, come il suo alter ego, di lasciare Jake per uno strambo compagno – che in questo caso non c’entra davvero niente con l’originale, ma è una parodia di American Beauty (1999).

Inoltre, è anche la protagonista della sottotrama delle cheerleader, che racconta l’assurdità del film cult del genere, Bring it on (2000), basato proprio sull’idea di una routine rubata dalle avversarie. 

Ma in realtà il suo personaggio è in tutto e per tutto Regina George di Mean girls (2004), che tre anni dopo rappresenterà veramente l’apoteosi della cattiva ragazza – al confronto Priscilla appare molto più incolore e, come tutti i personaggi di questo film, bloccata nel suo ruolo.

E se si parla di ruoli…

Token

Il racconto di Malik, il Black Token Guy, è devastante.

Per prepararsi a comprendere veramente la scena e l’amara ironia di fondo conviene dare un’occhiata alla scena parodiata di She’s all that: per quanto i personaggi coinvolti siano tre, in realtà Preston – il token guy, appunto –rimane costantemente sullo sfondo, intervenendo solo di tanto in tanto nella conversazione.

Non a caso, in Not another teen movie il personaggio rivendica il suo ruolo di pura presenza scenica, annunciando che si esprimerà solamente con una serie di battute stock – e facendo esattamente questo per tutti il resto della pellicola…

…bloccato nel ruolo di pallida guida morale del protagonista da usare all’occorrenza. 

Ma la parodia razzista non si ferma qui.

Ricalcando le sembianze del protagonista di The Karate Kid, in realtà Bruce, il wannabe asiatico, è una parodia nella parodia dei finti rapper neri, uno dei gruppetti in 10 cose che odio di te, che vengono qui rappresentati mentre si lamentano del suo essere un tale poser.

E vale la pena di aprire una parentesi sul gruppo degli sfigati.

Pressure

La storia di Mitch e del suo sgangherato gruppo di amici è parodia di tante cose diverse…

…ma principalmente è la ripresa di Kevin di American Pie (1999) e di Preston in Can’t hardly wait (1999), e del concetto che li accomuna: la devastante peer pressure di dover a tutti costi far parte della corsa del sesso.

Un concetto più volte messo in discussione dai suoi stessi compagni, che criticano l’incomprensibile urgenza del personaggio, nient’altro che un ragazzino che ha appena raggiunto l’adolescenza e che ha ancora tutta la vita davanti.

La loro storia in particolare si articola nell’incidente del bagno – uno dei momenti che meno apprezzo del film, e che funsero da apripista per una tendenza che personalmente detesto della commedia statunitense – in una simpatica citazione a The Breakfast Club

…ma soprattutto nel ribaltare la trama di Can’t Hardly Wait, raccontando come sia sostanzialmente assurdo che una ragazza si innamori del protagonista solamente leggendo una sua lettera – nonostante la punch line conclusiva racconti comunque il successo del progetto.

Ma le assurdità sono appena cominciate.

Squalificante

Janey è una parodia incredibile e continua.

Il suo personaggio racconta tutta l’inconsistenza di questo tipo di personaggio – la ragazza ribelle e alternativa – che popolava il genere nel decennio precedente, con protagoniste costruite a tavolino e spesso veramente incolori – nello specifico, Kat in 10 cose che odio di te.

In particolare ho amato il fatto che si prenda in giro un elemento veramente assurdo di She’s all that – e non solo: l’idea che una ragazzina sia già un genio artistico incompreso, riducendo la sua arte a degli incredibili disegni stilizzati.

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Ma ancora più assurdo è il perché Janey diventi l’oggetto della scommessa: esattamente come il personaggio di She’s all that, la protagonista in questo caso è di per sé una ragazza molto carina, che semplicemente è considerata irrimediabilmente brutta perché porta i capelli legati e gli occhiali.

E proprio questi due elementi la fanno emergere dalla passerella improbabile delle altre ragazze – dalla chitarrista albina alle gemelle siamesi – che rende la scena veramente irresistibile nel suo raccontare una delle assurdità più gettonate del genere in questo periodo.

E come conquistare questa ragazza impossibile? 

Conquista

Chyler Leigh e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

La parte del corteggiamento di Laney è forse la mia preferita.

Seguendo pedissequamente le indicazioni di Catherine, si va prima a parodiare il momento in cui eroicamente Zack salva il fratello della sua amata dai bulli in She’s all that – con una resa, per quanto ironica, anche più credibile…

…per arrivare alla mia scena preferita in assoluto: la dedica di una canzone a Laney, che non solo è una parodia geniale della medesima scena di 10 cose che odio di te, ma è anche una zampata non indifferente ad un problema delle scuole americane ancora oggi.

Mia Kirshner in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Dopo l’ultimo tentativo con il banana split – utilizzato in maniera molto più simpatica rispetto alla scena piuttosto improbabile di Varsity Blues – si arriva al classico momento del makeover, ridotto ai minimi termini per raccontare la palese assurdità di questa dinamica.

La sezione dedicata al party è forse la meno graffiante: non si fa che sottolineare ancora l’inconsistenza dello stereotipo che Laney rappresenta – specificatamente facendo riferimento a 10 cose che odio di te – e si ammorbidisce di molto la dinamica di She’s all that sul tema del bullismo.

Ma è arrivato il momento di parlare della sottotrama del football…

Credibile

La parodia di Varsity Blues merita un discorso a parte.

Il film sportivo del ’99 era già assurdo di suo: una drammaticissima storia di doping figlia di una cultura texana estremamente machista, che offriva però il fianco per momenti al limite del grottesco proprio per il suo prendersi estremamente sul serio.

Per questo motivo a Not another teen movie basta mescolare semplicemente le carte in tavola e aggiungere qualche elemento di ironia, portando in scena una sorta di what if in cui la presa di posizione del protagonista non ha un finale particolarmente felice…

Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

…e, al contempo, riscrivendo il personaggio del coach, già abbastanza assurdo in originale, qui veramente al limite del surreale, soprattutto nel suo trattare il povero Reggie Ray, con il conto sul tabellone delle botte che gli rimangono prima di lasciarci la pelle.

Ma in generale la rappresentazione degli adulti è una meraviglia.

Ribaltamento

Randy Quaid in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Not another teen movie gioca moltissimo nel ribaltamento delle figure paterne.

Infatti, fra gli Anni Ottanta e Novanta, erano possibili solo due modelli narrativi: il genitore presente e saggio, di cui spesso la protagonista doveva prendersi cura – il padre delle protagoniste di She’s all that e di Pretty in Pink – e invece la figura paterna opprimente e assillante – il padre del protagonista in She’s all that e in parte anche in 10 cose che odio di te.

Ed entrambe le parodie sono splendide.

Randy Quaid e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Da una parte troviamo l’esasperazione del primo modello nel padre di Laney, ubriacone assente nella vita della figlia e dispensatore di consigli non proprio utili, erede della generazione devastata dalla Guerra in Vietnam e di fatto, più dannoso che utile.

Ma ancora più esasperato è il padre di Jake, che ci tiene così tanto che il figlio segua le sue orme da comportarsi come se l’avesse già fatto, con i manifesti molto eloquenti di Princeton e addirittura un fotomontaggio piuttosto amatoriale della laurea del figlio.

Realtà

La sezione conclusiva è quella che porta più con i piedi per terra il genere.

Il momento di passaggio assomiglia molto a Tonight, Tonight di West Side Story, in cui i personaggi raccontano le loro intenzioni per la sera che sta per arrivare – anche se sono molto meno romantici di quelli del musical del ’57…

…per poi arrivare al prom vero e proprio, che parodizza l’iconico momento danzante di She’s all that e ne segue sostanzialmente i passi per anche i momenti successivi, con l’aggiunta della gara fra Ricky e Jake, che ricalcano due modelli narrativi quasi abusati.

Particolarmente spassoso è l’inseguimento, a cui ovviamente Jake va tutto liscio, mentre Ricky, splendida parodia di Duckie in Pretty in Pink, sembra come voler evadere il suo ruolo da migliore amico ossessionato che infine deve accettare il nuovo compagno della protagonista…

…e per questo viene punito.

Ma il punto più alto del film è indubbiamente il finale, con la splendida partecipazione di Molly Ringwald, l’apoteosi della protagonista dei teen movie Anni Ottanta, che toglie valore ai discorsi di riconquista di Jake, copiati da altri film di successo.

E, se proprio Jake le ricorda quanto siano fin troppo idealizzati i finali di questi film, sembra però impossibile evitarli…

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10 cose che odio di te – In superficie

10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger è un cult del genere teen movie Anni Novanta, ma che ha avuto la sua fortuna soprattutto nel decennio successivo.

A fronte di un budget medio per questo tipo di prodotti – fra i 13 e i 16 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 10 cose che odio di te?

Un ardito piano per conquistare una ragazza porterà due caratteri apparentemente inconciliabili ad incontrarsi in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 10 cose che odio di te?

Julia Stiles e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Dipende.

10 cose che odio di te è forse il titolo più debole del genere trattato finora: pur riprendendo un canovaccio narrativo piuttosto standard, la pellicola prova a dargli un maggiore spessore riflessivo, lasciando però tutto in una tristissima superficie.

Infatti, nonostante fosse potenzialmente un film che superava di diverse lunghezze il contemporaneo She’s all that (1999), finisce per perdersi in se stesso, risultando un prodotto con poco mordente, che segue una serie di step preimpostati senza riuscire ad aggiungere molto.

Però è un classico, quindi se volete farvi una cultura…

Diversa

L’introduzione della protagonista è uno dei pochi aspetti che mi ha veramente convinto della pellicola.

Un’ampia sezione introduttiva accompagna lo spettatore all’interno della storia, mostrando in prima battuta un gruppo piuttosto standard di ragazzine che si godono il ritmo pimpante di One week dei Barenaked Ladies

…per poi venire brutalmente interrotte dalla classica Bad Reputation di Joan Jett, con una breve carrellata che non solo ci mostra la protagonista, ma che ci racconta già moltissimo della sua personalità programmaticamente alternativa rispetto alle altre ragazze.

Così, anche l’introduzione degli altri due protagonisti è piuttosto esplicativa.

I personaggi sono subito raccontati come immersi in un ambiente ostile ed incontrollato, in cui gli adulti sono spesso del tutto incolori e assenti – in particolare Ms. Perky, più interessata al suo racconto erotico che agli studenti che dovrebbe aiutare…

– …e in cui un adolescente può o gettarsi nella gabbia dei leoni senza protezioni – come il disorientato Cameron – o rispondere in maniera insubordinata e creandosi una reputazione quasi leggendaria – come Patrick, fin da subito individuabile come l’alter ego della protagonista.

E l’ambiente è davvero opprimente.

Competizione

Joseph Gordon-Levitt, David Krumholtz e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Il clima della Padua High School è colorito quanto competitivo.

Tramite il racconto di Michael, veniamo accompagnati alla scoperta di un panorama con non pochi spunti interessanti – come i finti rapper neri e i cowboy – anche se non abbastanza esplorati come si meriterebbero – una dinamica ripresa e migliorata successivamente da Mean Girls (2006).

Ne emerge quindi un ambiente estremamente classista, in cui è fin troppo facile farsi escludere da un gruppo – come succede appunto al nostro cicerone – e in cui ragazzi più popolari sono talmente tanto influenti anche solo un loro saluto può diventare merce di scambio.

Joseph Gordon-Levitt e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Questo bizzarro quadretto viene chiuso dall’introduzione degli ultimi personaggi di rilievo: il viscido Joey Donner, che fin dalla sua prima apparizione racconta il suo obbiettivo, ovvero conquistare l’impossibile Bianca giusto per divertimento…

…e, appunto, la più giovane delle sorelle Stratford, graziosa quanto ingenua, e per questo facile preda delle maliziose attenzioni del top guy della situazione.

Ma la via è irta di ostacoli…

Divieti

Julia Stiles e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Walter Stratford è l’altro lato del mondo adulto.

Ormai abituato a vedere ogni giorno ragazzine che diventano madri troppo presto, e ancora ferito dall’abbandono della moglie, il suo personaggio cerca di comandare le sue figlie a bacchetta, nonostante siano entrambe molto meno ingenue di quanto pensi.

La situazione diventa sempre più paradossale nel raccontare una serie di limitazioni quasi da presa in giro: sicuro che Kat non avrà mai relazioni in vita sua, il padre mette come assurda condizione alla vita relazionale della figlia minore che la maggiore abbia un effettivo appuntamento.

Julia Stiles, Larry Miller e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Da qui parte l’intricato piano alle spalle della protagonista, che ha fra i punti di arrivo la confessione del padre, che ammette che i divieti derivino da una sua profonda insicurezza nel diventare solo spettatore della vita delle sue figlie, che invece vuole sempre più tenere legate a sé.

Uno dei tanti temi, purtroppo, lasciati a se stessi.

Ma il vero problema è altrove.

Relazione

Julia Stiles, Heath Leadger e Allison Janneyin una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Ogni racconto enemy to lovers di questo periodo segue una serie di step precisi.

Il confronto va ancora una volta a She’s all that, molto simile nelle sue dinamiche, ma che riesce molto meglio e in maniera molto più credibile – pur con tutti i suoi limiti – a raccontare lo sbocciare dell’amore fra i protagonisti e la parallela maturazione degli stessi.

Al contrario, forse anche per le capacità non eccellenti dell’attrice protagonista, l’intrecciarsi del rapporto con Patrick appare molto macchinoso, e del tutto incapace di integrare la loro relazione con un’esplorazione interessante dei caratteri dei personaggi.

Julia Stiles e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Infatti, se almeno Kat gode di un momento di importante – quanto incolore – confessione sul perché è così scontrosa – interessantissimo spunto, ma lasciato a se stesso – il racconto della vera natura del personaggio di Heath Ledger è incredibilmente dispersivo e poco incisivo.

E si salva solo leggermente la poliedricità di questo interprete immortale, per quanto qui ancora acerbo.

Joseph Gordon-Levitt e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

E mi ha lasciato ancora più amareggiata la povertà di scrittura a fronte della ben più interessante maturazione di Bianca, che, per una volta, non ha bisogno di essere salvata dal personaggio maschile, ma arriva alla sua presa di consapevolezza in sostanziale autonomia.

Ma, ancora una volta, sono spunti che si perdono come lacrime nella pioggia…

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Midnight in Paris – La notte appartiene ai sognatori

Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.

A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Midnight in Paris?

Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=FAfR8omt-CY&t=1s

Vale la pena di vedere Midnight in Paris?

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

In generale, sì.

Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…

…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.

Pioggia

I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.

Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.

Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.

Owen Wilson e Rachel McAdams in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.

Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.

Ma c’è una via di fuga.

Esclusiva

Adrien Brody in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

La magia di Parigi non è per tutti.

La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.

E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.

Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.

Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.

Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.

Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.

Consapevolezza

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.

La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.

Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…

Owen Wilson e Léa Seydoux in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…

Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.

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Scoop – La summa

Scoop (2006) può essere considerato per certi versi una summa della carriera di Woody Allen fino a quel momento.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 39 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Scoop?

Sondra è una giovane studentessa di giornalismo che si trova fra le mani lo scoop del secolo. Ma la fonte non è quella che vi potreste aspettare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scoop?

Scarlett Johansson e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Scoop è un film che porto particolarmente nel cuore: un poMisterioso omicidio a Manhattan (1993), un po’ Criminali da strapazzo (2000), la pellicola risulta un ottimo incontro fra la linea comica piuttosto classica di Allen e il poco esplorato genere thriller.

Fra l’altro, scegliere nuovamente come protagonista un’interprete così versatile come Scarlett Johansson, ed affiancarla ad un ottimo Hugh Jackman, è stata l’idea vincente per creare una piacevolissima commedia investigativa, che non manca comunque di toni più cupi.

Insomma, da vedere.

Casuali

Ian McShane in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

I personaggi in scena sono del tutto improbabili.

La pellicola si apre con il funerale dello scaltro Joe Strombel, con un vivace dialogo fra i suoi amici che, ricordandone le imprese, ci offrono una prima, fondamentale infarinatura sul personaggio prima ancora che entri in scena – tecnica già ben sperimentata in Hollywood Ending (2002).

Così, non perdendo mai il vizio di rincorrere la prossima notizia da prima pagina, neanche da morto, il personaggio si interessa fin troppo all’indiscrezione della ex segretaria di Peter Lyman, tanto da scegliere di passare il testimone a qualcuno che possa farne buon uso.

Ma forse non il candidato che si aspettava…

Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Già frustata per aver scelto una carriera così diversa da quella prospettata dalla sua famiglia, la Sondra all’inizio del film sembra trovarsi ad un vergognoso capolinea, quando dal suo intervistato non riesce a ricavare nient’altro che una poco spendibile notte di fuoco.

Così il racconto dello spettacolo a cui partecipa sembra in prima battuta fine a se stesso, ma invece è del tutto fondamentale per introdurre l’ultimo membro di questo improbabile terzetto di investigatori, con il suo repertorio di trucchi magici di livello davvero infimo.

Eppure, proprio durante lo spettacolo le loro strade si incroceranno.

Principiante

Scarlett Johansson e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

La coppia di protagonisti si dimostra fin da subito fin troppo improvvisata.

Pur molto scettico all’inizio, Sid si lascia infine coinvolgere nei primi passi di una Sondra che procede a tentoni, arrivando persino a pedinare l’uomo sbagliato – riuscendo a non mandare a gambe all’aria i suoi piani solo grazie ad amicizie in comune.

Da qui prende piede la gustosissima trama comica della pellicola, costellata da infinite gag di un Woody Allen in splendida forma, che riescono nel complesso ben a dialogare con il personaggio della Johansson.

Scarlett Johansson, Hugh Jackman e Woody Allen in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

E paradossalmente, proprio nel suo essere chiassoso, Sid crea la faccia perfetta.

Infatti risulta del tutto credibile che la giovane Jade abbia al suo fianco un padre così strambo, che non può fare a meno di divulgare i più intimi ed improbabili dettagli dell’infanzia della figlia – anche perché, col tempo, comincia davvero a considerarla tale.

Fra l’altro, questo taglio quasi surreale del personaggio ben si accompagna al continuo dell’investigazione che sembra sempre sull’orlo della catastrofe, anche grazie anche ad un montaggio incalzante che accompagna splendidamente la costruzione della tensione.

Delle dinamiche che mi ricordano qualcosa…

Eredità

Scarlett Johansson e Hugh Jackman in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Scoop è, in ultima analisi, una riscrittura di Notorious (1946).

Così, se Alicia doveva stanare una famiglia di nazisti in fuga con un matrimonio combinato, allo stesso modo Sondra deve entrare nelle grazie di Peter per poter sciogliere il mistero del Killer dei Tarocchi, finendo però per innamorarsene e per cadere nella sua rete di inganni.

Scarlett Johansson e Hugh Jackman in una scena di Scoop (2006) di Woody Allen

Il punto d’arrivo sembra la rivelazione del vero serial killer, che fa cadere ogni accusa nei confronti di Lyman, confermando la sua insospettabilità, con un Sid che però non ci crede e si intestardisce a tal punto da finire per passare da salvatore a vittima.

Fra l’altro, con una conclusione perfetta per il personaggio di Peter, il cui racconto di compagno fin troppo affettuoso e dal comportamento impeccabile, ma nondimeno piuttosto possessivo nei confronti di Sondra, infine ben si sposa con la rivelazione invece del suo oscuro segreto…

…con una chiusura a sorpresa in cui Sondra che, a differenza di Alicia, riesce ad ingannare Peter fino alla fine.

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She’s all that – La vendetta…dovuta?

She’s all that (1999) di Robert Iscove, noto anche come Kiss me, è un classico del genere teen movie Anni Novanta.

A fronte di un budget piccolino – 10 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 103 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla She’s all that?

Zach e Laney sembrano due adolescenti totalmente agli antipodi: il ragazzo più popolare della scuola e la sfigata che vive rinchiusa nella classe d’arte. Eppure qualcosa li permetterà di ritrovarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She’s all that?

Rachael Leigh Cook e Freddie Prinze Jr. in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

In generale, sì.

Ammetto che mi aspettavo decisamente peggio da questo classico della commedia adolescenziale, che in effetti è in tutto e per tutto uno spaccato degli Anni Novanta, con al centro un topos narrativo che ha fatto veramente scuola nel genere…

…ma che nondimeno risulta per nulla banale nella sua esecuzione, anzi riesce meglio nel suo lato più riflessivo, pur risultando un po’ debole negli snodi narrativi fondamentali e nel racconto di alcuni personaggi chiave.

Ma, nel complesso, vale una visione.

Scommessa

Jodi Lyn O'Keefe e Freddie Prinze Jr. in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Tutto nacque con una scommessa…

Fin da subito She’s all that mostra il suo lato più ingenuamente crudele: il protagonista maschile, Zach, viene scaricato da Taylor, riducendolo a mero accessorio della sua vita ormai passato di moda, utile solamente per avere un compagno per il ballo scolastico.

E la scelta così superficiale delle relazioni si manifesta in senso più ampio nella considerazione che fin da subito Zach dimostra verso genere femminile, basato unicamente sul mero lato estetico, che definisce tutta l’importanza di un individuo.

Freddie Prinze Jr. in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Così nasce questa crudele scommessa in cui il protagonista si fa coinvolgere senza troppe remore, pur dimostrandosi piuttosto restio a dover fare un sostanziale miracolo nei confronti di una ragazza così apparentemente irrecuperabile come Laney.

Quello che succede dopo, però, mi ha stupito.

Dietro le quinte

Rachael Leigh Cook in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Era per me assolutamente prevedibile che il film avrebbe cercato di riscrivere Zach in senso positivo, così da renderlo infine un compagno accettabile per lo scontatissimo esito romantico del finale della storia.

E invece She’s all that gioca d’anticipo.

Bastano poche scene per scoprire come in realtà il protagonista sia molto più di quella maledetta scommessa, nient’altro che l’ultima manifestazione di una peer pressure devastante proveniente ora dal padre, ora dai suoi compagni di scuola – particolarmente Dean.

Rachael Leigh Cook in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Per questo l’inizio della relazione con Laney non è con la scommessa, ma bensì con lo spettacolo teatrale, in cui Zach viene un po’ maldestramente coinvolto, ma in cui dimostra la sua insospettabile verve interpretativa, e, di conseguenza, di essere meglio di quanto sembra.

Ma il secondo atto è quello decisivo.

Aprirsi

Rachael Leigh Cook in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Il problema di Laney non è il suo essere brutta, ma piuttosto il suo arrendersi alla vita.

Del tutto convinta del suo destino di ragazza sfigata e isolata da tutti, vivendo rinchiusa ora nel contesto familiare – di cui prende totalmente le redini, andando a colmare il vuoto della madre defunta – ora nell’aula di arte, dove il suo unico modo per avere successo sembra la morte artistica.

Rachael Leigh Cook e Freddie Prinze Jr. in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Invece, proprio con la giornata in spiaggia, la protagonista scopre conto di poter essere molto più incisiva di quanto potesse credere: se sulle prime le ragazze sembrano intenzionate solo a prendere il sole, è proprio la scelta di Laney di giocare invece coi ragazzi a svoltare la giornata.

La stessa incisività si vede anche durante la festa di Taylor, che la bullizza e la fa scappare in lacrime, ma non prima che la protagonista le risponda a tono, sottolineando la cattiveria della regina del ballo ancora non spodestata.

In conclusione, è ora di aprire una parentesi dovuta.

Vendetta

Un elemento chiave di She’s all that è la vendetta.

Il film, forse neanche consapevolmente, ci insegna che l’unico modo per rispondere al bullismo è con altrettanta, se non maggiore, cattiveria: così Laney ha la sua rivalsa sulle umiliazioni di Misty, pitturandole la faccia come quella di un pagliaccio e umiliando davanti a tutti…

…e, soprattutto, così Zach si dimostra come salvatore degli ultimi non solo proteggendo il fratello di Laney dai bulli, ma sottoponendoli alla loro stessa medicina, in una scena rivoltante che anticipa ben più altre vette che vedremo nel cinema popolare negli anni successivi.

Rachael Leigh Cook e Jodi Lyn O'Keefe in una scena di She's all that (1999) di Robert Iscove

Di mio preferisco decisamente altri tipi di narrazioni che, per quanto più consapevolmente cattive nel mostrare certi temi, si concludono in ogni caso con visioni più positive, volte a spezzare questa catena del distruggersi a vicenda – specificamente, Mean girls (2004) e Heathers (1989).

Così anche il fatto che con tanta leggerezza Laney renda sostanzialmente sordo Dean per evitare uno stupro mi lascia qualche dubbio…

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Melinda e Melinda – Punti di vista

Melinda e Melinda (2004) è, al pari di Crimini e misfatti (1989), è una delle opere più sperimentali della carriera di Woody Allen.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un discreto riscontro al botteghino: 30 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Melinda e Melinda?

Due autori di teatro si sfidano a trovare la differenza fondamentale fra commedia e tragedia, partendo dalla stessa storia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Melinda e Melinda?

Radha Mitchell e Chloë Sevigny in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

In generale, sì.

Melinda e Melinda appare a suo modo una riflessione molto intima di Allen sulla sua carriera fino a quel momento, ricalcando dinamiche comiche ormai consolidate nella sua produzione, ma anche esplorando nuovi versanti drammatici…

…proprio alla soglia di prodotti più rivolti in questa direzioneMatch Point (2005) e Blue Jasmine (2013), ma anche Scoop (2006) a suo modo – quasi come se il regista se sdoppiasse, portando in scena due tendenze opposte che sentiva in quel momento.

Melinda e Melinda prende spunto da due visioni diverse.

I due autori dibattono su quale sia il favore del pubblico, se verso la commedia o la tragedia, risolvendosi ad andare a cercare quell’elemento che effettivamente cambia il tono e il taglio di una storia, mettendola da l’una o l’altra parte.

Ma, fin da subito, la differenza di visione è quella fondamentale.

Visione

Il medesimo evento – il racconto del passato – assume un tono diverso a seconda del diverso punto di vista dell’autore: se la Melinda tragica porta in scena un doloroso monologo sul suo passato, il racconto della Melinda comica non appare per intero, ma riassunto solo nei suoi punti salienti.

Per lo stesso evento, cambia moltissimo anche la regia della scena: il monologo tragico appare particolarmente emotivo perché Melinda è l’unica protagonista della scena, mentre il racconto comico code di una visione più ampia su tutti i personaggi della scena.

Radha Mitchell in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

Lo stesso discorso si può fare anche per il tentativo di suicidio.

Essendo un elemento proprio del racconto tragico, Max nella sua versione la abbraccia totalmente, mostrandolo come un evento inevitabile della sfortunata vita di Melinda, come ben sottolineato dalla voce fuori campo di Laurel che chiude la storia.

Al contrario, nel racconto comico, l’elemento del suicidio è relegato ad un personaggio di contorno, che sceglie di togliersi la vita in una bizzarra escalation del suo flusso di pensieri – che ha molti parallelismi col primo monologo della Melinda tragica.

E il riferimento agli stilemi classici non è casuale…

Destino

I due racconti sembrano rifarsi ai dettami classici dei due generi.

Infatti la Melinda tragica è come se fosse destinata ad avere una conclusione infelice, tanto più straziante quando nella sua vita si affaccia la possibilità di una seconda occasione relazionale, che fra l’altro gli viene sottratta da quella che credeva sua amica.

Al contrario, il racconto della Melinda comica sembra voler a tutti i costi avere una conclusione positiva, andando fortuitamente ad fare corrispondere la fine del matrimonio di Hobie con la nascita del suo interessamento per la protagonista.

Ma infine una domanda rimane…

Perché?

Wallace Shawn in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

Perché Melinda e Melinda?

Pur non essendo la prima volta che Allen sperimenta con la metanarrativa – come nel già citato Crimini e misfatti – è la prima volta che Allen si affaccia al genere drammatico in senso stretto, ed è come se con questo film volesse riproporsi al pubblico in una veste nuova…

…e, al contempo, riflettere con sé stesso sul cinema, e chiedersi come e se potrebbe sperimentare con un racconto strettamente drammatico, arrivando alla conclusione che non sono i temi a definire il taglio di un film, ma la mano stessa dell’autore.

Non a caso, il successivo Match Point ha alla base un racconto più e più volte portato in scena da Allen…

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Clueless – Il risveglio

Clueless (1995) di Amy Heckerling, noto anche come Ragazze di Beverly Hills, è un cult del genere teen movie.

A fronte di un budget piccolino – 12 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 88 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Clueless?

Cher è una ragazza ricca e popolare, ma che usa la sua influenza per aiutare gli altri. Ma la sua ingenuità sarà la sua rovina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Clueless?

Assolutamente sì.

Clueless rappresenta davvero una perla del genere, anticipando fortemente i tempi con una narrazione dell’adolescenza femminile più collaborativa che vendicativa – come invece si vede in molte occasioni… – e un racconto della sessualità piuttosto dirompente.

Oltretutto, a differenza di film più difficilmente digeribili – per quanto magnifici – come Heathers (1989), è anche un prodotto piacevolissimo da guardare, che comunque non si risparmia in una serie di battute piuttosto sottili e non sempre a portata di adolescente…

Ingenuità

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher è totalmente ignara della sua condizione.

Intraprendendo fin da subito un intenso dialogo con lo spettatore – ottimo metodo, se ben pensato, per potenziare la narrazione, che sarà poi ripreso anche il Mean girls (2004) – ci racconta già moltissimo del suo personaggio – e della sua totale ingenuità.

Pur godendo di un armadio gigantesco, addirittura di un sistema di matching per gli outfit – una delle scene più iconiche, riprese, fra gli altri, in Barbie (2023) – Cher non è la classica adolescente ricca e viziata come ci si potrebbe aspettare.

Fin dalla prima scena viene infatti svelata la sua – seppur ingenua – buona volontà nell’aiutare gli altri, soprattutto il padre, così immerso nella sua turbolenta professione da non essere capace di prendersi cura di sé stesso.

Ma non è finita qui.

Bivio

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Clueless si trova in più momenti davanti ad una serie di bivi.

Cher è un personaggio che fin da subito si distingue dagli altri personaggi femminili dal punto di vista relazionale: genuinamente disgustata dai ragazzi della sua generazione, racconta fra il divertito e l’apprensivo la relazione fra la sua migliore amica, Dionne, e Murray.

E se questo poteva essere un buon momento per far partire la classica divisione fra ragazze buone e cattive…

Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

…e invece Clueless stupisce: non vi è mai un giudizio negativo nei confronti della libertà sessuale delle protagoniste, se non quello che talvolta i personaggi mettono su sé stessi – come quando Donnie dice, quasi con sprezzo, di essere tecnicamente ancora vergine.

E anche la stessa posizione di verginità della protagonista è piuttosto aleatoria…

Buone azioni

Alicia Silverstone in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Anche durante la classe di dibattito, Cher dimostra la sua deliziosa ingenuità.

La sua posizione sull’immigrazione è una piccola zampata nei confronti della totale cecità della borghesia statunitense nei confronti dei problemi reali del paese, ma anche un ulteriore momento per sottolineare la sostanziale bontà della protagonista.

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Infatti, come Cher potrebbe utilizzare la sua posizione per vendicarsi dei brutti voti di Mr. Hall, invece sceglie di prendere il meglio di quanto ha imparato da suo padre e di ammorbidire il carattere burbero del professore, facendolo innamorare.

Così, anche se un motivo assolutamente egoistico, Cher riesce a far ritrovare due persone molto sole.

Ed è solo l’inizio.

Makeover!

Brittany Murphy in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Fatta la prima buona azione, Cher non ne può più fare a meno.

Dopo uno sguardo piuttosto ironico sul panorama adolescenziale di Beverly Hills e le sue ragazze ricche, viziate e piene di botulino, viene introdotta la preda perfetta, la totale outsider che la protagonista può prendere sotto la sua ala per una nuova buona azione.

Qui Clueless raccoglie particolarmente l’eredità del romanzo da cui si ispiraEmma di Jane Austen – con un arguto parallelismo fra la società iper-classista della Regency e il panorama sociale non meno spinoso dell’alta società californiana.

Per questo, Tai è la via del risveglio.

Brittany Murphy, Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher cerca fin da subito di catturare la sua nuova amica nel complesso sistema della scuola, partendo dal più classico momento di passaggio – il makeover – che viene però totalmente stravolto, riducendolo – al pari di tutte le indicazioni di Cher – in una mania senza significato.

Ed infatti è piuttosto interessante che fin da subito Tai tende a sottrarsi ai tentativi di Cher di incasellarla, prima di tutto negando la sua verginità – elemento estremamente raro in un personaggio di questo tipo – e interessandosi ad un ragazzo che Cher considera inadeguato.

Ma l’alternativa non è migliore…

Voltafaccia

Brittany Murphy e Alicia Silverstone
 in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Il piano di Cher è un disastro.

Proprio come una matchmaker d’altri tempi, la protagonista trova subito il candidato perfetto che Tai può usare come accessorio per riuscire ad imporsi definitivamente con la sua rinnovata immagine e posizione.

E se i tentativi nel complesso sembrano portare nella direzione giusta, con un Elton che si dimostra interessato ad avvicinarsi alla ragazza, infine scoppiano come bolle di sapone quando il personaggio rivela tutta la sua arroganza e classismo, cercando di saltare addosso a Cher.

E così, la caccia ha di nuovo inizio…

…aprendo la sezione che io personalmente considero più geniale della pellicola.

Seduzione

Alicia Silverstone in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Per quanto ingenua, Cher è molto più furba di quanto potrebbe apparire.

Appena posati gli occhi su Christian, prende subito le redini della seduzione, con tutta l’intenzione di dimostrarsi interessante agli occhi di questo fascinoso ragazzo, in una scena che mima sottilmente l’atto sessuale, come ben rivela la battuta di Mr. Hall:

It’s time for your oral!

È ora del tuo orale.

Tutta la dinamica successiva continua a calcare su questo fine racconto erotico, in cui Cher si rende sempre di più desiderabile e desiderata, in particolare portando l’attenzione sulla sua bocca sempre impegnata:

And anything you can do to draw attention to your mouth is good.

E qualsiasi cosa che attiri l’attenzione sulla tua bocca è una buona idea.

Ma la realizzazione infine che Christian non potrai mai essere il suo fidanzato – con una rivelazione molto figlia di tempi, ma perlomeno non offensiva nei toni – è il primo passo per la graduale presa di consapevolezza di Cher di non aver mai avuto il controllo sulla situazione…

…e di aver guardato sempre dalla parte sbagliata.

Insomma, è ora di parlare di Josh.

Realtà

Alicia Silverstone e Paul Rudd in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Josh è la chiave di volta per la maturazione della protagonista.

Sulle prime il loro rapporto sembra il classico enemy to lovers, ma è una dinamica abbandonata non appena il personaggio ha modo di mostrare il suo vero carattere: non uno sfaccendato collegiale, ma un ragazzo timido e insicuro, che cerca rifugio in un’altra famiglia…

…e che, come Cher, ha a cuore gli altri: particolarmente dolce e significativo il momento in cui, alla festa con Christian, la protagonista si rende conto che Tai si senta escluso, ma si rassicura quando vede l’intervento di Josh, che la fa meno sentire fuori posto.

E proprio la realizzazione di essere innamorata del suo ex-fratello, apparentemente improvvisa, invece mette un punto molto interessante al personaggio: non la classica protagonista che cerca il vero amore, ma piuttosto una ragazza che sa cosa è meglio per sé, e che vuole accanto una persona che senta vicina.

Allo stesso modo, Clueless getta una nuova luce su tutti i personaggi – e stereotipi che li accompagnano, svelando una realtà molto più complessa e variegata da quella che viene solitamente raccontata in prodotti similari.

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Hollywood Ending – Sulla via del tramonto

Hollywood Ending (2002) è uno dei film forse più personali e lungimiranti della carriera di Woody Allen.

A fronte di un budget piccolino – 16 milioni di dollari – è stato uno dei tanti e disastrosi flop commerciali di questo periodo per Allen, non riuscendo a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Hollywood Ending?

Val è un regista in disgrazia, per via del suo carattere molto difficile. Eppure sarà proprio la sua ex moglie a dargli una seconda occasione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hollywood Ending?

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Hollywood Ending è uno dei miei film preferiti di Allen in questo periodo, anche per la sua ottima performance comica, con cui evade la macchinetta che già al tempo rischiava di diventare, per invece impreziosire la sua performance con un irresistibile taglio surreale.

Oltretutto, se si considera il momento artistico del regista statunitense – al tempo si cominciava a pensare che la sua carriera fosse ormai sulla via del tramonto – il film assume ancora più significato, soprattutto visto che ci troviamo a pochi anni di distanza da uno dei suoi più grandi successi: Match Point (2005).

Disgrazia

Woody Allen e Treat Williams in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Il personaggio di Val nasce fuori scena.

Uno dei lati che più apprezzo della scrittura di Hollywood Ending è proprio il modo in cui introduce il protagonista: un’animata discussione fra Ellie e gli altri produttori, in cui si abbozza già il carattere imprevedibile di Val, nonostante questo non sia presente.

Così scopriamo come Val sia un regista ormai caduto in disgrazia, nonostante tutti i presenti ne riconoscano l’innegabile verve artistica, che lo distingue dai più incolori yes man che invece dirigerebbero la pellicola in maniera molto meno ispirata. 

Woody Allen e Mark Rydelli in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

E infine Ellie dà la punchline che chiude questa ottima costruzione:

I’m told that he is in no position to be fussy.

Mi è giunta voce che non è proprio nelle condizioni di fare lo schizzinoso.

Ed infatti vediamo un Val ormai costretto ad accettare i lavori più improbabili, nonostante non riesca ad a mantenere neanche quelli, rendendo l’offerta di Ellie davvero la sua ultima occasione per rilanciarsi – senza che questo, però, gli impedisca di continuare ad essere ingestibile…

Follia

Woody Allen,Téa Leoni, Treat Williams e Debra Messing in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Come prevedibile, Val è totalmente incontrollabile.

Ma non è solo.

La sequenza dedicata al breve incontro con la sua ex moglie è una delle migliori prove comiche di Allen dai tempi di Prendi i soldi e scappa (1969), mostrando un comportamento quasi bipolare, che passa da una serena discussione sulla sceneggiatura fino alle più aspre rivendicazioni sul suo matrimonio fallito.

Come se questo non bastasse, la follia sembra perseguitarlo.

Tutti i personaggi di cui si circonda nella fase di pre-produzione dimostrano a più riprese tutta la loro assurdità – addirittura nel voler ricreare interi palazzi di New York – che dimostra come Val scelga, forse inconsapevolmente, di lavorare con figure ancora più improbabili di lui.

Ma all’apice della follia, della realizzazione dei suoi capricci…

Isteria

Debra Messing in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

La cecità di Val è frutto esclusivamente della sua isteria.

Pur essendo sano come un pesce, fra l’ipocondria galoppante, la vicinanza con l’odiata ex-moglie e una produzione assurda ancora prima di cominciare a girare, il protagonista esprime il suo disagio irrisolto in una malattia apparentemente incomprensibile.

Uno spunto comico che poteva facilmente essere sprecato in battute piuttosto scontate, ma che invece si articola in una serie di gag comunque piuttosto semplici, ma nondimeno anche brillanti e gustose nella loro esecuzione.

Woody Allen e Mark Rydell in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Fra l’altro, la cecità improvvisa è anche l’occasione per riflettere sulla propria vita, sul suo intestardirsi sulle sue manie, in particolare nell’essere un grande artista incompreso dalla sua stessa famiglia – con cui invece gradualmente riesce a riconciliarsi.

Quasi una…profezia?

Presagio

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Come anticipato, Hollywood Ending è probabilmente uno dei film più autobiografici di Allen.

Così la già citata situazione della sua carriera – considerata ormai alle sue battute al tempo dell’uscita del film – e l’inizio dei finali più positivi e concilianti per le sue commedie – già in Criminali da strapazzo (2000) – che raccontano il recente matrimonio con Soon-yi Previn.

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Allo stesso modo, questa pellicola è una previsione fin troppo lucida del suo destino registico: il suo progressivo allontanamento dal cinema americano per invece affacciarsi al panorama europeo, ben più pronto – proprio come nel film – ad accettare la sua arte.

E proprio a Parigi, meno di dieci anni dopo, avrebbe ambientato Midnight in Paris (2011)…