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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.

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Shrek 2 – Ti presento i miei

Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon è il sequel di uno dei titoli animati più di cult dell’inizio Anni Duemila.

Un successo commerciale veramente grandioso, che confermò il culto che si era già al tempo formato intorno al brand: con un budget di circa 150 milioni, incassò quasi un miliardo.

Di cosa parla Shrek 2?

Poco dopo il matrimonio, Shrek e Fiona tornano alla palude, ma una sorpresa è lì ad aspettarli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek 2?

Shrek in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Ovviamente sì.

Shrek 2 è la conferma del successo del brand, e anche la sua maturazione, dove il misto fra fiaba e modernità è definitivamente scatenato, con delle trovate veramente incredibili e geniali.

Inoltre, racconta un’ulteriore, quanto essenziale, maturazione di Shrek e del suo rapporto con Fiona, forte di un primo capitolo che ha posto delle basi molto solide per la relazione fra i due protagonisti, così da poter esplorare nuove strade nel suo seguito.

Insomma, non potete perdervelo.

Innamorarsi ancora

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La sequenza del viaggio di nozze di Fiona e Shrek riesce al contempo a rinsaldare il rapporto fra i due – che sarà al centro della vicenda – sia ad essere meravigliosamente ironico.

In questo caso, con delle sequenze di pura cattiveria – in particolare quella con la Sirenetta – ma anche davvero esilaranti, come il quadretto idilliaco dei due sposini che corrono nel campo inseguiti dalle folle inferocite.

E funziona proprio grazie al primo film.

Infatti, dal momento che avevo trovato così convincente la costruzione del rapporto fra i protagonisti nella pellicola precedente, sono riuscita davvero ad innamorarmi di nuovo della loro relazione – ed era essenziale che fosse così.

Di nuovo Disneyland?

Una delle parti per me più convincenti in Shrek (2001) era Duloc.

E per questo Molto molto lontano è ancora più geniale.

Una rappresentazione che riesce a riscrivere nuovamente la fiaba e incasellarla in un preciso contesto moderno e commerciale come quello di Hollywood, grazie anche ad un’introduzione veramente perfetta nella sequenza di arrivo.

Così le principesse delle fiabe diventano le star del cinema – pur essendo introdotte effettivamente solo nel prossimo film – le taverne diventano fast-food e i balli reali sono niente di meno dei red carpet.

E il tutto senza alcuna sbavatura.

Ti presento i miei

Harold in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Tutta la sequenza di incontro con i genitori è indubbiamente ispirata a quel piccolo – quanto recente al tempo – cult di Ti presento i miei (2000).

E funziona ottimamente.

I veri protagonisti della storia, di fatto, sono Shrek e Harold: entrambi compiono un percorso con motivazioni simili – riuscire a rimettersi in discussione – e di fatto il padre di Fiona rivede sé stesso nell’odiato marito della figlia.

Non a caso Harold si è piegato veramente a fare qualunque cosa pur di superare quell’aspetto che, ne era certo, l’avrebbe reso un emarginato sociale, senza poter mai raggiungere lo status – e la relazione – tanto agognato.

Da parte sua Shrek è nuovamente messo davanti alle sue paure, dopo averle temporaneamente superate grazie al rapporto con Fiona: di nuovo i forconi, di nuovo il disprezzo, di nuovo il sentirsi fuori posto.

Il femminile secondario

Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Rivedendo Shrek 2 mi sono resa conto di quanto i personaggi femminili positivi siano di fatto secondari.

Eppure, sono assolutamente essenziali.

Il ruolo più appartato, almeno sulle prime, è quello di Lillian: per tutto il tempo cerca di riportare alla ragione il marito, tentando di assumere immediatamente un ruolo conciliante fra le parti.

Al contempo Fiona, nonostante sia poco presente in scena, rappresenta, come la madre, il punto di arrivo dell’eroe maschile, riuscendo di fatto a portare ad una interessante chiusura della storia proprio grazie alla maturazione che ha vissuto nel primo film.

Infatti, la Fiona che troviamo in questo secondo capitolo non è più la principessa che viveva nel sogno del Principe Azzurro, ma è una donna che è finalmente maturata e che ha compreso quanto la bellezza sia di fatto secondaria rispetto all’interno di un rapporto duraturo.

Distruggere la fiaba

Fiona e la Fata Madrina in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La distruzione dei topoi della fiaba in Shrek 2 è definitiva.

Di fatto si rompe quella sorta di patto narrativo per cui dovremmo credere all’amore a prima vista, all’amore predestinato, riducendo il tutto ad una transazione commerciale.

E così il salvataggio di Fiona non era altro che un matrimonio combinato.

Per questo il personaggio della Fata Madrina è così tanto interessante: va a colpire la Disney ancora sul vivo, distruggendo un caposaldo della fiaba, da sempre rappresentante della maternità e della cura.

In questo caso invece il suo personaggio è di fatto il motore dell’azione, l’abile villain che tira i fili nell’ombra, grazie al potere di poter dettare le regole e sconvolgere a suo piacimento le sorti dei personaggi.

Il principe nell’ombra

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

La rappresentazione del Principe Azzurro è sottilmente geniale.

Shrek 2 gioca abilmente sul fatto che questo principe non sia un eroe qualunque che si identifica sotto questo topos narrativo, ma proprio un uomo che si chiama Azzurro.

Di conseguenza, il destino di Fiona era già scritto senza che se ne rendesse conto, proprio giocando su questa ambiguità del nome. E, per l’appunto, nessuno tranne Harold e la Fata Madrina conosce effettivamente il personaggio.

Azzurro in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

E, incredibilmente, Shrek 2 è riuscito a dare tridimensionalità ad un personaggio spesso totalmente vuoto.

Infatti, soprattutto se si guarda alla Disney dei primi tempi, l’eroe maschile era anche più insipido della protagonista femminile. In questo senso, Azzurro mi ha ricordato una sorta di Flynn di Rapunzel (2010) – in senso negativo, ovviamente.

Così, proprio per la sua posizione e bellezza, Azzurro è incredibilmente vanesio e pieno di sé stesso, anche opportunamente viziato dalla madre, raggiungendo una maturazione da villain solo nel film successivo.

Shrek, tocca a te!

Shrek e Fiona in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Il motore dell’azione per il viaggio di Shrek è di fatto la sua consapevolezza del debito nei confronti di Fiona.

Infatti, come lei stessa gli ricorda, la moglie ha fatto diversi e importanti sacrifici – la sua posizione sociale, il suo aspetto – per amore di Shrek. E invece il marito si è mostrato del tutto egoista nel fare un passo avanti nei suoi confronti.

Al punto che Shrek arriva a rinunciare alla sua stessa identità – o così sembra – pur di poter garantire a Fiona una vita effettivamente felice – o almeno quella che potrebbe sembrare apparentemente tale.

Tuttavia, proprio per questo il punto di arrivo di Shrek e Harold è il medesimo: entrambi si rendono conto che gli sforzi che hanno fatto verso le loro compagne non era tanto importanti di per sé, ma per quello che hanno in questo modo dimostrato.

Doris Shrek 2

Non voglio arrivare a giudicare con i parametri odierni un film del 2004, ma la presenza del personaggio di Doris mi offre inevitabilmente uno spunto di riflessione.

La sorellastra è una rappresentazione poco chiara, ma sicuramente molto stereotipata, di una drag queen, ma più che altro una donna transgender – non a caso è doppiata da un uomo.

Doris in una scena di Shrek 2 (2004) di Andrew Adamson, Kelly Asbury e Conrad Vernon

Molte delle battute girano intorno al suo essere poco attraente, quasi repellente – anche dovuta dalla sua natura – in maniera abbastanza sciocca, ma sicuramente molto coerente con lo spirito del periodo.

E mi stupisce vedere una rappresentazione di questo tipo all’interno di un film che promuove così evidentemente la diversità, la bellezza interiore e lo sradicare i ruoli sociali.

Ma era il 2004, appunto.

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Shrek Terzo – La grande debolezza

Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller è il terzo capitolo della saga cult di Shrek, nonché il film considerato più debole fra quelli prodotti finora per questo personaggio…

Con un budget leggermente superiore al precedente – 160 milioni – fu sempre un grande successo, ma non riuscì ad avvicinarsi alla soglia del miliardo come Shrek 2, con appena 813 milioni di incasso.

Di cosa parla Shrek Terzo?

Dopo essere riuscito a tornare in buoni rapporti con i genitori di Fiona, Shrek cerca una via d’uscita dalla soffocante vita di corte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek Terzo?

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

In generale, sì.

Per quanto Shrek Terzo manchi assolutamente della brillantezza dei precedenti, è complessivamente un capitolo piacevole, che riesce, pur con molta difficoltà, a rimanere sui binari della saga, cercando di introdurre qualche novità…

È anche il capitolo in cui si punta di più sull’ironia, con però, ancora una volta, un umorismo molto meno interessante e originale rispetto a quello a cui ci aveva abituato fino a questo momento…

Insomma, se siete innamorati di Shrek, potreste amarlo quanto odiarlo…

Un nuovo ostacolo

Ciuchino, Shrek, Fiona e Il gatto con gli stivali in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come ogni film di Shrek, anche in questo caso il protagonista si deve trovare davanti ad un ulteriore ostacolo che metta in discussione il suo status quo.

E, a fronte di tutte le possibili strade che si sarebbero potute intraprendere, si è preferito portare Shrek sui binari dell’uomo medio, ovvero alle medesime problematiche che affliggono i protagonisti della maggior parte delle sitcom e delle commedie romantiche.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Prima il matrimonio, poi i figli.

E purtroppo non si sono resi conto di quando questa scelta non faccia altro che allontanare il personaggio da sé stesso, mentre aveva potenzialmente la strada spianata per mettersi veramente alla prova, non tanto come padre, ma piuttosto come regnante.

Invece questa possibilità viene subito tolta dal tavolo.

La banalità

Per due film Shrek ci aveva stupito con delle location profondamente originali, incontri vincenti fra il vecchio e il nuovo.

Purtroppo, non si può dire lo stesso di Worcestershire.

La high school in stile medievale di per sé non è malvagia, ma personalmente ho visto video fanmade su Facebook più riusciti. Fra l’altro, un’idea veramente vista e rivista, poco originale, e che è stata replicata in tutte le salse anche troppe volte.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Al contempo portare Shrek in questo contesto così da teen movie l’ho trovato abbastanza fuori luogo per il personaggio, unicamente finalizzato all’inserimento di momenti di comicità spicciola e slapstick – alcuni anche vagamente indovinati, altri veramente poco interessanti…

E parlando di Artie…

La strada obbligata

Artie in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come per Shrek, anche Artie imbocca una strada obbligata dalla sceneggiatura.

Uno dei punti di forza di Shrek è sempre stato di riuscire a costruire i rapporti fra i personaggi e i loro archi evolutivi in breve tempo. In Shrek Terzo, anche per una narrazione estremamente spezzettata, l’evoluzione di Artie funziona fino ad un certo punto.

Infatti, se tutto sommato il personaggio riesce a compiere la sua maturazione e diventare più sicuro di sé, appare molto più forzato invece il fatto che riesca così facilmente a prendersi sulle spalle una responsabilità come quella di essere un re per un paese sconosciuto…

L’esasperante girl power

In Shrek Terzo sembrano improvvisamente essersi resi conto che Fiona era un personaggio più secondario del dovuto.

Indubbiamente la scena della rivolta delle principesse è la parte più iconica del film e di per sé non è neanche un’idea scadente, ma ho anche sempre avuto la sensazione che fosse qualcosa di molto raffazzonato, e che andasse persino a banalizzare il senso dell’evoluzione di Fiona.

Fiona e Mildred in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Infatti il significato della sua emancipazione non era tanto quello di potersi salvare da sola – cosa di cui, come abbiamo detto, era capacissima di fare – ma più che altro di liberarsi da quella prigione mentale autoimposta dell’essere la principessa perfetta.

Al contrario qui le principesse sembrano rendersi conto di quanto sia stupido essere del tutto dipendenti dalla figura del principe, mostrando scene veramente interessanti come quella di Biancaneve, ma complessivamente un ragionamento molto più superficiale rispetto a quanto visto nel primo capitolo.

Il tema di fondo

Artie e Merlino in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Il tema di fondo di Shrek Terzo è fondamentalmente l’idea di emanciparsi dalla posizione sociale (auto)imposta.

Quindi si distribuisce la tematica comune di tutti e tre i film su più personaggi, idea che potrebbe essere anche complessivamente interessante, ma che in realtà ho trovato una scelta, arrivati a questo punto, francamente ridondante.

Nonostante questo, Azzurro non mi dispiace come villain.

Azzurro in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Per quanto preferisca i precedenti antagonisti, recuperare un personaggio negativo ma non troppo esplorato del secondo film e renderlo un villain in tutto e per tutto è stata secondo me la scelta migliore di tutta la pellicola.

Tanto più che Azzurro si autoproclama il paladino della diversità, ma in realtà agisce per motivi puramente egoistici, ovvero riuscire a recuperare lo status sociale che gli è stato tolto, facendo leva sull’insoddisfazione di personaggi che avrebbe disprezzato fino al giorno prima…

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2022 Animazione Avventura Azione Comico Commedia Drammatico Dreamworks Fantasy Film Il gatto con gli stivali

Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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The rise of the guardians – Cosa ci insegna l’infanzia

The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…

Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.

Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.

Di cosa parla The Rise of the guardians

I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The rise of the guardians?

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?

Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…

Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme a Rapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.

Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.

Jack Frost – La spensieratezza

Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.

Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.

Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.

Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.

E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…

North – La meraviglia

North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.

Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.

Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.

Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire

Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.

Easter – La speranza

Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.

Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.

Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.

Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.

E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…

Tooth – Il ricordo

Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.

Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.

Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.

Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…

Sandman – Il sogno

Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.

Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.

Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…

Pitch Black – L’incubo

Pitch Black significa buio pesto.

E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.

Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.

La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…

E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.

Attraverso lo sguardo

Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.

La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…

Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…

Il mascheramento smascherato

Tooth, doppiata da Isla Fisher, Jacke Frost, doppiato da Chris Pine, North, doppiato da Alec Baldwin, Easter, doppiato da Hugh Jackman in una scena di The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey

Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.

Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.

Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto viene mostrato. E questo di più non è per nulla immediato.

Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…