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Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…

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Il grande Lebowski – Il piccolo Drugo

Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen fu la pellicola che segnò definitivamente il successo di questo talentuoso duo di registi.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 15 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale47 milioni in tutto il mondo – diventando nel tempo un grandissimo cult.

Di cosa parla Il grande Lebowski?

Jeffrey Lebowski, detto il Drugo, è un annoiato nullafacente che vive la sua vita alla giornata. Ma una curiosa omonimia sarà l’inizio di una grande avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il grande Lebowski?

Jeff Bridges e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Assolutamente sì.

Il grande Lebowski fu solo la naturale continuazione di Fargo (1996), volendo ancora raccontare, con imprevedibili toni comici e surreali, una parentesi di irresistibile di violenza e criminalità all’interno di una vita quietamente soddisfacente…

…arricchendo la scena con una folla di personaggi sempre più improbabili e indimenticabili, in una storia a scatole cinesi di cui è anche difficile tenere il passo – ma proprio qui sta anche la bellezza del film.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Shock

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo vive la vita più serena che si possa immaginare.

Una seducente voce fuori campo ci introduce ad un panorama che sulla carta sembra quasi proprio di un western, con protagonista un eroe leggendario e imperscrutabile, che invece si rivela un adorabile fannullone, così pigro da pagare persino pochi centesimi di spesa con un assegno.

Pochi tocchi di colore che, come già dimostrato nel precedente Fargo, bastano per rendere poliedrico e iconico il protagonista, che seguiamo nella sua disimpegnata routine, senza un pensiero al mondo…

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

…che viene improvvisamente interrotta dalla prima delle numerose incursioni, in cui vengono affibbiati al nostro protagonista delle caratteristiche via via sempre meno credibili: se all’inizio possiamo credere che sia in debito con personaggi poco raccomandabili…

…molto meno verosimile che il Drugo abbia una moglie a carico – come lui ci tiene particolarmente a sottolineare – fra l’altro riducendo a non perdere la sua irresistibile vena ironica neanche mentre gli affondano la testa nel water:

Where’s the money, Lebowski? Where’s the fucking money, shithead?
(Drugo) It’s uh… uh… it’s down there somewhere, let me take another look.

Dove sono i soldi, Lebowski? Dove cazzo sono i soldi stronzo?
Sono…em…qua dentro da qualche parte, fammi dare un’altra occhiata.

Ma le preoccupazioni del Drugo sono molto limitate.

Tappeto

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Lebowski ha una sola preoccupazione.

Il suo tappeto rovinato.

Niente più che un fastidio che il protagonista inizialmente non vuole neanche affrontare, ma che infine si decide a risolvere incoraggiato da suoi altrettanto strambi amici, in particolare Walter, che non ha mai abbandonato il campo di battaglia – e così il suo senso di giustizia.

Così, con la visita al grande Lebowski, il Drugo si immerge in un universo di apparenze, in cui le presunte prove della bontà del miliardario – il suo impegno sociale e le sue amicizie politiche – vengono insistentemente sottolineate dall’ingenuo assistente del miliardario, Brandt.

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Ma, nonostante le sue grandi conquiste caritatevoli, il magnate risponde con grande insofferenza alle richieste del Drugo, convinto che sia solo l’ennesimo personaggio che cerca di immergere le mani nel suo importante portafoglio.

Ma se Drugo è un uomo dalle vedute ristrette, nondimeno si dimostra piuttosto abile nell’ottenere quello che vuole senza particolare sforzo: fare leva sulla genuina bontà del segretario e sulla sua assoluta convinzione della bontà del suo superiore…

…per portarsi a casa un tappeto pure più bello.

Ma i problemi sono appena iniziati.

Occasione

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Con Il grande Lebowski i fratelli Coen si prendono apertamente gioco di un topos narrativo piuttosto tipico.

Ovvero, la storia di un improbabile eroe.

In prima battuta sembra infatti che il Drugo sia riuscito senza sforzo a tornare alla sua vita di totale indifferenza, nonostante i diversi disturbi esterni che cercano insistentemente di ottenere la sua attenzione tramite la segreteria telefonica.

Jeff Bridges, Steve Buscemi e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

E così il suo godersi appieno il suo nuovo tappeto viene ancora una volta improvvisamente disturbato da una nuova intrusione, da un nuovo giocatore in questa sciocca prova di potere, che però inizialmente non viene rivelato.

Infatti la nostra attenzione – e quella del Drugo – viene immediatamente distolta dal ritorno in scena del vero Lebowski, che introduce il grande mistero della pellicola: il rapimento della seducente Bunny, la moglie trofeo.

E il suo quieto vivere ne è sempre più turbato…

Fuga

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è sempre più immerso in una storia da cui vorrebbe solo fuggire.

Con momenti di irresistibile ironia – come il cercapersone a cui il protagonista non può rispondere durante il torneo di bowling – si articola così il complesso scambio della valigetta, ancora più complicato dall’intrusione di Walter, che vorrebbe approfittarsi della situazione.

E il Drugo ne paga tutte le conseguenze.

Perdendo sia la valigetta sia la macchina, il protagonista si trova intrappolato in una rete di bugie ed intrighi da cui non riesce a districarsi, aggravato anche dall’intervento di un nuovo personaggio, Maude, la figlia di Lebowski, che conferma i sospetti sul finto rapimento.

Il mistero si infittisce con il coinvolgimento del giovane Larry Sellers, apparentemente autore del furto, il primo momento della grottesca ironia già sperimentata in Fargo, che spoglia il racconto di ogni vena drammatica, mettendo ancora più in luce l’improbabilità dei personaggi coinvolti.

Ma esiste una via d’uscita?

Bandolo

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è molto meno stupido di quanto si potrebbe credere.

Raccogliendo indirettamente gli indizi che gli arrivano quasi casualmente, il protagonista riesce a comporre più chiaramente il quadro della situazione, confermata dal ritorno di Bunny, che smaschera tutte le presunte vittime e criminali in scena. 

Ma l’elemento interessante, di totale disillusione del film, è che non vi è nessuna conseguenza per il grande Lebowski, se non l’essere definitivamente umiliato dalla paranoia di Walter, che pensa che tutto sia un inganno, persino la disabilità del finto miliardario.

Ancora più ridicolo è infine il confronto con i presunti rapitori, che decidono comunque, proprio per principio, di derubare i protagonisti, diventando autori dell’unica nota veramente amara della pellicola: la morte di Donny.

E così ancora una volta il film si conclude con una nota agrodolce, in cui il protagonista non è cambiato per nulla, ma la sua maggiore preoccupazione è ancora il prossimo torneo di bowling…

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Eraserhead – Storia di un parassita

Eraserhead (1977), noto anche come Eraserhead – La mente che cancella, è il primo film di David Lynch.

A fronte di un budget veramente minuscolo – appena 100 mila dollari, circa 500 mila oggi – è stato un sorprendente successo commerciale: 7 milioni in tutto il mondo (circa 36 oggi).

Di cosa parla Eraserhead?

Lo vorrei sapere anche io.

Provate a vedere il trailer e forse ci capirete qualcosa:

Vale la pena di vedere Eraserhead?

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Assolutamente sì.

In questa prima, piccola opera, si capiva già l’immensa portata di Lynch, che, con un budget inesistente, riuscì a portare in scena un piccolo capolavoro del surreale, che offre poche chiavi di lettura allo spettatore, proprio con la volontà di aprirsi ad un ventaglio potenzialmente infinito di interpretazioni.

Personalmente l’esperienza di visione è stata simile a Il ragazzo e l’airone (2023): per due terzi del film brancolavo nel buio, poi ho colto quello che penso sia il bandolo della matassa e ho cominciato a scavare per elaborare una possibile interpretazione.

E per me non c’è niente di più stimolante.

Nascita

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry vuole rinascere.

All’inizio il protagonista è tripartito: da una parte vi è l’uno unito, malato e deformato, immerso in una scena che riflette il degrado della sua condizione, che guarda la sua proiezione: l’umano incorrotto e il germe della corruzione, da cui si è infine scisso.

Entrambi crollano in una paesaggio in cui possono apparentemente vivere due esistenze distinte: Henry uomo può tornare al suo squallido appartamento, ma avere ancora tutta una vita da scrivere, magari con la fascinosa vicina…

…mentre il germe rimane sullo sfondo, in agguato.

E non possono fare a meno di ricongiungersi.

Costrizione

Jack Nance e Charlotte Stewart in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Tutto è corpo.

Henry scopre di essere stato invitato a cena da una donna che non vedeva da molto tempo, ma che lo aspetta ansioso per metterlo sotto processo davanti alla sua opprimente famiglia, che ormai ha preso fisicamente possesso della sua abitazione.

La casa è infatti come un corpo vivo, sensibile, in cui il taglio del pollo arrosto – rituale fondamentale nella famiglia media americana – diventa invece un tagliare, dissezionare e puntellare i fisici stessi degli ospiti.

Ed è solo l’antipasto per un corpo ancora più ingombrante.

Sogno

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Nonostante il bambino gli sia imposto, Henry fa di tutto per ignorarlo.

Ed è proprio così che lui stesso comincia ad assumere degli atteggiamenti infantili, nel suo distendersi gongolante sul letto, spiando attraverso il calorifero un piccolo teatro immaginario.

Un sogno che rappresenta una delle due facce del riscatto possibile: una donna ridente, che parla di paradiso e di beatitudine, mentre schiaccia compiaciuta quei germi che piovono sul palco come fiori dal pubblico…

Laurel Near in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

…e la donna avvenente e desiderabile, con cui infine Henry riesce ad intrattenersi, dimenticandosi totalmente del germe e unendosi a lei in questo brodo primordiale, pronto finalmente a rinascere.

Ma la rinascita incorrotta è veramente possibile?

Faccia

Il bambino in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry è il germe.

Nonostante cerchi costantemente di ignorarlo, di affidarlo esclusivamente alle cure della sua moglie imposta, l’orrore in fasce continua a gemere incessantemente, tanto da spingere la stessa Mary ad abbandonare esasperata il tetto domestico.

Un’esasperazione che però non gli impedisce prima di inginocchiarsi ai piedi del letto e cercare di cullare disperatamente Henry, per poi invadere anche lo stesso giaciglio prendendo la forma dell’ingombrante embrione.

Infatti lo sgorbio è una presenza talmente infestante da infine far cadere la maschera, la testa di Henry, che si rivela un fragile involucro che neanche può più godersi la bellezza dello spettacolo onirico, e che viene deriso dal germe stesso quando tenta di riavvicinarsi all’avvenente vicina.

La sua testa anzi diventa matrice per una gomma da cancellare, che viene testata immediatamente e con successo, proprio a sottolineare la natura aleatoria del protagonista umano, e il suo disperato tentativo di ricominciare da capo. 

E proprio per questo non gli conviene andare troppo a fondo…

Interiora

Testa in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

La curiosità di Henry è fatale.

Davanti alla risata insistente dell’embrione, il protagonista sceglie infine di aprire quello strano essere che rappresenta al contempo rinascita e annullamento, seme e germe, per indagarne le interiore e scoprirne la vera natura.

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

E così inevitabilmente Henry si immerge nella realtà della sua condizione, ritorna su quel pianeta, su quel nucleo che racchiude la sua vera faccia, l’io unito e deformato non può più mantenere viva la sua proiezione.

E così la stessa si annulla, immersa in una luce calda e accogliente, dove la donna del sogno lo aspetta a braccia aperte per avvolgerlo nella sua beatitudine, come unica forma incorrotta a cui questo è permesso.

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2024 Avventura Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Giallo Grottesco Humor Nero La musa Nuove Uscite Film Surreale Yorgos Lanthimos

Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.

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American Fiction – Il n**** artificiale

American Fiction (2023) di Cord Jefferson è un’opera profondamente provocatoria e satirica, che riflette sull’immagine degli afroamericani negli Stati Uniti contemporanei.

A fronte di un budget di 10 milioni di dollari, ha incassato 23 milioni in tutto il mondonon malissimo, considerato che, per esempio in Italia, è stato distribuito direttamente in streaming.

Di cosa parla American Fiction?

Thelonious Ellison, detto Monk, è uno scrittore afroamericano che non vuole essere ridotto alla sua etnia. Ma uno scherzo finito male gli farà cambiare prospettiva…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Fiction?

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Assolutamente sì.

American Fiction è una delle pellicole satiriche che riesce a riflettere con grande lucidità sul nuovo panorama statunitense dell’inclusione, con tutte le sue pesanti contraddizioni e ipocrisie.

Un film da leggere su più livelli, che intavola un dialogo continuo e sottilmente metanarrativo con lo spettatore, a cui richiede una visione più profonda dell’immediato impatto che si potrebbe avere ad una prima visione…

Outsider

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Monk è un outsider.

Anche la sua appartenenza etnica, il protagonista apre la pellicola con una forte provocazione, basata su una delle parole più impronunciabili ad oggi nella cultura statunitense: la cosiddetta n-word.

Già così Monk – e il film stesso – rivela l’incoerenza di fondo degli Stati Uniti contemporanei: un mondo – molto ironicamente – bianco e nero, in cui i bianchi dettano legge anche su come gli afrodiscendenti dovrebbero raccontarsi.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma Monk non ci sta.

Non volendo essere ridotto a semplice simbolo, non volendo scrivere solo per accontentare l’ignorante pubblico mainstream, il protagonista non vuole essere altro che sé stesso: uno scrittore, un intellettuale – e basta.

Ma, nonostante i suoi tentativi, la situazione è fuori dal suo controllo: nella libreria è vincolato ad essere uno dei tanti rappresentanti della cultura nera, ghettizzato in uno scaffale che vuole solo all’apparenza essere inclusivo.

Ma allora qual è l’alternativa?

Vittoria

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

La proposta vincente è quella di Sintara.

Un libro che – almeno all’apparenza – avalla tutti gli stereotipi peggiori della comunità nera, infarcendo la narrazione e i dialoghi di slang, di un inglese incredibilmente sgrammaticato, e di situazioni al limite del parodistico.

Eppure, è proprio il prodotto che i lettori sembrano desiderare: immobile davanti ad un pubblico estremamente coinvolto in questa narrazione che fino a prima aborriva, Monk capisce in quel momento qual è l’unica strada per il successo.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Eppure, tutto parte come uno scherzo.

Con dinamiche simili all’indimenticabile puntata di South Park The Tale of Scrotie McBoogerballs (14×02), Monk si avventura nella sua versione del romanzo di Sintara, in questo caso però con volontà esplicitamente provocatorie.

E invece proprio da questo romanzo parte al contempo la decostruzione e l’imprevedibile successo del protagonista, costretto a presentarsi in una versione sempre più improbabile del misterioso autore di un bestseller così deliziosamente provocatorio…

Banalizzarsi

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma perché Monk accetta questa nuova identità?

Parallelamente alla provocazione, American Fiction inserisce un importante elemento di realismo: il protagonista è incastrato in una situazione familiare piuttosto spinosa, fra l’infermità mentale della madre e l’imprevedibilità del fratello.

Così, schiacciato ancora una volta da quella società che lo mette sotto i riflettori solo quando si banalizza, Monk accetta a malincuore questa nuova situazione per ottenere abbastanza soldi per permettere alla genitrice di avere una vita dignitosa.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Proprio in questa scelta, American Fiction inserisce un ulteriore livello di lettura.

Arrivando al finale, lo spettatore potrebbe rimanere con un certo senso di vuoto, come se la pellicola non si fosse spinta abbastanza in là nella sua provocazione, rimanendo fin troppo ancorata al livello del realismo.

E, invece, sta proprio qui il punto: la storia raccontata è anche troppo realistica e attuale, e non ha bisogno di nessuna esagerazione, nessun grande colpo di scena come quelle immaginate nel finale ad uso e consumo del pubblico.

E, infatti, la drammaticità di fondo è già abbastanza dolorosa.

Indistinguibili

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Il romanzo di Sintara non è banale…

…e, soprattutto, non è stato scritto per i bianchi.

L’autrice si pone come una novella Toni Morrison per raccontare una parte della realtà afroamericana ancora oggi purtroppo molto presente e che merita di essere mostrata: gli emarginati, il ghetto, la specificità linguistica quasi comica…

Ed è quindi solo un problema dei lettori più ignoranti se non sono in grado di comprendere la differenza fondamentale fra un’opera unicamente provocatoria come Fuck e uno spaccato ben più studiato come We’s Lives in Da Ghetto.

Ma è forse proprio per colpa di romanzi come questo che la comunità afroamericana viene ridotta a pochi, facili e vendibili stereotipi, per decenni parodiati, e oggi riportati in auge come racconto reale e vibrante di una fetta importante del Paese.

E così il racconto di Sintara è solo una rappresentazione molto divertente della quotidianità del ghetto, così Fuck è la graffiante storia di un criminale, e Monk può solo guardare impotente un attore che indossa una delle poche vesti accettabili per un afroamericano nell’immaginario comune:

lo schiavo.

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L’uovo dell’angelo – Libertà di distruzione

L’uovo dell’angelo (1985) di Mamoru Oshii, anche conosciuto come Tenshi no tamago, è un lungometraggio anime dai toni misteriosi e dai contenuti fortemente simbolici.

La pellicola fu un direct-to-video e un tale insuccesso commerciale che per tre anni il regista non riuscì a trovare altri lavori.

Di cosa parla L’uovo dell’angelo?

Una bambina senza nome si aggira per una città desolata e distrutta con un solo obbiettivo: proteggere l’uovo che ha trovato.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uovo dell’angelo?

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Assolutamente sì.

L’opera di Mamoru Oshii è un racconto splendidamente simbolico, ma che lascia un ampio spazio, sia fisico che metaforico, allo spettatore per lasciarsi leggere ed interpretare, e, al contempo, rappresenta  il turbamento interiore del regista stesso.

Una regia impeccabile, che ora vagheggia in questi panorami desolati dal forte sapore gotico, ora indugia per lunghi momenti sui personaggi immobili immersi nei loro pensieri e nelle loro domande a cui, da soli, non potranno mai trovare una risposta.

Insomma, da non perdere.

Occhio

L’incipit de L’uovo dell’angelo è l’inizio della missione senza speranza.

Un occhio minaccioso e vigile indaga il comportamento del cavaliere, di questo soldato che porta addosso simboli evidentemente cristiani, ma in cui ha evidentemente smesso di credere, ormai disilluso delle promesse del suo Dio.

Il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Un personaggio che sembrerebbe l’ultimo flebile legame con la promessa disattesa di Noè e dell’Arca, rimasta in eterno bloccata in un limbo senza via d’uscita, rendendo gli uomini dimentichi non solo della loro missione, ma del loro stesso senso di reale…

…impegnati ad inseguire delle ombre di un passato inesistente.

E poi c’è la bambina.

Luce

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

L’infanzia è spesso al centro della mitologia cristiana per rappresentare il candore e la verginità.

Ma aprendo il personaggio ad un senso più ampio, la stessa può essere considerato l’ultimo baluardo ad un’umanità ancora effettivamente viva e genuinamente curiosa ora di esplorare la realtà circostante, la creazione divina, ora di credere nei suoi simboli e nelle sue promesse.

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Non è un caso che il suo personaggio sia spesso associato al simbolo dell’acqua, che in L’uovo dell’angelo ha una doppia valenza: se da una parte rappresenta semplicemente la vita, la rinascita, financo la liberazione del peccato di quell’umanità ormai perduta…

…al contempo ne simboleggia anche il vuoto, l’oblio, l’isolamento e infine la morte, viaggiando strettamente con questo doppio significato che esplode nel finale, in cui la morte della bambina rappresenta una distruzione, ma anche una rinascita potenziale.

Illusione

La bambina e il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Questa stringente simbologia è negata dal crociato.

Come il suo personaggio sembra l’unico a non essersi veramente dimenticato della promessa che avrebbe dovuto portare ad una rinascita dell’umano, lo stesso è sul precipizio di perdersi esattamente come tutti gli altri, derubricando la storia a pura leggenda, a pura illusione.

L’apice si raggiunge quando il soldato ipotizza persino di vivere all’interno di un’illusione, di un sogno da cui non riesce a liberarsi, nonostante la bambina cerchi costantemente di accompagnarlo a riscoprire i simboli che le hanno permesso di continuare a credere.

Ma proprio in quei simboli si perdono.

La bambina e il crociato in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

I protagonisti si domandano costantemente e vicendevolmente la loro identità, ma non sanno mai rispondere.

Infatti loro stessi, ad un livello più o meno metanarrativo, sono dei simboli che non hanno un’identità propria, ma che rappresentano il cammino dell’umano in due direzioni totalmente opposte: speranza e disillusione.

Quindi, ad un livello strettamente cristiano, la bambina è speranzosa del ritorno di Dio, della rinascita del Salvatore – l’uccello – che porterà alla rinascita dell’umanità, alla scoperta della terra da abitare, mentre il soldato rappresenta la crisi religiosa e l’allontanamento da Dio.

Ciclo

La bambina in una scena di L'uovo dell'angelo (1985) di Mamoru Oshii

Il crociato non riesce più a credere.

Per questo infine sceglie di distruggere l’Uovo, quella prova materiale che quel Dio che pensa che l’abbia abbandonato è ancora presente, quella nuova promessa di cui non vuole illudersi, e lo fa proprio con gli stessi simboli cristiani – il fucile a forma di croce – creando un evidente paradosso.

Lo stesso si definisce ancora più strettamente proprio nella suddetta dinamica del finale, che racconta una sorta di ciclo inscalfibile di vita e morte, disillusione e speranza, che non potrà mai veramente essere scardinato, neanche dall’azione più violenza, più distruttiva e più disperata.

Così, anche dalla morte di un uomo sulla croce, l’umanità potrà sempre rinascere.

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Avventura Azione Buddy Movie Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Film Giallo Grottesco La trilogia del cornetto Racconto di formazione Surreale

Hot Fuzz – L’omicidio quotidiano

Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.

A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Hot Fuzz?

Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hot Fuzz?

Assolutamente sì.

Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead (2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.

Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.

Insomma, da non perdere.

Inverso 

Angel sulle prime appare artificioso e irreale.

Ma è del tutto voluto.

Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…

…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.

In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.

Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.

Contrasto

Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.

Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.

Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…

Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.

Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.

Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).

Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.

Superficie

Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.

E Danny ne è la principale vittima.

La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.

Per questo, Angel è la sua guida.

Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.

Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.

Ma anche Angel pecca di superficialità.

Ovvio

La soluzione al mistero sembra già scritta.

Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.

E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.

Ma è troppo ovvio.

Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.

E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.

Eroe

Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.

Deve diventare un eroe.

E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…

finché non convince anche Angel a farne parte.

Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.

In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.

Cosa ci insegna Hot Fuzz?

La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.

Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.

Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…

…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.

Hot Fuzz ketchup

Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.

Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.

Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.

Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.

Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.

Hot Fuzz Zombie

Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.

Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.

Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.

Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.

Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…

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Millennium Actress – Una vita da ricordare

Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue (1997).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.

Di cosa parla Millennium Actress?

Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Millennium Actress?

Chiyoko Fujiwara come Gheisha in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Assolutamente sì.

Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…

…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.

Insomma, da non perdere.

Macerie

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.

Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.

Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.

E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…

Chiave

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Chiyoko nasce in un mondo turbolento.

Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.

Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.

Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.

Ma, ancora una volta, è un destino imposto.

Destino

Chiyoko non può scappare.

Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.

Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…

Ti odio più di quanto tu possa sopportare, e ti amo più di quanto io possa sopportare.

…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.

Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.

Perdita

Chiyoko Fujiwara nelle macerie in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.

La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammatica e realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.

Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.

Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…

…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.

Scoperta

L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.

Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.

Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.

Chiyoko Fujiwara sulla luna in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.

Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…

Perché dopo tutto, è il fatto di inseguirlo ciò che amo davvero

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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Avventura Cinema per ragazzi Drammatico Fantastico Film Polar Express Surreale

Polar Express – In cosa credi?

Polar Express (2004) è una delle opere più iconiche della filmografia di Robert Zemeckis – il primo dei due film natalizi che produrrà nel giro di pochi anni insieme a A Christmas Carol (2009).

A fronte di un budget piuttosto ingente per un prodotto animato – 150 milioni di dollari – ebbe un riscontro discreto al botteghino: appena 314 milioni di incasso.

Di cosa parla Polar Express?

Un bambino senza nome, proprio la sera della Vigilia, sembra non riuscire più a credere al Natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Polar Express?

Capotreno in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il motivo per cui probabilmente Polar Express fu un discreto flop è che non è per nulla un film di Natale in senso classico, né un film propriamente per famiglie: le dinamiche sfiorano il surreale, le atmosfere sono più angoscianti che gioiose, e, sopratutto, la morale è molto atipica e non semplicissima da comprendere.

Infatti, Zemeckis sceglie di portare in scena una concezione del Natale che vada oltre il mero ambito materiale, raccontando degli insegnamenti piuttosto importanti e profondi sul vero significato che dovrebbe avere il periodo natalizio.

Insomma, una pellicola da riscoprire.

Il dubbio

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

I primi minuti di Polar Express sono quelli che forse meglio si adattano ad un pubblico infantile.

Infatti, l’incipit racconta dei dubbi del tutto legittimi e naturali che cominciano ad assalire i bambini quando si approcciano al passaggio all’adolescenza, ovvero il momento più tragico della crescita che rappresenta la fine del mondo dei sogni.

Tuttavia, il protagonista non sembra avere un atteggiamento disilluso e distruttivo, ma piuttosto speranzoso: sembra insomma che cerchi in ogni modo di riuscire a credere al Natale e alla narrativa che lo circonda.

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ma il Polar Express non arriva per convincerlo.

Il conducente del treno gli offre semplicemente la possibilità di salire sul treno e per questo riuscire a vedere con una nuova prospettiva il senso della festività. Tuttavia, non insiste più del dovuto: davanti all’incertezza del bambino, semplicemente, lo lascia a sé stesso.

E infatti è il protagonista che infine decide di accettare questa nuova avventura.

La tasca

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il viaggio in treno è funzionale al mettere alla prova il protagonista – e non solo lui.

Il bambino si immerge in un panorama particolarmente festoso, ma in cui riesce a fatica a prendere parte tanto che, paradossalmente, le scene iniziali di questa sequenza sono quelle più propriamente natalizie e adatte al target di riferimento – nello specifico, il numero musicale della cioccolata.

Al contrario, più sottili le dinamiche riguardo alla tasca bucata rappresentano l’atteggiamento del protagonista: nonostante il biglietto sia presente nella tasca sana, il bambino prima di tutto cerca nella tasca fallata.

Insomma, gli occhi del protagonista sono fissi verso il lato più inevitabilmente e irreparabilmente disilluso del suo animo, sempre alla ricerca di una prova materiale che c’è ancora qualcosa in cui credere.

Per questo, i suoi coprotagonisti sono fondamentali.

I due opposti

Bambina in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

La ragazzina senza nome e Billy rappresentano due opposti.

La bambina, che fin da subito guarda il protagonista in maniera divertita e concitata, è l’unica che ha già compreso il vero valore del Natale – e che rappresenta la morale del film: non una semplice festa consumistica e materiale, ma un’occasione per essere migliori.

Non a caso, quando cerca di convincere Billy sulla bellezza delle festività, non cita mai i regali, ma piuttosto fa riferimento ai sentimenti positivi e alle atmosfere che rappresentano il periodo natalizio.

Billy in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Invece, Billy è molto più simile al protagonista.

Il suo personaggio non è sicuro di voler salire sul Polar Express – e quindi di voler credere al Natale – perché, essendo evidentemente molto povero, si rende conto che il periodo natalizio è molto meno piacevole e festoso di quanto si racconti.

Anche se non viene detto esplicitamente, è evidente che con ogni probabilità il sentimento primario di Billy verso il Natale non sia la gioia, ma l’invidia, l’invidia di non poter veramente vivere il periodo con dolci e balocchi, così da sottolineare ancora di più le differenze fra lui e gli altri bambini.

Il biglietto fantasma

Le dinamiche legate al biglietto e all’arresto del treno sono emblematiche.

In entrambi i casi, il protagonista dimostra di custodire dentro di sé i sentimenti che dovrebbero essere propri del Natale: aiutare gli altri – fermando il treno per far salire Billy – e essere onesti e altruisti – cercando sbadatamente di dare alla bambina il suo biglietto smarrito.

Da questo momento, parte la sequenza più surreale della pellicola.

La bambina scompare misteriosamente con il capotreno, e il protagonista sceglie di seguirla per aiutarla, con un susseguirsi di scene che abbracciano più di tutte il taglio onirico e surreale della pellicola.

Fantasma in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

In particolare, per quanto riguarda il fantasma.

Si comprende a posteriori che quel fantasma è assimilabile ai tre spettri che visitano Scrooge in A Christmas Carol (1843), ed infatti è uno dei personaggi che mette più alla prova il protagonista, quasi sbeffeggiandolo.

Non a caso, il fantasma chiede al bambino se crede agli spettri – quindi a lui stesso – proprio a dimostrargli come la sua disillusione nei confronti del Natale sia orientata nel verso sbagliato: la sua adesione allo spirito natalizio è sotto i suoi occhi.

Il freddo Natale

Come per la maggior parte del film, la città del Natale è più lugubre che natalizia.

Infatti, i tre protagonisti incidentalmente entrano all’interno della fabbrica di Babbo Natale, e vedono da vicino le dinamiche del dietro le quinte, muovendosi in ambienti freddi e vuoti, spiando gli elfi che si comportano in maniera quasi maligna.

Questa esplorazione è guidata dalla bambina – l’unico personaggio che conosce davvero il senso del Natale – che riesce a sentire il suono delle campanelle, rappresentative appunto dell’essere effettivamente vicini allo spirito natalizio.

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il seguente arrivo di Babbo Natale è un momento genuinamente angosciante, in cui letteralmente il bambino non riesce a vederlo, nonostante questo sia davanti ai suoi occhi – e, allo stesso modo, non riesce a sentire la campanella, nonostante sia accanto al suo orecchio.

E qui avviene la svolta.

Il protagonista, dopo l’avventura rivelatoria che ha appena vissuto, si convince infine a riabbracciare lo spirito del Natale, al punto da chiedere a Babbo Natale proprio di poter portare con sé qualcosa che glielo confermi.

Per questo il finale è rivelatorio.

L’insegnamento immateriale

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ognuno dei protagonisti ha imparato qualcosa.

Anche se la bambina sembrava quella che avesse meno bisogno di apprendere qualcosa, comunque riceve infine un incoraggiamento da parte del capotreno: continuare a credere in sé stessa ed essere una guida per gli altri.

Più complesso è il senso dell’insegnamento di Billy: sul biglietto è scritto count on fare affidamento: il bambino deve ricominciare a credere nel Natale e sulla buona volontà delle altre persone, smettendo di chiudersi in quella sconsolante disillusione.

Ma, sopratutto, si vuole insegnare a Billy – e agli altri bambini – quanto il Natale non sia solamente una festa materiale, basata sui regali che si riceve – e infatti il bambino deve essere capace di attendere il giusto tempo per aprire il suo regalo.

Ma l’insegnamento più importante è quello del protagonista.

Il bambino deve ricominciare a credere, ma non a credere semplicemente a Babbo Natale, ma piuttosto a saper mantenere nel suo animo gli insegnamenti che il Natale dovrebbe portare, indipendentemente dai suoi simboli più materiali.

Per questo la campanella gli viene ridata con una sorta di ammonimento, un feticcio da conservare per essere sicuro di saper ancora credere, a differenza proprio dei suoi genitori e di sua sorella: chi prima chi dopo, tutti loro smetteranno di sentire il suono della stessa.

In questo senso, è più che altro un insegnamento per gli adulti sul non limitare il senso del Natale all’ambito più materiale, e così di abbandonare in fretta il senso di meraviglia e di speranza che caratterizza l’infanzia, ma di mantenere quei sentimenti – e insegnamenti – per tutta la vita.