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Oliver & Company – Dietro una maschera

Oliver & Company (1988) di George Scribner è il ventisettesimo Classico Disney nonché l’ultimo film considerato propriamente parte del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget abbastanza importante – 31 milioni di dollari – ebbe, al tempo, un riscontro piuttosto scarso: appena 53 milioni di dollari alla sua prima uscita.

Di cosa parla Oliver & Company?

Oliver è un gattino che sogna di avere una famiglia tutta sua. Ma forse non andrà tutto come sperato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Oliver & Company?

Dodger e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Assolutamente sì.

Oliver & Company è una parentesi piuttosto interessante della storia Disney: un breve e isolato esperimento di rendere un Classico un musical a tutti gli effetti, con un’ironia piuttosto brillante ed una dose di violenza decisamente sorprendente visto il target di riferimento.

Di fatto, la pellicola è un thriller mascherato da film per l’infanzia, che riesce in più momenti a nascondersi dietro ad un umorismo leggero e spensierato ed un topos narrativo piuttosto classico.

Insomma, da riscoprire.

Durezza

Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Oliver vive in un mondo ostile.

L’apertura della pellicola è piuttosto esplicativa per raccontare da una parte il disperato desiderio del protagonista di trovare un nucleo di appartenenza, dall’altra il facile infrangersi di un sogno davanti ad una realtà che lo esclude fin dal primo momento.

Per questo Why Should I Worry? è una delle grandi maschere dietro cui il film si nasconde.

Dodger in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Dopo averci fatto stringere il cuore per la sorte infelice di Oliver, il film ci accompagna alla conoscenza della sua nuova famiglia, introdotta con il grande inganno di Dodger, che si racconta fin da subito come un abile approfittatore, anche a costo di rivalersi sui più deboli.

E proprio il racconto di una vita di strada spensierata è un perno fondamentale della pellicola nel suo volersi in parte raccontare come un’avventura dai toni spensierati e giocosi, un chiaro tentativo di ammorbidire diversi frangenti successivi per nulla felici, anzi piuttosto angoscianti e crudelmente realistici.

E, infatti, la crudeltà del film è tutta da scoprire.

Reale

Il racconto di Oliver & Company è, per certi versi, fin troppo reale.

Anche se il film non vuole essere mai troppo esplicito in questo senso, appare chiaro che Fagin si sia fatto intrappolare da uno strozzino che non sarà mai capace di ripagare, e che ora arranca nel disperato tentativo di raccogliere dei rottami per sfuggire alla morte certa.

La sua figura è un altro elemento fondamentale e funzionale alla trama per smorzare la violenza della maggior parte delle scene in cui è coinvolto, con una comicità slapstick piuttosto semplice, ma anche complessivamente ben integrata nella narrazione.

Ed è una scelta assolutamente fondamentale di fronte a frangenti così estremi – come la morte dei due cani di Sikes – da essere per forza portati fuori scena, rimanendo vivissimi nella mente dello spettatore, soprattutto nei momenti in cui i cani sono usati come metodo di punizione.

E il coinvolgimento di Jenny non è che ulteriore elemento di angoscia della pellicola, per cui Sikes non si fa scrupoli neanche nel rapire una bambina pur di mettersi qualche soldo in più in tasca, portando ad un adrenalinico finale che riesca a funzionare così bene per un unico motivo: l’ottima gestione della coralità.

Spazio

I cani in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Gestire un film corale è una sfida notoriamente complessa.

Ci si trova spesso davanti a pellicole che vorrebbero far dialogare le diverse parti in scena e arricchire il racconto popolandolo di diverse figure, ma che finiscono per fare importanza solo ai pochi, effettivi protagonisti – lasciando sullo sfondo tutto il resto.

Al contrario Oliver & Company riesce a dare a tutti il giusto spazio, definendo i membri della gang con pochi ma funzionali tocchi, senza mai perdersi in caratterizzazioni banali o stereotipate – anche se ce ne sarebbero spesso tutti i presupposti – rendendo tutti i membri, nel loro piccolo, assolutamente indispensabili.

Georgette in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

In questo modo, il film assume effettivamente la natura di storia corale, con anche degli importanti cambiamenti di passo di figure come Georgette, introdotta come villain secondario – o di passaggio – ma che infine sceglie di partecipare al salvataggio della sua piccola padrona.

E proprio intorno a questo personaggio che ruota uno dei pericoli più importanti della pellicola.

Incantesimo

Fagin e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Quando si ha fra le mani dei personaggi grigi, soprattutto in film per l’infanzia, lo scioglimento è la parte più rischiosa.

Infatti capita più spesso del dovuto che i protagonisti della storia, anche quelli più spiccatamente negativi, vengano come colpiti come da un incantesimo nella conclusione della pellicola, che li porta sotto la rassicurante morale del tutti possono essere migliori, negandogli il passaggio fondamentale in questa direzione.

Invece la bellezza del finale di Oliver & Company è che, di fatto, nulla cambia.

Come mi aspettavo una chiusura alla Lilli e il vagabondo (1955), in cui si arrivava senza farsi troppi problemi al punto di arrivo designato – e moralmente accettabile – in realtà lo status quo rimane sostanzialmente immutato: a fronte della significativa scelta di Oliver di rimanere con Jenny, tutti gli altri continuano, anzi esaltano la loro vita di strada.

Così infine Oliver e Dodger si devono separare un po’ a malincuore, ma nella consapevolezza di aver scelto la vita più giusta per loro, senza nessuna forzatura, come ben racconta lo screzio fra Goergette e Tito, che si rende infine conto di come lui e la barboncina siano di fatto incompatibili e che non possano forzarsi l’uno sull’altro.

E questa è una morale tanto più importante di un qualsiasi happy ending idealizzato.

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Basil L’investigatopo – L’atto centrale

Basil L’investigatopo (1986) di Burny Mattison, David Michener, Ron Clements e John Musker è il ventiseiesimo Classico Disney.

A fronte di un budget medio per il periodo – 14 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Basil L’investigatopo?

Londra, 1897. Hiram Flaversham è un giocattolaio particolarmente abile, che per questo entra nel mirino di un personaggio non proprio raccomandabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Basil L’investigatopo?

Assolutamente sì.

Il ventiseiesimo Classico Disney è, arrivati a questo punto, uno dei migliori prodotti di questa fase: una narrazione puntuale e avvincente, che riesce a seguire strade già battute, ma adattandole ottimamente all’economia narrativa e al poco minutaggio a disposizione.

Nondimeno i personaggi principali – Basil e Ratigan – sono due figure incredibilmente memorabili: l’uno che prende le mosse da Sherlock Holmes in maniera irresistibilmente comica, e l’altro che riesce ad incarnare uno dei villain più iconici della Disney, anche per la violenza efferata che lo caratterizza in non pochi momenti.

Insomma, da riscoprire.

Medias res

Uno dei meriti più importanti di Basil L’investigatopo è la gestione del tempo.

Nella consapevolezza di godere un minutaggio limitato, la pellicola riesce ad incastrare una storia lineare all’interno di una narrazione già avviata: ci bastano così poche scene per introdurre Hiram Flaversham e la sua abilità artigiana, che diventano subito oggetto dell’interesse di un misterioso personaggio nell’ombra…

E, come tutte le scene di violenza della pellicola, il rapimento del giocattolaio è ottimamente orchestrato fuori scena, raccontato ora attraverso le ombre drammatiche proiettate sul muro, ora tramite i suoni che la disperata Olivia è costretta ad ascoltare all’interno della credenza.

Ma questa è solo la scintilla iniziale per portarci alla conoscenza di Topson e conseguentemente di Basil, introdotti con lo stesso simpatico espediente di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) – le versioni più piccole dei corrispettivi umani che si vedono brevemente in scena.

E il primo approccio con Basil è particolarmente brillante.

Olivia e Topson entrano nella vita dell’investigatore quando questo è già invischiato nella faida con Ratigan, quando sta già cercando di incastrarlo seguendo una logica comprensibile solo a lui, che però si rivela infine fallimentare, rendendo ancora più importante il caso di Olivia.

Infatti questa presentazione di Basil fa gioco alla trama per riuscire ad essere credibile nella scelta subitanea del protagonista di prendersi sulle spalle il caso, non andando fra l’altro ad intaccare la sua figura di stravagante investigatore totalmente concentrato su se stesso e sulla sua bravura.

Ma Ratigan merita un discorso a parte.

Ombra

Il villain di Basil L’investigatopo è uno dei più riusciti di questa fase.

Anche in questo caso bastano pochi tocchi  per caratterizzarlo come personaggio estremamente vanesio ed egocentrico, che si è costruito una nutrita cerchia di sostenitori da cui desidera solamente il costante e cieco servilismo, mettendosi sempre al centro della scena – e della canzone – con la sua impotente presenza.

E la stessa è significativa anche per definire un altro lato del personaggio.

Ratigan non è un topo, ma bensì un ratto, quindi un animale decisamente più vile e deprecabile, natura che però cerca di sublimare sia nell’aspetto estremamente curato e pomposo, sia anche nell’agire, non sporcandosi fino all’ultimo mai veramente le zampe.

Infatti la sciocca mancanza di uno dei suoi scagnozzi nel chiamarlo ratto porta allo svelamento della sua arma segreta, un enorme gatto che emerge in scena con una presentazione degna di un kaiju, e che diventa lo strumento per il concretizzarsi ancora una volta di una violenza piuttosto efferata e fuori scena…

…che è prima di tutto mentale: come Ratigan potrebbe facilmente e direttamente punire da sé i suoi nemici – come si vedrà a fine film – preferisce invece distruggerli prima mentalmente – ora con la campanella, ora con le minacce velate a Flaversham – proprio nel suo volersi raccontare come villain efferato ma elegante nel suo agire. 

Tanto più che il suo piano non è così immediato…

Pista

La gestione del piano del villain è un ostacolo non facile da aggirare.

Spesso la stessa diventa o un mezzo per la maturazione dei personaggi – come in Taron e la pentola magica (1985) – o un semplice ostacolo e minaccia in divenire – in Gli Aristogatti (1970) quanto in Red e Toby (1981) – ma difficilmente, soprattutto all’interno di un film animato per un pubblico infantile, diventa centrale alla storia.

Per Basil l’investigatopo è tutto il contrario.

Il piano di Ratigan viene svelato progressivamente pezzo per pezzo e nei suoi inquietanti dettagli, intrecciandosi perfettamente con l’investigazione di Basil, in cui dà prova delle sue capacità di brillante investigatore, ma senza mai eccedere nel raccontarlo come protagonista imbattibile, anzi.

La tridimensionalità del personaggio e la stretta correlazione con il suo antagonista è data proprio dai suoi errori.

Per quanto Basil riesca a condurre abilmente l’indagine ed ad orchestrare furbi travestimenti e macchinazioni, finisce comunque nella trappola di Ratigan, che si misura con lui proprio con i medesimi strumenti mentali, riuscendo prima a sottrargli Olivia, e poi a renderlo parte del suo stesso piano.

E così si arriva ad un momento di passaggio classico, ma che non manca di qualche sorpresa.

Metamorfosi

Il frangente del fallimento è fondamentale nella narrazione dell’eroe

Infatti il protagonista non può immediatamente risultare vincitore, anzi più viene sconfitto in prima battuta, più diventa interessante la sua rinascita che lo porta allo scontro finale – per cui gli esempi in questo senso, da Hercules (1993) fino al Re Leone (1998), si sprecano.

E proprio questo succede a Basil, che viene intrappolato nel congegno mortale di Ratigan e si rinchiude in sé stesso, arrendendosi alla sua clamorosa sconfitta, venendo poi fatto rinsavire dai suoi aiutanti – Topson e in parte Olivia – riuscendo nuovamente ad utilizzare le sue capacità mentali per trovare una falla nella macchina del suo nemico.

Il successivo frangente è perfetta nella conclusione del climax narrativo del piano di Ratingan, che lo identifica ancora come antagonista mentale, e non fisico – non prende il potere per la forza, ma sostituisce la regina con l’inganno – mentre risulta più debole nella sua sconfitta da parte di Basil, fin troppo veloce e non adeguatamente costruita.

Ma non è finita qui.

La vera sconfitta di Ratigan avviene solo quando abbandona le vesti da antagonista macchinatore e crolla nel suo più importante incubo: non essere altro che un malefico e brutale ratto, che si rifà su Basil unicamente con la sua forza spropositata che finalmente porta in scena.

E così la spettacolare scena del Big Bang segna l’ultimo momento della pellicola e la definitiva sconfitta del villain, regalandoci un simpatico prologo che aprirebbe sulla carta la via a nuovi film, ma senza che, ad oggi, si siano mai concretizzati…

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Le avventure di Bianca e Bernie – La pezza grottesca

Le avventure di Bianca e Bernie (1977) di Wolfgang Reitherman, John Lounsbery e Art Stevens è il ventitreesimo Classico Disney, nonché il primo ad aver avuto un sequel.

A fronte di un budget abbastanza significativo – 7.5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 48 milioni di dollari nella sua prima uscita.

Di cosa parla Le avventure di Bianca e Bernie?

Penny è una bambina orfana tenuta prigioniera dalla perfida Madame Medusa. E le persone su cui può contare sono davvero piccolissime…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Bianca e Bernie?

Bianca in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

In generale, sì.

Le avventure di Bianca e Bernie è forse il film che ha più sofferto del Medioevo Disney – anzi, forse è il primo film da considerare propriamente parte dello stesso – in quanto vive di idee anche ottime, momenti ormai diventati iconici e indimenticabili nella memoria collettiva…

…ma che soffre di non pochi difetti derivati probabilmente da una gestione produttiva piuttosto frettolosa e disordinata, con degli errori che potrebbero appartenere ad un qualunque prodotto di scarsa qualità di questo periodo, non certo a Casa Disney.

In ogni caso, merita un’occasione.

Spunto

Inizio di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

Le avventure di Bianca e Bernie fa a gara con Bambi (1942) per l’apertura più struggente.

Infatti non sappiamo di fatto niente di questa bambina, eppure la sua disperata richiesta di aiuto, con in sottofondo una melodia struggente che ci accompagna per tutti i titoli di testa, ci fa inevitabilmente stringere il cuore per un personaggio di cui non sapremo quasi nulla fino a metà film.

Infatti, i veri protagonisti devono ancora arrivare.

Il lato probabilmente più vincente della pellicola prende le mosse dall’ottimo La carica dei 101 (1961), creando un delizioso microcosmo sotterraneo di minuscoli agenti speciali, di salvatori certificati – rescuers in originale – che si espanderà – pur con qualche inciampo – lungo tutta la pellicola.

Ed è ancora più vincente come i protagonisti non siano inizialmente presentati come una coppia, ma anzi come due perfetti sconosciuti la cui caratterizzazione è totalmente indipendente, ma infine inevitabilmente interconnessa: come Bernie è un inserviente un po’ maldestro, ma che non si tira mai indietro…

Bernie sale sulla bottiglia in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

…Bianca è una fascinosa agente che ha gli occhi di tutti i personaggi addosso fin dalla sua prima apparizione, ma che sceglie consapevolmente di avere come suo compagno l’ultimo gradino della scala sociale, ma che ha saputo più di tutti dimostrare il suo valore nei pochi minuti in cui è stato introdotto.

Così la parte centrale ha un twist inaspettato.

Mistero

L’atto centrale è forse quello più centrato dell’intera pellicola.

Invece che dare immediatamente le indicazioni ai protagonisti per trovare il proprio obbiettivo, la pellicola imbastisce un’ottima trama mistery che riporta i due piccoli personaggi a seguire le tracce della bambina scomparsa, e così a tratteggiarne il carattere – pur senza riuscirci fino in fondo per via di un ultimo atto abbastanza claudicante.

Così scopriamo che Penny è vittima di una doppia ingiustizia: non solo è stata rapita, ma viene fatto credere che in realtà sia scappata, ormai insoddisfatta di un’esistenza in cui sembra impossibile trovare una nuova famiglia, nel suo essere anche piuttosto determinata, come ben dimostrano i successivi e continui tentativi di fuga.

Madame Medusa al telefono in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

Il punto di arrivo è infine la conoscenza di Madame Medusa, personaggio che riesce al contempo ad essere un buon villain, rafforzato anche dall’ambiente – il negozio d’antiquariato crepuscolare, poi la angosciante palude – e dai personaggi di cui si circonda – i temibili coccodrilli Bruto e …

…ma anche peccare nell’essere un palese riciclo di Crudelia Demon – da cui alcune sequenze, particolarmente quelle della macchina, che sono sostanzialmente le stesse – pur nella sua iconico stile decadente e nel suo carattere incontrollabile, quasi capriccioso, che ne definisce la insostenibile avidità.

E giungiamo così infine all’ultimo atto.

Monco

Madame Medusa allo specchio in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

L’ultimo atto della pellicola sembra monco in molti punti.

Se infatti l’elemento più vincente è la costruzione ottimamente orchestrata della situazione da risolvere, aggravata dai capricci di Medusa, che non desidera un qualunque dei gioielli ritrovati da Penny, ma bensì uno specifico e introvabile diamante, con anche la parvenza di un piano da mettere in atto…

…lo stesso si perde in snodi narrativi che paiono quasi improvvisati, aggravati da degli eventi errori di prospettiva – topi, marmotte, tartarughe e gufi sono tutti della stessa dimensione – e dall’inserimento di personaggi aggiuntivi nel ruolo di aiutanti dei protagonisti che appaiono in ultima analisi totalmente superflui.

Una tendenza che ben si esplica nel finale.

Anche qui si alterna la sequenza dell’avventura della caverna veramente ben pensata, in cui vediamo concretizzarsi le paure di Penny – e di qualunque bambino al suo posto – oltre a definire in maniera puntuale perché l’intervento dei piccoli protagonisti era così fondamentale…

…ad uno scioglimento della vicenda che appare veramente improvvisato, con la carica dei personaggi di riserva che entra in scena nel momento giusto per dare una chiusura alla storia, accompagnandoci ad un epilogo sicuramente appagante, ma che poteva essere costruito in maniera decisamente più vincente.

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Dramma familiare Drammatico Film Giallo Mistero Thriller

Madre – L’occhio della madre

Madre (2009) di Bong Joon-ho è un thriller poliziesco e il suo terzo film in lingua coreana.

A fronte di un budget piccolissimo – 5 milioni di dollari – anche per la sua distribuzione limitata, ha avuto un riscontro piccolo ma significativo: 17 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Madre?

Yoon Do-joon è un ragazzo con una disabilità mentale totalmente sotto la protezione della madre, che farebbe qualunque cosa tenerlo al sicuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Madre?

Assolutamente sì.

Al pari di Memorie di un assassino (2003), anche Madre è un incontro piuttosto curioso – ma assolutamente vincente – fra un thriller sanguinoso e una commedia nera dai toni a tratti estremamente amari, con un utilizzo del climax e dei colpi di scena semplicemente perfetto.

Così Bong Joon-ho riesce ancora una volta – e costantemente – a stupire lo spettatore sbarigliando le carte in tavola in maniera assolutamente inaspettata, e includendo al contempo la sua onnipresente riflessione sulla problematica situazione sociale in Sud Corea.

Insomma, da non perdere.

Guardia

La Madre è un guardiano.

La costante soggettiva della donna nei confronti del figlio dall’altro lato della strada è indicativa della sua onnipresente sorveglianza, che, con lo scontro con la macchina, ne svela l’insita fragilità, che la fa scoppiare in urla di disperazione.

Ed farebbe davvero di tutto per proteggerlo.

Un personaggio in realtà rappresentativo delle angosce di una classe media estremamente impoverita, che vive alla giornata, tramite sotterfugi e lavori improvvisati – e spesso, neanche del tutto legali – necessari per la propria sopravvivenza.

Un quadro che si carica di note anche più drammatiche con la scoperta del tentato omicidio – suicidio, dettato da una disperazione crescente verso una situazione economica irrisolvibile – che il figlio rigetta nella sua totale inconsapevolezza.

E, infatti, Do-joon è incontrollabile.

Innocuo

Do-joon è un ragazzo…innocuo?

Nonostante il continuo susseguirsi di controlli scrupolosi da parte della Madre, il protagonista appare come una figura profondamente imprevedibile, che fin da subito mette in scena la sua violenza sopita quanto inconsapevole, che esplode improvvisamente in più momenti della pellicola.

Eppure, al contempo, il film è piuttosto credibile nel raccontarci questi frangenti come tutto sommato innocui, e a farci credere che Do-joon in realtà non farebbe male neanche ad una mosca, motivo per cui infine ci dispiacciamo nel vederlo bistrattato dalla polizia.

Anzi, ci sembra tanto più prevedibile la sua inconsapevole firma all’atto di confessione, apparentemente dovuto alla violenza ingiusta da parte dei poliziotti – già ampiamente esplorata in Memorie di un assassino – che il ragazzo legge come un atto di rivendicazione, come ben racconta la sua battuta:

Posso essere anche cattivo.

Eppure, c’è un fondo di verità che non cogliamo subito…

Strada

La strada per scoprire il vero colpevole sembra ormai tracciata.

Infatti Bong Joon-ho ci fa imboccare un percorso del tutto illusorio di svelamento dei veri colpevoli: prima lo scapestrato compagno di Do-joon, poi la pista più fertile dei clienti della vittima, che raccontano una rete sotterranea di prostituzione minorile, in cui omicidio non è che l’ovvia conseguenza.

Insomma, ancora una volta il regista ci intrappola nel suo inganno delle semplicità e prevedibilità della storia, prendendo le mosse da un topos narrativo piuttosto comune e dalla facile risoluzione, che ci porta facilmente a empatizzare con l’apprensiva Madre.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista, nella sua piccola statura, riesca abilmente ad agire nell’ombra, mai cercando lo scontro fisico, ma delegando ad altri la parte attiva, nonostante i diversi ostacoli che le vengono messi lungo la strada.

Eppure, alla fine tutto cambia.

Inconsapevolezza

Il finale, ancora una volta, sembra già scritto.

L’epifania di Do-joon sembra il tassello risolutore di un quadro già definito, di cui manca solamente il colpevole, individuato nell’oscura figura del raccoglitore di rifiuti, che, una volta consegnato alla polizia, scarcererebbe infine lo sfortunato e innocente ragazzo.

E invece il sicuro colpevole diventa il testimone chiave della vicenda, che ci narra quanto Do-joon sembra genuinamente non ricordare: la furia feroce e improvvisa con cui ha scagliato un enorme masso in testa alla ragazza che l’aveva rifiutato, e gettando la Madre in uno stato di profondo sconforto…

…che esplode in una furia omicida disperata che la porta per la prima volta ad essere protagonista dell’azione, per poi tornare totalmente passiva e impotente davanti alla cattura del vero colpevole, a cui chiede disperata se anche lui abbia una madre che lo possa proteggere come lei ha fatto per Do-joon.

Il quadro si conclude nella comprensione della totale inconsapevolezza di Do-joon, che racconta in terza persona le vere motivazioni dell’esposizione del corpo e che, infine, consegna senza rendersene conto l’unica prova che collegava la Madre alla scena del crimine…

…portando la donna a cancellare con le sue stesse mani il ricordo degli orrori di cui si è macchiata per liberare il figlio, gettandosi infine nel giubilo della folla festante che balla, rappresentazione indiretta della medesima inconsapevolezza del figlio, che probabilmente mai si ricorderà della verità della vicenda.

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2024 2025 Drammatico Film Thriller

Conclave – Un intrigo di chiesa

Conclave (2024) di Edward Berger è un thriller politico ambientato nella Città del Vaticano.

A fronte di un budget medio – 20 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Conclave (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore attore protagonista per Ralph Phinnes
Miglior attrice non protagonista per Isabella Rossellini
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior colonna sonora originale
Migliore scenografia
Migliori costumi

Di cosa parla Conclave?

Con la morte del precedente Papa, si dà il via alla Conclave per scegliere il suo successore. Eppure è una questione più di politica che di fede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Conclave?

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Assolutamente sì.

Nonostante dall’esterno potrebbe apparire come un film acchiappa pubblico con un cast internazionale di star di richiamo per una vicenda scandalistica che ammicca al desiderio proibito di scoprire i dietro le quinte della Chiesa…

…al contrario, forse anche per la produzione europea, il film riesce ad essere un ottimo intrigo politico che abbraccia l’identità italiana senza stereotipizzarla, riuscendo a modulare l’utilizzo della lingua e delle dinamiche politiche senza fare un discorso fine a sé stesso, anzi.

Insomma, da riscoprire.

Atmosfera

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Un elemento fondamentale – e per me piuttosto sorprendente – è come Conclave sia riuscito consapevolmente ad abbracciare l’ambientazione.

Infatti la pellicola si concede non pochi momenti per offrire ampie vedute interne ed esterne dei luoghi della vicenda, proprio per non ridurla ad una piccola vicenda fra uomini, ma anzi ad enfatizzarne l’importanza nello scacchiere politico.

Ralph Fiennes e Stanley Tucci in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Inoltre, il regista dimostra una particolare consapevolezza dell’ambientazione per due aspetti: i rumori bianchi – il chiacchiericcio molto italiano, lo stridore della macchinetta del caffè… – e, più in generale, elementi di italianità molto specifici, soprattutto nelle scene della mensa – come il grana sparso sui tortellini.

Al contempo, la pellicola non si impigrisce sul lato linguistico, facendo parlare i suoi interpreti solo in inglese, ma anzi spazia fra le varie lingue proprio a raccontare l’ampia realtà della Chiesa e la sua portata internazionale, fra inglese, italiano, spagnolo e persino molti momenti in latino.

E con queste premesse…

Politico?

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

La vicenda di Conclave è tutta politica.

Nonostante inizialmente siamo accompagnati all‘importante momento di passaggio per il Vaticano dalla figura del Cardinale Lawrence, lo stesso appare come una figura di contorno, che non ha alcun interesse a prendere posizione, anzi preferirebbe di gran lunga rimanere in disparte…

…nonostante venga costantemente messo in mezzo.

Ralph Fiennes in una scena di Conclave (2024) di Edward Berger

Non a caso la sua omelia di apertura, espressa principalmente in latino, vorrebbe ricondurre la Conclave ad un discorso di fede e di religione, quindi del tutto avulsa da questioni invece più terrene e umane, che al contrario diventeranno le protagoniste della scena…

…e di cui Lawrence diventerà il principale esecutore.

Altarini

La vicenda si Conclave è scandita da una sistematica rivelazione degli altarini.

Infatti, più Lawrence si immerge in questa vicenda del tutto umana, anzi piuttosto spinosa, più si ritrova a dover difendere la solidità della Chiesa dal punto di vista confessionale, volendo tenere lontano dalla Cattedra personaggi di dubbio gusto che farebbero solo del male all’Istituzione.

Ed è anche più interessante osservare come le vittime della sua indagine siano solo i candidati che si siano macchiati di crimini che andrebbero ad infangare la fama della Chiesa – simonia, violazione dei voti di castità… – ma non comprendano un personaggio estremo come il Cardinale Tedesco.

Lo stesso infatti non ha alcuna colpa se non il suo intestardirsi nell’idea di voler riportare la Chiesa alle sue radici più conservatrici e reazionarie, tanto da arrivare a voler annunciare una guerra santa nei confronti di un presunto nemico della Confessione: l’Islam.

E, inevitabilmente, la lotta è a due…

…oppure no?

Terreno

Lawrence non vuole essere Papa.

Più volte durante la pellicola i dubbi, financo le reazioni scomposte davanti a questa prospettiva, lo identificano come il candidato perfetto per questa posizione, proprio nel suo non volerla ricercare, nel suo non avere mire politiche ed autoritarie.

Eppure, neanche lui è la risposta che la Chiesa sta cercando.

Introdotto inizialmente come elemento di disturbo, il Cardinale O’Malley rimane saldo ai margini della scena per la maggior parte della pellicola, diventando centrale solo nella sua denuncia della gretta realtà del Conclave: un gruppo di uomini piccoli, arroccati nei loro palazzi d’oro, lontani dagli ideali della Chiesa povera e vicina agli ultimi.

E la sua scelta come nuovo Papa è significativa anche per l’ultimo segreto svelato da Lawrence: l’intersessualità del neo eletto Innocenzio, che ha scelto consapevolmente di non abbandonare, anzi di abbracciare come un dono di Dio che apra la Chiesa ad una visione più ampia e inclusiva, adattandosi alla sempre più stringente attualità.

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Avventura Film Horror Nuove Uscite Film Thriller

Heretic – Il compromesso in bilico

Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods è un thriller psicologico con protagonista Hugh Grant.

A fronte di un budget molto contenuto – 10 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 57 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Heretic?

Sorella Paxton e Sorella Barnes sono due giovani missionarie mormone che vanno di casa in casa a portare la parola del Salvatore. Ma uno di questi incontri potrebbe essere più complesso del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Heretic?

Sophie Thatcher in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

In generale, sì.

Heretic è un buon film horror che non scade in molti trucchi che creano facilmente tensione e paura, ma piuttosto si impegna, tramite una regia attenta e puntuale, a costruire il senso di angoscia e di tensione, con un sottofondo riflessivo per nulla scontato, ma che anzi mi ha piuttosto sorpreso.

Inoltre, la pellicola è un altro tassello che si aggiunge all’ottima carriera attoriale di Hugh Grant, che negli ultimi anni – a partire da Dungeons & Dragons: L’onore dei ladri (2023) – si è lasciato alle spalle le romcom che ne hanno definito la popolarità per diventare un superbo caratterista.

Insomma, dategli un’occasione.

Definizione

Sophie Thatcher in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

La definizione delle due protagoniste avviene splendidamente tramite immagini.

Già l’apertura, con la sentita discussione sui preservativi, si scontra con la supposta riservatezza della comunità mormona, e tratteggia una coppia che non aderisce banalmente al tipo di personaggio devoto e la cui fede verrà messa in dubbio, ma anzi anticipa un racconto ben più sfumato.

E l’apparentemente futile dinamica di bullismo nei confronti di Sorella Paxton è ancora più fondamentale.

Sophie Thatcher e Chloe East  in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

Infatti la stessa mette subito a confronto le diverse tendenze delle due protagoniste, più volte ribadite anche nelle scene successive: come Sorella Barnes è un’attenta osservatrice, che riesce a cogliere i sottesi delle situazioni con grande abilità, e a non reagire prima del tempo…

…al contrario Sorella Paxton è un animo più semplice, che si affaccia al mondo senza alcuna malizia, anzi con la sicurezza che la sua bontà venga corrisposta, poco prona a scontrarsi con gli altri, ma piuttosto proattiva nel mettersi in gioco quando le viene data l’occasione.

Una dualità fondamentale soprattutto per l’incontro con Reed.

Contrasto

Hugh Grant in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

La personalità di Reed è estremamente contrastante.

L’ottimo Hugh Grant riesce a portare in scena un personaggio capace di muoversi su diversi tagli narrativi, indossando una maschera comica che però non contrasta con la sua vera natura, e che non agisce mai con gratuita crudeltà, ma bensì seguendo dei principi che per lui appaiono fondamentali.

Ma fin da subito si notano le prime crepe nella sua apparenza, i primi indizi di tutta una serie di trucchi utilizzati per provare la sua tesi, che però solamente Sorella Barnes riesce effettivamente a notare, restando per tutto il tempo restia ad aprirsi a questo ambiguo personaggio.

Hugh Grant in una scena di Heretic (2024) di Scott Beck e Bryan Woods

Da questo punto di vista, proprio come la scrittura del personaggio è sempre coerente con se stessa, anche il film riesce a non tradirsi, a non ricadere in facili trovate per risvegliare l’attenzione del pubblico, come il torture porn o elementi esplicitamente magici che avrebbero minato la credibilità della pellicola.

Al contrario, per mantenere viva la tensione, la pellicola fa un ottimo uso della soggettiva e falsa soggettiva, che unisce lo sguardo del personaggio a quello dello spettatore, spingendolo ad essere talmente immerso nella scena da guardarsi letteralmente intorno all’interno della stanza…

…e costruendo così un ottimo climax tensivo legato alla scoperta della casa.

Eppure, Heretic non mi ha convinto fino in fondo.

Tesi

La tesi di Reed non è banale, anzi è molto ben pensata.

Eppure il film sembra non crederci fino in fondo.

Anche comprensibilmente, più che imporre un’idea, Heretic offre uno spunto di riflessione, mettendo ottimamente in scena la tesi di Reed tramite l’utilizzo dei giochi da tavolo, andando a svelare alcuni altarini delle religioni abramitiche già ampiamente discusse in altre sedi…

…ma contrapponendogli l’antitesi di Sorella Barnes, un personaggio non ciecamente innamorato della sua fede, ma che al contrario mette più volte in discussione, e che, proprio rispondendo al suo antagonista, dimostra di avere consapevolezza dell’argomento – e di saperlo sostenere.

Tuttavia avrei preferito che questa contrapposizione fosse portata fino in fondo, anche senza dover dar per forza ragione a una o all’altra parte, invece che arrivare ad un finale che non definirei smaccato, ma che comunque introduce l’elemento magico per contrastare la pesante concretezza del resto della pellicola…

…forse troppo timido nel volersi imporre fino in fondo con la stessa, giungendo ad un compromesso tematico che non mi ha convinto fino in fondo.

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Dramma familiare Drammatico Film Robin Williams Thriller

One Hour Photo – L’angolo

One Hour Photo (2002) di Mark Romanek è un thriller psicologico con protagonista Robin Williams in uno dei titoli più particolari della sua carriera.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – 12 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 52 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla One Hour Photo?

Sy è un dipendente del laboratorio di sviluppo fotografico della SaveMart ed è totalmente innamorato del suo lavoro. Una persona che non farebbe male ad una mosca…giusto?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere One Hour Photo?

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Assolutamente sì.

One Hour Photo vi sembrerà un titolo veramente anomalo se siete abituati ai personaggi bonari e confortanti della filmografia di Williams – come Mrs. Doubtfire (1993) e L’attimo fuggente (1989).

Ma, proprio per questo, è un’opera che vale la pena di essere scoperta, anche solo come ulteriore conferma di quanto fosse un interprete multiforme e pronto ad intraprendere i ruoli più diversi, soprattutto quando, come in questo caso, era premiato da una scrittura precisa e profondamente enigmatica.

Aspettative

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

One Hour Photo gioca sulle aspettative.

E in due direzioni.

Da una parte, si basa sui personaggi più iconici della carriera di Williams, che per diversi anni aveva fatto innamorare il pubblico con le sue figure accoglienti e confortanti – anche nei titoli più drammatici come Will Hunting (1997) – fingendo di portare in scena un ruolo analogo…

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

…nonostante l’apertura del film ci porti in una direzione totalmente differente, suggerendoci (senza mostrarlo) che il protagonista si sia macchiato di atti sanguinosi e disturbanti, di cui parla con la massima tranquillità, interessato esclusivamente ai suoi preziosi scatti.

Eppure, anche questa è una falsa pista.

E solo una delle tante.

Ruolo?

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy vuole prendere il posto di Will?

Uno dei lati più inquietanti del protagonista è il suo atteggiamento nei confronti sia di Nina che del piccolo Jake, verso cui nutre evidentemente un interesse morboso, cercando con piccoli ed ingenui stratagemmi di inserirsi forzosamente nella loro vita.

E l’innocuo autoscatto con la fotocamera di famiglia è solo l’inizio.

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Per Nina Sy sembra volersi riproporre come un compagno più premuroso e attento, gettando l’esca con la comune lettura, con cui riesce ad attaccare facilmente bottone con la donna, di cui percepisce la profonda insoddisfazione nei confronti del marito.

Invece per Jake vuole essere il padre presente e accogliente che Will non è mai stato, diventando l’unico partecipante della sua partita di baseball, e pure sbilanciandosi nel voler difendere il bambino dal suo acre allenatore e pure comprandogli dei giocattoli sottobanco.

Ma la realtà è ben più complessa.

Ruolo

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy non vuole – e non può – prendere il post di Will.

Nel suo struggente monologo finale il protagonista rivela il suo ambiguo risentimento nei confronti della famiglia Yorkin, di cui vuole prendere parte non come nuovo patriarca, ma come un pezzo aggiuntivo di un nucleo affettivo che gli appare così tanto desiderabile.

Per questo il suo odio verso Will non deriva dall’impossibilità di sostituirlo, ma bensì dall’osservare come un uomo così egoista sprechi totalmente il grande regalo che la vita gli ha fatto, lontano dagli orrori dell’infanzia che hanno invece segnato l’esistenza del protagonista.

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Proprio per questo sulle prime Sy si immagina come una parte ormai integrata della famiglia, un vecchio zio che vizia il bambino e che, al contempo, tiene così tanto ai suoi parenti da volerli proteggere dalla disgustosa infedeltà di Will.

E nel finale tutto viene perfettamente rivelato.

Angolo

Robin Williams in una scena di One Hour Photo (2002) di Mark Romanek

Sy può vivere solamente nella finzione.

Il protagonista ha costruito una sceneggiata del tutto fittizia nei confronti di Will e della sua amante – come ci tiene più volte a ribadire durante la tortura – ma non per umiliarli, ma bensì per creare uno spazio di cui può fare finalmente parte.

Una realtà ideale rappresentata dalle foto perfette e idilliache che aveva sviluppato, dalla grottesca galleria di momenti della famiglia Yorkin nella sua stessa casa, creata con una serie di scatti rubati ed impressi nel tempo nella loro fugace perfezione. 

Ma di questa realtà Sy non può esserne il centro.

Infatti il focus dei suoi scatti finali non sono i due vergognosi soggetti umani, ma bensì gli oggetti di sfondo, di contorno, in cui Sy rivede perfettamente se stesso, incastonato in una panorama di cui può finalmente fare parte, anche se relegato agli angoli dell’inquadratura…

…gli unici dove gli è possibile stare.

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Avventura David Lynch Dramma romantico Drammatico Film Giallo Grottesco Surreale Thriller

Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…

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Avventura Azione Buddy Movie Commedia Dramma familiare Drammatico Film Giallo Thriller

The Nice Guys – Bruciare lo spunto

The Nice Guys (2016) di Shane Black è un buddy movie con protagonisti Ryan Gosling e Russell Crowe.

A fronte di un budget non particolarmente importante – 50 milioni di dollari – è stato un disastro al box office: appena 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Nice Guys?

Jackson e Holland sono due personaggi con impieghi piuttosto particolari: l’uno un investigatore privato approfittatore, l’altro un hitman disilluso dalla vita. Ma una causa comune li farà incontrare in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nice Guys?

Sì e no.

Se da una parte The Nice Guys è un film incredibilmente mediocre sotto ogni punto di vista – totale mancanza della chimica fondamentale dei protagonisti, direzione attoriale non pervenuta, scrittura approssimativa che viaggia per frasi fatte…

…dall’altra non è niente di peggio di un qualunque altro action di poco spessore che potete guardarvi per passare due ore in spensieratezza, spegnendo completamente il cervello – magari riuscendo persino a ridere.

Ve lo auguro.

Spunto

The Nice Guys parte da uno spunto tutto sommato interessante.

Ogni buddy movie che si rispetti ha come protagonisti due personaggi per qualche motivo disillusi dalla vita, impegnati in qualche attività al limite del legale che li rende egocentrici, approssimativi e assolutamente intrattabili…

…insomma due che non potrebbero mai lavorare insieme.

E già in questa fase il film cerca di inserire i primi elementi di ironia che raccontino il carattere turbolento dei personaggi – Jackson che conta al centesimo i soldi di Amelia e Holland che si approfitta della buona fede di una vecchia signora.

E l’ironia sta proprio nel fatto che siano considerati dei bravi ragazzi dalle persone che aiutano, ma che lo diventino effettivamente quando si mettono in gioco per il bene comune, pur rischiando la loro stessa vita.

Questa, almeno, sarebbe la storia sulla carta.

Poi arriva l’esecuzione.

Chimica

Due sono sostanzialmente i problemi interconnessi della pellicola.

La mancanza di chimica fra gli attori e la direzione attoriale.

Uno degli elementi portanti del genere è proprio l’importante costruzione del rapporto fra i due protagonisti, che partono da una soluzione di totale antagonismo per arrivare a collaborare in maniera improbabile, e infine a ricongiungersi in una ritrovata e imprevedibile amicizia.

Da questo punto di vista film come 48 ore (1982) hanno fatto la storia del genere nel mettere in scena attori dal grande carisma, capaci di rendere vivo un copione che altrimenti sarebbe apparso molto banale e con poco mordente…

…esattamente come in questo caso.

Fra i due l’unico che veramente ci prova è Ryan Gosling, al tempo lanciatissimo per La La Land (2016), dove aveva già dimostrato di saper evadere i ruoli strettamente drammatici per offrire interpretazioni ben più sfaccettate e variegate.

Purtroppo, lo stesso si deve scontrare con un Russel Crowe che ormai da anni ha disimparato a recitare, e che in questo caso si perde in una recitazione inutilmente drammatica e riflessiva, che non lascia mai il fianco al suo coprotagonista per creare un effettivo rapporto.

Insomma, arrivando alla fine della pellicola, lo spettatore non ha alcun motivo per pensare che i due ora potranno lavorare insieme.

Ma le vere vittime sono altre.

Possibilità

Per un giovane interprete ad Hollywood purtroppo è sempre sfida riuscire a trovare la parte giusta, il regista capace di valorizzarli.

Non è il caso di Shane Black.

La meno penalizzata è forse l’allora giovanissima Margaret Qualley, che ha dimostrato nel tempo una capacità attoriale ben superiore, ma che in questa pellicola porta in scena una recitazione incredibilmente macchiettistica e assolutamente dimenticabile.

Ma la vera vittima sacrificale di questa conduzione scellerata è la povera Angourie Rice, a cui viene affibbiata una parte che speravo fosse stata ormai abbandonata dal cinema contemporaneo: l’insopportabile bambina che vuole impicciarsi nelle faccende degli adulti, dimostrando di saperne ben più di loro.

Ed è veramente struggente vederla annaspare nel cercare di rendere vive battute così stereotipate e che evidentemente non sente sue…

E più in generale, è deprimente vedere come il film cerchi continuamente di far ridere lo spettatore, persino di giocare con i tropoi del genere, ma fallendo da ogni punto di vista, risultando apertamente ridicolo in una produzione che è davvero il disastro perfetto.

E, per una volta, do ragione al botteghino.

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Avventura Comico Commedia Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Giallo Grottesco Humor Nero Il grande inizio Thriller

Fargo – Una parentesi criminale

Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.

Di cosa parla Fargo?

Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fargo?

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.

Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Mediocre

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.

Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.

Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…

…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.

William H. Macy e Kristin Rudrüd in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.

E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…

Improvvisazione

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.

Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.

Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.

E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.

Alternativa

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Marge è una protagonista piuttosto particolare.

Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.

E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.

Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…

…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.