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The Dead Zone – Il sacrificio privato

The Dead Zone (1983) è un thriller fantascientifico e orrorifico, diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

A fronte di un budget medio – 10 milioni di dollari, circa 31 oggi – fu un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo – circa 113 oggi.

Di cosa parla The Dead Zone?

Johnny è un professore liceale che rimane coinvolto in un incidente stradale. Ma al suo risveglio, molte cose sono cambiate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Dead Zone?

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

The Dead Zone rappresenta un interessante incontro fra il thriller politico e il genere fantascientifico, oltre ad essere impreziosito da un intrigante taglio orrorifico – assomigliando per certi versi allo splendido Terrore dallo spazio profondo (1978) – e che deriva gran parte del suo valore dall’ottima performance di Christopher Walken.

Stranisce forse la struttura narrativa, che si snoda in una trama unitaria, ma divisa in una serie di piccoli episodi quasi auto-conclusivi, che assumono effettivamente un significato solamente arrivati al finale della pellicola.

Nel complesso. comunque. ve la consiglio.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

L’incipit di The Dead Zone è un delizioso quadretto familiare.

Felice della sua relazione e del suo prossimo matrimonio con Sarah, il protagonista sente di avere tutto il tempo del mondo, e di poter per questo allontanare le richieste della sua fidanzata di intrattenersi sessualmente prima di sposarsi…

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

…ma il destino è contro di lui.

L’incidente è costruito ad arte per definirne la totale casualità: un camionista assonnato che chiude gli occhi quel tanto che basta per perdere il controllo del mezzo, e mettersi fra capo e collo nel percorso di Johnny – e, così, farlo schiantare.

Ruolo

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Dopo aver perso la sua posizione nella comunità, il primo atto è dedicato alla riscoperta del ruolo.

Al suo risveglio, la pellicola costruisce una splendida tensione definita da piccoli dettagli: il corpo miracolosamente senza ferite né bende, i duri avvertimenti del dottore alla madre di Johnny, rappresentano le prime, dolorose pennellate di un quadretto inquieto.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Soprattutto, l’elemento più drammatico e di impatto è la dissoluzione del rapporto con Sarah – tanto che la madre gli consiglia di togliersela dalla testa – che ormai si è creata quella famiglia che lei e Johnny avrebbero dovuto costruire insieme.

Ma è solo l’inizio.

Prova

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Il secondo atto è da manuale.

La scoperta dei poteri è improvvisa e segna l’inizio delle dinamiche più strettamente orrorifiche, che risultano vincenti grazie ad una regia e ad un montaggio molto indovinati, oltre alla travolgente presenza scenica dell’attore protagonista.

Ma le premonizioni non si limitano al presente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Le visioni di Johnny sono sempre legate ad un’atmosfera funebre o quantomeno tragica, spaziando anche nella scoperta della morte presunta della madre del Dottor Sam Weizak – dinamica molto potente, ma che purtroppo appare unicamente funzionale alla trama

E subito il protagonista si trova preso d’assalto da chi crede di poterlo usare come sua personale palla di vetro per risolvere misteri e prevedere il futuro, mentre spesso le risposte che i personaggi ricevono non erano quelle che si aspettavano – o che desideravano…

Climax

Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Nella parte centrale si assiste ad un climax peculiare.

Vi è un momento di quiete, un apparente riavvicinamento – anche piuttosto intraprendente – di Sarah, la ricostruzione della famiglia spezzata, forse la possibilità di dimenticarsi dei suoi nefasti poteri…

…per poi ritornare immediatamente sui suoi passi.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Per questo, ho trovato la gestione di Sarah piuttosto straniante: la donna sembra come dare una falsa speranza al suo vecchio fidanzato, per poi tirarsi indietro e rimanere perlopiù un personaggio fuori scena, comparendo solo di tanto in tanto per regalargli nuovi, deliziosi, turbamenti emotivi.

Spogliato di tutto, Johnny prende la dolorosa decisione di usare attivamente i suoi poteri.

Ed è una scelta devastante.

Impotenza

Tutta la dinamica dell’investigazione è quella che più ho apprezzato – e anche quella più propria dello stile di Cronenberg: Johnny ha una sorta di epifania, che lo porta alla scelta di aiutare finalmente lo sceriffo nel risolvere il misterioso caso di Castle Rock.

Ma c’è un prezzo da pagare.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Riuscendosi ad immergersi efficacemente nella visione dell’omicidio in atto, il protagonista diventa una sorta di testimone omertoso del delitto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena – arrivando così alla terribile consapevolezza di poter solo punire il colpevole.

Ne segue una rincorsa all’omicida, invadendo lo spazio familiare e svelando la complicità della madre stessa, mentre nell’intimità del bagno si svolge un’ulteriore tragedia: il suicidio quasi chirurgico del colpevole, che si getta sulla sua stessa arma del delitto e si fa trovare esangue nella vasca da bagno.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Poi, di nuovo un’apparente quiete.

Dopo aver fuggito la sua casa natale, Johnny sembra avere l’occasione per ricostruire almeno parte della sua vecchia vita, diventando insegnante – e confidente – di un giovane ragazzo con cui condivide la timidezza e la riservatezza.

E invece, la nuova tragedia è dietro l’angolo.

Toccando inavvertitamente la mano del suo allievo, Johnny scopre il destino tragico che attende il ragazzino se deciderà di andare a pattinare quel giorno, entrando così in aperto contrasto con il padre e venendo scacciato…

…ma riuscendo così, con il proprio sacrificio, non solo a salvare una vita, ma anche a comprendere il senso della sua zona morta, delle vere potenzialità del suo potere: cambiare le nefaste visioni future.

Sacrificio

Nel finale, Johnny mette in scena un sacrificio privato.

Per pura causalità – e per una simpatica scelta di scrittura – il protagonista non era riuscito a prendere per mano il futuro Presidente degli Stati Uniti al loro primo incontro – infatti, invece che stringerli la mano, Greg Stillson gli aveva dato una spilla della sua campagna.

Invece, quando finalmente riesce a venire in contatto con il favorito alle elezioni cittadine, Johnny riesce finalmente ad ottenere una visione futura chiara di quello che potrebbe succedere se questo grottesco capopopolo riuscisse effettivamente a diventare Presidente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Si instaura così un dilemma morale piuttosto classico – il viaggiatore nel tempo assassino di Hitler – che viene risolto dal Dottor Weizak, che diventa inconsapevolmente la spinta finale che serviva al protagonista per prendere la sua scelta suicida.

Ma, a sorpresa, il suo intervento non porta alla morte di Stillson – almeno non immediatamente – ma al suo totale crollo di credibilità: usando un bambino come scudo di carne, l’uomo finisce sulle prime pagine dei giornali, e mette un punto fermo alla sua carriera politica…

…e, così, anche alla vita del martire Johnny.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Millennium Actress – Una vita da ricordare

Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue (1997).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.

Di cosa parla Millennium Actress?

Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Millennium Actress?

Chiyoko Fujiwara come Gheisha in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Assolutamente sì.

Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…

…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.

Insomma, da non perdere.

Macerie

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.

Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.

Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.

E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…

Chiave

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Chiyoko nasce in un mondo turbolento.

Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.

Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.

Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.

Ma, ancora una volta, è un destino imposto.

Destino

Chiyoko non può scappare.

Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.

Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…

Ti odio più di quanto tu possa sopportare, e ti amo più di quanto io possa sopportare.

…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.

Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.

Perdita

Chiyoko Fujiwara nelle macerie in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.

La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammatica e realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.

Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.

Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…

…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.

Scoperta

L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.

Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.

Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.

Chiyoko Fujiwara sulla luna in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.

Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…

Perché dopo tutto, è il fatto di inseguirlo ciò che amo davvero

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Darren Aronofsky Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Horror Thriller

Il cigno nero – Lineare

Il cigno nero (2010) con protagonista Natalie Portman, è fra le opere più note della filmografia di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 13 milioni di dollari – fu un grande successo al botteghino, con 330 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Il cigno nero?

Nina è una ballerina di grande talento, che però rischia di precludersi il successo per via della sua fragilità emotiva. Ma l’unico vero nemico è lei stessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il cigno nero?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi nel consigliare questa pellicola, in quanto personalmente la trovo molto meno brillante rispetto al precedente Requiem for a dream (2000), dove il regista statunitense riusciva meglio a bilanciare l’aspetto più surreale e fantastico con un profondo contenuto riflessivo.

In questo caso invece Aronofsky, forse anche per adattarsi ai gusti di un pubblico più ampio, sceglie una regia più contenuta, meno sperimentale, e più invece vicina al taglio tipico dell’horror commerciale, con, in non pochi casi, l’abuso del taglio dark fantasy.

Uovo

Nina è ancora nell’uovo.

La protagonista è costantemente sferzata dalla madre per ottenere una tecnica perfetta, rimanendo però confinata in un guscio inscalfibile – la camera da letto – un ambiente in cui è costretta a rimanere ancorata ad un’identità infantile e illibata.

Per questo, nel ruolo del cigno bianco, questa figura eterea cristallizzata in una realtà senza tempo, è l’interprete perfetta – come gli conferma lo stesso Thomas – quasi come una ballerina giocattolo che non sbaglia mai un passo.

Ma non basta.

Istinto

La tecnica di Nina manca di carattere.

La protagonista si limita a seguire pedissequamente la parte, a portare una performance impeccabile, ma senza riuscire ad entrare nell’essenziale dualità del suo personaggio, motivo per cui inizialmente sembra perdere la parte.

In realtà, fin dall’inizio Nina è spinta da una forza contraria a quella della madre.

Infatti, Leroy la spinge ad un cambiamento caratteriale, senza mancare comunque di approfittarsi in qualche misura di questa innocente quanto manipolabile ragazza, che spinge soprattutto alla scoperta sessuale, così da farla evadere da questo perpetuo carattere virginale.

Anzitutto la mette alla prova mentendole sull’aver ottenuto la parte, portandola a mostrare un lato della sua natura che fino a quel momento gli aveva nascosto: quel morso sul labbro per sottrarsi dalla sua stretta è solo il primo degli indizi di un istinto sotterraneo…

…ma pronto ad emergere.

Alieno

Nina è alienata.

La protagonista è alla disperata ricerca di un nemico per giustificare la sua ossessione, il suo fallimento, cercandolo proprio in quelle figure che sente così lontane da sé, ma al contempo così desiderabili: le sue compagne, ma, soprattutto, Lily.

Infatti, in questa fascinosa ragazza Nina vede la sua peggiore contendente, la principale causa della sua ossessione, sempre pronta non solo a rubarle il ruolo, ma anche ad essere vincente dove la protagonista si sente una perdente.

Ovvero, nella seduzione.

In realtà, Nina è in lotta contro sé stessa.

Anche se la protagonista crede il contrario, la donna che ride sommessamente, la presenza nell’ombra che la perseguita, non è altro che la rappresentazione di un altro lato della sua interiorità, che lei cerca ora di combattere, ora di far emergere.

Questi sprazzi di verità emergono tutte le volte in cui Nina vede il suo volto sui corpi di quella che crede le sue nemiche, fino ad arrivare a confrontarsi ripetutamente con sé stessa allo specchio, quando ormai la trasformazione è in atto.

Pelle

La metamorfosi di Nina non può essere che violenta.

Costretta in una pelle che non riesce più a sopportare, fin dall’inizio la protagonista si continua a ferire, a graffiare, persino a strappare la pelle, come per permettere a quell’altra sé di, finalmente, emergere.

Una ferita che è anche una crepa su quell’aspetto così perfetto e, appunto virginale, su quell’uovo così intoccabile, che Nina ha il continuo istinto di distruggere, per liberarsi della vecchia pelle e diventare qualcos’altro.

La trasformazione definitiva è la parte che mi ha meno convinto.

Dopo aver ampiamente giocato con i più classici topos dell’horror di largo consumo, Aronofsky spinge fortemente l’acceleratore sull’elemento dark fantasy, andando a rendere visivamente una simbologia che sarebbe risultata molto più elegante se più contenuta.

In questo senso, Il cigno nero si salva, per così dire, insistendo in più momenti su come queste visioni orrorifiche siano completamente interne all’immaginazione di Nina, così da non sporcare una pellicola in cui l’elemento fantastico funziona fino ad un certo punto.

Realizzazione

La realizzazione finale è fondamentale per la definizione del personaggio.

Nina riscopre anzitutto il personaggio di Lily, che, per l’ennesima volta, si dimostra tutto tranne che una sua nemica – incoraggiandola anzi per la sua ottima performance – e, di conseguenza, comprende la sua vera natura.

Una natura che, tuttavia, non è veramente pronta ad accogliere, ma piuttosto a distruggere, per poi prenderne almeno temporaneamente il posto, entrando a tal punto nel personaggio da portare in scena l’esibizione perfetta, ma la sua tragica conclusione…

Il cigno nero sesso

Osservando le scene di sesso de Il cigno nero si potrebbe sostenere che in questo film la sessualità femminile venga demonizzata, o che comunque l’atto sessuale venga ricondotto a qualcosa di sporco, oscuro.

In realtà, credo che il film intenda imbastire un discorso più complesso.

Nonostante sicuramente il sesso sia rappresentato in maniera disturbante, questa scelta risulta funzionale ad offrire un commento, forse persino una critica, alla dualità sociale a cui spesso la donna è sottoposta.

Ovvero, santa o puttana.

In questo caso, cigno bianco e cigno nero.

L’intento potrebbe essere quello di raccontare la condizione di una donna – Nina – che si ritrova intrappolata fra un archetipo e l’altro: da una parte la società le dice devi lasciarti andare, sei frigida, dall’altra la ammonisce, accusandola di essere una puttana.

Secondo questa linea di pensiero, le scene di sesso vengono mostrate in maniera disturbante proprio perché è la protagonista stessa a sentirsi sporca, ma senza che il film intervenga esplicitamente per confermare la sua visione.

In questo è indicativo come la regia non esprima un giudizio sulla sessualità della rivale Lily, più libera e sicuramente più matura – da ogni punto di vista – rispetto invece a Nina.

Invece, secondo alcuni Nina viene punita per la sua sessualità.

In realtà, benché il film resti volutamente ambiguo al riguardo, mi sento comunque di dissentire: seguendo la storia de Il Lago dei Cigni, capiamo che la protagonista, come Odette, nella morte ritrova la libertà.

Di fatto in quel momento, riuscendo ad incarnare entrambi gli archetipi di cui sopra, può finalmente considerarsi perfetta per la società patriarcale: ha assolto al proprio compito, ora è libera dalle pressioni sociali.

Il cigno nero sesso

Tuttavia, in quello stesso momento muore perché si tratta di un obbiettivo fondamentalmente impossibile da raggiungere.

È letteralmente impossibile essere una donna.

In conclusione, secondo questa visione la società – rappresentata dal suo insegnante, Thomas – la spinge ad incarnare la sua versione illibata – il cigno bianco – ma la vuole anche nel ruolo di seduttrice il cigno nero.

Quindi finisce per ingabbiare la donna in uno o nell’altro stereotipo, anziché lasciarla libera di scegliere come approcciarsi alla sessualità, e, soprattutto impedendole di abbracciare anche una sana via di mezzo.

Ovvero, al di fuori di quel sistema rigido e binario.

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Back to...Zemeckis! Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Horror Thriller

Le verità nascoste – Un presentimento

Le verità nascoste (2000) è un’opera minore della filmografia di Robert Zemeckis, un intrigantissimo thriller con protagonisti Michelle Pfeiffer e Harrison Ford.

Con un budget piuttosto ingente – 100 milioni di dollari – fu complessivamente un successo, incassando 291 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Le verità nascoste?

In seguito alla partenza della figlia Caitlin, Claire si trova da sola in casa, che sembra come se fosse infestata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le verità nascoste?

Assolutamente sì.

Le verità nascoste è un film incredibilmente intrigante, che riesce ad equilibrare ottimamente l’elemento orrorifico e fantastico all’interno di un thriller con una simbologia seducente e ben delineata.

La stessa regia è precisa, puntuale, a tratti anche sperimentale, godendo fra l’altro di ottimi interpreti, in particolare la splendida Michelle Pfeiffer, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il film si articola all’interno di un uso simbolico dei colori indossati dalla protagonista: bianco, rosso e nero.

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Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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Crimini e misfatti – Il meta-dramma

Crimini e misfatti (1989) è una delle prime pellicole in cui Woody Allen, fra la commedia e il dramma, spazia in riflessioni esistenziali e metanarrative.

A fronte di un budget medio – 19 milioni di dollari, circa 46 oggi – fu un pesante flop al botteghino, con un incasso che fu quasi pari alle spese di produzione.

Di cosa parla Crimini e misfatti?

La pellicola segue due storie parallele e collegate in maniera piuttosto peculiare: da una parte Cliff Stern, un regista di documentari che vive di sogni, e dall’altra Judah Rosenthal, un dottore di successo ma con un oscuro segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimini e misfatti?

In generale, sì.

Per quanto sia nel complesso una visione piacevole e anche genuinamente divertente, Crimini e misfatti rappresenta un tentativo a mio parare ancora acerbo di accostare all’interno della stessa pellicola una profonda tematica esistenziale alla tipica comicità di Woody Allen.

Ne risulta una riflessione esistenziale, metanarrativa, che anticipa il più riuscito Match point (2005) e che tenta ancora una volta di mischiare il dramma con la commedia – una sperimentazione che avrà il suo picco in Melinda e Melinda (2004) – in con un prodotto non del tutto riuscito.

Il dramma invisibile

Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

In un clima festoso e apparentemente confortante, un angoscioso flashback ci svela l’oscuro segreto del protagonista.

Parte così un inseguimento alla scheggia impazzita, a quella donna così isterica e incontrollabile che potrebbe non solo distruggere la vita matrimoniale di Judah – omen, nomen – ma anche la sua credibilità sociale.

Con questa vicenda dai risvolti quasi thriller, Crimini e misfatti racconta anzitutto un dramma esistenziale legato ad un personaggio di successo e con una vita apparentemente desiderabile, in realtà con diversi scheletri nell’armadio.

Ma il peggio deve ancora arrivare.

La ricercata colpevolezza

Martin Landau e Jerry Orbach in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

L’uccisione della donna appare quasi inevitabile.

Ma è la stessa a far intraprendere al protagonista un’angosciosa riflessione sulla colpa e sulla punizione, andando anche a ripercorrere l’educazione religiosa che l’aveva convinto che ad un crimine seguisse sempre un giusto castigo.

Proprio per questa convinzione Judah – in una dinamica che per certi versi mi ha ricordato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – sembra quasi che voglia farsi scoprire, rischiando più volta di rovinare un piano dall’ideazione praticamente perfetta.

Cinema e religione

Woody Allen in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

La storia di Cliff viaggia parallela a quella di Judah.

Il collegamento più immediato è la totale simmetria fra i due drammi: come Judah tempo prima, anche il personaggio di Allen si trova invischiato in una storia amorosa e adultera che sembrerebbe risolutiva del suo insoddisfacente matrimonio.

Se questa tematica di per sé non è niente di nuovo per la produzione di questo regista, il collegamento più interessante è quello metanarrativo.

Per quanto i due personaggi non si conoscano fino alla fine, in realtà Cliff vede la storia di Judah grazie ai diversi titoli che visiona con la nipote durante la pellicola – in ordine, Il signore e la signora Smith (1941), Il fuorilegge (1942), Happy Go Lucky (1943) e L’ultimo gangster (1937).

Woody Allen e Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

Per questo l’incontro finale è fondamentale.

In un’amara riflessione, Judah racconta a Cliff il suo dramma personale nell’essere colpevole, ma non punito, andando quindi a vanificare tutte le sicurezze morali che avevano definito la sua vita fino a quel punto.

E, proprio davanti alla replica di Cliff, che cerca di ricondurre la storia a degli stilemi narrativi fittizi e cinematografici, l’altro gli ricorda che la realtà – purtroppo – funziona diversamente, e non è possibile avere sempre un finale positivo, o anche solo soddisfacente.

In questo modo, anche se indirettamente, il personaggio di Woody Allen si rende conto che le sue convinzioni per cui Halley non avrebbe mai premiato il borioso e insopportabile Lester, in realtà si sono rivelate illusorie e derivanti proprio dai film che tanto amava, distrutte davanti alla più amara realtà che ha dovuto sopportare.

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Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Una favola violenta

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) è uno dei titoli più apprezzati di Martin McDonagh, con cui conquistò l’Academy sia per la sua sempre ottima scrittura della storia e dei personaggi, sia per il suo incredibile cast.

Con un budget abbastanza contenuto – fra i 12 e i 15 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: 160 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Mildred è una donna indurita dalla vita, che ha appena perso la figlia, e che cerca ancora di farsi giustizia, a modo suo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Frances McDormand e Woody Harrelson in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che riesce a colpirmi e a coinvolgermi ad ogni visione, proprio per la capacità di McDonagh nel bilanciare perfettamente – anzi, in questo caso anche in maniera pure più eleganteun profondo elemento drammatico con una comicità da bar.

Un film intenso, con attori straordinari che portano in scena personaggi assolutamente imperfetti, quasi negativi, ma che, proprio nella loro debolezza e cattiveria, risultano estremamente tridimensionali ed interessanti.

Mostrare i muscoli

Frances McDormand e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Fin da subito la pellicola racconta come Ebbing sia una cittadina violenza.

Infatti, i manifesti di Mildred, donna rigida e indomabile, sono la miccia che porta all’esplosione di una brutalità che in realtà era già presente nel corpo di polizia stesso, dominato dal razzismo e dalla violenza tipici dell’arida provincia statunitense.

Nonostante in un primo momento il diretto interessato – lo sceriffo Willoughby – cerchi di riportare la donna sui suoi passi, Mildred ribadisce la sua testardaggine, affermando sfacciatamente di aver anzi voluto sfruttare la situazione personale dell’uomo per i suoi fini.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

In questo modo non si fa altro che creare una faida interna alla città, una sorta di lotta fra gang, in cui i diversi personaggi si schierano contro o a favore della decisione di Mildred, con esplosioni di violenza piuttosto esplicita, come il grottesco incontro col dentista.

Tuttavia, il punto di arrivo di questa situazione è la consapevolezza.

In principio la consapevolezza dello sceriffo, quando cerca di minacciare ed intimidire Mildred, ma finendo per rinsavire per colpa di un innocuo colpo di tosse, che gli ricorda che le sue ore sono contate e che è ora di concludere la sua esistenza in maniera dignitosa.

Le origini della rabbia

Parallelamente, scopriamo le origini del dramma di Mildred.

McDonagh sceglie consapevolmente di non raccontare un personaggio distintamente positivo, una madre addolorata che non riesce a venire a patti con la tragica scomparsa della figlia, ma, piuttosto, una donna che si sente in colpa per la morte della stessa.

Sottolineando come, purtroppo, ha anche ragione di esserlo.

Infatti, in poche, ottime inquadrature viene raccontata la difficile situazione familiare della protagonista, in costante antagonismo con Angela, al punto da arrivare sostanzialmente a spingerla – pur involontariamente – nelle braccia del suo assassino e stupratore.

Tuttavia, la rabbia di Mildred non è scaturita solo nel non riuscire a fare giustizia a sua figlia, neanche da morta, ma anche dal fatto di essere già da prima una donna inascoltata, proprio per la violenza domestica che ha subito, ma a cui nessuno ha creduto, nemmeno sua figlia.

Una situazione volutamente molto ambigua: la protagonista passa dall’essere sbattuta violentemente al muro dall’ex marito, al cercare un momentaneo conforto con lo stesso, per poi cacciarlo nuovamente di casa.

Allo stesso modo il figlio, fino a quel momento irrimediabilmente in disaccordo con la madre, non esita neanche un momento nel difenderla dalla violenza del padre.

L’eredità violenta

Woody Harrelson e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Con la sua morte, Bill Willoughby è il personaggio risolutore della vicenda.

Come anticipato, lo sceriffo raggiunge infine la consapevolezza della sua prossima dipartita, e capisce di avere la possibilità di risolvere questa lotta intestina, anzitutto offrendo il suo indiretto sostegno alla lotta di Mildred, pagando per un altro mese i tanto odiati manifesti.

Ma è soprattutto tramite le lettere che risolve la situazione.

Inizialmente sembra che la battaglia si sia solo inasprita, nella cieca rabbia di Dixon e di Mildred: se l’ex poliziotto prima aggredisce il povero Red, per poi dare fuoco ai manifesti, a sua volta la donna appicca un incendio nella stazione di polizia.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Ma, proprio mentre è inconsapevolmente immerso dalle fiamme, Dixon raggiunge la sua consapevolezza grazie alla lettera del defunto amico.

Lo sceriffo infatti gli spiega come abbia tutte le qualità per essere un buon poliziotto, ma che non riesca ad esserlo perché manca di un elemento fondamentale: l’amore – o, meglio, l’effettivo coinvolgimento nei casi trattati, in particolare quello di Angela.

E allora Dixon fa l’inaspettato.

Affronta le fiamme e sceglie di rischiare la propria vita pur di salvare i documenti del caso della figlia di Mildred, che aveva pigramente lasciato a marcire sulla propria scrivania per tanto tempo.

E questo atto è anche il primo momento di consapevolezza di Mildred.

Qualcosa è cambiato

Il cambiamento di Mildred avviene grazie alla cena con James.

Ancora sicura della sua posizione, la donna accetta freddamente le derisioni infantili dell’ex-marito, e non sembra per nulla pentita per come tratta il suo compagno di cena. Finché è lo stesso James a sbottare e a metterla davanti alla realtà del suo insostenibile comportamento.

E questo cambia tutto.

Se la Mildred di un tempo avrebbe reagito violentemente al comportamento di Charlie, questa volta, pur avvicinandosi minacciosa al suo tavolo, sceglie invece di mettere definitivamente l’uomo al suo posto, accettando in un certo senso la sua nuova relazione.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Parallelamente Dixon viene premiato per la sua scelta di prendere in mano il caso di Angela, trovando l’occasione per dimostrare il suo valore.

Se in passato l’ex-poliziotto avrebbe semplicemente ignorato le battute origliate al bar, questa volta sceglie invece di mettersi in prima linea, iniziando una rissa che sa già che perderà, pur di riuscire ad acquisire il DNA che potrebbe essere il punto di svolta per il caso.

In questo modo passa da essere nemico ad alleato di Mildred, che gli è riconoscente anche solamente per avergli dato un giorno di speranza.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

E di nuovo vengono messi alla prova.

Dixon propone alla protagonista, in maniera neanche troppo sibillina, di utilizzare quell’uomo, quel sicuro stupratore, come capro espiatorio per la morte di Angela, portando avanti una giustizia privata in risposta all’incapacità della polizia di intervenire.

Tuttavia, finalmente questi due problematici personaggi si rendono conto di non voler più seguire quella strada, ma piuttosto di scegliere un percorso verso l’accettazione del lutto e del buono che, tutto sommato, lo stesso ha portato.

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche: