Oliver & Company (1988) di George Scribner è il ventisettesimo Classico Disney nonché l’ultimo film considerato propriamente parte del cosiddetto Medioevo Disney.
A fronte di un budget abbastanza importante – 31 milioni di dollari – ebbe, al tempo, un riscontro piuttosto scarso: appena 53 milioni di dollari alla sua prima uscita.
Di cosa parla Oliver & Company?
Oliver è un gattino che sogna di avere una famiglia tutta sua. Ma forse non andrà tutto come sperato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Oliver & Company?

Assolutamente sì.
Oliver & Company è una parentesi piuttosto interessante della storia Disney: un breve e isolato esperimento di rendere un Classico un musical a tutti gli effetti, con un’ironia piuttosto brillante ed una dose di violenza decisamente sorprendente visto il target di riferimento.
Di fatto, la pellicola è un thriller mascherato da film per l’infanzia, che riesce in più momenti a nascondersi dietro ad un umorismo leggero e spensierato ed un topos narrativo piuttosto classico.
Insomma, da riscoprire.

Durezza

Oliver vive in un mondo ostile.
L’apertura della pellicola è piuttosto esplicativa per raccontare da una parte il disperato desiderio del protagonista di trovare un nucleo di appartenenza, dall’altra il facile infrangersi di un sogno davanti ad una realtà che lo esclude fin dal primo momento.
Per questo Why Should I Worry? è una delle grandi maschere dietro cui il film si nasconde.

Dopo averci fatto stringere il cuore per la sorte infelice di Oliver, il film ci accompagna alla conoscenza della sua nuova famiglia, introdotta con il grande inganno di Dodger, che si racconta fin da subito come un abile approfittatore, anche a costo di rivalersi sui più deboli.
E proprio il racconto di una vita di strada spensierata è un perno fondamentale della pellicola nel suo volersi in parte raccontare come un’avventura dai toni spensierati e giocosi, un chiaro tentativo di ammorbidire diversi frangenti successivi per nulla felici, anzi piuttosto angoscianti e crudelmente realistici.
E, infatti, la crudeltà del film è tutta da scoprire.
Reale

Il racconto di Oliver & Company è, per certi versi, fin troppo reale.
Anche se il film non vuole essere mai troppo esplicito in questo senso, appare chiaro che Fagin si sia fatto intrappolare da uno strozzino che non sarà mai capace di ripagare, e che ora arranca nel disperato tentativo di raccogliere dei rottami per sfuggire alla morte certa.
La sua figura è un altro elemento fondamentale e funzionale alla trama per smorzare la violenza della maggior parte delle scene in cui è coinvolto, con una comicità slapstick piuttosto semplice, ma anche complessivamente ben integrata nella narrazione.

Ed è una scelta assolutamente fondamentale di fronte a frangenti così estremi – come la morte dei due cani di Sikes – da essere per forza portati fuori scena, rimanendo vivissimi nella mente dello spettatore, soprattutto nei momenti in cui i cani sono usati come metodo di punizione.
E il coinvolgimento di Jenny non è che ulteriore elemento di angoscia della pellicola, per cui Sikes non si fa scrupoli neanche nel rapire una bambina pur di mettersi qualche soldo in più in tasca, portando ad un adrenalinico finale che riesca a funzionare così bene per un unico motivo: l’ottima gestione della coralità.
Spazio

Gestire un film corale è una sfida notoriamente complessa.
Ci si trova spesso davanti a pellicole che vorrebbero far dialogare le diverse parti in scena e arricchire il racconto popolandolo di diverse figure, ma che finiscono per fare importanza solo ai pochi, effettivi protagonisti – lasciando sullo sfondo tutto il resto.
Al contrario Oliver & Company riesce a dare a tutti il giusto spazio, definendo i membri della gang con pochi ma funzionali tocchi, senza mai perdersi in caratterizzazioni banali o stereotipate – anche se ce ne sarebbero spesso tutti i presupposti – rendendo tutti i membri, nel loro piccolo, assolutamente indispensabili.

In questo modo, il film assume effettivamente la natura di storia corale, con anche degli importanti cambiamenti di passo di figure come Georgette, introdotta come villain secondario – o di passaggio – ma che infine sceglie di partecipare al salvataggio della sua piccola padrona.
E proprio intorno a questo personaggio che ruota uno dei pericoli più importanti della pellicola.
Incantesimo

Quando si ha fra le mani dei personaggi grigi, soprattutto in film per l’infanzia, lo scioglimento è la parte più rischiosa.
Infatti capita più spesso del dovuto che i protagonisti della storia, anche quelli più spiccatamente negativi, vengano come colpiti come da un incantesimo nella conclusione della pellicola, che li porta sotto la rassicurante morale del tutti possono essere migliori, negandogli il passaggio fondamentale in questa direzione.
Invece la bellezza del finale di Oliver & Company è che, di fatto, nulla cambia.

Come mi aspettavo una chiusura alla Lilli e il vagabondo (1955), in cui si arrivava senza farsi troppi problemi al punto di arrivo designato – e moralmente accettabile – in realtà lo status quo rimane sostanzialmente immutato: a fronte della significativa scelta di Oliver di rimanere con Jenny, tutti gli altri continuano, anzi esaltano la loro vita di strada.
Così infine Oliver e Dodger si devono separare un po’ a malincuore, ma nella consapevolezza di aver scelto la vita più giusta per loro, senza nessuna forzatura, come ben racconta lo screzio fra Goergette e Tito, che si rende infine conto di come lui e la barboncina siano di fatto incompatibili e che non possano forzarsi l’uno sull’altro.
E questa è una morale tanto più importante di un qualsiasi happy ending idealizzato.