Categorie
90s classics Avventura Azione Commedia Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi

Men in Black – Socchiudere le porte

Men in Black (1997) di Barry Sonnenfeld è il capostipite di una delle più importanti saghe sci-fi a cavallo fra i due millenni.

Infatti, a fronte di un budget abbastanza importante – 90 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: quasi 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Men in Black?

Vi siete mai chiesti chi nasconde le invasioni aliene sulla Terra? Con questo film lo scoprirete – e in una veste che potreste non aspettarvi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men in Black?

In generale, sì.

Men in Black si posizionò in maniera piuttosto interessante in un panorama sci-fi in continua evoluzione, confezionando una commedia fantascientifica che, pur nella sua semplicità, riuscì ad essere vincente ed a conquistare diverse generazioni di spettatori.

E riuscì in questo intento soprattutto grazie all’equilibrio dei toni interni alla pellicola, che spaziano dalla comicità più pura – e, spesso, anche piuttosto nera – fino ai toni più profondamente drammatici, riuscendo ancora oggi a risultare un prodotto di intrattenimento di grande piacevolezza.

Contesto

Men in Black agisce come la più classica origin story

…ma con una contestualizzazione piuttosto puntuale.

Le primissime scene funzionano ottimamente sia per definire il contesto del film, sia il tono dello stesso: una semplice tratta di esseri umani si rivela in realtà l’occasione per smascherare il primo colpevole della presenza aliena.

E la totale serenità con cui l’Agente K gestisce la situazione racconta proprio la quasi quotidianità della vicenda, compresa la parte in cui congeda il collega, l’Agente D, tramite l’iconico neutralizzatore, proprio per aprire la strada alla sua nuova spalla.

In questo senso Men in Black procede in due direzioni, riuscendo perfettamente ad intrecciare i primi passi dell’Agente J con la minaccia effettivamente in atto, che comincia a svelarsi prima tramite il suicidio di uno degli adepti della misteriosa società extraterrestre…

…e poi tramite il caotico procedere dell’alieno che prende le sembianze del defunto Edgar, con un incedere che prosegue sullo sfondo, alla ricerca di un non meglio specificato oggetto che cambierà le sorti del pianeta stesso, con un’ironia quasi grottesca, quasi inaspettata.

E, in questo senso si trova un altro elemento di forza della pellicola.

Equilibrio

In una produzione come quella di Men in Black era molto facile cadere in una comicità eccessiva.

Ma, sarà perché non siamo ancora nella follia comica del decennio successivo, sarà perché per fortuna non stiamo guardando Il quinto elemento (1996), la comicità è ben equilibrata in tutte le sue parti, riuscendo a convincere con un atto centrale che ci accompagna alla effettiva scoperta del mondo raccontato.

La stessa in particolare funziona particolarmente bene all’interno del viaggio di James, coinvolto casualmente nelle indagini del suo futuro collega, permettendo allo spettatore prima di scoprire l’altro lato della presenza aliena sulla terra – quello più pacifico, di persone integrate nella società…

…e poi l’effettiva base degli MIB, ombre che si muovono nel dietro le quinte per gestire la massiccia presenza aliena sulla terra, costretti però anche a rinunciare alla propria vita ed identità, come ben mostrato nell’integrazione di James all’interno della squadra.

E il percorso di coppia è indubbiamente il più interessante.

Arrivo

La maturazione di J è funzionale al ritiro del suo collega.

Infatti il giovane agente viene scelto come nuova leva proprio per la sua capacità di pensare fuori dagli schemi, come ben dimostra il test del reclutamento, in cui fa le scarpe a tutte le altre reclute senza macchia, ma capaci solamente di vedere la minaccia immediata e non i sottotesti in scena.

Non a caso, la stessa intelligenza risulta fondamentale all’Agente J anche per sconfiggere l’alieno insettoide, provocandolo nello schiacciare uno dei suoi simili, così da liberare il suo collega e, di conseguenza, dimostrare come la sua turbolenta intraprendenza può essere l’arma vincente del futuro degli MIB…

…che purtroppo non riguarda l’Agente K.

Anche se il discorso rimane più sullo sfondo – anche smorzato spesso dalle gag di J, in particolare nella scena della cancellazione della memoria della moglie di Edgar – vi è un velo di drammaticità nell’importante scelta di vita degli MIB ed il loro abbandono di tutto quello che era venuto prima.

Per questo il punto di arrivo ideale per l’Agente K, ora che la minaccia è stata risolta, è l’essere a sua volta congedato dall’incarico, così da chiudere il cerchio della storia del film, ma lasciando comunque la porta socchiusa per un possibile sequel con la nuova coppia di agenti in azione.

Categorie
90s classics Avventura Azione Fantascienza Film Frammenti di sci-fi

Independence Day – Un patriottismo inquieto

Independence Day (1996) è uno dei film di fantascienza più noti della ormai piuttosto ricca filmografia di Roland Emmerich.

A fronte di un budget decisamente importante – 75 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, superando gli 800 milioni di incasso.

Di cosa parla Independence Day?

Una navicella aliena si avvicina alla terra con intenzioni…tutte da scoprire. E un nutrito gruppo di personaggi è pronto ad accoglierla.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Independence Day?

In generale, sì.

L’unica colpa che – forse – si può imputare ad Independence day è la grande ingenuità con cui mette in scena un patriottismo americano piuttosto classico e che, ad oggi, con la consapevolezza delle successive evoluzioni del genere, può risultare poco digeribile.

Tuttavia, il classico di Emmerich ha anche il merito di portare avanti un tipo di fantascienza più riflessiva e negativa, che prese le mosse da Alien (1979) per mantenere vivo un filone che altrimenti rischiava di soccombere – e che, non a caso, nello stesso anno, Mars Attacks scelse di parodiare

Disastro

La costruzione del disastro di Independence Day è assolutamente puntuale.

Le prime battute della pellicola sono dedicate ad una breve carrellata dei personaggi, con anche una scrittura più indiretta per presentarli nei loro caratteri e nelle differenti dinamiche, mentre percorrono esistenze così diverse ma anche così evidentemente destinate ad intrecciarsi.

Infatti l’elemento fondamentale della pellicola – e di tutte le altre che derivarono dalla stessa – è proprio la scelta di garantire ad ognuno dei protagonisti un ruolo significativo nella vicenda, rendendoli un tassello fondamentale all’interno di un racconto corale di sforzo comune verso il medesimo obbiettivo.

Allo stesso modo, tutto il primo atto è finalizzato a raccontare i contorni di una minaccia che, concretamente, rimane per lungo tempo fuori scena, rappresentata quasi esclusivamente dalle imponenti astronavi che si posizionano strategicamente in tutto il pianeta.

E le motivazioni oscure – così come è oscuro per gran parte del tempo l’aspetto dei nemici – riescono a dare un valore tutto diverso ad un film che avrebbe facilmente potuto perdersi negli eccessi tipici del disaster movie, ma che sceglie invece una distruzione misurata e totalmente funzionale al racconto del disastro in essere.

E, proprio nella definizione dello stesso, il film è particolarmente vincente.

Parassita

Con tutti i suoi limiti, Independence Day va ad inserirsi all’interno della cosiddetta fantascienza negativa.

Ovvero, un racconto sci-fi in cui gli alieni sono tutt’altro che pacifici, anzi che risultano particolarmente minacciosi nei confronti degli umani e nelle modalità di invasione – in questo caso non una penetrazione silenziosa, ma una colonizzazione su larga scala.

Per questo la scoperta del nemico risulta quasi angosciante nel suo prendere, per certi versi, le mosse da Alien per raccontare alieni complessi nella forma quanto negli intenti, che possono essere compresi solamente tramite una tragica connessione mentale…

…grazie al quale è lo stesso presidente a scoprirne la natura di parassiti, locuste che viaggiano di pianeta in pianeta per assorbirne tutte le risorse, e con i quali è impossibile riuscire a stabilire una collaborazione pacifica e a comune vantaggio, rendendo possibile solo la distruzione reciproca.

E, proprio qui, Independence Day mostra la sua più grande debolezza.

Sogno

Independence Day racconta una tendenza forse mai veramente scomparsa.

Ovvero, la celebrazione statunitense attraverso la sconfitta della minaccia aliena.

Pur trattandosi di una celebrazione molto ingenua, la stessa è diventata quasi archetipica nel tempo, al punto da ridimensionarsi molto all’interno delle evoluzioni successive del genere, ampliando lo sguardo a livello effettivamente globale – come esempi successivi quali Arrival (2016) e Don’t Look Up (2021) dimostrano.

Nel caso del classico di Emmerich questa tendenza può risultare molto poco digeribile, ma nel complesso è anche abbastanza vincente nell’ottica di raccontare uno sforzo comune e quasi disperato di sgominare la minaccia aliena, fra l’altro con solo una manciata di minuti a disposizione.

Tuttavia, pur all’interno di un terzo atto complessivamente ben bilanciato, poteva potenzialmente essere ben più interessante approfondire la storia e la natura della minaccia aliena, magari penetrandola effettivamente nelle sue strutture, piuttosto che concentrarsi quasi unicamente sulla sua distruzione.

Categorie
90s classics Avventura Commedia Commedia nera Drammatico Fantascienza Film

Mars Attacks! – Sottrai che ti sottrai…

Mars Attacks! (1996) di Tim Burton è uno dei più grandi cult della fantascienza Anni Novanta.

Tuttavia, a fronte di un budget che si calcola essere arrivato fino a 100 milioni di dollari, è stato un enorme insuccesso commerciale, riuscendo a malapena a coprire i costi complessivi.

Di cosa parla Mars Attacks?

Una flotta di marziani sembra giungere sulla Terra con intenti pacifici, e così accolta a braccia aperte…oppure no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mars Attacks?

In generale, sì.

Mars Attacks è un film apparentemente anomalo all’interno della filmografia di Tim Burton, ma in realtà mantiene tutti i tratti caratteristici della sua poetica, a cominciare dall’umorismo grottesco e dalle bizzarrie sceniche che l’hanno reso così iconico.

Per il resto, la pellicola è un racconto sostanzialmente parossistico della più classica fantascienza statunitense, con i suoi eroi di guerra senza macchia, riuscendo allo stesso tempo a sorprendere e a deludere – a seconda di quale sia la vostra predisposizione a questa pellicola.

Pedine

I personaggi di Mars Attacks sono, per certi versi, nient’altro che delle pedine.

Il nutrito gruppo di protagonisti – con volti più o meno famosi al tempo – viene raccontato all’interno di situazioni molto diverse fra loro, ma accomunate da un taglio comune: la loro bizzarria, punto di partenza perfetto per l’umorismo grottesco che farà da padrone alla pellicola.

Un anche ampio intreccio di relazioni che viene quasi immediatamente vanificato dall’arrivo in scena della presenza distruttiva dei marziani, che prendono di mira sostanzialmente tutti, senza avere particolare remore verso la plot armor che lo spettatore si potrebbe aspettare che avessero.

Al contrario, la maggior parte di loro o diventa protagonista di morti piuttosto drammatiche – ma, paradossalmente, anche molto dimenticabili – o dei surreali esperimenti degli alieni nei loro confronti, degni del miglior Doctor Frankenstein che si rispetti.

Infatti, in Mars Attacks non c’è spazio per l’eroismo.

Distruzione

La distruzione di Mars Attacks ha un significato più ampio della mera carneficina scenica.

Burton si inserì all’interno di un panorama fantascientifico in cui – come anche nel contemporaneo Independence Day (996) – il cinema statunitense cercava nuovi spazi narrativi per un eroismo che aveva solo bisogno di nuovi nemici – gli alieni – e di nuovi modi di raccontarsi – anche con meno rimorsi, trattandosi di antagonisti immaginari.

E, proprio per questo, costruisce abilmente un racconto parossistico davvero sorprendente, che vanifica ogni possibilità non solo di controllo – con tentativi di ambasceria inutilmente pomposi – ma anche di rivalsa verso questi nuovi nemici, che appaiono semplicemente cattivi nella loro azione distruttiva.

E così in scena non è mai presente un effettivo dramma, ma anzi la stessa è dominata da una comicità grottesca che ha il suo apice nel salvataggio effettivo della Terra, ad opera dei due personaggi più improbabili e meno eroici possibili: il giovane Richie e la nonna, i classici emarginati protagonisti di Burton.

Ma, forse, proprio in tutta questa sottrazione e distruzione, risiede la grande debolezza del film.

Vuoto

Mars Attacks! è costantemente sottrattivo e distruttivo…

…e mai effettivamente costruttivo.

È indubbio che Burton si sia ampiamente divertito nel raccontare i suoi alieni così improbabili e grotteschi già solo per il loro aspetto, inutilmente crudeli nei loro esperimenti e genuinamente malvagi nei loro continui inganni, artefici di carneficine senza scampo.

Altrettanto certo è l’intento parodico, che pesca sia dai B-Movie del genere, sia da una tendenza del cinema statunitense che poteva risultare – e risulterà – alla lunga quasi ridicola, con un racconto genuinamente dissacrante, in cui gli alieni non hanno altra motivazione se non il puro gusto della distruzione, e in cui non vi è spazio per eroi di sorta.

Ma, per il resto?

Anche se molto probabilmente non era l’intento della pellicola, sembra mancare un punto di arrivo di tutto il discorso, un’antitesi davvero graffiante che potesse non solo distruggere dei concetti, ma crearne di nuovi – o anche solo dare degli spunti per gli stessi.

Al contrario, mancando di questo elemento, la pellicola potrebbe risultare alla lunga stancante, un grande – e iconico – esperimento dissacrante e divertito che conquistò intere generazioni, ma che vanificò il grande potenziale che racchiudeva al suo interno.

Categorie
90s classics Avventura Azione Dramma familiare Drammatico Fantascienza Fantastico Film

Stargate – Un’ossessione lunga un decennio

Stargate (1994) è stato il primo cult della fantascienza diretto da Roland Emmerich – autore, pochi anni dopo, di Indipendence Day (1996).

A fronte di un budget comunque non poco importante – 55 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, guadagnando quasi quattro volte tanto il budget.

Di cosa parla Stargate?

Daniel Jackson è uno studioso di lingua egizia con delle teorie piuttosto particolari: le piramidi sono ben più antiche degli egizi e di origine alinea. Eppure, forse non è così lontano dalla realtà…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Stargate?

In generale, sì.

Stargate si posiziona, insieme a La Mummia (1999) e, in parte, a Il quinto elemento (1997) nel trend del decennio di ambientare avventure sci-fi nelle misteriose atmosfere dell’antico egizio, spunto per storie di grande fascino, in bilico fra fantascienza e fantasy.

Nello specifico Stargate si presenta come un buon punto di incontro fra il film di avventura e una fantascienza abbastanza classica, apparendo forse in certi momenti fin troppo sovraccaricato, ma risultando nel complesso un prodotto di intrattenimento piacevole ed avvincente.

Stratificazione

Il primo atto di Stargate è piuttosto stratificato…

…ma mai eccessivo.

A differenza del poco successivo Il quinto elemento, dove tutta la trama è raccontata nei primi venti minuti, il primo atto del film di Emmerich offre un ben dosato assaggio della storia, seminando i primi indizi riguardo al mistero della pellicola, ma senza mai svelarsi eccessivamente.

Allo stesso modo, estremamente funzionale alla solidità della trama è l’introduzione parallela dei due protagonisti.

Da un lato, Jackson – che presenta dei parallelismi probabilmente non casuali con il protagonista di Atlantis (2001): il classico topos del protagonista sognatore incompreso, che lo spettatore, anche nella consapevolezza della natura della pellicola, è pronto a seguire nelle sue apparentemente strampalate teorie.

Ben pensata è anche l’introduzione di Jack, rinchiuso all’interno del suo più grande pentimento – la morte accidentale del figlio – evento che l’ha profondamente indurito e fatto chiudere in se stesso, tanto da apparire, nei primi momenti della pellicola, quasi come un antagonista.

Eppure, niente è come sembra.

Accompagnare

Un elemento di grande valore della pellicola è come accompagna lo spettatore.

La scoperta del mistero, per quanto sia in parte nota alla maggior parte dei personaggi, passa soprattutto attraverso il suo protagonista, che viene come messo alla prova prima di accedere alla vera sfida – lo Stargate – che solo col suo ingegno riesce ad attivare.

Così tutto il primo atto ci conduce in questa graduale scoperta, e, tramite le intuizioni del protagonista e le sue correzioni al lavoro precedente, riesce a farla digerire molto meglio ad uno spettatore che non si sente così sopraffatto dalla mole di informazioni.

Una tendenza che caratterizza in parte anche l’atto secondo.

L’entrata in un mondo sconosciuto e l’immediata scoperta dei suoi misteri è minata dall’inevitabile barriera linguistica fra i personaggi umani e gli abitanti del pianeta – scelta non scontata per un film di questo periodo – e che contribuisce ad alimentare il senso di inquietudine…

…ancora di più grazie alle enigmatiche scene di attacco di alcuni dei soldati del gruppo, che diventano prede di quelli che sembrano a tutti gli effetti degli dei egizi particolarmente spietati nel loro agire, diventando un’immediata minaccia per i protagonisti.

E infine, lo scioglimento funziona…e non funziona.

Sovrabbondanza

Vi è un solo elemento che ho trovato veramente centrato dello scioglimento di Stargate.

Ovvero, il racconto dell’antefatto.

Jackson è come se fosse stanato da Jack mentre ripercorre i passi della storia pianeta, e riesce a svelarne le complesse origini in cui la mitologia egizia si intreccia perfettamente con una trama scifi anche piuttosto dark, che ha il suo pieno compimento estetico nello svelamento di Ra.

Infatti, la scelta di abbracciare in tutto e per tutto l’estetica – pur molto hollywoodiana – dell’antica corte egizia riesce a caricare l’ultimo atto di un particolare fascino, sia nella ribellione degli schiavi, sia negli atteggiamenti pomposi e languidi del villain.

Eppure, nelle ultime battute Stargate sembra incartarsi.

Mentre si sarebbe potuto scegliere uno scioglimento ben più semplice ed immediato, lo stesso viene frazionato in più momenti e situazioni, diventando, per quello che voleva raccontare, fin troppo complesso e stratificato…

…soprattutto a fronte di un racconto già di per sé piuttosto impegnativo da seguire.

Categorie
90s classics Avventura Azione Fantascienza Film

Il quinto elemento – Una storia a parte

Il quinto elemento (1997) di Luc Besson è uno dei più grandi cult di fantascienza del decennio.

A fronte di un budget abbastanza importante per l’epoca – 90 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale – acquisendo notorietà solo successivamente: poco più di 60 milioni di dollari.

Di cosa parla Il quinto elemento?

Un’enorme palla infuocata minaccia la terra e chi può salvarla se non…una donna creata in laboratorio?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il quinto elemento?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi né nel consigliarvi né nello sconsigliarvi questo film, in quanto è talmente particolare che potreste odiarlo quando innamorarvene perdutamente: una storia semplicissima, resa complicata e sovraccaricata in maniere incomprensibili…

…in realtà diventando sfondo di un racconto incentrato su un futuro incredibilmente bizzarro e che si schiude davanti agli occhi dello spettatore in un’infinita serie di scatole cinesi, pronte ogni volta a sorprenderti – o inorridirti.

Introduzione

L’introduzione de Il quinto elemento mi è sembrata infinita.

Solitamente in questo genere di produzioni si tende ad aprire la pellicola con un breve prologo riassuntivo dell’antefatto, per calare lo spettatore all’interno della vicenda, per poi passare concretamente al vivo dall’azione e ai suoi protagonisti, che la scopriranno effettivamente insieme allo spettatore.

Al contrario, in questo caso Luc Besson decide di raccontare una buona porzione della storia all’inizio del film, scelta che non sarebbe assolutamente problematica di per sé, se non fosse per la sensazione, durante il resto della visione, di aver già visto tutta la storia nei suoi primi venti minuti. 

Ma forse, è proprio questo il punto: il regista si libera della storia nella primissima parte della pellicola, perché la stessa è la parte ai suoi occhi minoritaria del progetto, quasi un pretesto per invece imbastire un mondo fantascientifico piuttosto bizzarro, ma assolutamente proprio della fantascienza di quegli anni.

E i suoi due protagonisti ne sono l’assoluta dimostrazione.

Vettori

Korben e Leeloo non sono protagonisti, ma bensì vettori.

Gli stessi vengono infatti costantemente trascinati in scena, diventando per certi versi dei vettori non tanto della storia, ma bensì del mondo raccontato, il vero centro della pellicola, che Besson si compiace di svelare progressivamente nelle sue divertenti e divertite bizzarrie.

Da questo punto di vista, due sono gli esempi emblematici.

Anzitutto, la scena dell’incarico a Korben: altri registi avrebbero reso un monologo rivelatorio il protagonista della scena, e invece Besson rende quel momento solo lo spunto per una serie di gag piuttosto gustose in cui i vari personaggi vengono stipati negli angoli della casa proprio per raccontare la grottesca natura della stessa.

Altrettanto significativa in questo senso è l’apparizione in scena di Ruby Rhod, una parodia su gambe delle popstar del momento, la cui funzione nella storia è totalmente accessoria, ma che, al contempo, è un tocco di colore fondamentale per raccontare il mondo de Il quinto elemento nella sua totale follia.

Ma, in questo senso, Leeloo merita un discorso a parte.

Passivo

Leeloo è, per molti versi, un elemento passivo della storia.

Come sulla carta dovrebbe essere la figura chiave per la sconfitta della minaccia in agguato, nel concreto appare il più delle volte inerme nelle braccia di Korben – nei pochi momenti in cui lui stesso è protagonista della scena – financo strumentale alla definizione dello stesso.

In questo senso stupisce che, invece che caratterizzarla dall’inizio semplicemente come un personaggio inerme, viene anzi caricata di una forza sovrumana e di un’intelligenza fuori dal comune, che le permette – almeno in teoria – di evolvere nel tempo per poter portare a compimento la sua missione.

In questo senso è difficile dare un giudizio netto ad una produzione così lontana nel tempo, ma nondimeno appare abbastanza fuori luogo la centralità del corpo di Leeloo più che altro per il desiderio sessuale maschile fin dalla sua primissima apparizione, financo nel suo essere interesse romantico del protagonista.

Da questo punto di vista la costruzione del loro rapporto non è esattamente centrata, anzi sembra per molti versi forzata al fine di unire i due personaggi nella scena finale, che agli occhi dello spettatore odierno potrebbe apparire di cattivo gusto, ma che non è altro il punto di arrivo della già voyeuristica introduzione dello stesso.

Ma, allora, chi è il vero protagonista attivo?

Ricerca

Paradossalmente, l’unico personaggio veramente attivo è il villain.

L’iconico personaggio di Gary Oldman è in effetti l’unica figura che porta effettivamente cambiamento e vivacità ad una trama che altrimenti sarebbe incredibilmente lineare – anzi, inserire in scena un antagonista ulteriore è una delle scelte più funzionali della pellicola.

Il problema è che, a suo modo, Zorg vive potenzialmente lo stesso dramma dello spettatore.

Se si è interessati al prosieguo e allo scioglimento della vicenda, e quindi molto di meno al vero focus della pellicola – il world building – come il villain si rimane costantemente scornati da una trama che non procede, anzi che si accartoccia in più momenti intorno ad un oggetto del desiderio che sembra impossibile da ottenere.

E, alla terza volta in cui Zorg sbatte il muso contro una scatola vuota, è il momento in cui si può accettare il film per quello che è – un magico excursus in una fantascienza incredibilmente bizzarra e così figlia dei suoi tempi – oppure essere ancora più frustrati di lui.

Soprattutto davanti ad uno scioglimento che, per forza di cose, è una continua corsa per risolvere la storia in pochissime scene.

Categorie
Avventura Azione Blade Runner Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo

Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

Categorie
Avventura Azione Blade Runner Distopico Dramma romantico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Noir

Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

Categorie
80s classics Cinema per ragazzi Commedia Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Horror Recult

E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

Categorie
80s classics Avventura Azione Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Futuristico

RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

Categorie
80s classics Avventura Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Giallo Thriller

The Dead Zone – Il sacrificio privato

The Dead Zone (1983) è un thriller fantascientifico e orrorifico, diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

A fronte di un budget medio – 10 milioni di dollari, circa 31 oggi – fu un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo – circa 113 oggi.

Di cosa parla The Dead Zone?

Johnny è un professore liceale che rimane coinvolto in un incidente stradale. Ma al suo risveglio, molte cose sono cambiate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Dead Zone?

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

The Dead Zone rappresenta un interessante incontro fra il thriller politico e il genere fantascientifico, oltre ad essere impreziosito da un intrigante taglio orrorifico – assomigliando per certi versi allo splendido Terrore dallo spazio profondo (1978) – e che deriva gran parte del suo valore dall’ottima performance di Christopher Walken.

Stranisce forse la struttura narrativa, che si snoda in una trama unitaria, ma divisa in una serie di piccoli episodi quasi auto-conclusivi, che assumono effettivamente un significato solamente arrivati al finale della pellicola.

Nel complesso. comunque. ve la consiglio.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

L’incipit di The Dead Zone è un delizioso quadretto familiare.

Felice della sua relazione e del suo prossimo matrimonio con Sarah, il protagonista sente di avere tutto il tempo del mondo, e di poter per questo allontanare le richieste della sua fidanzata di intrattenersi sessualmente prima di sposarsi…

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

…ma il destino è contro di lui.

L’incidente è costruito ad arte per definirne la totale casualità: un camionista assonnato che chiude gli occhi quel tanto che basta per perdere il controllo del mezzo, e mettersi fra capo e collo nel percorso di Johnny – e, così, farlo schiantare.

Ruolo

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Dopo aver perso la sua posizione nella comunità, il primo atto è dedicato alla riscoperta del ruolo.

Al suo risveglio, la pellicola costruisce una splendida tensione definita da piccoli dettagli: il corpo miracolosamente senza ferite né bende, i duri avvertimenti del dottore alla madre di Johnny, rappresentano le prime, dolorose pennellate di un quadretto inquieto.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Soprattutto, l’elemento più drammatico e di impatto è la dissoluzione del rapporto con Sarah – tanto che la madre gli consiglia di togliersela dalla testa – che ormai si è creata quella famiglia che lei e Johnny avrebbero dovuto costruire insieme.

Ma è solo l’inizio.

Prova

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Il secondo atto è da manuale.

La scoperta dei poteri è improvvisa e segna l’inizio delle dinamiche più strettamente orrorifiche, che risultano vincenti grazie ad una regia e ad un montaggio molto indovinati, oltre alla travolgente presenza scenica dell’attore protagonista.

Ma le premonizioni non si limitano al presente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Le visioni di Johnny sono sempre legate ad un’atmosfera funebre o quantomeno tragica, spaziando anche nella scoperta della morte presunta della madre del Dottor Sam Weizak – dinamica molto potente, ma che purtroppo appare unicamente funzionale alla trama

E subito il protagonista si trova preso d’assalto da chi crede di poterlo usare come sua personale palla di vetro per risolvere misteri e prevedere il futuro, mentre spesso le risposte che i personaggi ricevono non erano quelle che si aspettavano – o che desideravano…

Climax

Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Nella parte centrale si assiste ad un climax peculiare.

Vi è un momento di quiete, un apparente riavvicinamento – anche piuttosto intraprendente – di Sarah, la ricostruzione della famiglia spezzata, forse la possibilità di dimenticarsi dei suoi nefasti poteri…

…per poi ritornare immediatamente sui suoi passi.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Per questo, ho trovato la gestione di Sarah piuttosto straniante: la donna sembra come dare una falsa speranza al suo vecchio fidanzato, per poi tirarsi indietro e rimanere perlopiù un personaggio fuori scena, comparendo solo di tanto in tanto per regalargli nuovi, deliziosi, turbamenti emotivi.

Spogliato di tutto, Johnny prende la dolorosa decisione di usare attivamente i suoi poteri.

Ed è una scelta devastante.

Impotenza

Tutta la dinamica dell’investigazione è quella che più ho apprezzato – e anche quella più propria dello stile di Cronenberg: Johnny ha una sorta di epifania, che lo porta alla scelta di aiutare finalmente lo sceriffo nel risolvere il misterioso caso di Castle Rock.

Ma c’è un prezzo da pagare.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Riuscendosi ad immergersi efficacemente nella visione dell’omicidio in atto, il protagonista diventa una sorta di testimone omertoso del delitto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena – arrivando così alla terribile consapevolezza di poter solo punire il colpevole.

Ne segue una rincorsa all’omicida, invadendo lo spazio familiare e svelando la complicità della madre stessa, mentre nell’intimità del bagno si svolge un’ulteriore tragedia: il suicidio quasi chirurgico del colpevole, che si getta sulla sua stessa arma del delitto e si fa trovare esangue nella vasca da bagno.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Poi, di nuovo un’apparente quiete.

Dopo aver fuggito la sua casa natale, Johnny sembra avere l’occasione per ricostruire almeno parte della sua vecchia vita, diventando insegnante – e confidente – di un giovane ragazzo con cui condivide la timidezza e la riservatezza.

E invece, la nuova tragedia è dietro l’angolo.

Toccando inavvertitamente la mano del suo allievo, Johnny scopre il destino tragico che attende il ragazzino se deciderà di andare a pattinare quel giorno, entrando così in aperto contrasto con il padre e venendo scacciato…

…ma riuscendo così, con il proprio sacrificio, non solo a salvare una vita, ma anche a comprendere il senso della sua zona morta, delle vere potenzialità del suo potere: cambiare le nefaste visioni future.

Sacrificio

Nel finale, Johnny mette in scena un sacrificio privato.

Per pura causalità – e per una simpatica scelta di scrittura – il protagonista non era riuscito a prendere per mano il futuro Presidente degli Stati Uniti al loro primo incontro – infatti, invece che stringerli la mano, Greg Stillson gli aveva dato una spilla della sua campagna.

Invece, quando finalmente riesce a venire in contatto con il favorito alle elezioni cittadine, Johnny riesce finalmente ad ottenere una visione futura chiara di quello che potrebbe succedere se questo grottesco capopopolo riuscisse effettivamente a diventare Presidente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Si instaura così un dilemma morale piuttosto classico – il viaggiatore nel tempo assassino di Hitler – che viene risolto dal Dottor Weizak, che diventa inconsapevolmente la spinta finale che serviva al protagonista per prendere la sua scelta suicida.

Ma, a sorpresa, il suo intervento non porta alla morte di Stillson – almeno non immediatamente – ma al suo totale crollo di credibilità: usando un bambino come scudo di carne, l’uomo finisce sulle prime pagine dei giornali, e mette un punto fermo alla sua carriera politica…

…e, così, anche alla vita del martire Johnny.