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Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

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Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

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E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

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RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

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The Dead Zone – Il sacrificio privato

The Dead Zone (1983) è un thriller fantascientifico e orrorifico, diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

A fronte di un budget medio – 10 milioni di dollari, circa 31 oggi – fu un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo – circa 113 oggi.

Di cosa parla The Dead Zone?

Johnny è un professore liceale che rimane coinvolto in un incidente stradale. Ma al suo risveglio, molte cose sono cambiate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Dead Zone?

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

The Dead Zone rappresenta un interessante incontro fra il thriller politico e il genere fantascientifico, oltre ad essere impreziosito da un intrigante taglio orrorifico – assomigliando per certi versi allo splendido Terrore dallo spazio profondo (1978) – e che deriva gran parte del suo valore dall’ottima performance di Christopher Walken.

Stranisce forse la struttura narrativa, che si snoda in una trama unitaria, ma divisa in una serie di piccoli episodi quasi auto-conclusivi, che assumono effettivamente un significato solamente arrivati al finale della pellicola.

Nel complesso. comunque. ve la consiglio.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

L’incipit di The Dead Zone è un delizioso quadretto familiare.

Felice della sua relazione e del suo prossimo matrimonio con Sarah, il protagonista sente di avere tutto il tempo del mondo, e di poter per questo allontanare le richieste della sua fidanzata di intrattenersi sessualmente prima di sposarsi…

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

…ma il destino è contro di lui.

L’incidente è costruito ad arte per definirne la totale casualità: un camionista assonnato che chiude gli occhi quel tanto che basta per perdere il controllo del mezzo, e mettersi fra capo e collo nel percorso di Johnny – e, così, farlo schiantare.

Ruolo

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Dopo aver perso la sua posizione nella comunità, il primo atto è dedicato alla riscoperta del ruolo.

Al suo risveglio, la pellicola costruisce una splendida tensione definita da piccoli dettagli: il corpo miracolosamente senza ferite né bende, i duri avvertimenti del dottore alla madre di Johnny, rappresentano le prime, dolorose pennellate di un quadretto inquieto.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Soprattutto, l’elemento più drammatico e di impatto è la dissoluzione del rapporto con Sarah – tanto che la madre gli consiglia di togliersela dalla testa – che ormai si è creata quella famiglia che lei e Johnny avrebbero dovuto costruire insieme.

Ma è solo l’inizio.

Prova

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Il secondo atto è da manuale.

La scoperta dei poteri è improvvisa e segna l’inizio delle dinamiche più strettamente orrorifiche, che risultano vincenti grazie ad una regia e ad un montaggio molto indovinati, oltre alla travolgente presenza scenica dell’attore protagonista.

Ma le premonizioni non si limitano al presente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Le visioni di Johnny sono sempre legate ad un’atmosfera funebre o quantomeno tragica, spaziando anche nella scoperta della morte presunta della madre del Dottor Sam Weizak – dinamica molto potente, ma che purtroppo appare unicamente funzionale alla trama

E subito il protagonista si trova preso d’assalto da chi crede di poterlo usare come sua personale palla di vetro per risolvere misteri e prevedere il futuro, mentre spesso le risposte che i personaggi ricevono non erano quelle che si aspettavano – o che desideravano…

Climax

Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Nella parte centrale si assiste ad un climax peculiare.

Vi è un momento di quiete, un apparente riavvicinamento – anche piuttosto intraprendente – di Sarah, la ricostruzione della famiglia spezzata, forse la possibilità di dimenticarsi dei suoi nefasti poteri…

…per poi ritornare immediatamente sui suoi passi.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Per questo, ho trovato la gestione di Sarah piuttosto straniante: la donna sembra come dare una falsa speranza al suo vecchio fidanzato, per poi tirarsi indietro e rimanere perlopiù un personaggio fuori scena, comparendo solo di tanto in tanto per regalargli nuovi, deliziosi, turbamenti emotivi.

Spogliato di tutto, Johnny prende la dolorosa decisione di usare attivamente i suoi poteri.

Ed è una scelta devastante.

Impotenza

Tutta la dinamica dell’investigazione è quella che più ho apprezzato – e anche quella più propria dello stile di Cronenberg: Johnny ha una sorta di epifania, che lo porta alla scelta di aiutare finalmente lo sceriffo nel risolvere il misterioso caso di Castle Rock.

Ma c’è un prezzo da pagare.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Riuscendosi ad immergersi efficacemente nella visione dell’omicidio in atto, il protagonista diventa una sorta di testimone omertoso del delitto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena – arrivando così alla terribile consapevolezza di poter solo punire il colpevole.

Ne segue una rincorsa all’omicida, invadendo lo spazio familiare e svelando la complicità della madre stessa, mentre nell’intimità del bagno si svolge un’ulteriore tragedia: il suicidio quasi chirurgico del colpevole, che si getta sulla sua stessa arma del delitto e si fa trovare esangue nella vasca da bagno.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Poi, di nuovo un’apparente quiete.

Dopo aver fuggito la sua casa natale, Johnny sembra avere l’occasione per ricostruire almeno parte della sua vecchia vita, diventando insegnante – e confidente – di un giovane ragazzo con cui condivide la timidezza e la riservatezza.

E invece, la nuova tragedia è dietro l’angolo.

Toccando inavvertitamente la mano del suo allievo, Johnny scopre il destino tragico che attende il ragazzino se deciderà di andare a pattinare quel giorno, entrando così in aperto contrasto con il padre e venendo scacciato…

…ma riuscendo così, con il proprio sacrificio, non solo a salvare una vita, ma anche a comprendere il senso della sua zona morta, delle vere potenzialità del suo potere: cambiare le nefaste visioni future.

Sacrificio

Nel finale, Johnny mette in scena un sacrificio privato.

Per pura causalità – e per una simpatica scelta di scrittura – il protagonista non era riuscito a prendere per mano il futuro Presidente degli Stati Uniti al loro primo incontro – infatti, invece che stringerli la mano, Greg Stillson gli aveva dato una spilla della sua campagna.

Invece, quando finalmente riesce a venire in contatto con il favorito alle elezioni cittadine, Johnny riesce finalmente ad ottenere una visione futura chiara di quello che potrebbe succedere se questo grottesco capopopolo riuscisse effettivamente a diventare Presidente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Si instaura così un dilemma morale piuttosto classico – il viaggiatore nel tempo assassino di Hitler – che viene risolto dal Dottor Weizak, che diventa inconsapevolmente la spinta finale che serviva al protagonista per prendere la sua scelta suicida.

Ma, a sorpresa, il suo intervento non porta alla morte di Stillson – almeno non immediatamente – ma al suo totale crollo di credibilità: usando un bambino come scudo di carne, l’uomo finisce sulle prime pagine dei giornali, e mette un punto fermo alla sua carriera politica…

…e, così, anche alla vita del martire Johnny.

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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Alien – La maternità mostruosa

Alien (1979) di Ridley Scott è uno dei film di fantascienza più iconici del suo genere (e non solo), con diversi sequel, prequel e spin-off usciti nel corso degli anni.

Con appena 11 milioni di budget – circa 48 milioni oggi – ebbe un successo incredibile: 184 milioni in tutto il mondo, circa 806 milioni oggi.

Di cosa parla Alien?

20122, Spazio. L’astronave di trasporto Nostromo sta compiendo il viaggio di ritorno verso la Terra, ma un messaggio misterioso bloccherà l’equipaggio su un pianeta sconosciuto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alien?

Assolutamente sì.

Alien è un cult non per caso: nonostante non sia un film particolarmente avvincente – ha dei ritmi assai lenti, soprattutto durante il primo atto – è una meraviglia dal punto di vista dell’innovazione, dell’utilizzo degli effettivi visivi e della regia.

Rappresenta, come il poco antecedente Terrore dallo spazio profondo (1978), un esempio di fantascienza estremamente negativa, in questo caso nettamente orrorifica fin dalla prima inquadratura, riuscendo ad incutere nello spettatore un senso di costante angoscia e paura…

Il vuoto cosmico

L’inizio di Alien è estremamente rivelatorio.

La lunga e lenta sequenza iniziale mostra un’aeronave vuota, immersa nelle tenebre, in cui le poche luci provengono dalle fredde e mute macchine, che sembrano agire nell’ombra, alle spalle degli stessi umani che dovrebbero controllarle…

Particolarmente interessante è l’inquadratura che si sofferma sul casco da astronauta, in cui si riflette freddamente la schermata del computer – o, meglio, di Madre: una macchina che sta elaborando le informazioni in un linguaggio incomprensibile all’uomo, nella lingua delle macchine…

Un’apertura fin da subito angosciante, ancora di più per il contrasto con la sequenza successiva…

I bambini

La scena seguente è una delle poche con un’illuminazione chiara e confortante.

Incontriamo per la prima volta i protagonisti della storia, addormentati, con un abbigliamento che, più che adulti, li fa sembrare dei neonati in fasce, immersi proprio in questo morbido bianco e in una musica stranamente rilassante…

Il tema della maternità ingannevole è presente già nel contrasto fra questa scena e la precedente, e così anche nel modo in cui i personaggi umani si rivelano sempre più dipendenti da Madre: addormentati nel suo ventre, in una sorta di bozzoli, ignari della trama che è stata messa in moto alle loro spalle.

L’apparente delicatezza e familiarità della situazione è ribadita anche dalla scena immediatamente successiva, in cui i personaggi, ancora vestiti di bianco, si riuniscono per la colazione, in una sequenza scarsamente illuminata da una luce fredda, bianca e artificiale.

E, proprio come se fossero nella casa natale, Ash dice a Dallas:

Mother wants to talk to you.

Madre ti vuole parlare.

E non è un caso che proprio Ash inviti il suo compagno umano a recarsi dal computer centrale, con cui ha comunicato in realtà per tutto il tempo, giocando un ruolo centrale nell’avviare il piano, partendo proprio da questo invito apparentemente innocuo.

Le prede

Dallas in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

L’esplorazione del mondo alieno è la sequenza più iconica della pellicola.

In questo caso è la prima volta che Alien assume delle tinte nettamente orrorifiche, con i personaggi che si muovono in un luogo inghiottito da tenebre apparentemente impenetrabili, su cui tentano disperatamente e inutilmente di fare luce.

Invece riescono a rivelare solo qualcosa di incomprensibile.

La scena è ancora più suggestiva se si pensa alla tecnica utilizzata: l’intera sequenza è raccontata tramite l’utilizzo della camera a mano, che mima la trasmissione diretta ed incostante degli esploratori alla nave.

Uovo di Alien in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Particolarmente angosciante è la scoperta dell’iconica cabina di pilotaggio: enorme, incomprensibile, guidata da un essere enorme, ma ormai defunto.

E se un gigante come quello è stato sconfitto…

Ancora più indovinata è la scena della scoperta delle uova, in cui Scott alterna soggettive di Dallas – a volte ancora con la camera a mano – ad inquadrature più ampie che mostrano lo svolgersi del dramma, del personaggio che da esploratore si trasforma in preda.

La voce fuori dal coro

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un film fondamentalmente corale, dal secondo atto in poi una voce si staglia in netto contrasto con tutti gli altri.

Quella di Ripley, la vera protagonista, la final girl ante litteram.

Il suo personaggio è infatti l’unico che cerca attivamente di contrastare le decisioni di Ash, mostrandosi come la più ragionevole del gruppo, pur avendo molte difficoltà ad imporre la propria autorità, contrastata dai ben più irriverenti e testardi personaggi maschili.

Sigourney Weaver, Ian Holm e Yaphet Kotto in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

In questo senso, Alien rappresenta un cambiamento epocale: nella maggior parte dei film di fantascienza precedenti e successivi, il personaggio femminile – se presente – è messo ai margini della scena, è poco attivo, nonché spesso ridotto ad interesse amoroso o a spalla del protagonista maschile.

Invece per tutta la pellicola Ripley è la voce della ragione, l’unica che veramente cerca di imporsi per trovare una soluzione che non comporti la morte dei suoi compagni e l’unica, infine, veramente capace di utilizzare la propria intelligenza per sconfiggere il mostro.

Il parto

Il parto mostruoso è la rivelazione finale.

Dopo essere riusciti a mettere le mani sull’intruso, in un apparente clima di vittoria, il gruppo torna a ricomporre una scena familiare, parallela a quella della colazione iniziale, dove sembra che vada tutto bene.

Invece, con un sapiente crescendo di tensione, la scena svela tutto il suo orrore e la sua drammaticità: il petto di Dallas esplode per far nascere il mostro, in un parto pieno di sangue, morte e orrore.

Così si rivela già anticipatamente la vera natura di Madre e di tutta la situazione: la ciurma non sono i suoi bambini, ma sono delle cavie, delle prede messe a disposizione dello xenomorfo per il guadagno della compagnia.

Uno slasher?

Sigourney Weaver in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

Nonostante Alien sia un cult della fantascienza, contiene alcuni elementi propri dello slasher, sottogenere horror che stava prendendo piede proprio in quegli anni.

Oltre all’emergere della final girl – Ripley – nel terzo atto i personaggi si comportano proprio come i protagonisti di un film horror adolescenziale: scelgono di non fuggire al pericolo, ma di affrontare direttamente il mostro, in maniera sempre più vana e disperata.

E così cominciano a morire uno dopo l’altro, in sequenze semplicemente perfette per la tensione e la messinscena, dove spesso gli unici suoni sono il loro ansimare, il gocciolio dell’acqua, l’eco dei loro passi…

In particolare, Scott fa un uso molto intelligente della fotografia, nascondendo il più possibile il mostro, rivelandolo principalmente per i dettagli più agghiaccianti: una minaccia sfuggente, ma costante.

Sigourney Weaver e xenomorfo in una scena di Alien (1979) di Ridley Scott

E la tensione rimane palpabile fino all’ultimo momento, con anche un colpo di scena ottimamente congegnato: lo spettatore tira un sospiro di sollievo insieme a Ripley quando vede la nave scoppiare – e lo xenomorfo insieme ad essa…

…ma è di nuovo assalito dall’orrore e dall’angoscia quando scopre che il mostro era riuscito a nascondersi.

Ma è proprio in questo momento che Ripley si dimostra la vera eroina della storia, riuscendo a ingannare e infine a sconfiggere il nemico, pur mostrandosi in tutta la sua insicurezza e paura, in cui lo spettatore può facilmente rispecchiarsi…

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Terrore dallo spazio profondo – L’invasione silenziosa

Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.

A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene: 28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.

Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?

In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?

Leonard Nimoy, Donald Sutherland e Jeff Goldblum in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Assolutamente sì.

Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.

Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un inizio a metà

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.

Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.

E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.

Un presentimento

Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.

Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.

Today everything seemed the same, but it wasn’t.

Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.

Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.

Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…

Invisibile e inarrestabile

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.

L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.

Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?

Al contempo l’orrore visivo è garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.

Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…

La chiusura

Brooke Adams in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.

Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.

Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.

Donald Sutherland in una scena di Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman

Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…

…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.

Terrore dallo spazio profondo regia

Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondo non conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).

Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.

Anzitutto, la profondità dello sguardo.

In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.

Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:

Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:

Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:

Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche:

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Incontri ravvicinati del terzo tipo – La fantascienza positiva

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) è un classico della fantascienza Anni Settanta (e non solo), nato dalla mente di uno dei più grandi maestri dei cult vivente, Steven Spielberg, al tempo forte del recente successo di Lo squalo (1975).

Con un budget di appena 20 milioni di dollari – circa 100 oggi – ebbe un successo stratosferico, con un incasso di 300 milioni di dollari – circa un miliardo e mezzo oggi.

Di cosa parla Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Durante un turno di lavoro notturno, Roy Neary viene coinvolto in un inseguimento di quattro UFO da parte della polizia, vivendo così un incontro ravvicinato...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Incontri ravvicinati del terzo tipo è veramente un titolo imperdibile se siete appassionati di fantascienza, soprattutto a quel tipo di fantascienza pensata per un pubblico più giovane.

Fra l’altro una pellicola che mostra tutta l’intelligenza di Spielberg anche come sceneggiatore, capace di creare scene dal taglio orrorifico diventate immediatamente iconiche – e citate in Stranger Things – e passare organicamente a momenti di pura comicità.

Insomma, cosa state aspettando?

Gli eroi per caso

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo si basa su un modello narrativo molto semplice, ma che io adoro dei film di fantascienza.

L’eroe incompreso.

Il protagonista principale è Roy, che fin da subito è raccontato come personaggio fondamentalmente non preso sul serio dalla sua famiglia, testardo, quasi infantile, contrapposto alla più autoritaria figura femminile.

A lui viene affidata un’importante sequenza comica, che crea un climax fondamentale per cucire in maniera ancora più importante la relazione con lo spettatore: del tutto vittima degli impulsi psichici a cui è stato sottoposto, in un momento di apparente follia cerca di ricreare materialmente il messaggio degli alieni.

E proprio per questo viene abbandonato.

Richard Dreyfuss e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Questo modello è trasmesso anche ad altri due personaggi: il piccolo Barry e sua madre, Jillian.

In questo caso il personaggio femminile è un po’ sacrificato, vincolato praticamente solo al ruolo materno. Ma non c’è da stupirsi: eravamo ancora agli albori della fantascienza moderna, in cui il genere era principalmente pensato per un pubblico maschile, molto lontano dell’innovazione di Alien (1979) e dalle eroine di Cameron.

Tuttavia, il contrasto fra Jillian e suo figlio ha un risultato irresistibile.

Punti di vista

Cary Guffey in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La scena più iconica della pellicola è indubbiamente l’attacco alla casa di Barry e il suo rapimento.

Una scena diretta con grande maestria e un uso delle luci veramente indovinato, che fanno da sfondo perfetto per l’orrore e le grida di Jillian, che vede improvvisamente la casa animarsi e urlare, come posseduta dai fantasmi.

Al contrario il bambino, che aveva già vissuto felicemente il primo contatto, è del tutto affascinato da questo divertente gioco di luci, e per questo si lascia rapire dalla bellezza di questo nuovo amico da scoprire.

Ed è, di fatto, l’unico a capire il vero significato del messaggio degli alieni.

La fantascienza positiva

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La peculiarità di Incontri ravvicinati del terzo tipo è il suo approccio molto positivo alla fantascienza.

Come per Una nuova speranza – uscito lo stesso anno – Spielberg predilige una visione molto più vicina ad un target più giovane, diversamente dal taglio più drammatico e violento che sarà invece tipico del genere nel decennio successivo.

In particolare, la positività dell’incontro fra alieni e umani è racchiusa nel personaggio di Berry.

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Il bambino vive tutto come un sogno, ed è evidente il parallelismo del montaggio fra i piccoli alieni che si vedono alla fine – interpretati effettivamente da delle ragazzine – e il volto del giovane personaggio umano: non sono poi così diversi.

Allo stesso modo il contatto con gli extraterrestri è un finalizzato al legame, e non al conflitto: tramite un linguaggio universale – la musica – questi pacifici alieni cercano di insegnare agli umani come poter comunicare e poter unire le due specie.

Tanto che nel finale il protagonista è accolto sulla nave, pronto ad essere ambasciatore dell’umanità…

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Westworld – La vacanza perfetta

Westworld (1973) di Michael Crichton è uno dei film di fantascienza più di culto degli Anni Settanta, precursore di tematiche e dinamiche che saranno poi riprese in cult successivi come Jurassic Park (1993) e Terminator (1984).

La storia godette di un sequel e di due serie tv, la più recente del 2016.

A fronte di un budget veramente ridotto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 8 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 10 milioni in tutto il mondo – circa 68 oggi.

Di cosa parla Westworld?

In un futuristico 1983, Peter e John visitano un parco a tema unico al mondo: i personaggi al loro interno non sono figuranti, ma robot dalle sembianze umane, apparentemente molto docili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Westworld?

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Assolutamente sì.

In Westworld troviamo una fantascienza semplice, lineare, che lascia volutamente spazio al mistero e al dubbio, che preferisce raccontare per immagini e per atmosfere, piuttosto che sprecarsi in utili spiegoni.

Un misto fra comico e horror con effetti di montaggio quasi grotteschi, con un senso di angoscia che comincia lentamente a serpeggiare all’interno della pellicola, rivelando a poco a poco la sua trama…

Un inizio rilassato

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

La pellicola si apre in maniera abbastanza simile alla serie omonima.

Dopo un incipit che sembra uno spot pubblicitario – in realtà perfettamente calzante per dare una contestualizzazione allo spettatore – incontriamo i due protagonisti – se così vogliamo chiamarli – in arrivo al parco.

Ci troviamo subito all’interno di un’atmosfera apparentemente rilassata, in cui la coppia di amici comincia ad ambientarsi nel parco, pur con qualche elemento che ci svela quello che succederà – come il colpo di pistola…

Ma l’indizio visivo più evidente appare quando siamo ormai ad un terzo del film: la bella ragazza androide con cui Peter si è intrattenuto a sua insaputa tiene lo sguardo fisso nel vuoto, con gli occhi che le luccicano in maniera sinistra…

Dietro le quinte

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

We aren’t dealing with ordinary machines here

Non stiamo parlando di semplici robot

Un piccolo incidente ci porta dietro le quinte del parco.

Osserviamo i tecnici che armeggiano sui corpi degli androidi, che aprono e chiudono a piacimento, svelando l’intrico di cavi che stride così fortemente con quei volti così apparentemente e perfettamente umani…

E così veniamo messi al corrente di una terrificante rivelazione: queste macchine sono molto meno docili e molto più imprevedibili di quanto si possa pensare. E, ancora peggio, un virus sembra causare diversi malfunzionamenti, e non sempre risolvibili…

La rivolta incontrollabile

Richard Benjamin in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Il fuoco del malfunzionamento, della rivolta è inarrestabile.

Si comincia dalle piccole cose, da siparietti apparentemente innocenti: la coppia di amici nel deserto che viene attaccata da un serpente a sonagli, la ragazza di corte che si rifiuta di cedere alla avance di uno degli ospiti…

…e lo stesso viene trafitto dal Cavaliere Nero.

Come per l’ospite appena ucciso, i due protagonisti si risvegliano totalmente ignari della situazione, e decidono di stare al gioco con l’inquietante pistolero, sicuri di poterla avere vinta con facilità.

E così uno dei due viene ucciso.

…e allora il silenzio

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Nell’ultimo atto il tema della macchina incontrollabile si mostra in tutta la sua tragicità.

In scena cala un drammatico silenzio: Peter e il Pistolero sono le ultime pedine rimaste in gioco, destinate allo scontro determinante fra il creatore e la sua creazione.

L’ultimo uomo è tampinato come un animale negli oscuri corridoi sotterranei, incapace di avere la meglio sulla macchina inarrestabile.

Ma, sul finale, per un momento sembra essere vittorioso…

Yul Brynner in una scena di Westworld (1973) di Michael Crichton

Per un attimo Peter sembra tornare nel mondo reale, nel mondo degli uomini, trovando una ragazza incatenata che sente di voler salvare, quasi come un premio per l’impresa appena compiuta, concedendole la pietà di un sorso d’acqua…

E invece la reazione della donna ne rivela la vera natura, prima che il Pistolero, totalmente spogliato di ogni aspetto umano, si fiondi ancora su di Peter, mentre il volto gli si schiude e rivela la fredda verità che il protagonista pensava di aver scampato:

Questo è il mondo dei robot.