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Aliens – Il sequel muscolare

Aliens (1986) di James Cameron si impegna nel difficile compito di portare un seguito ad Alien (1979), uno dei più grandi cult della fantascienza, riuscendo tuttavia a creare un sequel a tratti ancora più iconico dell’originale, pur con un taglio narrativo ed estetico assai diverso.

Con un budget leggermente superiore al precedente – 18 milioni di dollari, circa 160 oggi – fu ancora una volta un enorme successo commerciale, con un incasso di 130 milioni di dollari (senza considerare le varie re-release negli anni) – circa 346 oggi.

Di cosa parla Aliens?

Dopo mezzo secolo di viaggio nell’ipersonno, Ripley si risveglia in un mondo cambiato e inconsapevole della minaccia degli xenomorfi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aliens?

Sigourney Weaver e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Assolutamente sì.

Aliens è davvero il sequel più indovinato per Alien, anche per la scelta di renderlo molto più digeribile e meno complesso rispetto al capostipite, abbondando con l’azione e le esplosioni, ed inserendo anche una comicità sostanzialmente assente nel precedente.

Insomma, forse artisticamente meno elegante rispetto all’opera di Ridley Scott, nondimeno un’ottima prova per James Cameron, già forte del successo di Terminator (1984), da cui eredita non pochi elementi registici.

Insomma, se amate già Cameron, amerete questa pellicola.

Se al contrario preferivate la complessità di Scott…

L’aggancio perfetto

Sigourney Weaver in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

L’incipit di Aliens è l’aggancio perfetto.

James Cameron era indubbiamente il regista più calzante per creare un sequel che sapesse intercettare il sempre più nutrito fandom del primo capitolo, riuscendo a cogliere gli umori e le aspettative del pubblico.

Il primo colpo di genio è stato spostare la storia diversi anni avanti rispetto al primo – così da non doverne essere troppo dipendente – e, soprattutto, rendere lo spettatore complice della protagonista: come nel primo, nessuno crede a Ripley, ma sia noi che lei sappiamo verso quale pericolo si stanno dirigendo i personaggi.

Allo stesso modo, Cameron è stato molto abile nel riuscire a riprendere l’iconicità della scena del parto, applicandola però a Ripley, andando al contempo a riportare in scena – all’inizio, ma anche nel resto della pellicola – il concetto di maternità mostruosa proprio di Alien, pur in chiave più semplice.

Una nuova atmosfera

Il cambiamento di tono della pellicola l’ho trovato esilarante su più livelli.

Anzitutto, perché Cameron ha avuto la libertà di costruire i personaggi secondari – anzi, secondarissimi – con un background – quello militare – in cui riesce a muoversi con molta scioltezza e familiarità, come dimostrerà anche e soprattutto in Avatar (2009).

Un cambio di passo che, anche se abbandona il concetto dell’eroe comune proprio del precedente film, gli permette anche di alleggerire i toni dal punto di vista drammatico, con dinamiche e battute molto più semplici, ma, al contempo, più godibili.

L’unico problema di questo cambio di passo è come – anche comprensibilmente – si scelga di far diventare Ripley l’assoluta protagonista, rendendo così il film di fatto mancante nella caratterizzazione dei secondari, che diventano in breve tempo semplice carne da macello per gli alieni.

La tensione

Uno degli elementi più vincenti della pellicola è la costruzione della tensione.

Si parte fin dall’inizio con Ripley – e, indirettamente, lo spettatore – che cerca di convincere tutti gli altri dell’esistenza dello xenomorfo, per poi essere coinvolta in una missione di salvataggio di una situazione di cui solo noi e la protagonista conosciamo la gravità.

Gli xenomorfi restano in realtà fuori scena per buona parte del primo e secondo atto, ma sono una presenza invisibile costante: proprio nei silenzi, nei dettagli, nel mutismo di Newt che si percepisce come il pericolo sia proprio dietro l’angolo…

Il picco drammatico è il ritrovamento degli abitanti della colonia, ormai posseduti, nella mente e nel corpo, dalla ancora sconosciuta Madre che porta avanti la sua gestazione proprio grazie a loro, con un breve quanto agghiacciante dialogo con uno dei prigionieri…

Ancora a pezzi

Lo xenomorfo in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Per la gestione degli xenomorfi, Cameron riprende le mosse da Scott, ma sceglie poi anche una via profondamente diversa.

Gli alieni vengono infatti mostrati sempre in contesti in cui quasi spariscono nel buio della scena, con degli angoscianti primi piani – anche ripetuti – sui loro volti, quasi delle soggettive delle vittime prima che vengano brutalmente divorate.

Quindi si sceglie ancora una volta di mostrare il nemico a pezzi, in maniera funzionale a renderlo una presenza costante e sfuggente, sottolineata anche da un ottimo utilizzo del finto documentario, tramite i messaggi estremamente confusi che vengono trasmessi dalle forze sul campo all’astronave.

Tuttavia, al contempo Cameron sceglie di distruggere l’icona dello xenomorfo, i cui rappresentanti vengono sconfitti molto più facilmente rispetto al primo capitolo, smembrati, bruciati, addirittura schiacciati come degli insetti…

…ma per un buon motivo.

La banalità funzionale

Queen Xenomorph e Carrie Henn in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Sul finale, Cameron inserisce un ultimo elemento fondamentale.

Ripley si pone una giusta domanda, che lo spettatore potenzialmente poteva essersi posto persino in Alien: se ci sono tutte queste uova, chi le sta deponendo?

L’abilità di scrittura in questo caso è nell’inserire questo quesito, e non dare subito una risposta, facendo avvenire l’incontro con la Madre quasi per caso, con un espediente piuttosto semplice ma funzionale: Newt viene rapita.

E così la terribile figura della gestante viene rivelata al pubblico in tutta la sua monumentalità e nel suo aspetto mostruoso, come una macchina che crea dei nemici pericolosissimi per l’uomo, mostrandosi lei stessa come un avversario ancora più micidiale…

Déjà-vu

Sigourney Weaver e Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Il finale di Aliens raccoglie tutta quella tensione quasi sopita per il resto del film.

Nonostante gli xenomorfi sembrino assai minacciosi, lo sono soprattutto perché sono in gruppo, ma in realtà appunto si rivelano per certi versi molto meno pericolosi rispetto al precedente capitolo, dal momento che sono sconfitti più e più volte.

La Madre è invece il nemico finale, e, a differenza dei figli, viene mostrata per la maggior parte del tempo nella sua immensa monumentalità, costruendo la tensione proprio sull’idea che sia un essere gigantesco e apparentemente impossibile da sconfiggere.

Queen Xenomorph in una scena di Aliens (1986) di James Cameron

Tuttavia, il finale è proprio la parte che mi ha meno convinto.

Anche se mi rendo perfettamente conto che sarebbe stato veramente complesso trovare un nuovo modo per annientare un nemico così terrificante e potente, ho trovavo poco indovinata la scelta di far coincidere la sua dipartita con quella del nemico del primo film.

Allo stesso modo mi è ancora meno piaciuta l’idea di utilizzare il medesimo colpo di scena dello xenomorfo apparentemente sconfitto che si nasconde sulla nave.

Infatti, oltre ad essere incredibilmente prevedibile avendo visto Alien, lo è ancora di più nella scena apparentemente tranquilla di Ripley che dialoga con Bishop, che sembra proprio chiamare il plot twist che arriva un momento dopo…

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Avatar – La via dell’acqua – Dieci anni dopo

Avatar – La via dell’acqua (2022) di James Cameron è il sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo Avatar (2009).

Un film che prometteva grande innovazione tecnica. E c’è stata.

Ma per me, come per il precedente, non basta.

Forse non arriverà agli incassi del primo film, ma ha aperto in maniera molto promettente: 435 milioni di dollari in tutto il mondo, arrivando ad oggi a 441 milioni.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Avatar – La via dell’acqua (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Migliore scenografia
Miglior sonoro
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Avatar La via dell’acqua?

Dieci e più anni dopo, Jake Sully è riuscito a costruirsi una felice famiglia su Pandora. Ma l’incubo dell’invasione torna a palesarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Avatar – La via dell’acqua?

Sì, ma dipende.

Con questo intendo dire che se Avatar non vi ha entusiasmato, non aspettatevi niente di diverso da Avatar – La via dell’acqua, anzi. Lo scheletro narrativo è molto simile, si riciclano anche delle storyline, e la trama ha sempre lo stesso livello molto medio.

Se invece siete quelli che si sono lasciati e si lasciano conquistare dagli effetti visivi, non potete assolutamente perdervelo: è indubbiamente il punto forte del film ed è gestito ottimamente.

E non preoccupatevi per la durata importante: se lo prendete per il verso giusto, riesce a tenere sempre alta l’attenzione.

Vivere del punto forte

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Guardando a posteriori, sembra davvero che il film sia stato costruito attorno agli effetti visivi e alle scene di impatto, e non il contrario. Perché è evidente che James Cameron avesse tutto l’interesse a portare elementi di grande innovazione tecnica.

E per questo ringraziamo.

La tecnica è sublime, curata nei minimi dettagli, tutto sommato molto credibile e semplicemente davvero bella da vedere, facendo anche un interessante passo avanti rispetto al primo film.

E infatti su questo non ho nulla da dire, anzi.

La trama, un elemento accessorio

Kate Winslet (Rolan) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Purtroppo, se si vanno invece a guardare più da vicino gli elementi della trama, la stessa si rivela in tutta la sua debolezza.

E per me è un elemento molto importante da considerare.

Personalmente ho preferito la narrazione del primo film: più semplice, lineare, e dritta al punto. E che infatti mi sono sentita di difendere. In questo caso, i difetti sono molteplici, ma il cuore del problema sta proprio nella volontà di voler gestire una struttura corale, ma non riuscire a dare il giusto spazio a nessuno dei personaggi portati in scena.

Ma andiamo con ordine.

Due fratelli, un fratello

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Un grande problema che ho riscontrato è stata la questione di Neteyam e Lo’ak, i due figli di Jake.

All’inizio li trovavo praticamente indistinguibili, e purtroppo ritengo che nessuno dei due abbia avuto lo spazio che si meritava. Il più lacunoso è indubbiamente Neteyam, il fratello maggiore, che doveva essere il grande dramma del film (che ovviamente non poteva mancare), ma che non ha uno screentime sufficiente per farti affezionare a lui.

Tanto che, arrivando alla fine, mi chiedevo sinceramente perché avrei dovuto dispiacermi della sua morte.

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Discorso diverso per Lo’ak, il minore: molto più protagonista rispetto al fratello, coinvolto in dinamiche interessanti, anche se molto prevedibili, ma al contempo caricato eccessivamente in ruolo non adeguatamente sviluppato.

La sua storia dovrebbe essere quella di un outsider, che si ritrova con qualcuno di simile a lui. Ma, obiettivamente, cosa ha fatto Lo’ak per essere raccontato come tale?

Semplicemente è molto avventato e si fa facilmente tirare in mezzo per così dire, ma sembra partire già con un conflitto con il padre, che però non sono riuscita a percepire per nulla nella sua effettiva gravità.

Tuttavia, ammetto che la scena dell’incontro con Payakan, il tolkun emarginato, l’ho apprezzata molto e mi ha emotivamente coinvolto.

Il miracolo dimenticato

Sigourney Weaver (Kiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Una storyline che andava decisamente più esplorata era quella di Kiri.

Gli indizi riguardo alla sua connessione con Ewya ci sono fin dall’inizio e sono anche ben posizionati. Tuttavia, dopo il picco drammatico della sua storyline, ovvero quando il personaggio si connette all’Albero delle Anime e rischia di morire, per un buon venti minuti ci si dimentica totalmente di lei.

E si arriva direttamente ad un pacifico scioglimento del problema, senza che ci sia stato il passaggio fondamentale in cui lo stesso veniva risolto.

Insomma, come se mancasse un pezzo…

L’inutile Spider

Jack Champion (Spider) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

Per la maggior parte della pellicola mi sono chiesta quale fosse il ruolo e l’utilità di Spider.

Sono rimasta anzi abbastanza contraddetta da come, da una scena all’altra, Spider sembri aiutare e quasi assecondare l’azione dei villain. Per poi tornare sui suoi passi poco dopo, ma rimanendo per la maggior parte del tempo una figurina sullo sfondo.

Finché non arriviamo sul finale e il personaggio diventa artefice della mia personale frustrazione.

Incapaci di rinnovarsi

Stephen Lang (Miles Quaritch) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La storia del Colonnello Miles è stata per me un vero tormento.

Riproporre lo stesso inutile, ridicolo villain per la seconda volta l’ho trovata una scelta veramente poco indovinata e per nulla interessante.

Perché parte con l’idea che, prima di tutto, bisogna uccidere Jake per cominciare a mettere fine al popolo dei Na’vi. Poi la questione diventa totalmente una vendetta privata del personaggio, che fa completamente sparire di scena l’obbiettivo principale degli umani nella pellicola.

Infine, viene di nuovo riesumato per essere riportato in un eventuale sequel, quando è così evidente che non abbia più niente da dire.

E dopo fra l’altro un incredibile girotondo narrativo sul finale…

Appiattimento

Zoe Saldana (Neytiri) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La mia più grande delusione della pellicola è stata sicuramente Neytiri.

Come l’avevo apprezzata nello scorso film, non posso dire lo stesso in questo caso, dove il personaggio perde totalmente la testa e si appiattisce anche parecchio, sempre vittima del poco screentime.

E la cosa peggiore è quando minaccia di morte Spider e la cosa non sembra così fondamentale per i personaggi, ad ulteriore dimostrazione che sono gli stessi protagonisti a schifare il suo personaggio…

Colmare vuoti logici

Britain Dalton (Lo'ak) in una scena di Avatar - La via dell'acqua (2022) di James Cameron

La questione della poca furbizia dei Na’vi nel combattere, che non si rendono conto di essere dei giganti rispetto agli uomini e con abilità di combattimento molto più avanzate, era una questione che mi ero sempre posta per il primo film.

Ma non ci ho insistito, perché tutto sommato poteva anche tornare.

Invece ho preferito che questo problema fosse superato in questa pellicola, dove i Na’vi sono invece abili e capaci di utilizzare tutte le proprie risorse: veloci e in grado di schivare i proiettili, precisi nella mira con frecce che sono praticamente delle lance, imbattibili nel corpo a corpo.

E soprattutto finalmente capaci di rivolgere le armi da fuoco contro i loro nemici…

retcon, che passione! in Avatar – La via dell’acqua

Come ampiamente prevedibile, la pellicola è piena di retcon.

Alcune che tutto sommato funzionano, altre che mi hanno convinto proprio poco.

Complessivamente mi hanno convinto quelle riguardanti i figli: anche se la questione non è mai stata raccontata prima, il fatto che la Dottoressa Grace e il Colonnello Miles abbiano avuto dei figli off screen non è neanche così male.

Per certi versi un’inutile complicazione, ma non mi ha dato fastidio.

Molto meno convincente il fatto che si dichiari apertamente che gli enzimi dei toluk siano il nuovo oggetto del desiderio che tenga insieme tutta l’operazione, mentre ci sia dimenticati del tutto dell’unobtainium, che sembrava così fondamentale nella prima pellicola…

Autocitazionismo e checklist in Avatar – La via dell’acqua

Ad ulteriore conferma di una sceneggiatura poco pensata, si può notare che per molti versi la trama proceda per riciclo di idee e autocitazionismo.

Già lo scheletro narrativo è abbastanza simile: parte iniziale con introduzione della colonizzazione, parte centrale concentrata nella scoperta del mondo, lunga battaglia finale. Così i figli di Jake riprendono le sue orme del padre, mostrandosi assolutamente speciali e unici.

Oltre a questo, la questione del materiale prezioso che tiene tutto insieme è ribadita in maniera identica al primo, con anche il personaggio del Dottor Garvin, biologo marino della nave che caccia i toluk, che è la pallida ombra della Dottoressa Grace.

Per non parlare del finale assolutamente identico, una pura citazione…

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Avatar – Un capolavoro?

Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.

La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).

Da molti è considerabile un capolavoro.

Ma è così?

Di cosa parla Avatar?

In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Avatar?

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

In generale, sì.

Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.

Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.

Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebbe ridimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.

E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…

Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un film che intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.

Jake Sully: un protagonista perfetto

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.

Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.

Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.

Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.

Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.

Raccontare la disabilità

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.

In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismo molto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.

In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.

Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.

Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.

Neytiri: una controparte non scontata

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.

Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.

Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.

Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.

Villain da barzelletta ma…

Stephen Lang in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.

Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.

Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.

Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.

E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.

Colonialismo e ecologismo in Avatar

Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.

La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:

Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua

Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi (come vengono ripetutamente chiamati).

Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:

Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico

Ecologismo in avatar

Una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.

Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.

E andando di conseguenza distruggerla.

Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.

Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.

Avatar è un film invecchiato bene?

Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.

Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.

Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.

Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.

E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar La via dell’acqua (2022).

E per ovvi motivi.

Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso

Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.

Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).

Ma per me è una polemica molto sterile.

Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.

Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.

E va bene così.

Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan (1979).

Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…

Avatar è un capolavoro?

Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.

L’opinione de Il cinema semplice

Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.

Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.

E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.

Zoe Saldana e Sam Worthington in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.

Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.

Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.


L’opinione di Intothenerdverse

Perché Avatar è un capolavoro?

Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito. 

So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia. 

Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo. 

Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.

Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre. 

Perché Avatar è un capolavoro

Zoe Saldana in una scena di Avatar (2009) di James Cameron

Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatar cambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.

Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani. 

E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.  

Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.

Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.

E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.

E non importa tra quanti anni rivedrete questo film. 

Non smetterà mai di farlo.

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Titanic – Un dramma monumentale

Titanic (1997) di James Cameron è uno dei film ad aver incassato di più nella storia del cinema, ad oggi al terzo posto dopo Avengers Endgame (2019) e Avatar (2009) dello stesso Cameron.

Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.

Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?

Di cosa parla Titanic?

Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…

Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Titanic?

Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

In linea generale, sì.

Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.

Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.

E la durata non l’ho sentita più di tanto.

La trappola dell’istant love

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.

E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.

Per fortuna Titanic non cade in questo errore.

Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.

Ma la vittoria è molto sbilanciata.

Vincere e perdere

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta (cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.

E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.

E per questo mi sembra di vedere un pattern.

L’estetica vince su tutto

Kate Winslet in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.

Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.

Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.

Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.

Cal: un villain al limite del comico

Billy Zane in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.

In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.

Ed è davvero incredibile.

Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.

Semplicemente iconico.

Mostrare i muscoli

Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.

Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.

Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.

Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…

Un senso di scollamento

Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.

Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.

I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.

E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.

Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?

Per me sì.

Lode alla porta per due in Titanic

La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.

Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.

Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.

Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.

Una produzione incredibile

Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.

Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.

La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.

Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.

Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…

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Avventura Azione Comico Commedia Film Il cinema di James Cameron Spy story True Lies

True Lies – Il doppio inganno

True lies (1994) di James Cameron è uno dei suoi film minori, che nel caso di questo regista significa che non è un cult assoluto.

In questo caso Cameron gioca con il genere spy story, con l’action e una buona dose di umorismo.

Ma comunque un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget abbastanza consistente di 100 milioni di dollari, ne incassò complessivamente 365 in tutto il mondo.

Di cosa parla True lies?

Harry è una spia internazionale che vive apparentemente una vita normale con la sua famiglia, totalmente ignara del suo vero lavoro. La situazione rischia di cambiare quando scopre il segreto della moglie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere True lies?

In generale, sì.

È forse finora fra i film più divertenti di James Cameron, con una buona dose action che non mi è del tutto dispiaciuta. L’unica cosa che ho un po’ accusato è l’eccessiva lunghezza, ma che è evidentemente dovuta alla volontà di presentare una trama ben strutturata.

Insomma, se vi piacciono le storie di spionaggio che non si prendono troppo sul serio e se soprattutto vi piace James Cameron, non potete perdervelo.

Lavorare su un volto

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Dopo la duologia di Terminator, Cameron di nuovo scelse come suo protagonista Arnold Schwarzenegger.

E questa volta forse non fu la scelta migliore…

Per quanto in Terminator Schwarzenegger facesse assolutamente il suo, e per questo fosse incredibilmente iconico, doveva reggere una parte in cui era volutamente legnoso nella recitazione.

In True lies, in cui deve sostenere una parte decisamente più espressiva, purtroppo, per quanto si sforzi, recita in maniera non tanto dissimile. Ed è doppiamente un problema quando è messo accanto a un’attrice così carismatica come Jamie Lee Curtis.

Tuttavia Cameron, che non è certo un pivello, e lavora sui primi piani stretti per mettere in evidenza lo sguardo iconico del suo attore feticcio.

E salva un po’ la situazione.

L’evasione dell’uomo comune

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Il tema di fondo di True lies è un gancio che può coinvolgere facilmente la maggior parte degli spettatori: l’evasione dalla monotonia della vita comune.

E si articola in due direzioni.

Da una parte Harry, che si mostra già realizzato in questo senso, anche se deve portare sulle spalle il fallimento della sua situazione familiare, nonostante la sua vita sia incredibilmente adrenalinica e piena di avventure.

Dall’altra Helen, che invece muore dalla voglia di vivere una vita almeno un po’ più interessante di quella in cui si ritrova intrappolata, e che trova per fortuna sfogo nella sua piccola avventura, e poi in un tanto agognato lieto fine.

Ma a che prezzo…

Una vittima battagliera?

Jamie Lee Curtis in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Dal momento che Harry è l’eroe della storia, non può più di tanto essere punito per le sue azioni, che ne sottolineerebbero la gravità.

Ma al contempo viene pure perdonato troppo facilmente.

Helen è da certi punti di vista molto più vittima di Harry che di Simon: il truffatore la circuisce e ad un certo punto cerca anche di violentarla. Ma per questo è ripetutamente punito e umiliato, fino all’ultimo momento del film.

Ma Harry non solo le ha mentito per anni (cosa da un certo punto di vista anche comprensibile), ma la coinvolge in una missione che la mette in una posizione sempre riguardante la sfera sessuale, e che la mette non poco a disagio, nonché in pericolo. Oltre al fatto che fondamentalmente la stalkera perché pazzo di gelosia…

Ma per fortuna che Helen non è per nulla la vittima da salvare, ma anzi è incredibilmente battagliera e si salva da sola dalla maggior parte delle situazioni di pericolo.

Uscire dagli stereotipi

Art Malik in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Ammetto che mi stavano discretamente cadendo le braccia davanti ad una rappresentazione dei terroristi e dei villain con il solito stereotipo di uomini brutti e cattivi mediorientali.

E invece Cameron mi ha sorpreso.

Anche se comprensibilmente non vuole fare una destrutturazione dello stereotipo a tutto tondo, basta una piccola frase nei dialoghi per dare maggior tridimensionalità alla vicenda.

Infatti Salim, il villain, sottolinea come sia ridicolo che loro vengano chiamati terroristi quando sono gli stessi Stati Uniti che bombardano i loro villaggi e uccidono gli innocenti.

Un’opinione per nulla scontata in un film del genere…

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Terminator 2 – Is this struttura narrativa?

Terminator 2 (1991) è il secondo capitolo della duologia omonima diretta da James Cameron, poi proseguita da diversi sequel dalle sorti alterne.

Arrivato a quasi dieci anni dal primo capitolo, fu un sequel di incredibile successo, considerato dagli appassionati anche migliore dell’iconico primo capitolo.

Con un budget enormemente superiore del precedente (100 milioni di dollari), fu un ottimo successo commerciale, con 502 dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator 2?

Sono passati diversi anni dal primo capitolo e Sarah Connor è rinchiusa in un centro di igiene mentale, mentre suo figlio, l’ancora giovanissimo John Connor, è il nuovo bersaglio di un viaggiatore del futuro...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Terminator 2?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Banalmente, sì.

Come avevo detto nella recensione del precedente capitolo, non ero stata così tanto colpita a livello intrattenitivo, nonostante riconoscessi l’ottimo livello tecnico e registico. Per questo film sono stata molto sul chi va là per paura che seguisse la medesima struttura narrativa del primo, che a mio parere era davvero debole.

E invece sono stata parzialmente sorpresa.

Terminator 2 mi ha permesso parzialmente di superare il mio disinteresse intrinseco per i film action, soprattutto perché la pellicola non può essere appiattita solo su questo (come neanche del tutto la precedente, in realtà). Di fatto, è un prodotto che, a otto anni di distanza, riprende in mano i fili narrativi, riesce ad innovarsi e a portare novità, rimanendo comunque fedele a sé stessa.

Se vi è piaciuto Terminator, guardatelo sicuramente.

Se non vi è piaciuto, vale la pena dargli un’altra possibilità con questo film.

Is this struttura narrativa?

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Durante il primo film avevo trovato quasi estenuante la struttura narrativa.

Un infinito inseguimento che sembrava insolvibile, e che poi si risolveva sempre in maniera estenuante nelle sue dinamiche, con la punta di diamante che era ovviamente il Terminator di Arnold Schwarzenegger. E per questo ero molto dubbiosa su questo film.

Invece sono rimasta abbastanza soddisfatta.

Per quanto la parte action e degli inseguimenti sia una grossa fetta del film, non definisce tutto l’andamento narrativo, che invece prosegue a tappe con una serie di obbiettivi piuttosto interessanti e avvincenti. Un deciso miglioramento, che ha reso la narrazione più ampia e interessante.

E non è l’unico passo avanti.

Finalmente, Sarah Connor

Linda Hamilton in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Sarah Connor era un elemento piuttosto debole della prima pellicola. E per più motivi.

Anzitutto perché era un personaggio totalmente vittima degli eventi, la quale, tranne nell’ultimissimo momento, non agiva mai attivamente in scena. Invece in questo sequel il suo personaggio migliora da ogni punto di vista.

Oltre a diventare un personaggio incredibilmente attivo, ha una profondità narrativa e emotiva mille volte più interessante, che mi ha personalmente anche molto coinvolto. Oltre a questo, riesce finalmente ad essere una protagonista femminile di un film action che non è la vittima da salvare, ma anzi una donna forte e determinata che si allena per sconfiggere il nemico.

E io dico, finalmente vedo veramente la Sarah Connor che mi era stata promessa.

Un aggancio efficace

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Un’ottima scelta della pellicola è stata l’introduzione di John Connor in versione adolescente.

In questo modo si è riusciti, a otto anni di distanza, a riagganciare i fan del primo film e a coinvolgere nuovissimi fan che vedevano sullo schermo come protagonista un ragazzino non tanto diverso da loro, destinato a diventare un eroe.

Oltre a questo, John Connor porta una comicità piuttosto simpatica e piacevole, che ammorbidisce i toni del film, oltre ad arricchire la pellicola di un taglio da buddy movie che non ho potuto fare a meno di apprezzare.

La meraviglia degli effetti speciali

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Senza stare troppo a parlare di quanto sia fantastica la fotografia e la regia in generale di questa pellicola, sono rimasta senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali.

Tutti gli effetti legati a T-1000 in particolare sono qualcosa da far girare la testa: non riescono praticamente mai a deludere e sembrano così veri in scena, oltre ad essere incredibilmente creativi.

E stiamo parlando del 1991.

Unica piccola pecca è stata la sequenza in cui T-1000 muore, dove, come era anche per certe sequenze della prima pellicola, sembra molto bidimensionale e poco credibile. Ma è davvero una piccolezza all’interno di un comparto tecnico di prima categoria.

Un Terminator di troppo

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Ma T-1000 è anche il punto debole della pellicola.

La sua presenza l’ho trovata veramente accessoria, tanto che l’inseguimento finale, che riprende le mosse dal primo capitolo, è la parte meno interessante dell’intero prodotto.

E il grande problema è che il povero Robert Patrick, che poi si è rifatto anche recentemente in serie come Peacemaker, non ha un’unghia dell’iconicità di Arnold Schwarzenegger.

E mi è sembrato davvero un elemento che dovevano inserire per far quadrare la storia e farla quantomeno assomigliare al film precedente, ma che in realtà diventa quasi un elemento sotterraneo della narrazione, che corre parallelamente al resto degli eventi.

Cameron, non ti capisco

So già cosa risponderanno gli appassionati di Cameron al mio dubbio, ma ci tengo comunque a prendermi questo piccolo spazio per parlarne.

Cameron aveva fra le mani una trama potenzialmente interessantissima come quella del futuro distopico di Skynet, che mostra brevemente solo in alcuni momenti delle pellicole da lui dirette. Poi, altri registi meno capaci hanno preso in mano la saga e fatto quello che probabilmente il pubblico si aspettava.

E invece James Cameron ha deciso di non incastrarsi in questa saga, ma di mettere un punto alla questione in maniera definitiva. E, per la sua carriera, a posteriori è stata indubbiamente la scelta migliore.

Ma è una scelta che comunque non riesco a capire del tutto…

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Terminator – Nato per un ruolo

Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…

Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.

Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator?

Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terminator?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

In generale, sì.

Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.

Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.

Potrebbe sorprendervi.

Nato per un ruolo

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.

Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…

D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.

Una protagonista insipida

Linda Hamilton in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.

L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.

Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.

Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.

Fare molto con poco

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

Terminator è un altro ottimo esempio di quanto basta poco per fare molto.

Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.

Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.

Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.

Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.

Un racconto ridondante

La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.

Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.

Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…

I sequel dovuti

A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975) e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.

Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.

Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).

Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park