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Thunderbolts* – Il vero nemico

Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier è un cinecomic Marvel facente parte della Fase 5 della timeline MCU.

A fronte di un budget medio per un cinecomic – 180 milioni di dollari – ha aperto piuttosto bene al box office, auspicando un buon successo commerciale.

Di cosa parla Thunderbolts*?

Yelena Belova, Ghost, John Walker e un misterioso quarto personaggio si trovano coinvolti in una missione suicida. Ma l’obbiettivo non è quello che pensavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thunderbolts*?

Il gruppo dei Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Assolutamente sì.

Dopo non pochi inciampi, la Marvel riesce a portare finalmente e nuovamente in scena un film solido, che, pur con qualche mancanza anche significativa lato scrittura, riesce complessivamente a funzionare molto bene e a gestire la dinamica di gruppo in maniera con grande lucidità e abilità.

Nondimeno, la pellicola contiene al suo interno uno dei migliori villain visti in tempi recenti in casa MCU, che non è – come spesso capita – un figura anonima e funzionale unicamente al mettere alla prova l’eroe, ma una minaccia profonda e significativa per l’evoluzione del gruppo.

Insomma, dategli un’occasione.

Scrupolo

Yelena Belova (Florence Pugh) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Nonostante Thunderbolts* sia un film corale, Yelena è il fulcro della trama.

E per questo la sua introduzione è estremamente funzionale.

Il suo personaggio vorrebbe raccontarsi come un mercenario senza scrupoli e senza legami, che agisce meccanicamente per concludere la missione senza particolari remore, anzi apparendo – o volendo apparire, appunto – come quasi annoiata e disinteressata alla sua vita.

Nella realtà, un elemento della primissima missione è un indizio visivo cardine per la comprensione dei personaggi.

Yelena Belova (Florence Pugh) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Consapevole di dover fare esplodere l’intero edificio, Yelena addocchia un porcellino d’india, probabilmente cavia per il laboratorio che sta distruggendo, e lo porta con sé salvandolo da morte certa per sua stessa mano, quasi una sorta di feticcio per rimarcare un salvataggio che non è riuscita a compiere in passato…

…ma soprattutto un elemento apparentemente fine a sé stesso ma che invece racconta perfettamente i personaggi in scena, che vogliono fare credere di essere del tutto privi di emozioni e di rimorsi, ma che in verità sono schiacciati dagli stessi, mantenendo e nascondendo quel briciolo di umanità che li ha sconfitti in primo luogo.

Ed è proprio questo che infine li unisce.

Introduzione

Il gruppo dei Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

L’introduzione credibile di un gruppo di eroi è un’impresa estremamente complessa…

…e di antieroi ancora di più.

Di fatto la Marvel con questo film si trovava sul precipizio di un inciampo per nulla desiderabile: portare in scena un gruppo di cattivi rinsaviti incredibilmente piatti e fini a sé stessi, incapaci di creare un legame – emotivo e non – credibile e che ci facesse concretamente tifare per loro, senza dover arrivare ad uno status finale di gruppo senza che ci fosse stata nessuna effettiva costruzione.

Yelena Belova (Florence Pugh) e Centry (Lewis Pullman) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

In altre parole, Suicide Squad (2016).

Al contrario, i protagonisti di Thunderbolts* sono fin da subito raccontati come accomunati da un dramma comune: aver, per motivi diversi, vissuto esperienze traumatiche e tanto devastanti da renderli delle vittime inermi della crudeltà di Valentina della Fountain, di cui diventano personaggi assolutamente sacrificabili proprio per il loro essere irrimediabilmente soli.

E proprio qui troviamo un altro ostacolo significativo.

Thunderbolts villain

Con la gestione perigliosa degli ultimi anni, l’MCU si è trovato fra le mani un nutrito gruppo di personaggi dalle provenienze più disparate: film molto lontani nel tempo, alcuni veri e propri flop – e quindi poco conosciuti – o film molto meno memorabili – o, peggio di tutto, serie TV che si pretende che il pubblico conosca a menadito.

Invece, forse memori di quel pasticciaccio di The Marvels (2023), in cui i personaggi mancavano totalmente di un’introduzione estremamente necessaria, in Thunderbolts* riusciamo a conoscere nuovamente i protagonisti tramite poche ma significative battute che rimarcano alcuni eventi salienti delle loro esistenze.

E le stesse si inseriscono all’interno di un comicità piuttosto aspra, che però permette ai personaggi di raccontarsi fra loro cose che già sanno, ma di rendere delle battute pungenti che sono anche la matrice che li porta progressivamente ad unirsi in un gruppo, prima per la reciproca sopravvivenza, poi per salvare una vittima come loro.

Per questo Centry merita un discorso a parte.

Costruito

Bene o male la maggior parte dei film Marvel si basano su un racconto del supereroe piuttosto classico.

Il protagonista infatti solitamente scopre i suoi poteri e viene messo alla prova in un contesto del tutto positivo, in cui deve trovare il suo spazio all’interno di un contesto per molti versi ostile – e, proprio tramite il suo percorso di affermazione come eroe, diventa significativo per il pubblico e per la storia.

Ma The Boys, nel bene e nel male, ha cambiato tutto.

Se infatti ai tempi di Civil War (2016) poteva apparire quantomeno bizzarro vedere una sorta di burocratizzazione del supereroe con i Trattati di Sokovia, ormai la trama dell’eroe creato a tavolino è quasi scontata per i nuovi prodotti del genere, ma nondimeno risulta efficace anche nel contesto di Thunderbolts*.

Anzi, forse la parte introduttiva di Centry è la più indovinata.

Bob appare come un personaggio totalmente fuori posto, una figura che si è trovata sulle strade dei protagonisti per puro caso, senza mostrare la minima capacità speciale, anzi risultando quasi un peso all’interno di un gruppo che cerca in qualche modo di salvarsi, nonostante vengano comunque seminate le prime avvisaglie che ci sia qualcosa di più.

Da questo punto di vista la parte più debole è quella successiva, in cui Centry viene prima rivelato per la sua cera natura, poi preso al lazo dalla Contessa Serbelloni, che funge da villain politico della pellicola, e si lascia in poco tempo piegare alle nuove richieste con una velocità quasi allarmante.

Ma, nondimeno, l’ultimo atto è il poi significativo.

Depressione

Anche se non viene detto esplicitamente, il vero villain di Thunderbolts* è la depressione.

Anche se ci arrivano per vie diverse, a loro modo tutti i protagonisti vivono su un precipizio, ad un passo dall’essere risucchiati da un vuoto profondo e incolmabile, dove Centry li spinge ancora di più, facendomi rivivere le cause della loro condizione con realismo davvero angosciante.

Per questo è tanto più interessante la rappresentazione della depressione stessa, un’ombra che ci consuma e che ci definisce, portandoci totalmente ad annullarci e a diventare il fulcro di un vortice di distruzione e autodistruzione in cui coinvolgiamo anche tutto quello che ci circonda, in parabola inaspettata quanto genuinamente straziante.

Eppure, dentro di noi niente è cambiato.

Per questo Yelena sceglie consapevolmente di immergersi in questa tenebra, e li ritrova la vera natura di Bob, un giovane solo ed indifeso, che avrebbe solo voluto essere importante, utile per qualcuno, senza invece farsi soffocare da quel senso di impotenza e di inutilità che porta la sua depressione a definire tutta la sua personalità.

Un personaggio che avrebbe ancora molto da dire, ma chissà se gliene daranno lo spazio…

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Animazione Avventura Azione Disney Fantasy Film Il medioevo Racconto di formazione

Taron e la pentola magica – Diventare una sottomarca

Taron e la pentola magica (1985) traduzione abbastanza impropria di The Black Cauldron, è il venticinquesimo Classico Disney, nonché il primo realizzato con l’utilizzo della CGI.

A fronte di un budget gigantesco per il periodo – 44 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale, senza riuscire a coprire neanche la metà dei costi di produzione.

Di cosa parla Taron e la pentola magica?

Taron è un guardiano di porci che sogna di diventare un eroe. E forse lo stesso porcello che accudisce potrebbe essere la chiave per il riscatto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Taron e la pentola magica?

Direi di no.

E per due motivi.

Da una parte, fatta eccezione delle ottime animazioni dei non morti e di qualche sperimentazione in CGI, Taron e la pentola magica non sembra un Classico Disney, ma piuttosto un prodotto sottomarca che cerca di copiare la Casa del Topo, soprattutto per i character design piuttosto blandi e poco convincenti.

Allo stesso modo, la scrittura della pellicola è davvero carente: sembra prendere lo scheletro narrativo del viaggio dell’eroe e non svilupparla in alcun modo, introducendo i personaggi nei loro ruoli – spesso direttamente detti a parole – e poi abbandonandoli totalmente a loro stessi.

Insomma, per quanto non sia confermato, la pellicola è di un blando tentativo di fare Il Signore degli Anelli targato Disney.

Contrasto

Taron e la pentola magica è sostanzialmente incapace di creare il contrasto fondamentale di inizio pellicola.

Esattamente come nella trasposizione di Jackson, il film si apre con un prologo piuttosto eloquente, dove viene definita la minaccia in atto – Re Cornelius – e l’oggetto del desiderio – il calderone – raccontando le conseguenze che causerebbe il ritrovamento del diabolico artefatto perduto.

E questo sarebbe il momento cruciale per introdurre Taron…

…e invece la pellicola ne è assolutamente incapace: la narrazione dell’eroe per caso, il contrasto fra un potere incontenibile e un protagonista che sembra incapace di prevenirlo – e per questo è così vicino allo spettatore – viene totalmente spezzata da dall’introduzione di un protagonista che che è già al suo punto di arrivo.

In questo frangente probabilmente si è voluto ricalcare la classica dinamica della canzone del sogno, in cui Taron definisce quando la storia potrà dirsi conclusa, ma risultando in una presentazione del protagonista artificiosa e poco credibile, che lo rende estremamente bidimensionale.

Oltretutto, il suo sogno dovrebbe poi essere sostituito da un nuovo obbiettivo molto più importante – in una dinamica simile a quella di Rapunzel (2010), fra gli altri – ovvero crearsi delle relazioni significative e maturare attraverso le stesse lungo il viaggio…

…peccato che è proprio la dinamica su cui il film fallisce di più.

Costruzione

La costruzione credibile di un gruppo protagonista è l’ostacolo principe all’interno di questo tipo di narrazioni…

…e Taron e la pentola magica ricade nel più classico capitombolo.

Come ci si può facilmente rendere conto confrontando il mediocre Suicide Squad (2016) e l’ottimo The Suicide Squad (2021), per costruire un solido gruppo di protagonisti è fondamentale tratteggiare in maniera significativa i loro caratteri e le loro differenze, così da raccontare il loro rapporto tramite l’incastro delle stesse.

E invece il Classico Disney non solo manca in primo luogo delle caratterizzazioni dei suoi personaggi, ma sembra come costretto a spuntare una lista di figure da mettere in scena solo per dare un contorno al protagonista: l’aiutante bislacco e pasticcione, l’interesse romantico, e una sorta di consigliere che funge anche da spalla comica.

Ed è una dinamica tanto più grave quanto il pathos del finale si basa sulla costruzione del rapporto fra i personaggi, per cui Taron infine sceglie di non voler indietro la spada che lo renderebbe l’eroe che ha sempre sognato di essere, e invece riesce a far rivivere Gurghi, personaggio per cui dovrebbe nutrire un profondo affetto…

…che però è definito solamente a parole.

Ma questa superficialità è un tratto distintivo della pellicola.

Tappe

La narrazione per tappe è una delle più difficili da realizzare.

Come l’autore ha ben in mente il percorso che vuole far percorrere ai personaggi, per creare un racconto genuino ed avvincente non deve mostrare allo spettatore il suo modus operandi, ma deve invece collegare in maniera credibile e coinvolgente i vari passi del protagonista verso il suo obbiettivo.

In questo senso soprattutto Le due torri (2003) – da cui appunto il film pesca a piene mani – è un ottimo esempio di gestione di questo tipo di narrazione, riuscendo anzi a rendere credibili i vari momenti di stallo e di difficoltà dei protagonisti, così che la vicenda non si risolva immediatamente.

Al contrario, in Taron e la pentola magica il protagonista ha tutte le soluzioni sempre a portata di mano e senza il minimo sforzo, anzi persino quelli che sembrano sulle prime degli incidenti – come essere risucchiati in un vortice d’acqua – risultano infine la chiave per la risoluzione del problema.

E, come se tutto questo non bastasse, la maialina Ewy è un becero McGuffin.

Così, se Hitchcock ha fatto scuola in Psycho (1960) nel fingere che un mero vettore della trama fosse fondamentale per la storia, Taron e la pentola magica utilizza la piccola scrofa il tempo necessario per fare proseguire la narrazione, per facilmente scalzarla con altri personaggi nel medesimo stesso ruolo.

E non è neanche la parte peggiore…

Spreco

Re Cornelius potrebbe entrare nel novero dei villain più sprecati della storia della Disney.

Per quanto il suo character design non sia niente di così speciale od originale, la sua presenza scenica è particolarmente terrorizzante e poteva, al pari di Sauron, essere esplorata in molte direzioni, riuscendo invece a brillare solo in pochi momenti di astuzia – come quando lascia Taron libero di condurlo al calderone – ma che nel complesso aggiungono poco al suo personaggio.

Così risulta un villain con un minutaggio minuscolo, quasi insignificante nell’economia narrativa, tramutandosi quasi in uno strumento della trama per la maturazione – almeno sulla carta – del protagonista, da cui fra l’altro neanche viene sconfitto, diventando anzi vittima del suo stesso desiderio di potere.

E, per quanto quest’ultima dinamica poteva risultare non poco interessante, al contempo va ancora di più a calcare la mancanza di connessione fra l’eroe e l’antagonista: come Cornelius è uno dei tanti ostacoli nella maturazione del protagonista, Taron è una delle tante strade percorribili per la vittoria della villain…

…che diventa quasi il primo e generico boss di un videogioco con cui il protagonista deve mettersi alla prova.

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Avventura Azione Bong Joon-ho Drammatico Film Postapocalittico

Snowpiercer – Lo scontro di tendenze

Snowpiercer (2013) è il primo film in lingua inglese di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget abbastanza importante – 40 milioni di dollari – non è stato purtroppo un gran successo commerciale, riuscendo appena a doppiare i suoi costi di produzione.

Di cosa parla Snowpiercer?

2031. In un mondo in cui l’umanità è stato sterminata da una nuova Era Glaciale, gli ultimi sopravvissuti vivono stipati in un treno che viaggia ininterrottamente intorno alla Terra. Eppure i problemi sono gli stessi di sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Snowpiercer?

Chris Evans e Song Kang-ho in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In generale, sì.

Grazie a questa seconda visione ho complessivamente rivalutato Snowpiercer, in quanto, con una consapevolezza maggiore dell’opera del maestro coreano, è riuscito più facile cogliere il racconto tematico che viene imbastito in maniera anche piuttosto vincente…

…ma che, a mio parere, rimane comunque sporcato da una tendenza al sensazionalismo spicciolo, che finisce spesso per appiattire un riflessione ben più profonda, rendendo in molti punti la narrazione claudicante e poco pensata.

Però, dategli comunque un’occasione.

Coda

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il primo atto del film è un’ottima introduzione da tutti i punti di vista.

La narrazione riesce infatti ad abbracciare solidamente i personaggi e la loro condizione iniziale, mostrandoli, grazie anche ad una fotografia piuttosto desaturata e ricca di chiaroscuri, costretti in una bolgia senza scampo, ammassati uno sopra l’altro.

Ed altrettanto ben definito è il trattamento opprimente da parte del resto del treno, che vede la Coda come un peso insopportabile, un invasore che può godere solamente del minimo indispensabile, e che deve anzi sopportare ogni tipo di sopruso.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In questo frangente è anche ben definito l’elemento più strettamente intrattenitivo: la costruzione di un climax crescente di tensione verso il misterioso piano di Curtis, che sembra quasi dialogare con il pubblico stesso, intimandolo di aspettare il momento giusto.

E, con l’arrivo della malefica Mason, il quadro tematico è completo.

Piede

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il discorso del personaggio di Tilda Swinton non è altro che l’esplicazione di un concetto già definito.

Memore della famosa parabola di Agrippa, Mason accompagna la dolorosa punizione del ribelle con un sermone educativo, che ribadisce l’importanza dei ruoli all’interno del corpo e quindi del treno, in cui ognuno ha il proprio posto definito all’interno di un grande schema che altrimenti crollerebbe su se stesso.

Un discorso che si collega perfettamente alla contemporaneità – con discorsi e immagini poi riprese anche in Parasite (2019) – di una società – nello specifico quella sudcoreana – in cui l’ascensore sociale è fermo e il classismo è il grande protagonista di un sistema che rivendica il suo ordine naturale.

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Ma il discorso si aggrava, diventando, anche più attuale, se si pensa che gli abitanti della Coda si trovano in una condizione di assoluta miseria proprio per l’azione stessa della Testa del treno, che ha distrutto l’ambiente e ha poi concesso solamente ai suoi simili di salvarsi.

Per questo il tunnel di Curtis è tanto più significativo, perché rompe – letteralmente e metaforicamente – le barriere impenetrabili che dividono le classi sociali, forzando un sistema che risponde colpo su colpo ad ogni tentativo di ribellione. 

E da questo elemento si sviluppa l’ottimo concetto finale. 

Contenere

L’ultima classe è sacrificabile in più sensi.

La filosofia di un sistema perfetto da mantenere integro, anche eliminando le sue parti più deboli, racconta come ogni tentativo di ribellione sia in realtà orchestrato in funzione della sopravvivenza della Testa, all’interno di una filosofia apparentemente razionale, in realtà totalmente discriminatoria.

Un utilizzo delle leve di pancia della massa che ricordano più da vicino tendenze politiche emerse quasi un decennio più tardi dall’uscita del film, in cui improbabili – ma molto furbi – capipolo irrobustiscono la loro posizione di potere lucrando sulle paure del popolo in maniera sempre più viscerale.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

E la debolezza del sistema è tanto più significativa con lo svelamento di un motore a pezzi, che può essere salvato solamente costringendo le nuove generazioni della Coda a compiere attività meccaniche e alienanti – esattamente come la classe operaia un tempo, e la realtà proletaria ed immigrata oggi.

Eppure, questo discorso è costantemente indebolito.

Sensazionalismo

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

È evidente che Snowpiercer non sia del tutto una creatura di Bong Joon-ho.

Infatti, per quanto tutti i discorsi di cui sopra siano validissimi e il regista coreano abbia fatto veramente del suo meglio per farli emergere, si è altrettanto pesantemente dovuto scontrare con una produzione che ha cercato il più possibile di rendere il prodotto vendibile – per cui i noti scontri con Weinstein sono solo la punta dell’iceberg.

Questo si traduce con due tendenze che ho davvero poco apprezzato.

Da una parte, un devastante sensazionalismo, visivo e di scrittura, che rende molte scene fin troppo eccessive e caricate nei toni, quasi ad esasperare un taglio grottesco da sempre proprio del regista coreano – in cui spicca la famosa scena della scoperta di cosa contengono le barrette proteiche.

Dall’altra, scene di azione spesso piuttosto affrettate e fin troppo confusionarie, con personaggi che entrano ed escono di scena senza che gli sia concesso il dovuto spazio, andando soprattutto a colpire l’atto finale, che risulta molto meno vincente proprio per una poca chiarezza della messinscena.

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Avventura Azione David Lynch Dramma romantico Drammatico Fantascienza Fantastico Film

Dune – Addio, Hollywood!

Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.

E il box office gli diede ragione: a fronte di un budget piuttosto ambizioso – 45 milioni di dollari, ben più alto anche solo di Il ritorno dello Jedi (1983) – non arrivò a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Dune?

Anno 10,191. Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, inaspettatamente incaricata di fare da ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…

O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.

Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.

Dune è frutto di una produzione davvero scellerata, che ha preso un’opera nota per la sua complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.

Ne consegue che i personaggi non hanno mai lo spazio per svilupparsi e per raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo, spesso crollando nella totale ridicolaggine.

E Lynch ne è la più grande vittima.

In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.

Bollettino

La principessa Irulan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…

…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti – alcuni, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – che qui sono raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.

La Madre Superiora e l'Imperatore  in una scena di Dune (1984) di David Lynch

E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma – che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale – ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili per avere un’infarinatura della storia.

Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e ad Arrakis – e così anche da quello dello stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.

Ma i problemi sono solo iniziati.

Mistero

Il Barone Harkonnen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

In Dune di Lynch è impossibile avere un mistero.

Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato col dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo, che nel romanzo veniva gradualmente svelato.

E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico nel diventare un villain da operetta

…esattamente come succede in questo caso.

Sting e l'altro nipote del Barone Harkoennen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo molto facilone il personaggio, con i bubboni, la bile e il sudore che diventano i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nel momento – pure censurato – dell’uccisione del malcapitato servo.

Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.

Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio caratterizzati.

Spazio

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.

Uno dei motivi evidentemente per cui Villeneuve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente gli uni dagli altri.

E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza che riescano a raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…

…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato, che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.

E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…

…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.

Abominio

Alia in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Alia è davvero un abominio.

Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottima idea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…

…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, tramite la divisione di Villeneuve -per cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per poi comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Infatti Alia è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è indubbiamente il punto più basso dell’intera pellicola.

E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Dune ridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.

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Avventura Azione Buddy Movie Commedia Dramma familiare Drammatico Film Giallo Thriller

The Nice Guys – Bruciare lo spunto

The Nice Guys (2016) di Shane Black è un buddy movie con protagonisti Ryan Gosling e Russell Crowe.

A fronte di un budget non particolarmente importante – 50 milioni di dollari – è stato un disastro al box office: appena 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Nice Guys?

Jackson e Holland sono due personaggi con impieghi piuttosto particolari: l’uno un investigatore privato approfittatore, l’altro un hitman disilluso dalla vita. Ma una causa comune li farà incontrare in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Nice Guys?

Sì e no.

Se da una parte The Nice Guys è un film incredibilmente mediocre sotto ogni punto di vista – totale mancanza della chimica fondamentale dei protagonisti, direzione attoriale non pervenuta, scrittura approssimativa che viaggia per frasi fatte…

…dall’altra non è niente di peggio di un qualunque altro action di poco spessore che potete guardarvi per passare due ore in spensieratezza, spegnendo completamente il cervello – magari riuscendo persino a ridere.

Ve lo auguro.

Spunto

The Nice Guys parte da uno spunto tutto sommato interessante.

Ogni buddy movie che si rispetti ha come protagonisti due personaggi per qualche motivo disillusi dalla vita, impegnati in qualche attività al limite del legale che li rende egocentrici, approssimativi e assolutamente intrattabili…

…insomma due che non potrebbero mai lavorare insieme.

E già in questa fase il film cerca di inserire i primi elementi di ironia che raccontino il carattere turbolento dei personaggi – Jackson che conta al centesimo i soldi di Amelia e Holland che si approfitta della buona fede di una vecchia signora.

E l’ironia sta proprio nel fatto che siano considerati dei bravi ragazzi dalle persone che aiutano, ma che lo diventino effettivamente quando si mettono in gioco per il bene comune, pur rischiando la loro stessa vita.

Questa, almeno, sarebbe la storia sulla carta.

Poi arriva l’esecuzione.

Chimica

Due sono sostanzialmente i problemi interconnessi della pellicola.

La mancanza di chimica fra gli attori e la direzione attoriale.

Uno degli elementi portanti del genere è proprio l’importante costruzione del rapporto fra i due protagonisti, che partono da una soluzione di totale antagonismo per arrivare a collaborare in maniera improbabile, e infine a ricongiungersi in una ritrovata e imprevedibile amicizia.

Da questo punto di vista film come 48 ore (1982) hanno fatto la storia del genere nel mettere in scena attori dal grande carisma, capaci di rendere vivo un copione che altrimenti sarebbe apparso molto banale e con poco mordente…

…esattamente come in questo caso.

Fra i due l’unico che veramente ci prova è Ryan Gosling, al tempo lanciatissimo per La La Land (2016), dove aveva già dimostrato di saper evadere i ruoli strettamente drammatici per offrire interpretazioni ben più sfaccettate e variegate.

Purtroppo, lo stesso si deve scontrare con un Russel Crowe che ormai da anni ha disimparato a recitare, e che in questo caso si perde in una recitazione inutilmente drammatica e riflessiva, che non lascia mai il fianco al suo coprotagonista per creare un effettivo rapporto.

Insomma, arrivando alla fine della pellicola, lo spettatore non ha alcun motivo per pensare che i due ora potranno lavorare insieme.

Ma le vere vittime sono altre.

Possibilità

Per un giovane interprete ad Hollywood purtroppo è sempre sfida riuscire a trovare la parte giusta, il regista capace di valorizzarli.

Non è il caso di Shane Black.

La meno penalizzata è forse l’allora giovanissima Margaret Qualley, che ha dimostrato nel tempo una capacità attoriale ben superiore, ma che in questa pellicola porta in scena una recitazione incredibilmente macchiettistica e assolutamente dimenticabile.

Ma la vera vittima sacrificale di questa conduzione scellerata è la povera Angourie Rice, a cui viene affibbiata una parte che speravo fosse stata ormai abbandonata dal cinema contemporaneo: l’insopportabile bambina che vuole impicciarsi nelle faccende degli adulti, dimostrando di saperne ben più di loro.

Ed è veramente struggente vederla annaspare nel cercare di rendere vive battute così stereotipate e che evidentemente non sente sue…

E più in generale, è deprimente vedere come il film cerchi continuamente di far ridere lo spettatore, persino di giocare con i tropoi del genere, ma fallendo da ogni punto di vista, risultando apertamente ridicolo in una produzione che è davvero il disastro perfetto.

E, per una volta, do ragione al botteghino.

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2024 Avventura Azione Drammatico Fantascienza Film Grottesco Horror Humor Nero Oscar 2025

The Substance – Poca sostanza

The Substance (2024) di Coralie Fargeat è un film horror vincitore della Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes 2024.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 17.5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 76 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per The Substance (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Demi Moore
Migliore sceneggiatura originale
Miglior sonoro
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla The Substance?

Elisabeth Sparkle è una ex-star del cinema ormai caduta nel dimenticatoio. Ma forse un’altra occasione per ricominciare è possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Substance?

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Dipende.

Nel complesso The Substance è un buon film horror con un cast veramente azzeccato e in splendida forma, che riesce altrettanto bene ad essere un film denuncia della fragilità dello star system, grazie anche ad un ottimo uso del body horror.

Tuttavia sul finale la pellicola vanifica in parte gli sforzi fatti fino a quel momento e l’aspettativa creata nello spettatore, con diversi inciampi di scrittura e con una struttura tematica che finisce per diventare ridondante e estremamente prevedibile.

Però, andandoci con le giuste aspettative, può essere una visione piacevolissima.

Declino

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth è arrivata al capolinea.

Già il prologo racconta perfettamente il declino della sua carriera: la sfolgorante stella sulla Walk of Fame è prima oggetto di grande interesse dal pubblico, che però col tempo diventa progressivamente sempre più indifferente, calpestandola, insozzandola e rovinandola.

Allo stesso modo il racconto visivo del corridoio che dovrebbe mostrare la sua sfolgorante carriera televisiva si trasforma invece in una passerella della vergogna, del progressivo spegnersi della bellezza della protagonista, ultimo residuo di un’epoca ormai tramontata.

L’apice di questo drammatico climax è ovviamente l’involontario incontro con Harvey, personaggio raccontato dalla regia subito come repellente e chiassoso, elemento confermato anche dalla scena immediatamente successiva, in cui divora in maniera davvero disgustosa un piatto di crostacei…

…mentre liquida con indifferenza la protagonista, perché non ha più quel quid che le serve per essere interessante.

Ma non è finita qui.

Bozzolo

Elizabeth rinasce come da un bozzolo.

Particolarmente brillante il racconto del kit di The Substance, che non lascia nessun dubbio sul funzionamento della sostanza riuscendo così a costruire una solida mitologia, che tornerà molto utile nel prosieguo della pellicola.

E con la nascita del clone assistiamo alla prima prova di un body horror come non lo vedevamo da tanto tempo, indubbiamente debitore di classici del genere come La mosca (1986) e The Thing (1982), ma riuscendo ad essere assolutamente al passo con i tempi.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

In questa fase particolarmente importante è stata la scelta di un cast così capace di mostrarsi nudo in scena con tutte le sue imperfezioni, creando un contrasto molto angosciante fra il corpo non più desiderabile di Elizabeth e la frizzante bellezza giovanile di Sue.

E allora è il momento di riprendersi il proprio posto.

Inizio

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Elizabeth può cominciare da capo…

…un’altra vita infelice.

La protagonista infatti sembra del tutto incapace di accettare l’idea di allontanarsi da un mondo così ingiusto e rapace, pronto a nutrirsi fino all’osso delle star del momento, per poi liberarsene senza vergogna quando non fanno più notizia…

…ricominciando la propria scalata dallo stesso punto di trent’anni prima: un corridoio vuoto e pieno di promesse, in cui viene posta la prima pietra di un folgorante successo di pubblico, dopo che la carriera della vecchia sé è stati rimossa e dimenticata nel giro di un pomeriggio.

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Ed è proprio davanti a questa sfolgorante occasione che Sue comincia sempre di più ad odiare la sua matrice, disprezzandola per essere così imperfetta, inadatta, non riuscendo più a vederci se stessa, ma solo un ingombrante ricordo da lasciarsi alle spalle.

E proprio in questa ottica Elizabeth comincia a divorarsi da sola, a succhiare tutto il possibile dalla sua matrice e prendendone sempre più il posto – con una parabola non dissimile dallo stesso comportamento che lo star system ha avuto nei suoi confronti.

E, proprio nell’ultimo atto, The Substance fallisce.

Corpo

Demi Moore in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

Al centro di The Substance vi è il corpo.

Un corpo continuamente mostrato nella sua perfezione e imperfezione, nella sua bellezza e bruttezza, un corpo pronto a tradirci, a farci sfigurare, a farci desiderare da un mondo che pretende una perfezione eterna, pena una rovina repentina e irreprensibile.

E proprio del suo corpo, continuamente messo alla berlina, Elizabeth ha un disgusto sempre più crescente, tanto che le basta pochissimo per decidere di non farsi più vedere fuori casa in questo aspetto vergognoso, così lontano invece dalla sua nuova versione.

E proprio Sue è lo spettro che la perseguita, che odia per la sua avventatezza, ma di cui non può fare a meno…

…concetti chiarissimi, limpidi e spiegati senza bisogno di parola alcuna, che, per motivi incomprensibili, devono essere invece esplicitati proprio nel momento in cui Elizabeth accetta finalmente l’idea di liberarsi di quella odiosa copia…

…andando a vanificare un’ottima costruzione simbolica che funzionava benissimo da sola.

Ridondante

In questo senso, meglio funziona la sequenza successiva alla morte di Elizabeth, in cui Sue sceglie finalmente di liberarsi dal peso del suo passato per brillare finalmente come la star di un tempo

…finendo invece per essere perseguitata da un corpo che le si rivolta contro.

E purtroppo nel finale Coralie Fargeat sembra incapace di portare in scena qualcosa di effettivamente nuovo e interessante, di evadere o di arricchire il canovaccio classico e prevedibile su cui si è basata, puntando invece tutto su un body horror indubbiamente d’effetto…

Margaret Qualley in una scena di The Substance (2024) di Coralie Fargeat

…ma che sembra, infine, l’unico elemento di effettivo interesse di The Substance, a fronte di uno scioglimento veramente banale in ogni sua parte, dalla caccia a Frankenstein in chiave splatter fino al totale decomporsi del corpo di Elisabeth sopra la sua amata stella, per essere dimenticata il giorno dopo.

Ovvero, lo stesso identico concetto espresso all’inizio.

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Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

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Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

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Deadpool & Wolverine – La parata dei dimenticati

Deadpool & Wolverine (2024) di Shawn Levy è il terzo capitolo della (finora) trilogia dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget piuttosto importante – 200 milioni di dollari – ha aperto splendidamente al primo weekend: 438 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool & Wolverine?

Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?

Dipende.

Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…

…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.

Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.

Dissacrare

Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.

La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.

Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.

Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura

…con risultati discutibili.

Ma andiamo con ordine.

Crisi

Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.

Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.

Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.

In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.

E qui cominciano i primi problemi.

Paradox

Paradox poteva essere l’unico villain.

Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.

Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.

Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.

Ma è solo l’inizio.

Vuoto

La vera partita si gioca nel Vuoto.

Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.

E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.

Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.

Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…

…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmente rivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…

…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.

Da qui in poi, il delirio.

Sovrappopolazione

In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…

…oppure no?

Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.

La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.

Ma il peggio arriva dopo.

Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …

…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.

E così il sovraffollamento è inevitabile.

Spazio

In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.

Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…

Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.

E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.

Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…

…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.

Intralcio

Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.

E lo stesso è il punto più basso del film.

Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.

Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.

Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.

E qui nascono i miei maggiori dubbi.

Rapporto

Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.

Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…

…peccato che manchi qualcosa.

Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.

Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…

…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.

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Deadpool 2 – Un film per famiglie

Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.

A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore: appena 734 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool 2?

Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool 2?

Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.

In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.

Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…

…che, di fatto, non vedremo mai.

Continuità

Deadpool sui barili di petrolio in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.

Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.

Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.

Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.

Solo un corpo da distruggere.

A pezzi

Deadpool X-Man in prova in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool deve essere rimesso insieme.

Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.

Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.

Russell in prigione in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.

Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio

…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.

Squadra

La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…

…pur andandole a vanificare un momento dopo.

La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.

Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.

Ma il team si deve ricomporre altrove.

Comporre

Deadpool in una scena del trailer di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

L’ultimo atto è un grande azzardo.

Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.

Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.

Deadpool X-Man  in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi tutto viene riscritto.

Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.

Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…

…forse ancora di più in vista di Deadpool e Wolverine (2024).