Taron e la pentola magica (1985) traduzione abbastanza impropria di The Black Cauldron, è il venticinquesimo Classico Disney, nonché il primo realizzato con l’utilizzo della CGI.
A fronte di un budget gigantesco per il periodo – 44 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale, senza riuscire a coprire neanche la metà dei costi di produzione.
Di cosa parla Taron e la pentola magica?
Taron è un guardiano di porci che sogna di diventare un eroe. E forse lo stesso porcello che accudisce potrebbe essere la chiave per il riscatto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Taron e la pentola magica?

Direi di no.
E per due motivi.
Da una parte, fatta eccezione delle ottime animazioni dei non morti e di qualche sperimentazione in CGI, Taron e la pentola magica non sembra un Classico Disney, ma piuttosto un prodotto sottomarca che cerca di copiare la Casa del Topo, soprattutto per i character design piuttosto blandi e poco convincenti.
Allo stesso modo, la scrittura della pellicola è davvero carente: sembra prendere lo scheletro narrativo del viaggio dell’eroe e non svilupparla in alcun modo, introducendo i personaggi nei loro ruoli – spesso direttamente detti a parole – e poi abbandonandoli totalmente a loro stessi.
Insomma, per quanto non sia confermato, la pellicola è di un blando tentativo di fare Il Signore degli Anelli targato Disney.

Contrasto

Taron e la pentola magica è sostanzialmente incapace di creare il contrasto fondamentale di inizio pellicola.
Esattamente come nella trasposizione di Jackson, il film si apre con un prologo piuttosto eloquente, dove viene definita la minaccia in atto – Re Cornelius – e l’oggetto del desiderio – il calderone – raccontando le conseguenze che causerebbe il ritrovamento del diabolico artefatto perduto.
E questo sarebbe il momento cruciale per introdurre Taron…

…e invece la pellicola ne è assolutamente incapace: la narrazione dell’eroe per caso, il contrasto fra un potere incontenibile e un protagonista che sembra incapace di prevenirlo – e per questo è così vicino allo spettatore – viene totalmente spezzata da dall’introduzione di un protagonista che che è già al suo punto di arrivo.
In questo frangente probabilmente si è voluto ricalcare la classica dinamica della canzone del sogno, in cui Taron definisce quando la storia potrà dirsi conclusa, ma risultando in una presentazione del protagonista artificiosa e poco credibile, che lo rende estremamente bidimensionale.

Oltretutto, il suo sogno dovrebbe poi essere sostituito da un nuovo obbiettivo molto più importante – in una dinamica simile a quella di Rapunzel (2010), fra gli altri – ovvero crearsi delle relazioni significative e maturare attraverso le stesse lungo il viaggio…
…peccato che è proprio la dinamica su cui il film fallisce di più.
Costruzione

La costruzione credibile di un gruppo protagonista è l’ostacolo principe all’interno di questo tipo di narrazioni…
…e Taron e la pentola magica ricade nel più classico capitombolo.
Come ci si può facilmente rendere conto confrontando il mediocre Suicide Squad (2016) e l’ottimo The Suicide Squad (2021), per costruire un solido gruppo di protagonisti è fondamentale tratteggiare in maniera significativa i loro caratteri e le loro differenze, così da raccontare il loro rapporto tramite l’incastro delle stesse.

E invece il Classico Disney non solo manca in primo luogo delle caratterizzazioni dei suoi personaggi, ma sembra come costretto a spuntare una lista di figure da mettere in scena solo per dare un contorno al protagonista: l’aiutante bislacco e pasticcione, l’interesse romantico, e una sorta di consigliere che funge anche da spalla comica.
Ed è una dinamica tanto più grave quanto il pathos del finale si basa sulla costruzione del rapporto fra i personaggi, per cui Taron infine sceglie di non voler indietro la spada che lo renderebbe l’eroe che ha sempre sognato di essere, e invece riesce a far rivivere Gurghi, personaggio per cui dovrebbe nutrire un profondo affetto…
…che però è definito solamente a parole.
Ma questa superficialità è un tratto distintivo della pellicola.
Tappe

La narrazione per tappe è una delle più difficili da realizzare.
Come l’autore ha ben in mente il percorso che vuole far percorrere ai personaggi, per creare un racconto genuino ed avvincente non deve mostrare allo spettatore il suo modus operandi, ma deve invece collegare in maniera credibile e coinvolgente i vari passi del protagonista verso il suo obbiettivo.
In questo senso soprattutto Le due torri (2003) – da cui appunto il film pesca a piene mani – è un ottimo esempio di gestione di questo tipo di narrazione, riuscendo anzi a rendere credibili i vari momenti di stallo e di difficoltà dei protagonisti, così che la vicenda non si risolva immediatamente.

Al contrario, in Taron e la pentola magica il protagonista ha tutte le soluzioni sempre a portata di mano e senza il minimo sforzo, anzi persino quelli che sembrano sulle prime degli incidenti – come essere risucchiati in un vortice d’acqua – risultano infine la chiave per la risoluzione del problema.
E, come se tutto questo non bastasse, la maialina Ewy è un becero McGuffin.

Così, se Hitchcock ha fatto scuola in Psycho (1960) nel fingere che un mero vettore della trama fosse fondamentale per la storia, Taron e la pentola magica utilizza la piccola scrofa il tempo necessario per fare proseguire la narrazione, per facilmente scalzarla con altri personaggi nel medesimo stesso ruolo.
E non è neanche la parte peggiore…
Spreco

Re Cornelius potrebbe entrare nel novero dei villain più sprecati della storia della Disney.
Per quanto il suo character design non sia niente di così speciale od originale, la sua presenza scenica è particolarmente terrorizzante e poteva, al pari di Sauron, essere esplorata in molte direzioni, riuscendo invece a brillare solo in pochi momenti di astuzia – come quando lascia Taron libero di condurlo al calderone – ma che nel complesso aggiungono poco al suo personaggio.
Così risulta un villain con un minutaggio minuscolo, quasi insignificante nell’economia narrativa, tramutandosi quasi in uno strumento della trama per la maturazione – almeno sulla carta – del protagonista, da cui fra l’altro neanche viene sconfitto, diventando anzi vittima del suo stesso desiderio di potere.

E, per quanto quest’ultima dinamica poteva risultare non poco interessante, al contempo va ancora di più a calcare la mancanza di connessione fra l’eroe e l’antagonista: come Cornelius è uno dei tanti ostacoli nella maturazione del protagonista, Taron è una delle tante strade percorribili per la vittoria della villain…
…che diventa quasi il primo e generico boss di un videogioco con cui il protagonista deve mettersi alla prova.