La stanza accanto (2024) di Pedro Almodóvar, è un film drammatico con protagoniste Tilda Swinton e Julianne Moore.
A fronte di un budget veramente minuscolo – circa 5 milioni di dollari – forte anche della sua vittoria al Festival di Venezia, potrebbe rivelarsi un buon successo commerciale.
Di cosa parla La stanza accanto?
Ingrid e Martha sono due vecchie amiche che si ritrovano in una situazione non semplice da affrontare: il tumore. Ma Ingrid non è persona da arrendersi così facilmente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La stanza accanto?
Assolutamente sì.
È stato davvero sorprendente assistere ad un autore ormai con diversi anni sulle spalle come Almodóvar riuscire, al pari di Scorsese in Killers of the Flower Moon (2023), a raccontare con così tanta lucidità un tema così importante e contemporaneo.
Infatti il cineasta spagnolo riesce a portare in scena la morte non più, come spesso accade, come un passaggio esclusivamente tragico e distruttivo, ma bensì come un’occasione di autodeterminazione, di dignità e, paradossalmente, di rinascita.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Improvvisa
Il primo atto basta per raccontare perfettamente il personaggio di Martha.
Per esorcizzare la sua profonda fobia – la morte, e, soprattutto, la morte improvvisa – la protagonista riversa i suoi timori in un’opera che, al pari del film stesso, diventa un dialogo intergenerazionale – come ben racconta il breve scambio con la ragazza al firmacopie.
E il suo desiderio di allontanare la morte da sé stessa è tanto più evidente con il primo incontro con Ingrid, quando la donna insiste più volte sulla possibilità, anzi la certezza di una cura, di un lieto fine a tutti i costi.
Ma le protagoniste di La stanza accanto sono divise da una distanza incolmabile.
Futuro
Ingrid e Martha vivono due tempi diversi.
Martha è vestita di colori forti e importanti, si riempie la bocca di prospettive future, di libri ancora da scrivere, di storie ancora da raccontare, di un corpo da curare, di un inquantificabile tempo ancora da vivere.
Una tendenza che si può trovare anche nello scontro con il pessimismo con Damian, che ribadisce più volte la sua disillusione verso un presente – ed un futuro – sempre più catastrofico, a cui la protagonista ribatte con il suo attaccamento alla vita e al poco rimasto in cui sperare.
Al contrario, Ingrid vive nei suoi ricordi, nel suo glorioso passato, ad una serie di suggestioni che hanno definito la sua intera esistenza, costantemente ribadite come ultimo baluardo a cui aggrapparsi…
…davanti ad un presente che sembra sempre più sgretolarsi, davanti ad un corpo che non le risponde le più, come se fosse già pronto a morire, come ben riassume una battuta piuttosto angosciante quanto rappresentativa della sua condizione:
I am reduced to a very little of myself.
Ormai sono solo un’ombra di me stessa.
Avventura
La morte è un’avventura che Ingrid non può vivere da sola.
Nonostante infatti sembri così sicura della sua scelta, così convinta nel suo nichilismo, nel suo voler lasciarsi ormai alle spalle la bellezza di una vita tutto sommato soddisfacente, percependosi come un fantasma in un presente che ormai sembra solo infestare…
…la protagonista custodisce dentro di sé il terrore primordiale di morire da sola, ma anche di non riuscire a morire, ma di rimanere bloccata in questo limbo infernale in cui è costretta alla vita.
E non era scontato che Almodovar riuscisse ad evadere la narrazione a suo modo più confortante di una morte tragica, lacrimosa e squalificante, non riducendola ad un momento di chiusura, di colpa, ma bensì di rinascita.
Infatti infine Ingrid sceglie di morire da sola, ma non nascosta nella vergogna della sua camera, dietro la definitività della porta chiusa, ma bensì immersa nella piacevolezza della luce del sole, vestita di colori caldi, ancora piena di vita, diventando un tutt’uno con l’universo.
Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen fu la pellicola che segnò definitivamente il successo di questo talentuoso duo di registi.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 15 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale – 47 milioni in tutto il mondo – diventando nel tempo un grandissimo cult.
Di cosa parla Il grande Lebowski?
Jeffrey Lebowski, detto il Drugo, è un annoiato nullafacente che vive la sua vita alla giornata. Ma una curiosa omonimia sarà l’inizio di una grande avventura…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il grande Lebowski?
Assolutamente sì.
Il grande Lebowski fu solo la naturale continuazione di Fargo (1996), volendo ancora raccontare, con imprevedibili toni comici e surreali, una parentesi di irresistibile di violenza e criminalità all’interno di una vita quietamente soddisfacente…
…arricchendo la scena con una folla di personaggi sempre più improbabili e indimenticabili, in una storia a scatole cinesi di cui è anche difficile tenere il passo – ma proprio qui sta anche la bellezza del film.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Shock
Il Drugo vive la vita più serena che si possa immaginare.
Una seducente voce fuori campo ci introduce ad un panorama che sulla carta sembra quasi proprio di un western, con protagonista un eroe leggendario e imperscrutabile, che invece si rivela un adorabile fannullone, così pigro da pagare persino pochi centesimi di spesa con un assegno.
Pochi tocchi di colore che, come già dimostrato nel precedente Fargo, bastano per rendere poliedrico e iconico il protagonista, che seguiamo nella sua disimpegnata routine, senza un pensiero al mondo…
…che viene improvvisamente interrotta dalla prima delle numerose incursioni, in cui vengono affibbiati al nostro protagonista delle caratteristiche via via sempre meno credibili: se all’inizio possiamo credere che sia in debito con personaggi poco raccomandabili…
…molto meno verosimile che il Drugo abbia una moglie a carico – come lui ci tiene particolarmente a sottolineare – fra l’altro riducendo a non perdere la sua irresistibile vena ironica neanche mentre gli affondano la testa nel water:
Where’s the money, Lebowski? Where’s the fucking money, shithead? (Drugo) It’s uh… uh… it’s down there somewhere, let me take another look.
Dove sono i soldi, Lebowski? Dove cazzo sono i soldi stronzo? Sono…em…qua dentro da qualche parte, fammi dare un’altra occhiata.
Ma le preoccupazioni del Drugo sono molto limitate.
Tappeto
Lebowski ha una sola preoccupazione.
Il suo tappeto rovinato.
Niente più che un fastidio che il protagonista inizialmente non vuole neanche affrontare, ma che infine si decide a risolvere incoraggiato da suoi altrettanto strambi amici, in particolare Walter, che non ha mai abbandonato il campo di battaglia – e così il suo senso di giustizia.
Così, con la visita al grande Lebowski, il Drugo si immerge in un universo di apparenze, in cui le presunte prove della bontà del miliardario – il suo impegno sociale e le sue amicizie politiche – vengono insistentemente sottolineate dall’ingenuo assistente del miliardario, Brandt.
Ma, nonostante le sue grandi conquiste caritatevoli, il magnate risponde con grande insofferenza alle richieste del Drugo, convinto che sia solo l’ennesimo personaggio che cerca di immergere le mani nel suo importante portafoglio.
Ma se Drugo è un uomo dalle vedute ristrette, nondimeno si dimostra piuttosto abile nell’ottenere quello che vuole senza particolare sforzo: fare leva sulla genuina bontà del segretario e sulla sua assoluta convinzione della bontà del suo superiore…
…per portarsi a casa un tappeto pure più bello.
Ma i problemi sono appena iniziati.
Occasione
Con Il grande Lebowski i fratelli Coen si prendono apertamente gioco di un topos narrativo piuttosto tipico.
Ovvero, la storia di un improbabile eroe.
In prima battuta sembra infatti che il Drugo sia riuscito senza sforzo a tornare alla sua vita di totale indifferenza, nonostante i diversi disturbi esterni che cercano insistentemente di ottenere la sua attenzione tramite la segreteria telefonica.
E così il suo godersi appieno il suo nuovo tappeto viene ancora una volta improvvisamente disturbato da una nuova intrusione, da un nuovo giocatore in questa sciocca prova di potere, che però inizialmente non viene rivelato.
Infatti la nostra attenzione – e quella del Drugo – viene immediatamente distolta dal ritorno in scena del vero Lebowski, che introduce il grande mistero della pellicola: il rapimento della seducente Bunny, la moglie trofeo.
E il suo quieto vivere ne è sempre più turbato…
Fuga
Il Drugo è sempre più immerso in una storia da cui vorrebbe solo fuggire.
Con momenti di irresistibile ironia – come il cercapersone a cui il protagonista non può rispondere durante il torneo di bowling – si articola così il complesso scambio della valigetta, ancora più complicato dall’intrusione di Walter, che vorrebbe approfittarsi della situazione.
E il Drugo ne paga tutte le conseguenze.
Perdendo sia la valigetta sia la macchina, il protagonista si trova intrappolato in una rete di bugie ed intrighi da cui non riesce a districarsi, aggravato anche dall’intervento di un nuovo personaggio, Maude, la figlia di Lebowski, che conferma i sospetti sul finto rapimento.
Il mistero si infittisce con il coinvolgimento del giovane Larry Sellers, apparentemente autore del furto, il primo momento della grottesca ironia già sperimentata in Fargo, che spoglia il racconto di ogni vena drammatica, mettendo ancora più in luce l’improbabilità dei personaggi coinvolti.
Ma esiste una via d’uscita?
Bandolo
Il Drugo è molto meno stupido di quanto si potrebbe credere.
Raccogliendo indirettamente gli indizi che gli arrivano quasi casualmente, il protagonista riesce a comporre più chiaramente il quadro della situazione, confermata dal ritorno di Bunny, che smaschera tutte le presunte vittime e criminali in scena.
Ma l’elemento interessante, di totale disillusione del film, è che non vi è nessuna conseguenza per il grande Lebowski, se non l’essere definitivamente umiliato dalla paranoia di Walter, che pensa che tutto sia un inganno, persino la disabilità del finto miliardario.
Ancora più ridicolo è infine il confronto con i presunti rapitori, che decidono comunque, proprio per principio, di derubare i protagonisti, diventando autori dell’unica nota veramente amara della pellicola: la morte di Donny.
E così ancora una volta il film si conclude con una nota agrodolce, in cui il protagonista non è cambiato per nulla, ma la sua maggiore preoccupazione è ancora il prossimo torneo di bowling…
Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.
A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale:60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.
Di cosa parla Fargo?
Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Fargo?
Assolutamente sì.
Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.
Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Mediocre
In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.
Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.
Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.
Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…
…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.
Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.
E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…
Improvvisazione
Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.
Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.
Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.
E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.
E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.
Alternativa
Marge è una protagonista piuttosto particolare.
Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.
E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.
Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.
Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…
…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.
Due autori di teatro si sfidano a trovare la differenza fondamentale fra commedia e tragedia, partendo dalla stessa storia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Melinda e Melinda?
In generale, sì.
Melinda e Melinda appare a suo modo una riflessione molto intima di Allen sulla sua carriera fino a quel momento, ricalcando dinamiche comiche ormai consolidate nella sua produzione, ma anche esplorando nuovi versanti drammatici…
…proprio alla soglia di prodotti più rivolti in questa direzione – Match Point (2005) e Blue Jasmine (2013), ma anche Scoop (2006) a suo modo – quasi come se il regista se sdoppiasse, portando in scena due tendenze opposte che sentiva in quel momento.
Melinda e Melinda prende spunto da due visioni diverse.
I due autori dibattono su quale sia il favore del pubblico, se verso la commedia o la tragedia, risolvendosi ad andare a cercare quell’elemento che effettivamente cambia il tono e il taglio di una storia, mettendola da l’una o l’altra parte.
Ma, fin da subito, la differenza di visione è quella fondamentale.
Visione
Il medesimo evento – il racconto del passato – assume un tono diverso a seconda del diverso punto di vista dell’autore: se la Melinda tragica porta in scena un doloroso monologo sul suo passato, il racconto della Melinda comica non appare per intero, ma riassunto solo nei suoi punti salienti.
Per lo stesso evento, cambia moltissimo anche la regia della scena: il monologo tragico appare particolarmente emotivo perché Melinda è l’unica protagonista della scena, mentre il racconto comico code di una visione più ampia su tutti i personaggi della scena.
Lo stesso discorso si può fare anche per il tentativo di suicidio.
Essendo un elemento proprio del racconto tragico, Max nella sua versione la abbraccia totalmente, mostrandolo come un evento inevitabile della sfortunata vita di Melinda, come ben sottolineato dalla voce fuori campo di Laurel che chiude la storia.
Al contrario, nel racconto comico, l’elemento del suicidio è relegato ad un personaggio di contorno, che sceglie di togliersi la vita in una bizzarra escalation del suo flusso di pensieri – che ha molti parallelismi col primo monologo della Melinda tragica.
E il riferimento agli stilemi classici non è casuale…
Destino
I due racconti sembrano rifarsi ai dettami classici dei due generi.
Infatti la Melinda tragica è come se fosse destinata ad avere una conclusione infelice, tanto più straziante quando nella sua vita si affaccia la possibilità di una seconda occasione relazionale, che fra l’altro gli viene sottratta da quella che credeva sua amica.
Al contrario, il racconto della Melinda comica sembra voler a tutti i costi avere una conclusione positiva, andando fortuitamente ad fare corrispondere la fine del matrimonio di Hobie con la nascita del suo interessamento per la protagonista.
Ma infine una domanda rimane…
Perché?
Perché Melinda e Melinda?
Pur non essendo la prima volta che Allen sperimenta con la metanarrativa – come nel già citato Crimini e misfatti – è la prima volta che Allen si affaccia al genere drammatico in senso stretto, ed è come se con questo film volesse riproporsi al pubblico in una veste nuova…
…e, al contempo, riflettere con sé stesso sul cinema, e chiedersi come e se potrebbe sperimentare con un racconto strettamente drammatico, arrivando alla conclusione che non sono i temi a definire il taglio di un film, ma la mano stessa dell’autore.
Non a caso, il successivo Match Point ha alla base un racconto più e più volte portato in scena da Allen…
Val è un regista in disgrazia, per via del suo carattere molto difficile. Eppure sarà proprio la sua ex moglie a dargli una seconda occasione…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Hollywood Ending?
Assolutamente sì.
Hollywood Ending è uno dei miei film preferiti di Allen in questo periodo, anche per la sua ottima performance comica, con cui evade la macchinetta che già al tempo rischiava di diventare, per invece impreziosire la sua performance con un irresistibile taglio surreale.
Oltretutto, se si considera il momento artistico del regista statunitense – al tempo si cominciava a pensare che la sua carriera fosse ormai sulla via del tramonto – il film assume ancora più significato, soprattutto visto che ci troviamo a pochi anni di distanza da uno dei suoi più grandi successi:Match Point (2005).
Disgrazia
Il personaggio di Val nasce fuori scena.
Uno dei lati che più apprezzo della scrittura di Hollywood Ending è proprio il modo in cui introduce il protagonista: un’animata discussione fra Ellie e gli altri produttori, in cui si abbozza già il carattere imprevedibile di Val, nonostante questo non sia presente.
Così scopriamo come Val sia un regista ormai caduto in disgrazia, nonostante tutti i presenti ne riconoscano l’innegabile verve artistica, che lo distingue dai più incolori yes man che invece dirigerebbero la pellicola in maniera molto meno ispirata.
E infine Ellie dà la punchline che chiude questa ottima costruzione:
I’m told that he is in no position to be fussy.
Mi è giunta voce che non è proprio nelle condizioni di fare lo schizzinoso.
Ed infatti vediamo un Val ormai costretto ad accettare i lavori più improbabili, nonostante non riesca ad a mantenere neanche quelli, rendendo l’offerta di Ellie davvero la sua ultima occasione per rilanciarsi – senza che questo, però, gli impedisca di continuare ad essere ingestibile…
Follia
Come prevedibile, Val è totalmente incontrollabile.
Ma non è solo.
La sequenza dedicata al breve incontro con la sua ex moglie è una delle migliori prove comiche di Allen dai tempi di Prendi i soldi e scappa(1969), mostrando un comportamento quasi bipolare, che passa da una serena discussione sulla sceneggiatura fino alle più aspre rivendicazioni sul suo matrimonio fallito.
Come se questo non bastasse, la follia sembra perseguitarlo.
Tutti i personaggi di cui si circonda nella fase di pre-produzione dimostrano a più riprese tutta la loro assurdità – addirittura nel voler ricreare interi palazzi di New York – che dimostra come Val scelga, forse inconsapevolmente, di lavorare con figure ancora più improbabili di lui.
Ma all’apice della follia, della realizzazione dei suoi capricci…
Isteria
La cecità di Val è frutto esclusivamente della sua isteria.
Pur essendo sano come un pesce, fra l’ipocondria galoppante, la vicinanza con l’odiata ex-moglie e una produzione assurda ancora prima di cominciare a girare, il protagonista esprime il suo disagio irrisolto in una malattia apparentemente incomprensibile.
Uno spunto comico che poteva facilmente essere sprecato in battute piuttosto scontate, ma che invece si articola in una serie di gag comunque piuttosto semplici, ma nondimeno anche brillanti e gustose nella loro esecuzione.
Fra l’altro, la cecità improvvisa è anche l’occasione per riflettere sulla propria vita, sul suo intestardirsi sulle sue manie, in particolare nell’essere un grande artista incompreso dalla sua stessa famiglia – con cui invece gradualmente riesce a riconciliarsi.
Quasi una…profezia?
Presagio
Come anticipato, Hollywood Ending è probabilmente uno dei film più autobiografici di Allen.
Così la già citata situazione della sua carriera – considerata ormai alle sue battute al tempo dell’uscita del film – e l’inizio dei finali più positivi e concilianti per le sue commedie – già in Criminali da strapazzo(2000) – che raccontano il recente matrimonio con Soon-yi Previn.
Allo stesso modo, questa pellicola è una previsione fin troppo lucida del suo destino registico: il suo progressivo allontanamento dal cinema americano per invece affacciarsi al panorama europeo, ben più pronto – proprio come nel film – ad accettare la sua arte.
E proprio a Parigi, meno di dieci anni dopo, avrebbe ambientatoMidnight in Paris(2011)…
Heathers (1989) di Michael Lehmann, noto in Italia col titolo di Schegge di follia, è un teen movie intriso di profondo cinismo e humour nerissimo.
A fronte di un budget piccolissimo – appena 3 milioni di dollari – è stato un terribile flop al botteghino (almeno negli Stati Uniti): 1 milione di dollari di incasso in totale.
Di cosa parla Heathers?
Veronica fa parte del gruppo delle bulle della scuola, le Heathers, che però non sopporta. Ma il modo in cui le metterà fuori gioco non sarà quello che vi aspettate…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Heathers?
Assolutamente sì.
Heathers è sostanzialmente un Mean Girls(2006) molto più violento e anarchico: una satira di costume piuttosto rivelatoria di un’adolescenza molto meno innocente di quanto si è abituati a pensare, solo l’anticamera di un comportamento adulto altrettanto malvagio.
Un film che non si risparmia nelle zampate verso una società del tutto incapace di comprendere l’importanza della pubertà e delle sue insidie, con degli adulti capaci solo di puntare il dito ciecamente senza comprendere verso cosa lo stanno puntando.
Per questo, vi lascio le parole del regista:
Evil and bad behavior can happen at a much younger age than just when you’re becoming an adult.
Il male e i comportamenti malvagi possono accadere molto prima di diventare adulti.
Status
Veronica è vittima.
Inizialmente al centro della scena, con il loro incalzare deliziosamente distruttivo, sono le tre Heathers, che attraversano il giardino della protagonista calpestando i fiori con grande noncuranza, per poi usare la testa di Veronica come ostacolo per le loro partite di croquet.
Così l’inquadratura della protagonista in questo status umiliante chiude perfettamente la scena, definendone la posizione – sottomessa, quasi uno strumento – e il tono della pellicola – un delizioso grottesco che ricorda molto il poco successivo La morte ti fa bella(1992).
Ma Veronica è anche (involontaria) carnefice.
La maliziosa dinamica della mensa, in cui Heather fa un giro di ricognizione del suo popolo, ha il suo apice nel crudele scherzo ai danni di Martha, di cui la protagonista diventa controvoglia l’esecutore.
Ma vi è un elemento di disturbo.
Osservatore
JD è osservatore e giudice.
Durante tutta l’esecuzione dell’umiliazione dell’ignara Dunnstock, il ragazzo osserva con attenzione e un malizioso dispetto il comportamento di Veronica, capendo fin da subito i suoi veri sentimenti, pur non avendole mai parlato.
La caratterizzazione del personaggio si chiude in due momenti: quando la protagonista lo sottopone al sondaggio di Heather – che il ragazzo definisce ad alta voce come la domanda più stupida che gli sia mai stata fatta, mostrandosi così una voce fuori dal coro rispetto al resto dei personaggi…
…e quando si rifiuta di diventare l’ennesima vittima dell’infantile bullismo di Kurt e Ram, rispondendo prima a tono in uno scambio piuttosto sagace…
They seem to have an open-door policy for assholes though, don’t they?
Sembra che ci sia la porta sempre aperta anche per gli stronzi, giusto?
…e poi portando in scena l’elemento che mette un punto definitivo al tono della pellicola: la pistola.
Che la ribellione abbia inizio.
Ribellione
Essenziale in Heathers l’utilizzo del corpo.
Per quanto Heather sembri in cima alla catena alimentare, in realtà è lei stessa vittima del sistema, e dei veri predatori a cui si sottomette volontariamente in cambia di un presunto status sociale: i collegiali prima, e il duo Kurt & Ram dopo, con appuntamenti sessuali in cui il consenso non è contemplato.
Fra l’altro, con lo scambio che procede proprio il rape date di Veronica e Heather, si capisce che è una modalità piuttosto ricorrente…
Ma Veronica ribalta la situazione.
Consapevole di non poter sfuggire all’essere l’oggetto passivo e violato delle fantasie sessuali di questi odiosi personaggi maschili, sceglie di fingersi invece interessata ad essere la preda – in maniera fra l’altro molto esplicita…
…ma si dimostra infine lacacciatrice della situazione, rendendosi esca, per poi mettere in trappola i due ragazzi, con anche l’esplicita dinamica della caccia a Kurt, che si conclude con l’abbattimento di due pilastri del microcosmo tossico della scuola.
Ma cosa vuole veramente Veronica?
Anarchia
Veronica vuole rovesciare il sistema dalle fondamenta.
In prima battute i suoi obiettivi e sono molto più piccoli, delle soddisfazioni immediate, delle piccole vendette per rivalersi su Heather – motivo per cui all’inizio non vuole che servirle una tazza con un disgustoso ma innocuo intruglio.
Ma in questa occasione JD gli mostra che un’altra via, più anarchica, più distruttiva, è possibile: mettere fisicamente e effettivamente Heather fuori gioco, e coprire il delitto tramite una lacrimosa lettera di suicidio che fughi ogni sospetto…
…e così scardinare dall’altra parte una dei capisaldi del sistema in atto: mettere in luce una presunta omosessualità fra Kurt e Ram – così da, in un certo senso, ucciderli due volte – e far morire con loro un sistema marcio e opprimente.
Ma non basta.
Hydra
Il sistema di Heathers è così radicalmente marcio che non basta tagliare qualche testa per scardinarlo.
Non a caso in breve tempo Veronica si rende conto che i suicidi messi in atto di fatto non servono, in quanto immediatamente assorbiti dal sistema: le tragiche mortisono ora rese strumento per condannare questa gioventù depravata…
…ora diventano l’occasione per riaffermarsi socialmente, sia proprio strumentalizzando il suicidio per mettersi in mostra, sia per prendere il posto della regina caduta e far ricominciare la catena alimentare in maniera assolutamente inalterata.
Davanti all’impossibilità di cambiare il sistema, JD sceglie apertamente di distruggerlo dalle fondamenta, facendosi portavoce dell’angoscia sociale dei suoi compagni e facendo saltare in aria direttamente tutta la scuola…
…ma venendo poi fermato da Veronica, che sceglie inevitabilmente di prendere il ruolo di Heather, ma non per ribadire il sistema, ma per mutarlo dall’interno, cambiandone per sempre le regole, scegliendo di abbracciare valori più umani e costruttivi.
Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?
Dipende.
Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…
…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.
Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.
Dissacrare
Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.
La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.
Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.
Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura…
…con risultati discutibili.
Ma andiamo con ordine.
Crisi
Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.
Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.
Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.
In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.
E qui cominciano i primi problemi.
Paradox
Paradox poteva essere l’unico villain.
Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.
Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.
Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.
Ma è solo l’inizio.
Vuoto
La vera partita si gioca nel Vuoto.
Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.
E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.
Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.
Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…
…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmenterivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…
…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.
Da qui in poi, il delirio.
Sovrappopolazione
In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…
…oppure no?
Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.
La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.
Ma il peggio arriva dopo.
Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …
…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.
E così il sovraffollamento è inevitabile.
Spazio
In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.
Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…
Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.
E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.
Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…
…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.
Intralcio
Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.
E lo stesso è il punto più basso del film.
Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.
Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.
Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.
E qui nascono i miei maggiori dubbi.
Rapporto
Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.
Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…
…peccato che manchi qualcosa.
Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.
Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…
…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.
Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli è una commedia nera norvegese.
A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato appena 1,1 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Sick of myself?
Signe e Thomas sono una coppia di egocentrici che si divorano a vicenda per un pugno di attenzioni. Ma la ragazza è disposta a molto di più…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Sick of myself?
In generale, sì.
Per quanto abbia molto apprezzato questa commedia nerissima, mi rendo anche conto che non sia un’opera per tutti: nonostante nel complesso le scene non siano fisicamente troppo disturbanti, a livello psicologico la pellicola può essere veramente devastante.
Ma se sguazzate in opere di questo tipo – come Triangle of sadness (2022) – probabilmente vi piacerà moltissimo: senza mai sbilanciarsi nei toni, Sick of myself dipinge un quadro devastante quanto irresistibile di una donna vittima del suo narcisismo distruttivo.
Insomma, ve lo consiglio.
Divorarsi
Il rapporto fra Signe e Thomas è definito immediatamente.
Il ragazzo si sente un grande artista che sta solo cercando un riconoscimento del tutto dovuto, divorato dal suo narcisismo, che lo porta costantemente a ridurre l’importanza di Signe con la sua presenza ingombrante – rappresentata dalle infinite sedie che affollano la casa.
Questa dinamica è ben raccontata da un episodio che non sembra più che una sciocchezza – il goliardico furto del vino dal ristorante – di cui Signe diventa complice solamente a patto che il racconto di questa impresa venga modellato a suo favore.
Invece, il fidanzato la sorprendetogliendola bruscamente di scena.
E, proprio davanti al protagonismo di Thomas, la ragazza cerca di vendicarsi.
Durante un momento fondamentale per la carriera del suo fidanzato – la prestigiosa mostra – la protagonista sceglie di rubargli totalmente la scena, fingendo di avere un attacco allergico per attirare tutta l’attenzione su di sé, facendo proprio leva sull’empatia delle altre persone.
Ma il trigger è ancora più interessante.
Scenario
Per quanto probabilmente Signe sia sempre stata una narcisista, vi è un momento fondamentale che la fa scattare.
L’ingresso improvviso della donna con il collo azzannato, che gronda sangue e che le si butta fra le braccia, permette alla protagonista di diventare l’eroina della situazione, soprattutto a posteriori, quando riscrive il suo ruolo come unica salvatrice davanti all’indifferenza generale.
In questa situazione una qualunque altra persona si sarebbe presto spogliata – fisicamente quanto mentalmente – di quel trauma, non volendo attirare inutile attenzione verso sé stessa – quantomeno lavandosi il viso dal sangue.
Invece, proprio questa occasione è lo spunto per Signe per continuare a tenere fissi tutti gli occhi su di sé – di Thomas quanto dei suoi amici – anche e soprattutto inventando un trauma più profondo – la possibilità che il sangue sia in parte suo – per diventare in tutto e per tutto una vittima.
Ma non basta.
Controllato
Signe desidera solo una tragedia controllata.
Per questo, diventata avida di nuove attenzioni, ingerisce una quantità spropositata del pericolosissimo farmaco russo, con il preciso intento di finire nello sfondo perfetto per la sua tragedia – l’ospedale – ma senza mettere eccessivamente a rischio la sua salute.
Infatti, tutti i sogni ad occhi aperti di Signe non comprendono mai un aggravarsi della sua malattia, ma piuttosto che la stessa diventi il punto di partenza per diventare sempre più importante e desiderata, sempre più al centro dell’attenzione di tutti – in particolare di Thomas.
Infatti, nel mirino delle sue fantasie vi è sempre una sorta di rivalsa, di mania del controllo.
Uno dei principali obbiettivi è anzitutto il padre assente, che in più di un’occasione Signe sogna che abbia quello che si merita: essere escluso dal funerale della sua stessa figlia quanto doversi scusare in diretta TV per essere stato un genitore inadeguato.
Ma il grande protagonista della rivalsa di Signe è Thomas: ormai incredibilmente dimentico del suo egocentrismo, il ragazzo nei sogni della sua fidanzata diventa finalmente un compagno premuroso e devoto, che anzi si prostra ai piedi di Signe per chiederle di diventare la sua musa.
Ingombrante
Anche se in maniera diversa, Thomas è egocentrico tanto quanto Signe.
La sua presenza è estremamente ingombrante, soprattutto nelle situazioni di difficoltà di Signe, che, pure se costruite ad arte dalla ragazza stessa, svelano ora una costante indifferenza – anche ricercata – nei confronti della sua fidanzata…
…ora un tentativo piuttosto disturbante di intrufolare il suo importante ego nei momenti che dovrebbero riguardare solamente Signe – come quanto porta la rivista con la sua intervista esclusiva mentre la ragazza è nel letto di ospedale.
Ma, ancora di più, l’ego di Thomas si manifesta quando Signe sembra avere successo.
Nei vari momenti delle interviste, il ragazzo è costantemente interessato a come la neo-acquisita notorietà della fidanzata possa mettere potenzialmente in ombra la sua, anche in maniera veramente assurda – l’improbabile collegamento fra lo sfondo della sua intervista con quella di Signe.
Eppure, paradossalmente, Thomas rimane infine il suo unico alleato: quando gli amici si permettono di non essere entusiasti della sua nuova carriera, il ragazzo li scaccia e si conferma così come unica persona su cui Signe può veramente contare.
Rifugio
Nella realtà, il successo non arriva mai.
In particolare, la sua scalata è ostacolata dagli effetti indesiderati dei farmaci, che Signe cerca di nascondere in maniera sempre più assurda, stressando il suo organismo al punto da crollare su sé stessa durante il suo momento di gloria – ancora una volta, creato ad arte.
Infine, Signe rimane sola.
Thomas viene arrestato, la casa si svuota, persino la sua amica giornalista non reagisce come Signe avrebbe sognato: non diventa sua alleata nel suo rilancio volto a raccontarsi nuovamente come la grande vittima della situazione, ma, al contrario, la abbandona definitivamente.
E, infine, cosa rimane?
L’ultimo rifugio di Signe è la stramba quanto deleteria comunità di cura olistica – che in prima battuta è forse persino la causa del suo decadimento fisico – in cui si era persino trovata in difficoltà davanti alle accuse di un’altra paziente sull’effettiva validità della sua presunta malattia.
Ma proprio queste parole di accusa sono infine riproposte per dare una maggiore importanza alla sua condizione, così da vivere potenzialmente per sempre immersa in questa oasi pacifica in cui può godersi la validazione che aveva sempre sognato.
Tonya Harding è una giovane donna che ha cominciato a pattinare da giovanissima – e che ha continuato nonostante il mondo fosse tutto contro di lei.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tonya?
Assolutamente sì.
Come per uno dei miei film preferiti –American Animals (2018) – Tonya utilizza splendidamente la formula del mockumentary, mettendo al centro un gruppo di bizzarri personaggi, i cui commenti puntellano la narrazione in maniera davvero brillante.
La pellicola è inoltre impreziosita da un cast di primissimo livello, in cui spicca una Margot Robbie – che giàcercava di smarcarsi dalla sua immagine di sex symbol – e due ottimi comprimari – Sebastian Stan e l’ottima caratterista Allison Janney.
Insomma, da non perdere.
Svantaggiata
Tonya parte già svantaggiata.
Anzitutto, la testardaggine della madre di farla allenare per diventare una campionessa del pattinaggio è un’arma a doppio taglio: investendo ogni centesimo in questo progetto, la donna si sente ancora più giustificata nell’essere sgradevole e violenta nei confronti della figlia.
E, anche se la protagonista si impegna, si fa crescere una bella pellaccia per sopportare gli insulti e la violenza che la circonda, il mondo le è comunque ostile solo perché non corrisponde abbastanza allo stereotipo della principessa sul ghiaccio – anzi…
Così un aspetto non particolarmente attraente, un trucco esagerato e chiassoso, i capelli crespi e fuori luogo, i vestiti così evidentemente messi insieme, sono tutti elementi che portano Tonya ad essere sempre messa da parte, sempre svantaggiata nonostante le sue ottime performance.
E non è neanche la parte peggiore.
Sfondo
Il pattinaggio è croce e delizia.
Non avendo mai avuto alle spalle una famiglia forte e che la seguisse, che la incoraggiasse ad avere un’educazione, un piano B nel caso la carriera dell’atleta non avesse funzionato, Tonya è di fatto intrappolata nel suo sogno.
Per questo diventa così frustrante che la sua bravura, il segno indelebile che ha lasciato nel mondo del pattinaggio sul ghiaccio, venga messo in secondo piano di fronte a tutto il resto, di fronte al suo carattere sgradevole e al suo aspetto dimesso.
E il passato è anche la sua rovina.
Passare da un madre assente e opprimente ad una relazione definita dalla violenza da entrambe le parti, ad un tira e molla continuo che alterna la passione incrollabile alla violenza ingiustificata e perpetua, ha più volte un’influenza determinante sulla carriera di Tonya.
Così, anche riuscendo ad arrivare alle Olimpiadi, Tonya perde la sua occasione di fare quel salto fondamentale per distaccarsi per sempre dal suo passato proprio perché lo stesso non può fare a meno di tormentarla – e di farla inevitabilmente fallire.
Ma anche la seconda occasione è abbastanza.
Occasione
L’unica persona che davvero credeva in Tonya era la sua prima allenatrice…
…che, nonostante fosse stata scacciata in malo modo, raccoglie quel quarto posto alle Olimpiadi, quella ragazza senza futuro, e la plasma per diventare effettivamente una campionessa, un Oro alle Olimpiadi.
Ma la vittoria non è davvero possibile.
Non riuscendo davvero a distaccarsi da Jeff e dalla sua onda distruttiva, Tonya viene travolta da un piano bislacco e improvvisato, che avviene totalmente alle sue spalle, senza che possa averne nessun controllo, e che oscura tutto il resto.
Un peso sempre più incontrollabile, sempre più insostenibile, che definisce il suo secondo, clamoroso fallimento, solamente il prologo dello scandalo mediatico per cui verrà ricordata più come un caso di cronaca nera che come una leggenda del pattinaggio.
E dopo?
Dopo
Cosa c’è dopo?
La conclusione della storia di Tonya Harding, di quella che non è stata altro che una parentesi della sua vita, è raccontata dalla sua stessa protagonista, spezzata dalla distruzione del suo sogno, ma che non si è mai davvero lasciata sconfiggere dalla storia.
Una giovane donna che ha cavalcato la sua leggenda nera per riproporsi come una spietata pugile, tenendosi abbastanza tempo al centro della scena per continuare a guadagnare dalla sua notorietà, per infine ricostruirsi una vita più tranquilla e lontana dai riflettori.
E allora nel finale una domanda perseguita la narrazione: cosa sarebbe stata Tonya Harding se fosse nata in una famiglia ricca e che la supportava, se non avesse dovuto subire un matrimonio violento che ha spezzato le gambe più a lei stessa che alla sua stessa avversaria?
Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).
Di cosa parla Kinds of Kindness?
Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?
Assolutamente sì.
Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.
Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).
Insomma, arrivare preparati.
Marionetta
La prima storia di Kinds of Kindness è forse la mia preferita del terzetto.
Come tipico del Lanthimos prima maniera, la dinamica in scena viene introdotta con grande lentezza.
Così, si spargono briciole di indizi: dai costosi regali di Raymond, dalla moglie del protagonista che chiosa su quantoil magnate abbia fatto per loro, fino ad arrivare alla scheda con tutti i compiti da seguire.
Di fatto Robert è caduto nella rete di un apparente mecenate, godendosi grandi favori puramente materiali – la casa, i regali costosi, la sua stessa moglie… – per finire ad essere nient’altro che una marionetta da comandare a bacchetta.
Ma qual è il limite?
Ribellione
Raymond non ha un limite.
All’uomo non interessa la felicità di Robert, ma solo divertirsi ad libitum con lui, spingendo sempre più in là quella linea di demarcazione – forse mai esistita – fino a chiedergli di mettere programmaticamente in pericolo la sua stessa vita.
Dalla timida ribellione di Robert capiamo quanto il protagonista sia convinto di avere un rapporto alla pari con il suo protettore, tanto da poter discutere le sue richieste, non rendendosi conto invece di essere un giocattolo nelle mani di un uomo con la sindrome di Dio.
Altrimenti?
Alternativa
Esiste una vita senza Raymond?
Il dramma di Robert non è rappresentato tanto dalla presenza costante e opprimente del suo padrone…
…ma, piuttosto, dalla mancanza di un’alternativa: più la sua ribellione prosegue, più il protagonista si rende conto di non essere capace di prendere autonomamente alcuna scelta nella vita – neanche su quale drink ordinare…
Così, lasciato solo, resosi conto che persino moglie era solo una gentile concessione di Raymond, Robert cade in un vortice di immobilismo in cui è incapace di prendersi cura di sé stesso, in cui ogni cosa, persino i preziosi regali di Robert, perdono valore…
E il tentativo di riavvicinamento è disperato…
Dispetto
Robert non ha altro desiderio che tornare indietro.
Tornare ad un’esistenza pedissequamente programmata, spogliato di ogni tipo di libero arbitrio…
…ma, al contempo, ad un’esistenza molto più significativa del vortice depressivo in cui è ricaduto, in cui vaga senza una meta precisa, se non, infine, riuscire a riconquistare la fiducia e l’affetto di Raymond.
Ma ormai Robert è stato sostituito.
Per questo, non gli rimane altro che il dispetto.
Il protagonista cerca di avvicinarsi alla nuova favorita del suo ex-padrone usando gli stessi, patetici mezzi che Raymond gli aveva dato, mettendo in atto quelli che non sono altro che dispettucci – riprendersi la sua racchetta…
…e, infine, togliere violentemente di mezzo una delle tante pedine del magnate: il misterioso autista coinvolto in quell’incidente quasi mortale che Robert non ha avuto veramente il coraggio di affrontare.
Corpo
Sapreste dire con certezza che il vostro compagno di vita è proprio lui?
Il protagonista del secondo mediometraggio si sente in una condizione di grande compatimento.
La scomparsa improvvisa della moglie ha lasciato un vuoto incolmabile nella sua vita – come si nota dalla sedia immancabilmente vuota durante la cena – e, per questo, pretende di essere assecondato dagli altri in ogni sua richiesta.
Nella primissima parte della storia infatti riesce a piegare la volontà dei suoi amici proprio grazie alla pietà che questi provano nei suoi confronti, costretti a riguardare il filmino ricordo dell’orgia con Liz.
Ma il vuoto è davvero incolmabile.
Apparenze
Come succederà poi anche per la terza parte, anche nello spezzone centrale di Kinds of Kindness vi è un ribaltamento programmatico delle aspettative.
Sulle prime sembra la storia pare un thriller quasi orrorifico, in cui la falsa Liz sembra aver preso il posto della vera e amatissima moglie, lasciandosi cogliere in fallo da particolari – le scarpe che non le entrano – e da comportamenti anomali – la richiesta di sesso in divisa.
In realtà basta poco per capire che l’uomo è intrappolato in una sorta di profezia che si autoavvera: più che voler indietro la moglie, George vuole ricevere il compatimento degli altri per essere, ancora una volta, la vittima della storia…
…e, al contempo, vedere fino a che punto si spinge l’amore di Liz.
Viva
Perché Liz accetta le assurde richieste di George?
Vista dall’esterno la loro sanguinosa crisi matrimoniale dovrebbe portare la donna a scappare immediatamente dal sadismo del marito…
…ma, in realtà, anche Liz è intrappolata in una dipendenza emotiva: anche se consapevole di cosa significhi stare con George, la donna è convinta che non troverà mai altrove una fonte di amore così continua come quella del suo presente matrimonio.
Per questo lascia che il marito si nutra di lei, che la umili nei suoi tentativi di farsi amare – come quando George ammette candidamente di non aver neanche assaggiato il dito che Liz aveva preparato per lui, ma di averlo dato in pasto al gatto.
Così George assiste sadicamente felice alla moglie che accetta ogni sua richiesta, disposta persino ad estrarsi il fegato a mani nude per compiacerlo, così da autoeliminarsi e lasciare finalmente il posto alla vera Liz.
Insomma, Liz è morta, viva Liz!
Scelta
Il terzo mediometraggio è quello che mi ha convinto di meno.
Assistiamo alla disperata quanto ossessiva ricerca di Emily di questa fantomatica figura con inimmaginabili poteri curativi, quasi come il tentativo di avere almeno un obbiettivo in una vita altrimenti drammaticamente vuota.
La protagonista infatti si culla nell’esclusività di questi eletti, convinti di possedere il dono della purezza, proprio per non aver avuto rapporti sessuali con nessun altro se non i santoni a capo della setta – tramite una prova piuttosto gravosa…
Ma l’alternativa è migliore?
Trappola
Sulle prime verrebbe da pensare che Emily si sia lasciata indottrinare dalla setta e che abbia così rifuggito la sua amorevole famiglia.
La stessa entra in scena solamente nella parte centrale della storia, rimanendo programmaticamente nascosta, prima di rivelarsi nella sua vera natura.
Infatti, il marito di Emily non è per nulla meglio del fanatismo di Omi, anzi almeno quest’ultimo, pur nella sua follia, offre grandi vantaggi ai suoi eletti in cambio della loro fedeltà.
Così il terribile atto di drogare e, di fatto, violentare la moglie alla prima occasione, per Emily non è grave per il disgustoso comportamento del marito – anche perché forse non era neanche la prima volta…
…ma piuttosto perché in questo modo la donna è stata contaminata, e rischia di essere esclusa dalla sua amata setta.
Ed infatti è quello che succede.
Ma non è finita qui…
Riscatto
Emily spera ancora di riscattarsi.
E infatti riesce a mettere le mani sulla donna desiderata senza un particolare sforzo: basta un primo contatto con la sua gemella, il sacrificio necessario ma voluto della stessa per apparecchiare le condizioni ideali per il rientro nella comunità.
Ma basta una breve distrazione per finire fuori strada, per essere l’artefice dell’assassino di quella debole quanto necessaria ultima connessione con la setta per mandare nuovamente all’aria la vita di Emily.
Ancora una volta, il sogno mostra tutta la sua fragilità.