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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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2024 Avventura Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Giallo Grottesco Humor Nero La musa Nuove Uscite Film Surreale Yorgos Lanthimos

Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.

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American Fiction – Il n**** artificiale

American Fiction (2023) di Cord Jefferson è un’opera profondamente provocatoria e satirica, che riflette sull’immagine degli afroamericani negli Stati Uniti contemporanei.

A fronte di un budget di 10 milioni di dollari, ha incassato 23 milioni in tutto il mondonon malissimo, considerato che, per esempio in Italia, è stato distribuito direttamente in streaming.

Di cosa parla American Fiction?

Thelonious Ellison, detto Monk, è uno scrittore afroamericano che non vuole essere ridotto alla sua etnia. Ma uno scherzo finito male gli farà cambiare prospettiva…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Fiction?

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Assolutamente sì.

American Fiction è una delle pellicole satiriche che riesce a riflettere con grande lucidità sul nuovo panorama statunitense dell’inclusione, con tutte le sue pesanti contraddizioni e ipocrisie.

Un film da leggere su più livelli, che intavola un dialogo continuo e sottilmente metanarrativo con lo spettatore, a cui richiede una visione più profonda dell’immediato impatto che si potrebbe avere ad una prima visione…

Outsider

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Monk è un outsider.

Anche la sua appartenenza etnica, il protagonista apre la pellicola con una forte provocazione, basata su una delle parole più impronunciabili ad oggi nella cultura statunitense: la cosiddetta n-word.

Già così Monk – e il film stesso – rivela l’incoerenza di fondo degli Stati Uniti contemporanei: un mondo – molto ironicamente – bianco e nero, in cui i bianchi dettano legge anche su come gli afrodiscendenti dovrebbero raccontarsi.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma Monk non ci sta.

Non volendo essere ridotto a semplice simbolo, non volendo scrivere solo per accontentare l’ignorante pubblico mainstream, il protagonista non vuole essere altro che sé stesso: uno scrittore, un intellettuale – e basta.

Ma, nonostante i suoi tentativi, la situazione è fuori dal suo controllo: nella libreria è vincolato ad essere uno dei tanti rappresentanti della cultura nera, ghettizzato in uno scaffale che vuole solo all’apparenza essere inclusivo.

Ma allora qual è l’alternativa?

Vittoria

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

La proposta vincente è quella di Sintara.

Un libro che – almeno all’apparenza – avalla tutti gli stereotipi peggiori della comunità nera, infarcendo la narrazione e i dialoghi di slang, di un inglese incredibilmente sgrammaticato, e di situazioni al limite del parodistico.

Eppure, è proprio il prodotto che i lettori sembrano desiderare: immobile davanti ad un pubblico estremamente coinvolto in questa narrazione che fino a prima aborriva, Monk capisce in quel momento qual è l’unica strada per il successo.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Eppure, tutto parte come uno scherzo.

Con dinamiche simili all’indimenticabile puntata di South Park The Tale of Scrotie McBoogerballs (14×02), Monk si avventura nella sua versione del romanzo di Sintara, in questo caso però con volontà esplicitamente provocatorie.

E invece proprio da questo romanzo parte al contempo la decostruzione e l’imprevedibile successo del protagonista, costretto a presentarsi in una versione sempre più improbabile del misterioso autore di un bestseller così deliziosamente provocatorio…

Banalizzarsi

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma perché Monk accetta questa nuova identità?

Parallelamente alla provocazione, American Fiction inserisce un importante elemento di realismo: il protagonista è incastrato in una situazione familiare piuttosto spinosa, fra l’infermità mentale della madre e l’imprevedibilità del fratello.

Così, schiacciato ancora una volta da quella società che lo mette sotto i riflettori solo quando si banalizza, Monk accetta a malincuore questa nuova situazione per ottenere abbastanza soldi per permettere alla genitrice di avere una vita dignitosa.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Proprio in questa scelta, American Fiction inserisce un ulteriore livello di lettura.

Arrivando al finale, lo spettatore potrebbe rimanere con un certo senso di vuoto, come se la pellicola non si fosse spinta abbastanza in là nella sua provocazione, rimanendo fin troppo ancorata al livello del realismo.

E, invece, sta proprio qui il punto: la storia raccontata è anche troppo realistica e attuale, e non ha bisogno di nessuna esagerazione, nessun grande colpo di scena come quelle immaginate nel finale ad uso e consumo del pubblico.

E, infatti, la drammaticità di fondo è già abbastanza dolorosa.

Indistinguibili

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Il romanzo di Sintara non è banale…

…e, soprattutto, non è stato scritto per i bianchi.

L’autrice si pone come una novella Toni Morrison per raccontare una parte della realtà afroamericana ancora oggi purtroppo molto presente e che merita di essere mostrata: gli emarginati, il ghetto, la specificità linguistica quasi comica…

Ed è quindi solo un problema dei lettori più ignoranti se non sono in grado di comprendere la differenza fondamentale fra un’opera unicamente provocatoria come Fuck e uno spaccato ben più studiato come We’s Lives in Da Ghetto.

Ma è forse proprio per colpa di romanzi come questo che la comunità afroamericana viene ridotta a pochi, facili e vendibili stereotipi, per decenni parodiati, e oggi riportati in auge come racconto reale e vibrante di una fetta importante del Paese.

E così il racconto di Sintara è solo una rappresentazione molto divertente della quotidianità del ghetto, così Fuck è la graffiante storia di un criminale, e Monk può solo guardare impotente un attore che indossa una delle poche vesti accettabili per un afroamericano nell’immaginario comune:

lo schiavo.

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Una donna promettente – Provocazione

Una donna promettente (2020) è l’opera prima di Emerald Fennell come regista, in cui dimostrò fin da subito la sua attitudine provocatoria.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari – riuscì appena a rientrare nelle spese, con neanche 20 milioni di incasso…

Di cosa parla Una donna promettente?

Cassie è una giovane donna che si trova in un tragico limbo della sua vita, la cui unica finalità è vendicarsi per un torto passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Una donna promettente?

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

In generale, sì.

Una donna promettente è un film che personalmente apprezzo molto, anche solamente perché a livello emotivo è estremamente appagante, in quanto riesce perfettamente a mettere in scena sentimenti più o meno sotterranei comuni a molte donne.

Tuttavia, mi rendo anche conto dei limiti intrinsechi di questo progetto: per quanto sia deliziosamente provocatorio, manca totalmente di una parte riflessiva, anche minima, che metta a frutto la sua provocazione costante.

In ogni caso, da vedere.

Cristo

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

La prima apparizione di Cassie la definisce esplicitamente come una figura cristologica.

Accasciata sul divanetto di uno squallido locale come Cristo in croce, attira le attenzioni di quello che apparentemente è l’unico bravo ragazzo, l’unico che vuole solo aiutarla all’interno di un gruppo di uomini fin da subito caratterizzato come negativi.

In questo senso è ancora più significativa la scelta di casting di Adam Brody – e degli altri bravi ragazzi del film – appositamente per vanificare un’idea molto in voga sul tema, che derubrica la violenza di genere a personaggi poco raccomandabili di lombrosiana memoria.

Al contrario, il comportamento di Jerry racconta proprio una società che giustifica, financo incoraggia un certo tipo di comportamento, che potrebbe scaturire persino dal volto più rassicurante, dai modi più affettuosi…

Contrasto

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ma il contrasto estetico non è una prerogativa dei personaggi maschili.

Emerald Fennell evita alla sua protagonista un look da vamp vendicativa, che ben si adatterebbe al suo carattere impulsivo, ma sceglie piuttosto di vestirla di colori candidi e pastello, addirittura di metterle alle spalle un’aureola per quasi santificarla.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ancora di più, la sua figura è quella di Cristo quando si incammina verso casa, con la salsa del panino che le cola sulle braccia come se fosse sangue, mentre irreprensibile si rifiuta di abbassare lo sguardo davanti ad una violenza – il cat calling – che vorrebbe umiliarla.

In questo senso Cassie sarebbe al contempo una Salvatrice, che si carica sulle spalle tutte le colpe degli uomini e tutte le tragedie delle donne, e una Vendicatrice, che finalmente vendica e punisce quanto è rimasto per troppo tempo impunito.

Potere

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Gli uomini adescati da Cassie non solo si approfittano di lei.

Ma, soprattutto, la trattano come una bambina.

Sia Jerry, che la rassicura come se fosse un infante mentre la sta violentando, sia poi Neil, quando la imbocca con la droga, mostrandosi anche piuttosto scocciato quando Cassie crolla addormentata, proprio come una stupida ragazzina…

Questa rappresentazione piuttosto provocatoria abbraccia una teoria molto in voga – ma ancora non provata in maniera convincente – secondo la quale la violenza nei confronti delle donne deriva da un desiderio di avere potere sulle stesse, e non tanto da un ardore sessuale.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Proprio per questo Cassie improvvisamente torna in sé, guarda in macchina e sbatte irrimediabilmente questi personaggi davanti al loro comportamento, arrivando apertamente a terrorizzarli – nel caso di Neil persino con delle dinamiche proprie del cinema horror.

Come se non bastasse, questi uomini sono ingiustificabili: Cassie non dà mai, neanche lontanamente, consenso al rapporto sessuale, ma invece offre in più momenti a questi uomini una via di fuga, chiedendo di andare a casa o sottolineando ancora di più a parole la sua condizione di incapacità di intendere la situazione.

Ma non funziona mai…

Catarsi

La vendetta di Cassie è quasi sempre esclusivamente psicologica.

E i colpevoli sono sia maschili che femminili, proprio a raccontare una colpa comune: dalla direttrice dell’università, capace di empatizzare con un’evidente violenza solamente quando uno dei suoi affetti è coinvolto, preferendo il vantaggio politico all’umana pietà…

…e così anche Madison, che aveva scelto di alimentare l’omertà collettiva, mettendo prima in dubbio la veridicità della storia della vittima, che invece scopre quanto è facile farsi manipolare e rischiare la propria sicurezza personale.

Ma il vero alleato della protagonista è un personaggio maschile.

Per Jordan Green, una macchina da guerra che si nutriva delle disgrazie di ragazze indifese e manipolabili, pur di portare a casa succulenti bonus elargiti dai loro carnefici, Cassie aveva preparato una vendetta forse persino violenta.

Invece, l’avvocato si rivela un insospettabile alleato, che ha perso il sonno, divorato dai peccati passati, che si inginocchia davanti alla protagonista chiedendole pietà, diventando infine l’unica persona di cui Cassie effettivamente si fida per portare a termine la sua vendetta.

Occasione

Bo Burnham in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

La tragicità del personaggio di Ryan è anche più sottile.

All’apparenza il suo personaggio sembra veramente un ragazzo per bene, anzi un compagno davvero affettuoso e divertente, e nondimeno rispettoso, che accetta tutte le ritrosie di Cassie, impegnandosi fino in fondo per far funzionare la loro relazione.

E proprio con Ryan Cassie poteva avere la sua occasione per andare avanti.

Bo Burnham e Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ma un’altra situazione religiosa cambia ogni cosa.

La consegna della prova definitiva, il cellulare, davanti al quale la protagonista si inginocchia in stato di venerazione, piangendo di dolore quando finalmente viene messa davanti a quella violenza che fino a quel momento aveva potuto solo immaginare…

La rivelazione di Ryan è quindi il coronamento del tema di fondo: la colpevolezza è comune, si nasconde anche nella persona più insospettabile, che crede di non essere parte del problema, ma che invece, col suo silenzio complice, è ugualmente colpevole.

Colpevole

Ma chi è veramente il colpevole?

Il colpevole è Al, il violentatore, da cui Cassie vorrebbe solamente una sincera confessione, ma che è solo capace di nascondersi – come tutti gli altri – dietro a moltissime ed inutili scuse, e invece incapace di concepirsi come il villain della storia.

Ma il colpevole è anche Joe, rappresentante della società omertosa, che riscrive la storia sempre a suo favore, per derubricare il tutto come un incidente, per coprire le colpe e scappare come un coniglio quando la polizia viene a chiedere il conto.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Cassie è colpevole?

Il mondo raccontato da Una donna promettente è dominato dalla violenza, che viene perpetrata senza mai riuscire a riconoscerla come tale, portando ad altra violenza, ad una violenza vendicativa, a quella vendetta privata che sembra l’unica via possibile…

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

E infatti infine Cassie diventa altrettanto violenta, sceglie violentemente di prendersi la sua rivalsa, marchiando a fuoco il violentatore sulla sua stessa carne, incidendo un segno indelebile che non potrà mai più togliersi.

In questo frangente Emerald Fennell avrebbe potuto osare di più, aprire una riflessione finale su una società in cui ci divoriamo a vicenda, ma ha preferito invece coinvolgere tutte le donne in una sorellanza, con un occhiolino che ci urla bruciate tutto!

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Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

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Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.
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Harry a pezzi – La decostruzione

Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.

Di cosa parla Harry a pezzi?

Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Harry a pezzi?

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.

Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.

Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.

Partire dalla finzione…

Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donna che scende furiosamente da un taxi.

Ma subito la scena muta.

Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…

…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.

…e arrivare alla realtà

Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.

Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.

In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…

…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.

Rubare l’identità

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.

Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propria moglie.

Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.

Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.

Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.

Giù la maschera!

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.

Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.

I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.

Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.

Impossibile scappare

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.

Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.

Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…

…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.

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Radio Days – Le voci del passato

Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.

Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.

Di cosa parla Radio Days?

Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Radio Days?

Mia Farrow in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

In generale, sì.

Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.

Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.

Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…

La radio che unisce

Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.

Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.

Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…

Una risata ci seppellirà

Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.

Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).

Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.

In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti (1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.

La drammaticità di fondo

Dianne Wiest in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.

La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.

E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.

Mia Farrow e Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…

…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…