Giappone, XI sec. Sullo sfondo di una tragica guerra fra clan, due ragazzi estremamente sfortunati saranno capaci di dare nuova linfa al panorama musicale del loro paese…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Inu-oh?
Assolutamente sì.
Inu-oh è una di quelle perle cinematografiche sostanzialmente sconosciute tranne agli appassionati, capace di distinguersi in maniera significativa dal resto del panorama del genere anime sia per lo stile visivo che per il taglio narrativo scelto.
Il primo atto di Inu-oh è un enigmatico intarsio narrativo.
La panoramica sulla scena politica e militare serve solo per darci un’infarinatura del mondo in cui si muovono i protagonisti, portando in scena momenti e personaggi apparentemente scollegati fra loro, accomunati da un taglio fantastico e misterioso insieme.
I due protagonisti sono infatti legati da un comune destino di sofferenza e di marginalizzazione, dovuto in entrambi casi all’avidità di personaggi terzi, che cercano di arricchirsi sulle loro pelle senza che loro neanche lo sappiano fino in fondo.
E, da questa maledizione comune, si sviluppano due temi fondamentali.
Memoria
La memoria è un elemento fondamentale in Inu-oh.
Infatti, nel contesto culturale in cui il sapere popolare è conservato nel ricordo della comunità, il più grande tesoro in realtà sono proprio le storie da raccontare e da tramandare, capaci di stupire un pubblico che ormai le ha dimenticate.
Per questo i suonatori biwa, i maggiori possessori di questo tesoro, sono due volte puniti: prima dalla tirannia dello shogun, che cerca di assoggettare questo patrimonio di parole ai propri bisogni politici, riducendo gli stessi a meri esecutori del suo potere…
…ma, soprattutto, sono vittime della spietata avidità del padre di Inu-oh, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per ottenere il totale controllo su questa inestimabile ricchezza, da utilizzare per sfidare lo stesso governo in carica in una disperata ricerca di popolarità.
E la memoria si intreccia perfettamente con il perno della vicenda.
Identità
L’identità è il cardine tematico di Inu-oh.
Entrambi i protagonisti sono accomunati da un’identità che li rende dei reietti sociali, ma si ritrovano proprio grazie alle loro comuni sfortune: Tomona è infatti l’unico che riesce a vedere la vera bellezza di Inu-oh, del tutto ignaro delle sua terribile deformazione.
La stessa si intreccia profondamente con le storie che i due scelgono di portare sul palco, che permettono gradualmente ad Inu-oh di liberarsi della sua maledizione, riacquistando ad ogni canzone un aspetto più umano…
…ad eccezione del volto.
Dal secondo atto sul palco si avvicendano una serie di maschere, da entrambe le parti: costretto a dover celare il suo aspetto, Inu-oh si nasconde ogni volta dietro ad una nuova faccia, fino ad arrivare allo svelamento del suo vero volto, quando però ormai questo è stato sanato dalla sua ultima canzone.
E lo stesso Tomona vive una ricerca dell’identità costante sia nell’aspetto che nel nome: il passaggio del tempo è infatti scandito, oltre che dalle maschere di Inu-oh, dal progressivo cambio di aspetto del protagonista, che passa da essere un anonimo biwa a vestire sembianze più prettamente femminili e teatrali.
Ma ancora più significativo è il cambio del nome: rimasto orfano, si sottomette prima al nominativo che lo rende succube dello shogun, per poi scegliere nuovamente di cambiarlo, allontanandosi dalla sua famiglia, e poi dal suo stesso amico da cui viene separato…
… finché il loro incontro non avviene a secoli di distanza, scandito dall’elemento che li aveva resi così affini:
Wicked (2024) di Jon M. Chu, più correttamente noto come Wicked: Parte I, è appunto la prima parte di una duologia tratta dall’omonimo musical.
A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 145 milioni di dollari – è già un successo commerciale:455 milioni in tutto il mondo.
Candidature Oscar 2025 per Wicked (2024)
(in nero le vittorie)
Miglior film Miglior attrice protagonista per Cynthia Erivo Miglior attrice non protagonista per Ariana Grande Miglior montaggio Miglior colonna sonora originale Miglior scenografia Migliori costumi Migliori trucco e acconciatura Migliori effetti visivi Miglior sonoro
Di cosa parla Wicked?
La malvagia Strega dell’Ovest è sempre stata malvagia? O la storia è più complessa di come Il mago di Oz (1938) ci volesse far credere?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Wicked?
In generale, sì.
Per quanto abbia indubbiamente apprezzato Wicked, mi rendo conto che non sia un prodotto per tutti i palati: nonostante la parte musicale sia a mio parere gestita ottimamente, integrata in maniera molto naturale nella storia…
…al contempo rimane un musical che inciampa in piccole forzature ed ingenuità narrative, con una parte cantata fondamentale all’interno della narrazione stessa, che comunque è riuscita a incantare persino una non amante del genere come me.
Insomma, se fossi in voi gli darei una possibilità.
Fine?
L’inizio di Wicked è tanto più importante…
…proprio perché arriviamo alla fine.
Ricollegandosi direttamente al classico del 1938, l’attacco del film racconta la conclusione più classica della storia: la malvagia Strega dell’Ovest è stata uccisa e finalmente il regno può vivere in pace sotto le amorevoli cure della Strega dell’Est.
Ma, nonostante la gioia si diffonda in tutto il reame, nonostante la storia dominante si presenti con ben poche sfumature, una domanda dal pubblico diventa fondamentale per raccontare la vera storia dell’antagonista.
Ed è fondamentale avere già in mente il punto di arrivo sia per una dinamica molto classica del creare curiosità nella mente dello spettatore – che vuole ora scoprire come si è arrivati ad un finale tanto cruento…
…sia perché è necessario per il film giungere a conclusioni simili alla trama originale, ma con delle premesse ed un racconto ben diverso, che porti in scena le diverse sfumature di una storia altrimenti molto semplice e favolistica.
Ed è sempre su questi toni che si sviluppa anche il personaggio di Elphaba.
Mostro
Elphaba è un mostro.
E non viene mai messo in dubbio.
La sua nascita avviene sotto il segno dell’inganno, da un tradimento ed un sorso di troppo, così che la bambina sia fin da subito posta ai margini, nascosta, continuamente maltrattata solamente per il suo aspetto – e per i pregiudizi che ne conseguono.
Un odio che ci accompagna fino all’arrivo all’università della sorella, in cui Ephalba si dimostra ben poco propensa a lasciarsi ulteriormente maltrattare, anticipando le battute che le verranno rivolte, e subendo irremovibile gli sguardi di disgusto dei presenti.
E proprio in questo frangente il film mostra le sue carte.
Da una parte, una certa debolezza narrativa: la scelta della protagonista come pupilla da parte Madame Morrible avviene davvero in un battito di ciglia, mentre poteva essere meglio costruita ed approfondita – nonostante le premesse ci fossero assolutamente tutte.
Dall’altra, un ottimo uso dell’elemento musicale: come poteva essere un patchwork di momenti musical, Wicked utilizza le canzoni per dare particolare enfasi ai pensieri e ai discorsi dei personaggi, tramite climax ben controllati che rendono più naturale il passaggio dal parlato al cantato.
In questo caso, Ephalba canta il suo sogno.
Ma non è l’unica ad averne uno…
Influenza
Glinda è figlia del suo tempo.
Un personaggio che potrebbe sembrare la classica Regina George, ma che in realtà fin da subito si dimostra il prodotto della cultura che l’ha cresciuta con l’idea di essere la migliore, la più bella e, soprattutto, la più meritevole…
…come viene confermato anche dagli altri personaggi che la circondano e che vivono di luce riflessa.
Proprio su questa china Glinda continua a raccontarsi e riraccontarsi come personaggio di buon cuore, che concede alla sua compagna di stanza persino un angolino per vivere, e che per la sua bontà viene costantemente elevata…
…persino quando mette in mostra i suoi tratti apertamente manipolatori, particolarmente quando induce l’ingenuo Boq ad invitare Nessarose, la sorella di Glinda, alla festa segreta.
E la sua evoluzione si riflette molto bene anche nella sua controparte, Fiyero.
Risveglio
Glinda e Fiyero vivono un risveglio simile.
La presa di consapevolezza di entrambe queste figure di privilegiati, fino a quel momento ciechi davanti alla complessa realtà che li circonda, passa attraverso la visione di ingiustizie a cui, nonostante il loro passato, non riescono ad essere indifferenti.
Il percorso finora più completo è sicuramente quello di Glinda, che assiste ad una cattiveria che non può veramente sopportare, quando, in risposta alle ulteriori prese in giro dei suoi compagni, Ephelba improvvisa uno strano ballo in cui mette ancora più in mostra la sua stranezza.
E così unirsi a lei in questo momento è solo il primo passo per fare davvero qualcosa di altruista, e ha il suo apice nell’iconica Popular, – canzone che non cambia di fatto niente, se non aiutare la sua nuova amica ad essere un po’ più sicura di sé stessa e protetta dalle angherie altrui.
Ma non è un cambiamento del tutto positivo: rimane un’amarezza di fondo nell’assistere al cambio di passo degli altri personaggi solo per l’intervento benefico di Glinda nei confronti di Elphaba – la stessa, che fino ad un attimo prima era vittima di cattiverie del tutto gratuite…
Risveglio
Il cambiamento di Fiyero percorre invece altre strade.
Il ragazzo è fin da subito mostrato come l’alter ego di Glinda, forse pure più ingenuo nel bearsi della sua condizione, e anche di più nel non trovare alcun ribrezzo figura di Ephelba, ma anzi accettarla con amicizia e curiosità fin da subito.
La sua consapevolezza avviene davanti alla messa al bando del Dottor Dillamond e al cucciolo in gabbia portato a lezione, che Fiyero coglie la prima occasione per liberare, capendo, pur non avendo lo stesso background di Ephelba, di non poter accettare questa ingiustizia.
Ma la sua maturazione sta ancora muovendo i primi passi quando ci lasciamo alle spalle Shiz per avviarci verso la Città di Smeraldo, quando finalmente Glinda fa il primo passo indietro lasciando spazio a Ephelba per avere il suo meritato successo.
E a questo punto vale la pena di aprire una parentesi sulla trama politica.
Contorno
La trama politica di Wicked è quasi un contorno.
Per quanto sia fondamentale – e lo diventerà ancora di più probabilmente nella seconda parte – le viene concesso ben poco spazio, anzi è ridotta proprio agli elementi essenziali, svelando solo parte della macchinazione da parte del Mago di Oz.
Lo stesso Mago è raccontato fin da subito come un affabulatore, e neanche particolarmente scaltro, che, per dinamiche ancora tutte da chiarire – e che speriamo siano chiarire nella seconda parte – è riuscito a prendere posto a capo del regno, nonostante non abbia alcuna capacità magica.
E tornando proprio sull’argomento della debolezza narrativa, non si può dire che sia del tutto centrato il totale cambio di passo del Mago quanto di Madame Morrible, affrontato con fin troppa leggerezza, per quanto sia svelato nei suoi tratti essenziali.
E allora è il momento di ribellarsi.
Ribellione
La ribellione di Ephelba è il punto di arrivo naturale del suo personaggio.
Vivendo tutta la vita sotto l’egida della discriminazione e dell’isolamento sociale, le sta tanto più stretto il ruolo di simbolo di un sistema che vive dell’oppressione degli ultimi, che entrambi i villain avevano fin da subito preparato per lei.
Per questo la sua rivolta è tanto più importante in quanto racconta una riappropriazione di simboli più o meno imposti – il cappello, il mantello e, soprattutto, la pelle verde – tutti caricati di un valore negativo solo perché ormai propri della sua persona.
E se Ephelba non vuole più far parte di un sistema che la ribalta a suo piacimento, Glinda ne rimane succube, anche se con una consapevolezza aggiuntiva: la futura Strega dell’Est, per quanto finalmente realizzi il suo sogno di essere effettivamente una figura importante del panorama politico di Oz…
… è anche internamente consapevole di essere nient’altro che una pedina scelta per convenienza a fronte del voltafaccia della sua amica, verso cui si rivolge con poche parole estremamente significative per la definizione del loro rapporto:
Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.
Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?
Assolutamente sì.
A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quandoserve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.
Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicitarispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…
Peter Pan Produzione
Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.
Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.
Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.
La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).
Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.
A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.
Crescere
Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.
A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.
Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.
Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista…
…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.
E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.
Ombra
Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.
Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…
Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.
Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…
…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.
Ma il mondo di Peter è pura finzione.
Finzione
Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.
Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…
…o forse sì?
L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.
Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark– dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.
Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno.
E i giochi sono fatti di ruoli…
Ruolo
Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.
Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.
A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.
Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.
A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.
La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…
Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…
Peter Pan favola originale
Per quanto Walt Disney amasse l’opera originale, era anche consapevole che presa alla lettera non sarebbe stata vendibile.
Peter Pan particolarmente era un personaggio molto difficile da portare in scena – e le difficoltà di trasposizione si vedono particolarmente nel finale – in quanto il protagonista di J. M. Barrie era capriccioso e tirannico.
Per l’autore rappresentava tutto il peggio dell’infanzia: si dimentica costantemente sia delle sue avventure sia delle persone che gli stanno intorno, è un personaggio estremamente egoista, e comanda a bacchetta i suoi bambini.
Trilli è, se possibile, anche peggio.
Tutto ruota intorno al concetto che è una fatina così piccola che può contenere più di un sentimento alla volta: ne deriva quindi un comportamento scostante e a tratti genuinamente cattivo, fortemente imprevedibile.
In un certo senso nel suo personaggio J. M. Barrie ritrovava sempre una rappresentazione dell’infantile nella sua forma peggiore.
Peter Pan differenze opera originale
Ma il finale era assolutamente la parte meno vendibile.
Anzitutto, come si vede nella trasposizione del 2003, Uncino cerca di uccidere Peter non con un pacco bomba, ma piuttosto tentando di avvelenarlo: il protagonista viene salvato da Trilli, che muore e poi torna in vita.
Inoltre, nel finale J. M. Barrie mostra come la madre dei bambini sia sempre rimasta ad aspettarli, e inserisce una nota morale particolarmente avvelenata, che critica i protagonisti e la loro irresponsabilità nell’abbandonare la casa natale.
E, di nuovo, non è neanche la parte peggiore.
Nel finale i bimbi sperduti vengono adottati dalla famiglia Darling e diventano degli adulti rispettati, mentre Peter promette a Wendy di tornare da lei e portarla ogni anno sull’Isola per fare le pulizie di Primavera.
Ma alla fine negli anni si dimentica di Wendy, e torna da lei solamente quando questa è diventata adulta, facendolo disperare, e scegliendo infine di sostituirla con la figlia – Jane, che si vede nel sequel del 2002 – e tutte le discendenti di Wendy nei secoli dei secoli…
Biancaneve (1937) di David Hand è il primo Classico Disney in assoluto, la prima grande scommessa di Walt Disney di colmare un vuoto del mercato che nessuno pensava andasse colmato: creare un lungometraggio animato.
Infatti, a fronte di un budget di appena 1.5 milioni di dollari – circa 32 milioni oggi – fu un enorme successo commerciale, fra i più grandi incassi nella storia dell’animazione, incassando complessivamente 418 milioni di dollari.
Di cosa parla Biancaneve?
Walt Disney riprese le mosse dal classico dei Fratelli Grimm, cercando il più possibile di alleggerire la storia, ma mantenendo comunque non pochi elementi grotteschi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Biancaneve?
Assolutamente sì.
Biancaneve è una pietra miliare nella storia del cinema, che sorprende ancora oggi per la grande attenzione al dettaglio e alla cura per una tecnica di animazione sostanzialmente avanguardistica, che dà il meglio di sé nei momenti più orrorifici.
D’altra parte, il primo Classico Disney è anche un compromesso storico con un’animazione al tempo dominata da cortometraggi con gag e storie minuscole, cercando di dare un più ampio respiro ad una storia che, tutto sommato, non ne ha molto.
Insomma, da riscoprire.
Biancaneve tecnica animazione
I Walt Disney Studios non sapevano animare le persone
La maggior parte della produzione fino a quel momento era stata quasi esclusiva di personaggi di animali antropomorfi, con il primo test su personaggi invece umani con il corto La dea della primavera (1933), la cui protagonista fu di grande ispirazione per le animazioni di Biancaneve.
Il character design fu un altro ostacolo importante: mancando un’iconografia fissa, gli animatori avevano grande libertà in merito, seguendo le direttive di Walt Disney, che voleva un personaggio innocente e affabile, la ragazza della porta accanto.
Il punto di svolta fu il coinvolgimento di Grim Natwick, autore di Betty Boop: nonostante Walt Disney non volesse un personaggio così sensuale, ammirava le capacità dell’animatore che aveva dato vita a diversi personaggi femminili.
E così, infine, Biancaneve divenne mora.
Nella fase produttiva, furono essenziali i modelli umani.
La principale ispirazione fu Marge Champion, al tempo ballerina e attrice quattordicenne, i cui movimenti vennero ampiamente studiati per rendere il più possibile credibile il personaggio, soprattutto nei momenti di danza.
E, nonostante le diverse opposizioni interne, venne ampiamente utilizzato il rotoscopio, in cui le scene venivano ricalcate da partire da una pellicola filmata in precedenza, in quantità e modalità diverse a seconda delle necessità.
Minimo
L’incipit di Biancaneve deriva da un grande compromesso.
Come vedremo più avanti, la riduzione ai minimi termini dell’antefatto fu necessaria in quanto l’incipit originale era fin troppo inquietante per un film per bambini: semplicemente, all’inizio scopriamo la bruciante invidia di Grimilde per la protagonista.
E il dialogo della strega con lo Specchio, da cui finisce infine per essere ammonita, è funzionale all’introduzione di Biancaneve stessa, raccontata come una ragazzina dall’aspetto piacente, nonostante i tentativi della Regina di imbruttirla.
Infatti, mancando di un antefatto esplicativo, Biancaneve punta molto sulla caratterizzazione della sua protagonista.
Nella sua prima apparizione Biancaneve è idillica, quasi bucolica,soprattutto per la simpatia che gli animali provano per lei – e non, per esempio, per i nani, da cui in seguito scapperanno – e per la sua voce angelica che illumina la scena.
Una voce che attira anche le attenzioni del Principe Azzurro, la cui interazione racconta un altro lato di Biancaneve: la ragazza si dimostra molto timida e riservata quando viene approcciata da uno sconosciuto, dovendosi far convincere per uscire dal suo nascondiglio.
Ma proprio questo è il momento di svolta.
Contrasto
Il primo atto vive di contrasti.
Il piano malvagio di Grimilde è in aperto contrasto estetico e simbolico con il candore di Biancaneve, che qualche scena dopo ritroviamo immersa in un delizioso quadretto naturale, con il cacciatore che la osserva da lontano.
Lo stesso sembra proprio penetrare con la sua ombra inquietante sul corpo di Biancaneve proprio per violarlo, ricredendosi all’ultimo e incoraggiandola a scappare, diventando per questo la causa del profondo turbamento della protagonista.
Infatti, nella splendida sequenza della foresta, vediamo concretizzarsi le paure di Biancaneve, con quel panorama, fino ad un attimo prima era armonioso e accogliente, che si rianima in maniera orrorifica per afferrarla, ferirla, rapirla.
Sequenza che si ricompone quando la ragazza si getta a terra disperata, e quegli occhi malvagi che sembravano minacciarla dall’ombra si rivelano essere propri di creature invece gentili e curiose, che si avvicinano timidamente a lei.
Da qui, infatti, comincia la parte più serena della narrazione.
Parentesi
La parte centrale è ricca di siparietti.
Una sorta di parentesi narrativa confortevoleall’interno di due atti invece carichi di atmosfere lugubri e inquietanti, dove si susseguono le simpaticissime gag prima con gli animali, e poi con i nani stessi.
E i nani, definiti da tratti che ne raccontano a colpo d’occhio la personalità e le caratteristiche fondamentali, essenziali per l’identificazione immediata del pubblico infantile di riferimento, sono la punta di diamante della pellicola.
Allo stesso tempo, importanti anche i contenuti educativi.
Biancaneve si rivela in poco tempo tutto tranne che una sciocca ragazzina, ma piuttosto una figura materna persino ammonitrice nei confronti dei nani, che sembrano quasi i suoi bambini, a cui ordina di lavarsi per bene prima di mettersi a tavola.
In questo contesto si sviluppa anche il piccolo arco evolutivo di Brontolo, che viene infine vinto dalla innegabile piacevolezza e simpatia della protagonista, proprio in prossimità del momento in cui dovrà difenderla dall’attacco della strega.
Orrore
Con il ritorno alla Regina Cattiva, si ritorna anche alle tinte orrorifiche.
La trasformazione di Grimilde – spaventosa quasi al pari della sequenza di fuga della protagonista nella foresta – calca moltissimo sull’immaginario della megera che utilizza ingredienti strani e inquietanti per cambiare aspetto e diventare una innocua vecchina.
E la sua malvagità è ancora più straziante quando si approccia ad un personaggio così candido come Biancaneve, che si lascia facilmente ingannare dalle apparenze, dimostrando ancora una volta di non riuscire a vedere il lato negativo delle persone.
Per la sua morte, invece, si lavora di sottrazione.
Come Biancaneve non si vede mai chiaramente morta, se non nella sua angelica teca, così la tragica fine di Grimilde è solo raccontata: la strega dice che spezzerà le ossa ai nani con il masso, proprio per raccontare quello che sta per succedere a lei stessa…
…e, al contempo, si pone grande attenzione sull’elemento più eloquente della sequenza: gli avvoltoi, che maliziosamente seguono la strega sia quando muore Biancaneve, sia quando muore lei stessa, proprio per esplicitare questo concetto senza mostrarlo direttamente.
Proprio per questo il finale è il più semplice ed idilliaco possibile,utilizzando il principe come una sorta di deus ex machina per sciogliere la drammatica vicenda in maniera rassicurante e a misura di bambino.
E, in questo senso, è quasi essenziale che il principe sia un personaggio quasi per nulla caratterizzato, semplicemente raccontato come il destino di Biancaneve di vivere una vita felice lontano dalle grinfie di Grimilde.
Biancaneve favola originale
Biancaneve si prende molte libertà rispetto al classico di Fratelli Grimm.
E anche comprensibilmente.
Uno dei cambiamenti più evidenti e significativi è il taglio totale dell’antefatto, particolarmente drammatico nella fiaba originale: la vera madre di Biancaneve desidera una bellissima figlia e muore di parto.
Altro cambiamento significativo è la prova della morte di Biancaneve: per quanto non si discosti moltissimo dall’originale – nella fiaba il cacciatore doveva portare indietro i polmoni e il fegato – nello stesso gli organi diventano il pasto della Regina…
La stessa malignità si trova anche nei diversi tentativi di uccidere Biancaneve: la prima volta si finge una venditrice ambulante, e cerca di soffocare la ragazzina stringendo un corpetto fin troppo stretto.
Anche il bacio del vero amore è totalmente invenzione Disney.
Nella versione di Grimm, il principe desiderava semplicemente darle una degna sepoltura, e, portando via la teca in cui era contenuto il suo corpo, accidentalmente faceva sputare a Biancaneve il pezzo di mela avvelenata che l’aveva uccisa.
Molto più inquietante invece la morte della Regina Cattiva, costretta nella fiaba a ballare su scarpette di ferro arroventate finché non cade a terra morta – evento che, fra l’altro, avviene molto prima rispetto al film.
West Side Story (2021) di Steven Spielberg è il remake dell’omonimo cult cinematografico del 1961, tratto dal musical di Leonard Bernstein.
Purtroppo, il progetto si è rivelato un grande insuccesso commerciale: a fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – ne ha incassati appena 76 in tutto il mondo…
Di cosa parla West Side Story?
New York, 1957. Tony e Maria sono due giovani innamorati, che però fanno parte di due gang rivali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere West Side Story?
Assolutamente sì.
Steven Spielberg riesce non solo a superare tutti i limiti della produzione del 1961, ma anche riuscire a rendere incredibilmente più realistico un musical che parlava di conflitti sociali molto forti e reali – e ancora estremamente attuali.
Particolarmente indovinata la rappresentazione della comunità portoricana, non solo con un casting finalmente credibile, ma anche con l’inserimento di diverse battute in spagnolo, finalizzate a un senso di maggior realisticità alla vicenda.
L’unico difetto che si può forse imputare al film è il suo voler essere eccessivamente vicino, per alcuni elementi, all’opera di partenza, non sacrificando alcun numero musicale, persino quelli che inevitabilmente appesantiscono una pellicola di oltre due ore e mezza…
Dominio
La scena di apertura serve non solo a definire gli spazi, ma soprattutto l’intenzione dei Jets di appropriarsene.
Infatti, il gruppo comincia la sua traversata da una terra di nessuno, ormai destinata alla distruzione, per poi muoversi verso quei quartieri che evidentemente non gli appartengono – come si comprende dalle insegne dei negozi in spagnolo…
…ma che cercano di spogliare della presenza straniera, con passi di danza perfettamente integrati nella loro ricerca di dominio, sempre gettati in avanti, a braccia aperte, a pugni chiusi, per coprire più spazio possibile.
Guerra
Questa riappropriazione diventa un effettivo insulto alla comunità portoricana, quando viene infangata la loro bandiera – mentre nel West Side Story del ’61 semplicemente vi era una scritta sul muro molto meno grave, che recitava semplicemente Sharks stinks.
Dopo una lotta senza quartiere, all’arrivo dei poliziotti gli Sharks, ormai scacciati ed umiliati da una giustizia mai veramente a loro favorevole, esplodono in un canto tutto in spagnolo in cui rivendicato con fierezza le loro origini.
Ma ancora più significativo è il discorso del Tenente Schrank, che gli ricorda l’insensatezza della loro lotta: uno scontro fra disperati per un fazzoletto di terra, che fra poco sarà occupato da quelli che dovrebbero essere i loro veri nemici.
Ovvero, la classe dirigente che li ha lasciati ai margini.
Fuori
Spielberg carica il suo protagonista maschile di nuovi sentimenti.
Diventa infatti significativo per Tony rivendicare il suo voler essere esterno alle lotte fra le gang, proprio per essere andato così vicino ad uccidere un ragazzino, ad un passo dal rendere questo evento tutta la sua personalità.
Per questo la sua canzone Something’s Coming assume un nuovo sapore nella bocca di un protagonista che è tornato a casa, ma vuole trovare all’interno della stessa qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso dall’odio che era tutta la sua vita fino a questo momento.
Per questo è fondamentale che il numero si svolga non in solitudine, ma davanti agli occhi speranzosi e quasi ammonitori di Valentina, mentre il ragazzo gli racconta che qualcosa sta per cambiare, che deve cambiare…
Diversa
Ma il cambiamento più significativo è il personaggio di Maria.
Se nella versione del ’61 la protagonista femminile era una ragazzina superficiale e sciocca, che viveva ancora a casa dei suoi genitori, in questo caso presenta un carattere decisamente più irriverente, tanto da mettere più volte in discussione l’autorità del fratello.
Infatti, la sua ribellione, la sua unione con Tony è molto più che un semplice amore impossibile, ma piuttosto un modo in cui Maria decide di definire sé stessa come donna libera, senza che sia il fratello ad imporle un compagno così incolore come Chino.
Così la sua prima vera ribellione alla sua famiglia è proprio quel rossetto rosso che sceglie di mettersi prima di uscire per il ballo, che va in parte a riscrivere quell’aspetto puro e illibato che il vestito bianco dovrebbe conferirgli.
Nascosti
Tony e Maria sanno subito di dover stare nascosti.
Il prologo del loro dramma è proprio il ballo stesso, che perfettamente incorniciata all’interno di dinamiche da musical il bruciante contrasto fra le due gang, per cui qualunque tentativo di pace, persino un’innocua danza, appare assolutamente impossibile.
Infatti, a differenza dell’opera originaria, i due capiscono subito che il loro incontro si deve svolgere nelle retrovie della festa, con uno scambio articolato da alcuni passi di danza ripresi dallo spettacolo e un paio di battute ironiche che raccontano l’inizio dell’intrecciarsi del rapporto.
Rispetto al West Side Story del ’61, questo primo incontro è riscritto in più direzioni e con grande intelligenza: il primo bacio fra i due non è ricercato da entrambi in un commosso crescendo, ma piuttosto voluto dalla stessa Maria, che mostra ancora una volta la sua intraprendenza e sfacciataggine.
Inoltre, il fatto che i due rimangano nascosti per tutto il dialogo – a differenza del film originale, in cui erano in mezzo alla folla – rende ancora più grave la loro situazione: sembra come se Tony avesse preso da parte la giovane ragazza per approfittarsene…
Scoperta
La scena della balconata è semplicemente perfetta.
Spielberg riprende per lunghi tratti le dinamiche del prodotto originale, ma le impreziosisce con una gestione degli spazi magistrale, che racconta quanto la loro relazione sia impervia e apparentemente impossibile, come se ci fosse un blocco, una rete invalicabile fra loro…
…ma che prontamente il baldanzoso Tony supera per raggiungere quella che ha capito essere per nulla una ragazzina indifesa, benché in quel momento appaia fortemente impaurita dalla presenza di Bernardo a pochi passi.
Purtroppo, per così dire, la sceneggiatura non sceglie di fare il passo decisivo per rendere effettivamente più credibile il loro rapporto: subito Tony le chiede di scappare insieme, subito si danno appuntamento per il giorno successivo e si dichiarano il reciproco amore eterno.
America
Una riproposizione decisamente interessante è America.
Come tipico della produzione del ’61, la regia della scena era estremamente statica e limitata ad un solo ambiente, con uno scambio piuttosto animato fra le ragazze della gang e le loro controparti maschili, con un sottofondo fortemente ironico.
Nel remake si sceglie invece di aprire la scena e di distribuirla in diversi ambienti, nonché di caricarla di un significato profondamente drammatico, mostrando quello che effettivamente i due stanno cantando – le proteste della comunità portoricana, l’antagonismo della polizia…
Tuttavia, non sia arriva mai ad una vera conclusione.
Se da una parte Anita si rifiuta di lasciare l’America, in quanto unico luogo dove può effettivamente determinarsi come figura indipendente e lavoratrice, e non invece limitata al ruolo di madre con una prole ingestibile…
…dall’altra Bernardo, fra l’ammonimento e la provocazione, le ricorda che il sogno americano è tanto bello quanto esclusivo dei bianchi – o, in alternativa, delle persone capaci effettivamente di combattere come lui.
Intermezzo
Avrei preferito che la parte centrale fosse più audace nella riscrittura…
…o, ancora meglio, nella selezione.
La sequenza dell’appuntamento fra Tony e Maria, soprattutto nella scena del matrimonio, si sposa in maniera poco convincente con quello raccontato finora dei loro personaggi, e mostra la già citata poca audacia nell’operare fino in fondo una riscrittura più credibile dell’opera.
Altrettanto fine a sé stessa è la scena della stazione di polizia, per quanto ottimamente portata in scena ed interpretata, non aggiungendo di per sé molto al racconto dei Jets e alla loro personalità.
Tuttavia, un elemento è davvero vincente.
Fra i personaggi meglio riscritti del film c’è sicuramente il personaggio senza nome (anybodys) interpretato dall’attore non binario iris menas, che vuole disperatamente far parte di Jets, nonostante sia costantemente bollato come una femmina, e pure piuttosto brutta.
Significativo riscriverlo in questa veste più moderna, sorpassando la banalizzazione dello stesso nel West Side Story del ’61, quando veniva raccontato come semplicemente come un tomboy – un maschiaccio.
Contrasto
Con l’approcciarsi dello scontro, si definisce ancora più il contrasto interno alla pellicola.
In questo senso è stato particolarmente indovinato rimischiare le scene, usando la canzone Cool per raccontare il tentativo di Tony di far ragionare quel ragazzino di Riff, pronto alla lotta senza quartiere con una pistola che non è capace di utilizzare.
Allo stesso modo, vincente la scelta di porre la sequenza I Feel Pretty immediatamente dopo lo scontro fra i Jets e gli Sharks, proprio per raccontare un sogno d’amore ancora intatto e che, almeno sulla carta, dovrebbe superare ogni tipo di conflitto.
All’interno di una regia decisamente più ispirata, lo scontro è tanto più drammatico quanto preceduto dai tentativi disperati di Tony di far ragionare Bernardo e di farsi per questo accettare da lui come compagno della sorella…
…ma arrivando inevitabilmente alla tragedia, all’autodistruzione fra i due maggiori mandanti della stessa, Riff e Bernardo, che si lasciano alle spalle vedove e amici dal cuore spezzato, oltre ad una lotta ancora più feroce e disperata.
Ripensamento
Se nel film del ’61 l‘angoscia dell’ultimo atto veniva in parte spezzata dalla canzone Cool, nella nuova versione la tragica dinamica è incorniciata dalla canzone Somewhere, cantata da Valentina, interpretata dalla vera star della prima versione del musical: Rita Moreno.
La scena più significativa di questo frangente è lo scontro fra Anita e Maria in A Boy like That, brano dai toni molto più malinconici nel ’61, in questo caso invece caricato di un inedito senso di conflitto, con cui la protagonista riesce a raccontare effettivamente l’importanza del suo amore per Tony.
In particolare, decisamente indovinato il momento in cui Maria rinfaccia ad Anita la sua ipocrisia: anche se Tony ha ucciso Bernardo, la donna dovrebbe essere ben consapevole di come il suo amato sia stato il principale artefice della sua distruzione…
…ma nonostante questo, di averlo comunque amato.
Inevitabile
La tragedia sembra inevitabile.
Nonostante Anita si convinca ad aiutare Maria a scappare, si ricrede quando viene salvata all’ultimo da Valentina dal tentato stupro – con un dialogo aperto fra presente e passato, come se Anita salvasse sé stessa…
Conseguentemente, Tony si rende il bersaglio perfetto per la vendetta di Chino, che sceglie infine di sfogare la sua frustrazione per aver sia perso l’amore di Maria, sia per essere stato incapace di difendere Bernardo.
Il finale riprende sostanzialmente le stesse dinamiche del film del ’61, con anche l’ultimo colpo di coda di Maria, che mette le gang davanti alle colpe della loro stupida guerra, ma che infine si arrende, e si unisce silenziosa alla processione funebre che chiude la pellicola.
High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.
A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.
Di cosa parla High School Musical?
Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere High School Musical?
Assolutamente sì.
A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.
Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.
Insomma, da recuperare.
Qualcosa di nuovo
Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.
I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.
E il loro duetto è determinante per più motivi.
I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.
Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.
Fuori dagli schemi
Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.
Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.
Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.
E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.
In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.
Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.
Troy e Gabriella provino
Ma arrivare alle audizioni non basta.
Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.
In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…
Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.
E così accade l’inaspettato.
Una villain magnetica
Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.
Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls(2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.
Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.
Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.
Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.
Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.
Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…
Lo status quo
Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.
In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce,della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.
Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.
Ma la ribellione non può essere fermata.
Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.
In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.
E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.
Crescere
La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.
Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.
Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.
Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.
Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.
A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.
High School Musical sequel
High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.
Ma vale la pena di vederli?
In generale, sì.
Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.
High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.
La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada(2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.
Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.
Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.
Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.
Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.
Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.
School ofRock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.
Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere School of Rock?
In generale, sì.
Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher(2010) – molto più consapevole e sfacciato.
Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.
Insomma, in generale lo consiglio.
Un protagonista miserabile
L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.
Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek(2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.
L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.
Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).
Un’occasione…di guadagno?
Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.
Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock…
…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.
Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.
Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.
In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.
Ma non è neanche l’insegnamento più importante.
Ribelli e consapevoli
Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.
Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.
Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.
Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.
Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.
Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.
Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.
Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.
La saga di Pitch Perfect (2012 – 2017) è stato un piccolo fenomeno cinematografico della seconda metà degli Anni Dieci, che raccolse l’eredità di Glee, lanciò Anna Kendrick presso il grande pubblico, ma si perse anche drammaticamente lungo la strada.
Nonostante tutti i film abbiano portato dei buoni incassi, i risultati al botteghino sono stati alterni: un buon successo per il primo capitolo, raddoppiato per il secondo, per poi perdere una buona fetta di pubblico con il terzo capitolo.
Di cosa parla Pitch Perfect?
La trilogia di Pitch Perfect segue principalmente la protagonista, Beca, che si unisce al gruppo di canto a cappella delle Bellas, al contempo inseguendo il suo sogno di diventare una produttrice musicale…
Vi lascio il trailer del primo film per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pitch Perfect?
Dipende.
Il primo capitolo della trilogia è un mio personale confort movie: una commedia musicale piacevole, con un semplice quanto funzionale arco evolutivo della protagonista e dei personaggi secondari, e con delle performance musicali di alto livello.
Soprattutto se vi piaceva (o vi piace ancora) Glee, probabilmente lo amerete.
Purtroppo, non posso dire lo stesso degli altri due film.
Con la trilogia di Pitch Perfect ho visto dei prodotti creati principalmente per cavalcare il successo del brand, ma senza che ci fosse un’idea forte alla base dei sequel, andando anzi spesso a ripetere lo stesso schema narrativo, con una certa pigrizia di scrittura, arrivando infine deviare totalmente dalla strada principale.
Insomma, se fossi in voi, mi fermerei al primo film.
Pitch Perfect (2012)
Il primo capitolo della trilogia di Pitch Perfect è quello più robusto dei tre, pur non mancando di alcuni inciampi lungo la strada.
Ma partiamo dalle cose positive.
Una protagonista anomala
Il successo di questa pellicola, come in altri casi analoghi, è la scelta di una protagonista inusuale.
Beca non è anomala di per sé come protagonista, ma lo è nello specifico per il genere di riferimento: in un’epoca in cui Glee rappresentava praticamente la personalità di molti adolescenti, il modello di protagonista era la ragazza timida, un po’ nerd, ma con una voce magnifica.
Beca non è niente di tutto ciò.
Non ha una voce particolarmente magnifica, è una persona molto chiusa in sé stessa e che tende ad allontanare gli altri – per sua stessa ammissione – testarda come un mulo, e che vorrebbe solamente seguire la strada che si è già prefissata.
La sua maturazione, per questo, avviene su due livelli.
Il primo è quello relazionale, nel senso più strettamente affettivo: tramite Jesse – che ha quasi il ruolo da pixie girl – si rende conto della sua tendenza incredibilmente tossica di farsi terra bruciata intorno, anche in maniera piuttosto cattiva e aggressiva.
Più banalmente, tramite le Bellas, Beca impara a lavorare in gruppo, ad introdurre le sue idee migliorative in maniera effettivamente collaborativa, quindi non testarda e aggressiva, come aveva fatto fino a quel momento.
Ma le Bellas rappresentano molto di più.
Una nuova femminilità
All’inizio del film, conosciamo fin da subito la superbia e l’acidità che contraddistingueva le vecchie Bellas.
Il gruppo rappresentava un modello femminile ormai datato, composto da donne bianche, con dei fisici perfetti e vestite con abiti formali, ma al contempo con un aspetto assai piacente, sessualizzato quanto bastava perché non risultasse eccessivo.
Aubrey eredita questa vena dittatoriale, forzando costantemente le altre ragazze a aderire a questo modello femminile, che si trasmette anche nelle canzoni poco al passo con i tempi e portatrici di concetti ormai superati.
La bellezza del finale sta non soltanto nell’ottimo numero musicale, ma anche nella libertà riconquistata delle Bellas nel raccontarsi in maniera autentica e personale all’interno del gruppo, pur mantenendone i simboli identitari.
Non la solita musica
Dal punto di vista musicale, Pitch Perfect mostra il suo lato migliore.
Anzitutto per le performance durante le gare, prima con le esibizioni dei Treblemakers e poi lo spettacolo finale delle Bellas, con dei mix up particolarmente coinvolgenti ed ottimamente coreografati.
Ma i momenti più iconici e che mi sono rimasti veramente impressi sono la scena dell’audizione e la sequenza del Rip-off, soprattutto grazie all’ottimo montaggio e alla fantastica regia, che li rende dei momenti veramente indimenticabili.
In particolare, ho apprezzato la cura che è stata messa nell’esibizione finale delle Bellas, momento che doveva distinguersi per qualità sia dalle loro precedenti performance, sia anche dall’ottima prova dei Treblemakers.
Un’inclusione fallace
Come Pitch Perfect riesce a raccontare in maniera interessante e variegata la femminilità, fallisce dal punto di vista inclusivo.
Anzitutto per Fat Amy.
Il film si crede particolarmente spiritoso ed originale per questa trovata, che in realtà racconta una mal celata grassofobia, o, per meglio dire, una grande pigrizia narrativa che per l’ennesima volta rende il personaggio grasso la spalla comica della protagonista.
Questo elemento, insieme al vomito incontrollabile di Aubrey, rappresenta la pesante eredità che Pitch Perfect trae dalla più classica delle commedie del decennio precedente, in cui era tipico trovare i suddetti elementi.
Ma se Fat Amy è anche perdonabile, dal momento che comunque è un personaggio brillante e uno dei migliori del film, il punto più basso è la rappresentazione di Cyntia-Rose.
Se da una parte può essere anche positivo il fatto che il suo personaggio non nasconda la sua omosessualità, meno piacevole è quanto non solo si insista nel volerla ricondurre al classico e stanco stereotipo della lesbica mascolina, ma si spinge fortemente l’acceleratore nelle molestie comiche delpersonaggio contro Stacie.
Mentre guardavo Cynthia con gli occhi affondati nei seni della compagna mi sembrava di essere tornata ai tempi di Camera Cafè, ma quando insistentemente la ragazza cerca di fare la respirazione bocca a bocca a Amy…
…e soprattutto quando salta addosso a Stacie nel finale – e la stessa usa il fischietto antistupro – ho visto l’immensità dell’ignoranza che questo film rappresenta.
Purtroppo, un’ignoranza molto inconsapevole…
Pitch Perfect 2 (2015)
Con il PitchPerfect 2 (2015) la sceneggiatura rimane in mano a Kay Cannon, ma la regia passa a Elizabeth Banks, che già dallo scorso capitolo interpretava Gail McKadden, la commentatrice delle gare di canto.
E non è proprio una buona notizia…
It’s 2015, baby!
PitchPerfect 2 segna un cambio di passo travolgente.
Lasciatosi alle spalle l’era di Glee ormai in chiusura, le Bellas approdano alla scintillante conclusione degli Anni Dieci, sembrando alternativamente delle modelle di un post di Instagram e le backup dancers del videoclip Bang Bang, che da solo rappresenta perfettamente l’estetica di questi anni.
Così dalle luci più morbide e tridimensionali del primo capitolo, si passa ad un universo fatto di colori carichi e caramellosi, accompagnato da una regia molto più fredda e anche ben poco ispirata, alla lunga quasi nauseante…
E Beca racconta perfettamente questo cambiamento.
Una Beca nuova di zecca
Vuoi per il cambio di regia, vuoi per il maggiore potere contrattuale della stella nascente Anna Kendrick, Beca è totalmente cambiata.
Ci dimentichiamo ben presto della ragazza molto chiusa, un po’ emo, che respingeva tutti, e troviamo invece una team leader con un look fortemente diverso, che la fa sembrare proprio lo stereotipo della ragazza popolare di quegli anni.
Per fortuna che la regia non si dimentica del passato del personaggio, che mantiene una certa insicurezza nei confronti delle nuove sfide, rientrando in un topos narrativo più alla Il diavolo veste Prada(2006), ma che si risolve senza troppi drammi e riscoprendo l’importanza del gioco di squadra.
L’usato sicuro?
Pitch Perfect 2 ricade nel più classico errore di un sequel di un prodotto di successo: portare in scena sostanzialmente la medesima storia, ma rimescolando un po’ le carte.
Ma se Cameron era riuscito in questo compito con particolare maestria con Aliens (1986) – proprio per fare un paragone volutamente improprio – non si può dire lo stesso di Kay Cannon con il sequel della sua stessa creazione, che ricalca la stessa storia, ma con molto meno mordente.
Si comincia sempre con l’incidente scatenante che mette a dura prova le Bellas, portandole a doversi mettere in gioco più che mai con un nemico ben più potente e temibile di quanto non fossero i Treblemakers.
Già qui entrambi gli elementi mi hanno francamente piuttosto infastidita: sia per, ancora una volta, il malcelato fat shaming nei confronti di Amy – il pubblico avrebbe avuto la stessa reazione con un corpo più canonicamente bello? – sia per la rappresentazione dei DSM.
Come non mi ha entusiasmato la banale e stereotipata rappresentazione di Cynthia-Rose, ancora meno mi è piaciuta la banalità con cui sono stati caratterizzati i leader del gruppo rivale, ovvero basandosi sulla classica ironia dei tedeschi come minacciosi e con un fare quasi militaresco.
Insomma, si poteva fare molto di meglio.
E lo stesso discorso vale per la rappresentazione di Flo, personaggio a cui, insieme ai due commentatori, il film affida l’elemento del black humor, risultando personalmente più fastidioso e fuori luogo che effettivamente piacevole.
Non c’è spazio per tutti
Uno dei problemi maggiori di Pitch Perfect 2 è il sovraffollamento della scena.
La sceneggiatura sembra avere per le mani un numero esagerato di personaggi che appare incapace di gestire, portando molti dei secondari fondamentali del precedente capitolo a scomparire sostanzialmente di scena.
È il caso di Stacie – che col nuovo look sulle prime non avevo neanche riconosciuto – ma soprattutto di Jesse, personaggio così fondamentale nel precedente film, in questo nuovo capitolo ridotto ad un minutaggio insignificante, diventando poco più che un figurante.
Si cerca di dare più spazio a Bumper e Amy, e così alla nuova leva delle Bellas, Emily, ma sinceramente né le loro storie d’amore né i loro personaggi in generale mi hanno detto molto più rispetto al precedente film, anzi in non pochi momenti mi sembravano degli elementi funzionali solo ad allungare il minutaggio.
Ma non è neanche la cosa che mi ha fatto più male.
A cappella?
Le esibizioni di Pitch Perfect per la maggior parte non mi sono piaciute.
Mi sono sembrate molto più attente agli effetti speciali e al valore di certi momenti nella storia, più che a portare in scena delle sequenze veramente creative e interessanti, che raccontassero il grande lavoro delle protagoniste per portare la migliore performance possibile.
Anche se lo spettacolo finale dovrebbe essere il punto di arrivo del loro percorso, l’ho trovato veramente poco coinvolgente e molto meno artisticamente interessante rispetto all’analogo momento del primo capitolo.
E sicuramente la regia piatta non ha aiutato…
Pitch Perfect 3 (2017)
Pitch Perfect 3 è riuscito in qualcosa che non mi sarei mai aspettata da questa saga: mi ha profondamente annoiato.
E il cambio di regia ha aiutato meno di quello che credessi…
Un dramma ridondante
Arrivati a questo punto della saga, continuare a mettere le protagoniste all’interno di un ulteriore dramma l’ho trovato piuttosto ridondante, tanto più quando il minutaggio non basta per approfondire neanche la metà dei problemi effettivamente proposti.
Ma la situazione peggiore è indubbiamente quella di Beca: nonostante sia riuscita ad intraprendere un’interessante carriera nel mondo della produzione, si dimostra incredibilmente immatura – sempre per necessità di trama – nell’incapacità di accettare i compromessi e le difficoltà del suo stesso lavoro.
Sarebbe stato molto più credibile se fosse stato inserito un racconto più articolato di un ambiente di lavoro tossico da cui la protagonista voleva effettivamente fuggire per trovare qualcosa di meglio…
…ma chi ne ha il tempo in soli 90 minuti di film.
Uscire di scena
Uno dei pochi pregi di questo film è la sua capacità di rendersi conto del sovraffollamento dei personaggi in scena, e fare così una buona scrematura iniziale.
Ma non basta.
Anche se i personaggi maschili sono immediatamente congedati – Jesse è lontano tremila chilometri e Bumper è stato semplicemente scaricato da Amy – ancora una volta la pellicola vuole raccontare troppe storie e dare spazio a troppi personaggi.
Così non abbiamo nessun approfondimento del nuovo amore di Chloe, del contrasto col padre di Aubrey, per non parlare dell’assoluta inutilità della nuova relazione di Lilly: storyline totalmente comandate, che dovevano esserci per fare minutaggio, ma che non si ha avuto né il tempo né l’interesse a trattare adeguatamente.
Il conflitto a tutti i costi
Uno dei pilastri della narrazione di Pitch Perfect (e di qualunque film analogo) è il racconto della maturazione delle protagoniste per arrivare allo spettacolo finale.
In Pitch Perfect 3, nonostante ci si provi moltissimo, il conflitto non esiste.
Nell’improvvisato Rip-off all’inizio le protagoniste vengono di fatto umiliate e superate da delle interpretazioni molto più vincenti dei loro concorrenti, andando a suggerire una potenziale difficoltà del gruppoper riuscire ad emergere.
Il problema è che le loro performance sono fin da subito apprezzate, quindi manca di fatto una costruzione della tensione e del dubbio che le Bellas possano non essere scelte da DJ Khaled: sono già evidentemente le più meritevoli.
Il colpo di scena è rappresentato dalla scelta di Beca come solista per aprire il concerto, con un brevissimo conflitto che porta alla più scontatala risoluzione: le Bellas sostengono la protagonista per la sua scelta e finiscono per cantare con lei.
Un momento che dovrebbe essere incredibilmente emozionante, ma che non mi ha emozionato per nulla…
Parliamo (troppo) di Amy
Forse anche per una certa consapevolezza della mancanza della tensione in scena, la pellicola concede tantissimo spazio alla storia di Amy.
Lasciando da parte l’imbarazzo che ho provato per la maggior parte delle sue battute, ho trovato in generale la sua storia, che dovrebbe essere la parte fondamentale del film, incredibilmente noiosa e prevedibile.
Ma in particolare l’ho trovata una storyline dal sapore spy totalmente fuori luogo nel contesto di Pitch Perfect, la cui risoluzione, fra l’altro, era già stata raccontata con un flash forward all’inizio del film.
Insomma, una conclusione di saga che ho trovato molto insapore.
The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.
Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene:115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).
Di cosa parla The Blues Brothers?
Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Blues Brothers?
Assolutamente sì.
The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa(1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicolaè un cult, non è un caso.
Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.
Insomma, cosa state aspettando?
Un uomo di nulla
La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.
Ma non serve.
Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).
E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.
Ritrovare la via
Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.
Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.
La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.
Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.
Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.
Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.
Siamo in missione per conto di Dio!
L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.
Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.
Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.
Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.
Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.
Vivere alla giornata
Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.
Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.
Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.
Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…
Il punto di svolta
Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.
Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.
Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta condiversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.
Ma è di nuovo ora di scappare.
Il vero nemico
Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.
La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza(1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.
In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.
Ma è solo uno dei tanti ostacoli.
I nemici lungo la strada
Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.
Ma le fughe dei Blues Brotherssono forse la mia parte preferita del film.
Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.
L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.
The Blues Brothers inseguimento
Tuttavia, non manca una certa amarezza.
All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothersvedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.
Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.
Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.
La La Land (2016) è il terzo film di Damien Chazelle, nonché la pellicola che l’ha portato al successo presso il grande pubblico, aggiudicandosi moltissimi premi, fra cui la Coppa Volpi per Emma Stone e sei premi Oscar.
Mia e Sebastian sono due giovani sognatori che cercano di sfondare in un contesto molto competitivo come quello di Los Angeles, perdendosi in bellissimi sogni da musical che contrastano con la più triste realtà…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La La Land?
Assolutamente sì.
La La Land è una delle più incredibili sperimentazioni artistiche e cinematografiche degli ultimi anni, che riesce a raccontare una decostruzione e, di fatto, una distruzione di un genere su diversi livelli: fotografia, messinscena, metanarrativa.
Quando si dice che Chazelle ha avuto il suo picco troppo presto, io rispondo che questa pellicola è stata il primo passo di un percorso incredibile di riflessione sui generi e sul cinema, sulla realtà e sul sogno, con un’evoluzione altrettanto interessante in Babylon(2022).
Non un musical, non un anti-musical, ma una sperimentazione imperdibile.
La falsa partenza
L’incipit di La La Land ci racconta già tutto della visione di Chazelle.
In un contesto molto urbano e reale, la scena esplode improvvisamente in un rocambolesco numero musicale, con la classica canzone introduttiva e positiva del più classico dei musical, ma che in realtà suggerisce fin da subito il sottotesto (neanche tanto sotteso) metanarrativo del film.
In particolare, è interessante osservare uno specifico passaggio della canzone:
Summer Sunday nights We’d sink into our seats Right as they dimmed out all the lights The Technicolor world made out of music and machine It called me to be on that screen And live inside its sheen
La sera delle domeniche d'estate Sprofondiamo nelle nostre poltroncine Appena spengono tutte le luci Quel mondo di Technicolor fatto di musica e macchina Mi ha invitato a stare su quello schermo e a vivere nella sua lucentezza
Questi pochi versi raccontano il desiderio del protagonista della canzone di far parte di quel mondo Technicolor fatto di musica, ovvero il mondo del musical, facendo riferimento in particolare alle opere prodotte fra gli Anni Venti e Cinquanta – in cui la tecnica del Technicolor fece la sua fortuna.
Per il resto la canzone anticipa proprio il percorso dei protagonisti – il più classico per il genere: partire con nulla (without a nickel to my name), cercando di raggiungere il successo (I’m reaching for the heights), pur andando incontro a diversi ostacoli (and even when the answer’s no / or when my money’s running low).
E, nonostante tutto, il protagonista della canzone conclude dicendo insistentemente It’s another sunny day: è un altro giorno di sole, è un altro giorno positivo, niente mi può fermare dall’inseguire il mio sogno.
Ma è un falso inizio.
L’altro inizio
Il vero inizio della storia è quando i protagonisti effettivamente entrano in scena, dopo essere rimasti ai margini per tutto il numero musicale d’apertura.
Ma la prima apparizione di Mia è ancora ingannevole.
In prima battuta sembra che la ragazza stia parlando al telefono, ma subito dopo scopriamo che in realtà sta ripassando le battute per il provino. La rivelazione dell’inganno è sottolineata dall’improvviso colpo di clacson di Sebastian, che sembra riportare alla realtà sia Mia, sia lo spettatore.
La successiva scena del provino è luogo contrasti: la protagonista cerca testardamente di mantenere viva la scena, ma lo sguardo dello spettatore non può che essere distratto dal personaggio fuori fuoco alle sue spalle che si muove insistentemente.
Una scena, fra l’altro, dai toni carichi e estremamente ingannevoli: per quanto sembri il classico momento in cui la protagonista riesce finalmente a vivere il suo sogno ed a diventare una star del cinema, la sequenza si rivela invece il solito provino senza futuro.
Anche Sebastian ha un climax simile: costretto a suonare insulse canzoncine natalizie, infine si decide a far mostra delle sue capacità musicali, improvvisando un pezzo con cui spera finalmente di riuscire a conquistare il pubblico e lo sperato successo.
E invece perde il lavoro e non ottiene il presunto amore della sua vita.
Si comincia in piccolo
La scena successiva è il momento in cui, apparentemente, Mia accetta di seguire la trama del musical.
Incoraggiata dalle sue amiche ad andare alla festa dove potrà incontrare la persona che stava cercando (a little chance encounter / could be the one you’ve waited for), ovvero, secondo il modello classico del musical, il suo interesse amoroso.
In realtà, ancora una volta, la scena è piena di elementi di disturbo: anzitutto il fatto che la musica di sottofondo sembra costantemente voler introdurre la parte cantata, ma la stessa ci mette moltissimo tempo prima di partire effettivamente.
Allo stesso modo gli altri personaggi in scena – che appaiono come effettivamente integrati nella stessa – spingono Mia ad accettare le vesti di quel personaggio (letteralmente), mentre la ragazza sembra deriderli per il loro comportamento, intervenendo con un’unica battuta, con cui si tira fuori dalla scena: I think I’ll stay behind.
Solo in un momento successivo, dopo un paio inquadrature che mostrano come Mia non abbia trovato nella festa quello che cercava, la protagonista riprende le battute della canzone in maniera molto più malinconica, parlando a sé stessa con un atteggiamento disilluso.
Ma the show must go on, e i personaggi della festa continuano la medesima canzone di prima, in maniera ancora più convinta e confusionaria, lasciando definitivamente Mia al di fuori della scena e del numero musicale, proprio come aveva detto lei poco prima:
Rifiutare il musical
La sequenza della festa in piscina è ancora più straniante, grazie ad una fotografia incredibilmente azzeccata.
Per quanto, infatti, la scena sia piena di colori caricatissimi, la fotografia racconta altro, scegliendo invece una luce molto più naturale, con lunghe ombre sui volti dei personaggi, i quali appaiono del tutto fuori contesto per il genere di appartenenza.
Ma l’iconica scena del ballo è quella più esplicativa.
I protagonisti sembrano come intrappolati all’interno della trama del musical, che li obbliga ad incontrarsi, anche se non sono interessati l’uno all’altro, mostrando anzi un rapporto molto conflittuale, come racconta lo stesso scambio fra i due:
— It's pretty strange that we keep running into each other. — It is strange. Maybe it means something. — I doubt it. — Yeah, I don't think so.
— È così strano che continuiamo ad incontrarci. — È strano. Magari vuol dire qualcosa. — Non credo. — Sì, neanche io.
Le battute della canzone iniziata da Sebastian sono particolarmente indicative: il protagonista racconta come la scena sia perfetta per un incontro romantico (that’s tailor-made for two), ma aggiunge peccato che siamo noi due (what a shame those two are you and me), mostrando tutta la sua arroganza.
Al che Mia, ancora una volta deridendo questa ipotetica situazione romantica, racconta come lei per prima non sia interessata, e di come quella scena non faccia per lei (But, I’m frankly feeling nothing), soprattutto con quelle scarpe.
E allora i due sembrano come trascinati dentro la sequenza, con Mia che si cambia istintivamente le scarpe, come a rendersi pronta per il successivo numero musicale, e Sebastian che si muove meccanicamente e la coinvolge in un assurdo balletto, anche un po’ scoordinato, che dovrebbe farli innamorare…
Ma viene ancora interrotto da un elemento di disturbo.
La la land pontile
Lo stesso schema si ripete per la scena del pontile: Sebastian chiede alla città se stia splendendo per lui, se questo è per lui l’inizio di qualcosa di nuovo e fantastico (is this the start of something wonderful and new?)…
…ma viene subito riportato con i piedi per terra quando capisce che il cappello non è un oggetto di scena pensato per il suo numero musicale, venendo infatti interrotto dal compagno della signora con cui sta ballando languidamente, concludendo:
Accettare il sogno
L’atto centrale è l’accettazione del sogno.
Passaggio che avviene in maniera quanto più surreale e artificiosa, quanto comprensibile all’interno del genere musical: Mia si rende conto che non vuole stare con Greg, si alza improvvisamente e raggiunge Sebastian al cinema.
E, non a caso, si mostra a Sebastian come immersa nello schermo, proprio come lui aveva profetizzato:
Ma questa volta, nonostante il film sembra contro di loro, interrompendosi improvvisamente, la coppia decide di continuare sulla strada definita della storia: nelle atmosfere fantastiche dell’Osservatorio, sboccia il loro amore, con persino un elemento fantastico che li porta a volteggiare fra le stelle – pur nel loro iniziale stupore.
La sequenza successiva usa ed abusa del linguaggio del musical, anzitutto con la transizione che chiude sul bacio fra i due e apre con una Mia finalmente sicura del suo sogno, intenta a scrivere la sceneggiatura che la farà diventare una star, seguito da un montaggio che racconta il felice susseguirsi delle vicende.
Tuttavia, diversi elementi in scena raccontano altro, a partire dalla sequenza in cui i due si allontanano in auto, ambientata in uno squallido vicolo con i cassonetti della spazzatura e la strada crepata…
Una dura realtà
Ma la realtà sembra farsi largo prima del previsto.
La sequenza musicale che accompagna il passare del tempo è molto più malinconica di quanto racconterebbe la canzone: si mostra Mia che continua a lavorare strenuamente per raggiungere il suo sogno, anche se sembra meno vicino di quanto sembri.
Finché non arriva al momento della prova: a spettacolo concluso, quando le luci si accendono e noi ci aspetteremmo una folla festante che si congratula con Mia per la sua performance, in realtà vediamo solo pochi sparuti spettatori, e una voce fuori campo che critica duramente la sua prova attoriale.
E, se Sebastian quanto la storia sembravano promettere alla protagonista di potercela fare, la realtà racconta qualcosa di molto diverso: lo spettacolo non l’ha visto nessuno, non è stato il successo sperato e Mia non ha neanche i soldi per pagare il teatro.
La situazione non è migliore per Sebastian.
In teoria il protagonista ha scelto una carriera che avrebbe dovuto portargli abbastanza soldi per realizzare il suo effettivo sogno, ma ancora una volta lo stesso è molto meno a portata di mano di quanto pensasse.
E, davanti agli occhi increduli della fidanzata, accetta di suonare una musica che non lo rappresenta, che sulla carta aveva sempre detto di odiare, come la stessa Mia gli fa notare nella scena della cena.
La la land dinner
Una scena, fra l’altro, immersa in un’apparente atmosfera sognante tinta di un suggestivo verde smeraldo, che in realtà diventa lo sfondo per il contrasto e lo scontro definitivo fra la coppia, prologo della loro rottura.
Ma Chazelle non ci vuole lasciare senza speranza, non vuole dirci di abbandonare i nostri sogni: nonostante tutto, la scelta dello spettacolo ha portato Mia al risultato sperato, ovvero di essere coinvolta in una grande produzione.
E la scena del provino è indicativa proprio per la scelta della fotografia e la messinscena: mentre tutte le altre sequenze analoghe mostravano una Mia vestita di colori carichi ed illusori, in questo caso la scena è definita da tinte più tenui e da una messinscena molto più verosimile.
What if…
La chiusura di La La Land è magistralmente metanarrativa.
Anche se Mia è diventata una famosa attrice, anche se ha potuto realizzare il suo sogno, non ha ottenuto tutto quello che sperava e credeva: la reazione con Sebastian si è chiusa fuori scena, portando i due ad allontanarsi del tutto per molto tempo.
Ma, totalmente per caso, proprio come il loro primo incontro, la scena del club di Sebastian è il momento dell’epifania.
La prima sequenza racconta la versione della storia secondo i canoni musical più tradizionali: all’interno di uno sfondo pittoresco in cui i protagonisti sono perfettamente integrati, la loro vita e il loro amore sono costellati di immediati e facilissimi successi.
Una messinscena che decostruisce totalmente il genere, mostrando ambientazioni che vivono sempre di più di sottrazione, sempre più artificiali e teatrali.
La seconda sequenza mostra qualcosa di diametralmente diverso: attraverso il linguaggio iperrealistico del finto documentario, scopriamo il destino della coppia se avesse abbandonato i propri sogni, per seguire la più felice via dell’amore e di una vita più modesta, che però non li avrebbe divisi.
E, in quello scambio finale di sguardi, vediamo tutta la consapevolezza dei protagonisti per quello che avrebbe potuto essere, i due estremi irraggiungibili, quando la realtà è invece una malinconica via di mezzo…