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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar – Un equilibrio peculiare

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron è uno dei più importanti film del cinema queer, al tempo veramente rivoluzionario per il pubblico mainstream.

Nonostante negli anni abbia acquisito un’importante notorietà, all’uscita fu un flop: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Vida Boheme e Noxeema Jackson sono due famose drag queen di New York che intraprendono un viaggio in auto alla volta di Los Angeles, con un ospite inaspettato…

Vi lascio il trailer per farti un’idea:

Vale la pena di vedere A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Assolutamente sì.

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è un film fantastico, che riesce a raccontare con particolare delicatezza temi per nulla semplici, anzi particolarmente drammatici, ma senza mai sfociare nel dramma più smaccato.

Particolarmente brillante la recitazione dei tre attori protagonisti: pur non essendo drag queen, si sono immedesimati perfettamente nella parte, senza mai risultare fuori luogo, anzi.

L’inaspettato

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

La particolarità di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è già nel casting.

Scegliere un attore come Wesley Snipes, futuro interprete di Blade nella saga omonima, e soprattutto Patrick Swayze, la star del cult Dirty Dancing (1987), un divo che era il sogno di un’intera generazione di ragazzine, per interpretare delle drag queen non è una scelta casuale.

E infatti l’incipit gioca proprio su questo apparente contrasto: Patrick Swayze entra in scena in tutta la sua possanza dopo essersi fatto la doccia canticchiando It’s a man’s world, e si trasforma nel suo personaggio.

Un contrasto apparentemente incolmabile, che è invece smentito dalla bravura dell’attore, il quale, insieme a Wesley Snipes, porta in scena una drag queen elegantissima, sublime: insomma, una vera diva d’altri tempi.

Il primo atto d’amicizia

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ma Vida non è solamente una fantastica drag queen, ma è anche un personaggio guidato da importanti ideali.

Il motore della storia è proprio la scelta di aiutare un collega alle prime armi, un ragazzino ispanico che non conosce niente del mondo, e che, come vedremo, si mette continuamente in pericolo, in qualche modo anche svendendosi.

Un’occasione anche per raccontare in maniera molto esplicita la differenza fra transessuali, travestiti e le drag queen, in un momento quasi didascalico, in realtà fondamentale per gli intenti del film: avvicinare un pubblico inesperto del mondo queer a concetti importantissimi.

E, al contempo, si vanno anche a smentire stereotipi piuttosto crudeli per il mondo drag, che ne svalutano il valore, proprio scegliendo di non far mai uscire Vida dal suo personaggio, perché rappresenta proprio l’espressione della sua vera identità.

La violenza edulcorata

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Per rappresentare gli elementi anche più drammatici della vicenda, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sceglie una via di mezzo.

Ed è una via di mezzo ben pensata, che non toglie importanza a momenti veramente drammatici – come il ritorno di Vida alla sua casa natale – e violenti – come la relazione tossica fra Virgil e Carol.

In particolare, è interessante la scena della tentata violenza con il poliziotto, che ovviamente fa il verso a Thelma & Louise (1991), ma con un esito felice: essendo piuttosto ben piazzata, Vida riesce a difendersi e il poliziotto non muore, ma viene ridicolizzato.

Allo stesso modo, quando la protagonista sceglie di intervenire per proteggere la sua nuova amica, non si mostra esplicitamente la violenza della scena, se non per la sua parte conclusiva, che ha un taglio quasi comico.

Infatti, il taglio del film è quanto più positivo possibile.

Nemici e alleati

La pellicola vuole parlare il meno possibile di nemici, ma quanto più di alleati – o possibili tali.

Il weekend in quello sperduto paesino è un’occasione per le tre protagoniste di riuscire a rendere le donne locali più sicure di sé stesse, e gli uomini meno insicuri e distrutti dalla loro stessa mascolinità tossica e violenta.

E il percorso è quanto più naturale e positivo, con una storia emozionante e commovente, in cui un gruppo di donne riesce finalmente a valorizzarsi – ma, soprattutto, a sentirsi veramente libere e felici di poterlo fare.

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ed è una rappresentazione tanto più vincente in quanto mostra una realtà maschile molto variegata: gli uomini effettivamente negativi sono solo due – Virgil e il poliziotto – ed entrambi vengono messi al loro posto, senza però spingere troppo l’acceleratore sulla loro punizione.

Anzi, il momento di messa in fuga di Dollard racconta come tutti gli abitanti del paese abbiano accettato le protagoniste per quello che sono, sia perché li hanno aiutati, sia perché in questo modo hanno scoperto una parte di sé lontana dagli stereotipi di genere da cui erano definiti.

Ancora più interessante il fatto che i ragazzini non hanno una reazione violenta nei confronti delle drag queen, ma anzi accolgono la lezione – pur brutale – di Noxeema così da migliorarsi e diventare loro alleati.

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Nomadland – Restare liberi

Nomadland (2020) di Chloé Zhao fu uno dei film più chiacchierati del 2020, con diversi riconoscimenti, fra cui il Leone d’Oro, due Golden Globe e tre premi Oscar.

Con un budget veramente molto ridotto – appena 5 milioni di dollari – è stato tutto sommato un buon successo: quasi 40 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Nomadland?

Dopo la chiusura della città mineraria in cui viveva, Fern ha scelto una vita un po’ particolare: essere una nomade.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nomadland?

Frances McDormand in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Assolutamente sì.

Nomadland non solo è un film profondo e riflessivo, ma è soprattutto una storia reale con persone reali: molti degli attori in scena non sono professionisti, ma interpretano sé stessi.

Un racconto drammatico, ma più vicino di quanto si potrebbe pensare: persone che ormai da tempo hanno rifiutato la devastante realtà immobiliare statunitense, preferendo una vita più modesta, ma anche più libera.

Frammenti di silenzio

Frances McDormand e Linda May in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Nomadland è scandito da momenti di silenzio, non parlati, incorniciati dai suoni dell’ambiente, con rapidi montaggi che mostrano piccole scene di quotidianità.

Il racconto di una vita non semplice, non per tutti, ma inevitabile davanti alla realizzazione di quanto sia semplice perdere la propria casa, il proprio lavoro la propria identità, e, semplicemente, scomparire.

Tanto più che Fern è una donna irreprensibile, che molti cercano di far tornare sui suoi passi, che cercano di mettere da parte, di far ritirare come una qualunque altra anziana signora.

Invece, seguendo la stessa filosofia di Swankie, la protagonista vuole rimanere libera fino alla fine, vivere una vita gratificante, sempre alla ricerca di un nuovo, indimenticabile momento da assaporare nella sua pienezza.

Una vita modesta, ma onesta

Frances McDormand in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Molte persone lungo la strada, anche con le migliori intenzioni, pensano di poter aiutare Fern.

E molti non capisco l’importanza della scelta di questa strana donna, che non può vivere ingabbiata in un solo luogo, in solo lavoro, non sentendosi mai veramente libera, ma limitata da un’esistenza solo apparente stabile e sicura.

E, anche se i lavori che deve fare sono molto umili, poco desiderabili, quasi umilianti, sono gli unici che permettono a Fern di essere una nomade, di essere libera e autosufficiente, di non dipendere da nessuno.

Eppure per molti sembra solo una ribellione momentanea

Non ci si ferma

Gay DeForest in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

La vita di Fern è molto più che una vita per strada.

Infatti, la strada non è del tutto materiale, ma è più che altro una realtà estemporanea, che racconta una scelta di vita sostenuta da una comunità forte e collaborativa, in cui ci si aiuta l’un l’altro in totale armonia.

E la strada va anche oltre la vita stessa: la strada prosegue indistintamente all’orizzonte, senza che ci sia un momento per dirsi un momento in cui bisogna dirsi addio, ma solo, a presto

…ci vediamo lungo la strada.

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Thelma & Louise – It’s a man’s world

Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott è uno dei maggiori cult del genere road movie – e non solo.

Con un budget piuttosto contenuto – circa 16 milioni di dollari, circa 35 oggi – incassò piuttosto bene: 45 milioni di dollari – circa 100 oggi.

Di cosa parla Thelma & Louise?

Louise e Thelma sono due amiche con gusti e personalità molto diverse, che partono per un viaggio apparentemente innocuo, ma che in realtà cambierà la loro vita per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thelma & Louise?

Assolutamente sì.

Thelma & Louise non è solo un incredibile cult, nonché uno dei migliori road movie mai realizzati, ma è anche un’interessantissima riflessione sul ruolo del femminile in un mondo dominato dalla presenza maschile.

Una storia di ribellione, di ricerca della libertà, di scoperta di sé stessi, con una regia ottima e due attrici con un’alchimia incredibile, per una storia che unisce il drammatico e il comico in un incontro perfetto…

L’inizio della fine

Fin dall’inizio Thelma & Louise mostra le sue ombre.

Nonostante il viaggio in macchina sembri un appuntamento molto divertente e spensierato, in realtà diversi elementi in scena raccontano altro: la telefonata con il manager del ristorante che infastidisce Thelma – anche se in maniera innocua – la pistola nella valigia e Louise che dice all’amica:

He’s gon’ kill you!

Ti ammazzerà!

Quindi fin dai primissimi minuti abbiamo tutto quello che dobbiamo sapere sulla vicenda: le protagoniste provengono da un contesto sociale opprimente e decidono di fuggire, apparentemente ridendoci sopra, in realtà ben consapevoli della loro situazione.

In particolare è piuttosto indicativa la frase di cui sopra: anche se Louise ci scherza, è quantomai probabile che il marito di Thelma potrebbe quantomeno farle violenza per avergli disubbedito.

Gli uomini sbagliati

Il rapporto di Thelma con gli uomini è il più drammatico.

Probabilmente spinta dal proprio contesto sociale ad accasarsi e ricoprire il ruolo canonico della casalinga sottomessa, Thelma è finita sotto il controllo di un uomo tossico, unicamente interessato a lei come soprammobile da tenere in bella mostra in casa.

Ma, anche cercando si sfuggire al suo terribile matrimonio e alla sua insoddisfazione sessuale, la donna viene costantemente punita – e secondo le stesse dinamiche: Harlan la corteggia in maniera apparentemente molto lusinghiera, cerca di possederla sessualmente in maniera apparentemente innocua…

…ma, appena Thelma si rivela per non essere una semplice bambolina da possedere a proprio piacimento, ma un essere pensante capace di reagire e persino alzare le mani, tutto cambia.

Lo stupro infatti in questo caso non è spinto da un effettivo desiderio sessuale, ma più che altro dalla volontà di sottomettere nuovamente questa donna ribelle.

Louise, anche se non è detto esplicitamente, è stata vittima di stupro.

E, per quanto sia comunque più matura e apparentemente irremovibile dell’amica, vive anch’essa una situazione sentimentale non del tutto positiva: anche se in chiave minore, Jimmy è potenzialmente violento, tossico, e cerca di relegarla all’ambito matrimoniale.

E, proprio per il passato che si porta dietro, Louise è la prima a reagire, è la prima ad usare la pistola anche se era inizialmente contraria ad averla con sé, è la prima a rispondere con la violenza ad una violenza irreparabile.

Da che parte stiamo?

Se ci aspetteremmo inizialmente che la più combattiva fosse Louise, in realtà è Thelma a vivere la ribellione più radicale.

Dopo essere stata per l’ennesima volta tradita ed umiliata da un uomo – questa volta dal punto di vista economico – perde totalmente e gradualmente il controllo: rapina un negozio, distrugge un camion…

Davanti a questa irrefrenabile climax, il film ci mette sempre più davanti ad un dilemma etico:

Da che parte stiamo?

Non esiste una risposta giusta.

Thelma & Louise racconta la storia di due donne che hanno preso consapevolezza della loro condizione sociale: vivere in un mondo di uomini, in cui sono costantemente punite, umiliate, non credute, messe in secondo piano.

E per questo hanno scelto di ribellarsi, in maniera anche molto violenta, non facendosi problemi ad uccidere, distruggere, punire in maniera sempre più spettacolare e sfacciata quegli uomini che – anche se in modi diversi – le hanno tormentate per tutta la vita.

Ma potremmo d’altronde stare dalla parte di questi personaggi maschili così irrispettosi, violenti e distruttivi?

Senza via d’uscita?

L’ago della bilancia di questa situazione è Hal, il poliziotto.

Un personaggio che rappresenta il lato più positivo della mascolinità: un uomo consapevole ed aperto al dialogo, che comprende i drammi e i motivi delle azioni delle protagoniste, e per questo cerca in ogni modo di farle desistere dai loro folli piani.

Quindi, di fatto, Thelma e Louise hanno sempre una via d’uscita: possono gettare le armi e accettare le responsabilità delle loro azioni, accettare di farsi punire…ma anche tornare in una realtà sociale che non possono più sopportare.

E allora, mentre Hal si slancia disperatamente per fermarle, le due invece si lanciano verso la loro distruzione: un messaggio politico forte e irreversibile, che racconta un’esasperazione sociale che non può più essere sopportata, e che porta ad un finale dolce amaro.

Le nostre eroine sono morte, ma sono morte come donne libere.

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Intrigo Internazionale – Il thriller comico

Intrigo internazionale (1959) – traduzione molto goffa del titolo originale North by Northwest – è una delle opere più note della filmografia di Hitchcock, nonché l’ultimo in cui lavorò con il suo attore feticcio, Cary Grant.

A fronte di un budget medio – 4,3 milioni di dollari, circa 45 oggi – incassò abbastanza bene: 9,8 milioni di dollari (circa 102 oggi).

Di cosa parla Intrigo Internazionale?

Roger Thornhill è un agente pubblicitario che viene involontariamente coinvolto in uno scambio di persona e in un intrigo spionistico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intrigo Internazionale?

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Intrigo Internazionale è uno dei titoli più interessanti della filmografia di Hitchcock, dove sperimenta in maniera particolarmente avvincente con il genere thriller, ma con importanti contaminazioni comiche e della spy story.

Una storia intrigante e piena di tensione, che mi ha ricordato molto la storia di Carl Barks Paperino e le spie atomiche (1951).

Non manca qualche piccolo inciampo sul finale, ma elegantemente camuffato da una regia intelligente e piuttosto indovinata, che mostra un Hitchcock perfettamente padrone della sua arte, proprio alle porte del suo capolavoro…

Lo strappo

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

L’incipit di Intrigo internazionale è magistrale.

Si apre con una lunga sequenza che ci introduce il personaggio: un agente pubblicitario piuttosto intraprendente, pienissimo di impegni e particolarmente carismatico. Piccole scene dal sapore comico, che fanno immergere lo spettatore in atmosfere apparentemente tranquille e quotidiane…

…per poi catapultarlo nel vivo dell’azione.

Mentre Roger sta serenamente intrattenendo la tavolata, la macchina da presa si muove improvvisamente, con uno scatto repentino, per mostrare un elemento della stanza che era rimasto fuori dalla scena fino a quel momento: due loschi individui che hanno adocchiato il protagonista.

Scene vertiginose

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Così Roger si trova incastrato in una situazione da cui sembra impossibile uscire, nonostante cerchi continuamente di imporre la propria autorità.

Tuttavia, viene costretto ad una rocambolesca fuga in auto, dopo essere stato ubriacato forzatamente. E qui Cary Grant sfodera le sue incredibili capacità di attore comico, reggendo sulle spalle una scena particolarmente complessa, soprattutto considerando le tecniche disponibili al tempo.

Ma l’attore feticcio di Hitchcock riesce perfettamente a calibrare la situazione nella sua grottesca comicità, aiutato anche da abili movimenti di macchina, che Hitchcock già aveva già utilizzato nella scena analoga di Caccia al ladro (1955).

E non è finita qui.

Un Grant inedito

Cary Grant e  Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Forse volendo smorzare i toni dopo la tiepida accoglienza del ben più drammatico Vertigo (1958), in Intrigo Internazionale Hitchcock lascia ampio spazio alla recitazione comica.

Tuttavia, non è la solita comicità alla Hitchcock, quell’humour nerissimo che aveva avuto il suo picco in La congiura degli innocenti (1955): troviamo invece dinamiche più semplici, quasi da slapstick comedy.

Ed è qui che Cary Grant dà veramente il suo meglio.

Già molto esperto nel genere, l’attore riesce a muoversi con abilità sia nelle sequenze più drammatiche e di tensione, con il suo sguardo penetrante, sia nei momenti più apertamente comici, in particolare la spassosissima scena dell’asta.

Un’intrusione fondamentale

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Una sequenza fondamentale, posta sul finale del primo atto, è quella dedicata allo svelamento dell’intrigo.

Ma solo allo spettatore.

Una breve scenetta in cui le menti dietro al fittizio George Kaplan raccontano il loro piano, fornendo una bussola chiara allo spettatore per il seguito delle vicende. Una tecnica già utilizzata in Vertigo, che permette di continuare a seguire il protagonista nei suoi inciampi senza esasperare la tensione.

In questo modo, inoltre, si rende anche più interessante il momento di svolta in cui il personaggio diventa veramente attivo negli eventi.

Il motore necessario?

Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Sulle prime ho particolarmente apprezzato il personaggio di Eva.

Una scelta di casting piuttosto peculiare per Hitchcock, che si lascia alle spalle le bellezze più magnetiche di Grace Kelly quanto di Kim Novak, preferendo invece un’attrice come Eva Marie Saint, che funziona molto bene nel ruolo della donna intrigante.

Una donna di difficile lettura, che ricorda quello che sarà poi Janet Leigh in Psycho (1960).

Intorno alla stessa ho anche apprezzato il momento di indipendenza del protagonista, che diventa più furbo delle spie stesse, riuscendo momentaneamente a sbrogliarsi dall’intrigo in cui era stato coinvolto.

Cary Grant e Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Ho invece meno apprezzato l’idea che Roger di leghi così profondamente ad Eva, tanto da rimettersi in gioco e rischiare davvero la propria vita per salvarla, volendo ovviamente portare all’happy ending romantico.

Una costruzione che ho trovato meno convincente rispetto ad altri prodotti di Hitchcock, che come sempre include l’elemento romantico, percepito evidentemente come necessario, ma che alla fine mi è parso abbastanza debole come motore della vicenda.

Anche se…

Intrigo Internazionale finale

Il finale di Intrigo Internazionale è uno dei più indovinati della filmografia di Hitchcock.

In una scena di incredibile tensione sul Monte Rushmore, quando sembra ormai che Eva sia destinata a morire, Roger la solleva e improvvisamente la scena si riforma in un contesto ben più intimo e accogliente: il treno.

Come creare un finale positivo e senza sbavature.

Intrigo internazionale titolo originale

Il titolo originale di Intrigo internazionale è North by Northwest.

Ma cosa significa?

Letteralmente significa Da nord a nordovest, facendo riferimento al percorso del protagonista: dal Palazzo delle Nazioni Unite (New York), al monte Rushmore (Sud Dakota).

Ma, secondo alcuni critici, lo stesso prende spunto da Amleto (2,2):

I am but mad north-northwest

Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest

quindi rendendo il protagonista un eroe shakespeariano moderno.

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Accadde quella notte... Avventura Commedia Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione Road movie

Green book – Quando l’emozione è tutto…

Green book (2018) di Peter Farrelly è un film un road movie con protagonisti l’improbabile coppia composta da Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Un film che riscosse parecchio successo: venne candidato a cinque Oscar e ne vinse tre, fra cui Miglior film. Probabilmente proprio per questo – e per il budget davvero risicato di 23 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 321 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Green book?

Per uno strano caso, Don Shirley, importante concertista nero, sceglie Tony come suo autista nel profondo Sud degli Stati Uniti degli Anni Sessanta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Green book?

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

In generale, sì.

Nonostante mi abbia leggermente annoiato sul finale, Green book è un prodotto complessivamente piacevole, con un andamento lineare e facile da seguire.

Non il solito buddy movie, ma una sua versione molto più drammatica, con due attori stellari come Viggo Mortensen e Mahershala Ali, che alzano decisamente il livello medio della pellicola.

Insomma, non imperdibile, ma abbastanza consigliato.

Un tema importante

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il tema centrale della pellicola è l’amicizia fra i due protagonisti.

Un’amicizia difficile, nata con i peggiori presupposti. Infatti Tony e Don sono due persone che si trovano veramente agli antipodi: l’uno molto raffinato e impettito, l’altro più guascone e quasi zotico.

Il loro rapporto nascerà incontrandosi a metà strada: Tony supererà i pregiudizi nei confronti di Don e quest’ultimo troverà nel suo autista un amico su cui contare.

Trovo sempre piacevole seguire il racconto di due persone così avanti nella loro vita che riescono comunque a stringere relazioni durature ed importanti.

Un bel messaggio, tutto sommato, raccontato anche con una scrittura complessivamente buona, che mette in scena un rapporto credibile e realistico.

Attori perfetti

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Gli attori protagonisti alzano di gran lunga il livello della pellicola.

Mahershala Ali riesce a raccontare in maniera piuttosto interessante un personaggio complesso e combattuto, financo anche piuttosto insostenibile. Purtroppo, nonostante gli intenti della pellicola fossero palesi, non sono riuscita a farmi coinvolgere col dramma umano di Don.

Infatti ho preferito di gran lunga il personaggio di Viggo Mortensen, che porta in scena un italo americano degli Anni Sessanta senza mai scadere negli stereotipi – nonostante la sceneggiatura lo spinga molto in quella direzione – anzi impegnandosi molto in una recitazione corporea eloquente e persino in alcune frasi in italiano non del tutto storpiate.

Il razzismo non è il tema ma…

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il razzismo non è il tema centrale della pellicola.

Anzi, è un argomento piuttosto di contorno, raccontato per la maggior parte del tempo attraverso il razzismo benevolo di Tony: l’uomo dimostra di aver interiorizzato una serie di pregiudizi nei confronti della comunità nera, e cerca di farli aderire insistentemente alla persona di Don, nonostante lo stesso non vi si ritrovi per nulla.

E la creazione del loro rapporto si basa proprio sul superamento di questi preconcetti.

Non mancano comunque alcuni picchi drammatici – come l’arresto di Don – ma nel complesso, anche nei momenti più tragici, ci si limita ad un razzismo molto più polite, in cui il personaggio in diversi momenti viene escluso da determinati spazi e contesti – ma quasi mai con l’uso della violenza.

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

E per questo è molto digeribile per il pubblico medio statunitense.

E questo è anche il motivo per cui ha vinto come Miglior film.

Nonostante, a differenza di altri film – come 12 anni schiavo (2014) – non sia un prodotto scritto appositamente per entrare nel cuore dell’Academy attraverso trigger emotivi piuttosto smaccati, nondimeno l’ha fatto.

E così agli Oscar 2019 è stato premiato un film di medio livello, che gareggiava contro opere di invece altissimo valore come Vice (2018) e La Favorita (2018)

Ed è successo proprio perché portare in scena un razzismo così light, e in qualche modo più vicino allo spettatore odierno, ha pagato.

Nonostante in quel contesto storico un uomo nero poteva rischiare in ogni momento la sua vita e venir trattato decisamente peggio in molte le situazioni del film, come si vede per esempio in The Help (2011) – prodotto persino edulcorato da questo punto di vista.

Ed è anche il motivo per cui un film più sincero e veritiero sulla tematica come BlacKkKlansman (2018) non avrebbe mai potuto vincere.

Green book meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2019 vengono sopratutto ricordati per la chiacchieratissima interpretazione di Bradley Cooper e Lady Gaga, protagonisti di A star is born (2017). Come dopo dichiararono gli attori stessi, in quel momento si erano molto immedesimati nei personaggi – con tutto quello che ne consegue:

Inoltre, quell’anno, per la prima volta nella storia dell’MCU, venne candidato un prodotto supereroistico: Black Panther (2018), che era ormai diventato un fenomeno mondiale:

Personalmente, gli Oscar 2019 furono la mia epifania.

Dopo aver visto Vice – che tutt’oggi considero uno dei migliori prodotti di Adam McKay insieme a Don’t look up (2021) – andai a vedere con non poco interesse Green book, convinta che indubbiamente sarebbe stato il miglior film dell’anno.

E potete immaginare quanto mi indispettì quando mi resi conto che evidentemente non lo era, ma era stato comunque premiato come tale.

In quel momento compresi cosa muove veramente le premiazioni degli Oscar, che è stato anche il motivo di questa rubrica: accade spesso che, con una lista di film di grande valore candidati, il meno interessante – ma più politicamente orientato – ne esce vincitore.

Quindi direi che la domanda Green book meritava di vincere l’Oscar? ha più possibili risposte: trovate la vostra.