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Superman – Lo slancio iniziale

Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve non è solo un film supereroistico, ma un punto di svolta per il genere tutto.

Non a caso, a fronte di un budget importante per l’epoca – 55 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale: 134 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Superman?

Nel lontano pianeta di Krypton, il visionario scienziato Jor-El vede l’ormai prossima distruzione del suo mondo, e decide di mandare il suo unico figlio su un pianeta sconosciuto: la Terra.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Superman?

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Assolutamente sì.

Pur nella sua semplicità ed ingenuità in alcuni punti, il Superman di Richard Donner rappresentò un ottimo esempio di sintesi fra uno stile prettamente fumettistico ed una certa epicità e drammaticità con cui il genere nel tempo cominciò a farsi prendere sul serio.

Ne risulta un esperimento particolarmente riuscito che, ancora a diversi decenni di distanza, riesce a colpire col suo piacevole umorismo e il suo toccante dramma familiare ed esistenziale, facendo fra l’altro sfoggio di un reparto tecnico di prim’ordine ed una regia con non pochi guizzi.

Insomma, da riscoprire. 

Protagonista

Per certi versi, Jor-El è il vero protagonista del primo atto.

Superman dedica infatti ampio spazio al racconto della figura del padre dell’eroe – per certi versi, più del figlio stesso – andando a definirlo nel suo ambiguo rapporto con il Consiglio, dal quale viene immediatamente messo alla prova per la condanna dei tre ribelli.

Ma proprio la punizione degli stessi e la subito successiva opposizione ad un governo miope davanti ai pericoli imminenti per Kripton, racconta un eroe silenzioso e lungimirante, che riesce a trovare nella salvezza dell’erede una possibilità per conservare intatte le conoscenze del suo mondo.

Ne consegue un lunghissimo antefatto che ha il suo apice, per certi versi, con l’arrivo di Kal-El sulla Terra, subito accolto fra le braccia dei suoi amorevoli genitori terrestri, la cui tragica sorte definisce il protagonista in questa fase chiave della sua formazione.

Ovvero, essere un eroe in potenza.

Bozzolo

Superman da adolescente in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Se si vuole fare una critica al film, si può dire che l’atto centrale è fin troppo sbrigativo – quantomeno, nella versione cinematografica.

Superman in effetti lascia poco spazio al suo protagonista per definirsi nel suo contrasto con il mondo terrestre, raccontandolo come un ingenuo ragazzino che vorrebbe dare il meglio di sé, ma che è stato – giustamente – educato a non dare troppo sfoggio dei suoi poteri.

Questa impotenza raggiunge il suo apice con la morte improvvisa del padre adottivo, che fa comprendere a Kal-El i limiti del suo campo di azione, apparentemente illimitato, in realtà drammaticamente limitato da situazioni in cui non ha nessuna possibilità di vincere.

Superman nella fortezza della solitudine in Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ed il rapido ed inevitabile sopraggiungere del funerale spinge infine il protagonista a cercare un nuovo punto di partenza per definirsi come eroe, grazie alle cure tardive – ma essenziali – del padre perduto – uno dei momenti, fra l’altro, che ho trovato personalmente più toccanti e coinvolgenti dell’intera pellicola.

Quindi se, ancora, si vuole rimproverare il poco respiro che ha Clark in questo snodo narrativo fondamentale, è altresì vero che lo stesso è un trampolino per abbracciare la seconda parte della pellicola, in cui il film dà davvero il suo meglio e in cui Christopher Reeve può finalmente brillare.

E, proprio qui, si trova un interessante equilibrio di toni.

Superfice

Superman in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ad uno sguardo più superficiale, il Superman di Reeve potrebbe essere un tedioso esempio dell’eroe senza macchia – ma con mantello.

In realtà, la sua costruzione non è così scontata.

Entrando infine in scena come eroe formato, Kal-El ci spiazza nella sua forma umana, un’abile maschera dietro cui si nasconde: Klark Kent è infatti un giovane impacciato e alle prime armi, che l’ormai navigata Lois Lane sembra subito inquadrare – e, per certi versi, disprezzare – nella sua inadeguatezza.

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ma la sottile ironia della pellicola si scopre immediatamente nella scena della rapina, in cui Kal-El fa di tutto – almeno a parole – per evitare lo scontro fisico, lasciando spazio a Lois per raccontarsi come personaggio attivo e fondamentale, ma che segretamente ha in mano tutta la situazione…

…ammiccando al pubblico con il proiettile fatale stretto fra le dita.

Superman, invece, è un’altra storia.

Superman e Lois volano insieme in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Quando infine il protagonista indossa le vesti eroiche, non rappresenta l’opposto della sua versione umana, ma bensì una sua naturale evoluzione: un eroe che non vuole mettere in mostra le sue spropositate capacità sovrannaturali, ma bensì limitarsi a fare il suo dovere.

Infatti, soprattutto all’occhio dello spettatore contemporaneo, potrebbe risultare quasi fuori luogo che l’arma più tagliente di Superman sia la sua ironia: raramente arriva allo scontro fisico e, il più delle volte, si limita ad acchiappare i furfanti e a consegnarli illesi alla giustizia.

E con Lex Luthor non è da meno.

Ombra

Lex Luthor è un irresistibile paradosso.

Tutto nel suo personaggio racconta un contrasto interno: si dichiara una sublime mente criminale, ma è ridotto ad un covo nelle fogne di Metropolis, si racconta crudele e spietato contro i suoi nemici, ma il suo sidekick lo inquadra perfettamente come villain da operetta…

…eppure, il contrasto con Superman ha un lato nondimeno inquietante.

Superman e Lex Luthor in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Riuscendo a trasmettere un messaggio che solo il protagonista può sentire, Luthor riesce a stanare Kal-El, intrappolandolo nella sua abile rete di esche che, una dopo l’altra, illudono il protagonista di poterlo facilmente sconfiggere, per poi trovarsi lui stesso vinto dal suo unico punto debole: la Kryptonite.

Fra l’altro, il piano di Luthor viaggia in un equilibrio piuttosto interessante fra la più classica macchinazione da villain fumettistico e un taglio realistico abbastanza inaspettato – visti i toni della pellicola – la spietata speculazione edilizia.

In realtà Luthor è solo una miccia che scatena dei profondi complessi morali del protagonista, ancora una volta impotente davanti alla morte di una persona amata, in una sequenza anche piuttosto angosciante in cui Lois Lane, di fatto, viene sepolta viva.

Una sofferenza troppo grande per essere sopportata due volte, e che getta le basi per un’evoluzione ulteriore del personaggio che, insieme al secondo villain più volte – Zod – aprì le porte ad un altro, scintillante successo: Superman II (1980).

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Animazione Avventura Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Pixar Racconto di formazione

Elio – La trappola delle aspettative.

Elio (2025) di Domee Shi è un’avventura fantascientifica di produzione Pixar.

Di cosa parla Elio?

Dopo la perdita dei suoi genitori, Elio è disposto a tutto per avere un’altra occasione…davvero a tutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Elio?

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

In generale, sì.

Pur con qualche momento più debole – sopratutto gli snodi narrativi fondamentali, dovuti ad evidenti rimaneggiamenti in corsa – Elio è un film che ha davvero toccato tutti i punti giusti: un racconto non semplice sulla genitorialità e il senso di costante inadeguatezza…

…che riesce ad essere estremamente trasversale nel riuscire a raccontare entrambi i punti di vista: sia quello dello spettatore più giovane, sia quello dell’adulto che l’ha accompagnato alla visione, per un arricchimento comune di cui solo la Pixar è capace.

Fuga

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Fin dalla prima scena, Elio è in fuga.

La primissima scena è particolarmente potente nel raccontare l’angoscia del protagonista: nonostante i diversi e diversificati tentativi della zia di trovargli un’alternativa soddisfacente nel menù – e, per estensione, nella sua vita – Elio rimane fuori scena, nascosto sotto al tavolo.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

L’introduzione del personaggio si chiude con poche battute di circostanza che suggellano la dinamica appena introdotta, per accompagnare Elio nel primo atto della fuga che ne definirà il percorso per tutto il film: la convinzione e speranza che ci sia qualcos’altro oltre alla sua mera esperienza terrestre…

…che deve assolutamente evadere.

In questo senso, Elio e sua zia Olga viaggiano su due visioni del mondo inconciliabili.

Prospettiva

Il paradosso di Elio è nelle prospettive dei personaggi.

Entrambi infatti hanno lo sguardo rivolto nella stessa direzione – lo spazio – ma con due visioni dello stesso totalmente opposte: Olga vede nell’ignoto solamente un cumulo di dati e di detriti da sbrogliare, per un lavoro poco emozionante ed ridotto nei termini militareschi, rigidi e ben poco appassionanti.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Al contrario, Elio vede nelle stelle una possibilità di riscatto, di vivere delle emozioni che sulla Terra, dove si sente profondamente solo ed incompreso, non riesce a ritrovare, richiedendo insistentemente di essere salvato, in un modo – mettersi al centro di un cerchio sulla sabbia con un messaggio piuttosto esplicito – sulle prime può provocare ilarità…

…ma nella realtà è un grido d’aiuto davvero straziante di un bambino incompreso.

Per questo la scelta più semplice per la zia sembra quella di riportare Elio sul suo stesso tracciato, ovvero quello della scuola militare, in realtà nient’altro che l’occasione per ulteriore bullismo ed emarginazione – e infatti basta pochissimo perché Olga ci ripensi, anche se a quel punto è troppo tardi.

E proprio in questa disparità di visioni sta il nodo del problema.

Inutile

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Né Olga né Grigon hanno avuto i figli che desideravano.

Infatti involontariamente Elio e Glordon si ritrovano così bene fra di loro proprio perché condividono il medesimo dramma: avere delle strade tracciata dai genitori che non si sentono pronti a percorrere.

Una sensazione che emerge particolarmente nel assai amaro siparietto in cui Glordon ammette di essere stato definito in tanti modi, elencando una serie di epiteti poco piacevoli – un’emicrania, un errore… – che l’hanno portato ad essere, proprio come Elio, intrappolato in un irrisolvibile senso di inadeguatezza.

E, paradossalmente, entrambe le figure genitoriali sono legate dalla mancanza di un personaggio fondamentale – i veri genitori di Elio e la madre di Glordon – apparendo per questo inadatti nel loro ruolo e quasi prepotenti nel loro agire, quando in realtà sono semplicemente limitati dal loro poco coraggio nell’accettare compromessi.

Una sensazione che ha il suo apice nel confrontarsi di Elio con la sua copia perfetta, che rispecchia i desideri più egoisti della zia nei suoi confronti, come se questo bastasse per renderla appagata, dimenticandosi del vero ed imperfetto nipote.

E invece proprio qui sta la maggiore forza dei due personaggi.

Conoscere

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Olga e Grigon conoscono i loro figli…

…fin troppo.

Nello specifico risulta particolarmente sorprendente la velocità con cui Glordon si rende conto che Grigon non sia quello vero: proprio lui che sembrava così intrappolato in uno schema impossibile evadere, e che invece si libera dello stesso per salvare la vita al figlio, cullandolo in una scena genuinamente straziante.

In altri termini anche Elio e Olga intraprendono la strada della riappacificazione, anche se più complessa – e, anche per questo, inciampando in non pochi snodi narrativi fin troppo veloci e semplificati – con cui riescono a ritrovarsi nonostante le loro diverse visioni del mondo.

Così l’ultima avventura insieme raccoglie sia le nuove conoscenze di Elio, sia l’esperienza di Olga, che porta infine il protagonista a ritornare sui suoi passi – anche qui, forse fin troppo bruscamente e senza dargli abbastanza respiro – nel trovare nell’affetto della zia un’altra occasione per essere felice…

…persino sulla Terra.

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2025 Avventura Comico Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

Lilo & Stitch – La storia che già conoscevi

Lilo & Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp è il remake live action dell’omonimo Classico Disney del 2002.

Di cosa parla Lilo & Stitch?

Lilo è una ragazzina che può contare solo su sua sorella, ma finalmente potrebbe trovare l’amico perfetto per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilo & Stitch?

In generale, no.

Purtroppo, già il Classico aveva qualche problema nello scioglimento della vicenda, ma era altresì molto forte nel suo antefatto e nella parte centrale, sforzandosi di dare una struttura coerente alla narrazione, e riuscendo nel complesso a portare in scena un prodotto ben riuscito.

Al contrario, il suo corrispettivo live action fallisce già solamente nelle sue premesse, ma ancora di più nel costruire disordinatamente una trama che si basa su un pericolosissimo presupposto: lo spettatore conosce già la storia, quindi non ha bisogno che gliela racconti davvero di nuovo.

In altri termini, un piccolo disastro.

Fretta

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

L’antefatto di Lilo & Stitch, per nessun chiaro motivo, è pervaso da una devastante fretta.

L’antefatto del Classico, con cui è impossibile non fare un paragone, era breve ma efficace nel mettere in scena i personaggi e le loro dinamiche, creando anche un piccolo ma efficace climax narrativo che portava Stitch a scappare e il Dr. Jumba ad essere riportato in scena con un nuovo obbiettivo.

Al contrario, il live action recupera solo le parti essenziali dell’attacco e le comprime all’interno di un’introduzione che si basa, come detto, sul pigro presupposto che le vicende raccontate siano già ben note allo spettatore, e quindi non ci sia bisogno di raccontarle effettivamente, ma solo di riassumerle.

In questo modo i personaggi non hanno il minimo tempo di respirare e di posizionarsi in scena, diventano le pallide ombre delle loro ben più iconiche controparti a due dimensioni, e questo non aiuta anche a farci distogliere l’attenzione dal loro drammatico character design, che ricorda il ben noto caso dell’Ugly Sonic.

Ma, riguardo alla coppia Dr. Jumba e Pleakley, si può aprire una parentesi parzialmente positiva. 

Alternativa

Con l’ottima eccezione di Stitch, i personaggi alieni ci accompagnano verso una devastante uncanny valley.

E il film, a suo modo, ne è consapevole.

Sarebbe stato veramente difficile dare personalità e spessore, financo espressività, a personaggi il cui character design funziona così bene nell’animazione tradizionale e assomiglia così tanto ad un incubo lovecraftiano nella versione a tre dimensioni – fra l’altro, per un assurdo ed incomprensibile principio di renderli il più realistici possibile.

Jeff Braff in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Per questo, la maggior parte del loro screentime è nelle vesti umane.

La scelta della coppia di attori in questo senso è stata forse la più azzeccata dell’intera pellicola, in quanto i due – particolarmente Billy Magnussen nei panni di Pleakley – sono riusciti davvero ad abbracciare la fisionomia e i caratteri dei personaggi, e a portare in scena una storia nel complesso abbastanza coerente, per quanto poco memorabile.

Ma il vero problema è l’assenza di Gantu.

Per quanto per certi versi la sua presenza potesse sembrare del tutto accessoria all’interno del Classico originale, al contrario era essenziale per inserire un villain finale veramente temibile e che caricasse di una – a tratti pure eccessiva – drammaticità lo scioglimento della vicenda…

…e, soprattutto, per non intaccare la personalità di Jumba, che doveva rimanere un personaggio grigio, un po’ cattivello ma, nel complesso, positivo: un adorabile pasticcione incapace di gestire la sua creazione, anche nel suo picco finale di totale follia.

Tuttavia, dovendo prendersi sulle spalle la grande mancanza del suddetto villain finale, finisce per diventare inutilmente cattivo, financo genuinamente crudele nei confronti di Lilo, particolarmente nella scena dove la attira in casa sua distruggendo tutti i suoi importanti ricordi.

Ma fosse lui il problema…

Svuotata

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Uno degli elementi che più contraddistingueva Lilo & Stitch da molti altri Classici Disney era l’ambiguità di Lilo.

Per questo nel 2002 le si era lasciato così tanto spazio all’inizio per raccontarla nelle sue manie e nella sua incontenibile aggressività, proprio a tratteggiare una bambina problematica che aveva sofferto moltissimo la perdita dei genitori, e che per questo viveva nell’inconsapevolezza di un mondo tutto suo...

…non riuscendo a trovare il suo posto, né nel complesso di danza, né altrove.

Stitch e Lilo in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E per questo era altrettanto importante che si confrontasse con un personaggio così caotico come Stitch, e che entrambi riuscissero a superare la loro inconsapevolezza nei confronti del mondo – potremmo quasi dire egoismo – riuscendo invece ad abbracciare una fondamentale scala di valori.

Per questo la banalizzazione del live action fa ancora più male.

Stitch, Lilo e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Non sapendo tratteggiare Lilo se non all’ombra della sua controparte del 2002, il film le toglie ogni profondità e la rende semplicemente un personaggio cattivo che non si rende conto di esserlo, dovendo tra l’altro dirlo esplicitamente, vivendo sempre nella grande paura delle produzioni odierne che il pubblico non riesca a seguire neanche la più semplice delle storie.

Così la giovane protagonista diventa progressivamente un personaggio ancillare rispetto a Nani, andando a togliere ogni tipo di valore all’atto centrale, che era fondamentale per definire come l’inconsapevolezza di Lilo distruggesse ogni possibilità della sua famiglia di esistere…

Lilo & Stitch live action

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

…tramite una serie di gag che rappresentano la sezione più iconica del Classico di partenza e che vengono indegnamente banalizzate in una serie di siparietti oltre che ripetitivi, inutilmente definiti dalla più blanda comicità slapstick e a misura di bambino.

Una dinamica che purtroppo si riflette anche negativamente su Stich, sostanzialmente privato del suo fondamentale – quanto imperfetto – arco evolutivo, diventando semplicemente e banalmente caotico e con un cambiamento per nulla costruito nel finale.

Ma non manca anche il frangente squisitamente politico…

Vincente

Nani deve essere una vincente.

Una purtroppo grave piaga delle produzioni mainstream degli ultimi anni è la necessità di parlare al pubblico femminile, risultando al contempo del tutto incapaci di farlo, rendendo spesso le protagoniste obbligatoriamente aderenti ad un modello standard di successo che consentirebbe loro il riscatto…

…andandole invece unicamente a rinchiudere in un nuovo stereotipo.

Così Nani non può intraprendere una maturazione legata alla cura di Lilo e alla creazione di una famiglia sana, ma deve obbligatoriamente essere un genio della biologia che si deve trattenere dal realizzare il proprio destino per via della famiglia che le è stata imposta.

Stitch e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E la risoluzione del problema, pur non così soddisfacente nella pellicola originale, è così palesemente programmatica all’interno del live action, al punto che gli altri personaggi – Lilo per prima – finiscono per orbitare intorno alla figura di Nani e alla sua realizzazione, non servendo per molti versi a nient’altro.

Di conseguenza, il sogno di Ohana che ci ha accompagnato per decenni viene totalmente banalizzato nella sua importanza di raccontare una famiglia diversa, ma che comunque può trovare la sua felicità e compattezza, con l’ennesima major che vuole dimostrarsi dalla parte delle donne…

…ma negando loro, di fatto, qualsiasi tipo di complessità.

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Black Mirror 7 – Un passo indietro, un passo avanti

Black Mirror 7 (2023) è la settima stagione di una delle serie più iconiche della piattaforma, arrivata a soli due anni dalla precedente con sei nuovi episodi.

Ecco il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 7?

In generale, sì.

Per quanto abbia anche molto apprezzato Black Mirror 7, non mi voglio sbilanciare nel consigliarvela per un semplice motivo: il miglioramento rispetto al disastro delle scorse stagioni è innegabile, ma, al contempo, se cercate un Black Mirror prima maniera, ne rimarrete delusi.

Infatti questa nuova stagione riesce a bilanciare la visione più positiva che il suo creatore ha abbracciato negli ultimi anni con una riflessione più contemporanea sui nuovi problemi non tanto del futuro, ma del nostro immediato presente.

Insomma, dategli una possibilità.

Common People

E se i servizi sanitari fossero delle piattaforme streaming?

Una tendenza che stiano vedendo sempre di più negli ultimi anni è l’involuzione dei canali streaming – e non solo: i servizi in abbonamento costano sempre di più, ma sono abbastanza astuti da introdurre i malus gradualmente, e facendoci credere che siano cambiamenti di poco conto.

E le vere vittime sono le persone comuni: i due protagonisti sono ottimamente introdotti come due individui che vivono una vita semplice ma soddisfacente, che rischia di essere spezzata da un tumore maligno, provvidenzialmente sventato da una nuova miracolosa tecnologia.

Ma il primo scricchiolio si nota proprio nel modo di pagare: non in un’unica soluzione, ma bensì diventando dei clienti paganti nel tempo, dipendenti da un servizio che già solo così richiede un sforzo estenuante per essere sostenuto, portando ad un anno di continui sacrifici solo per poter sopravvivere.

Ma non basta.

Common People instrada un climax involutivo di pagamento sempre più esorbitante, e non per un lusso di cui si potrebbe anche fare a meno, ma bensì per vivere una vita dignitosa, per evitare invece un’esistenza non da consumatori di un servizio, ma consumati dallo stesso.

Ed è particolarmente indovinata l’introduzione della sleep mode e delle pubblicità non invasive, ovvero i metodi con cui le piattaforme streaming riescono effettivamente a guadagnare: speculando sia su chi si accontenta della fascia bassa dell’abbonamento, sia su chi infine è costretto a sborsare più di quanto possa permettersi.

E, a quel punto, meglio morti che consumati.

Bête noir

Quanto sarebbe fastidioso non avere mai ragione?

La seconda puntata è un thriller di piccole cose, di dettagli mostrati e poi puntualmente smentiti, portandoci effettivamente a stare dalla parte della protagonista, eppure ad avere noi stessi dei dubbi sull’effettiva credibilità delle sue parole, soprattutto perché è la soluzione non è così ovvia.

In questo senso molto indovinata la scelta di tratteggiare la protagonista come una figura che ama essere al centro dell’attenzione, avere sempre la ragione dalla sua parte, finendo fin troppo facilmente ad essere esasperata da una situazione di tutti contro di lei.

Una dinamica che ci porta ad un futuro non troppo lontano – se non proprio il nostro presente – in cui diventa sempre più facile manipolare immagini ed informazioni per screditare qualcuno, con utilizzo di AI e deepface sempre più credibili e ingannevoli, in una sorta di bullismo 3.0.

La soluzione al mistero di per sé è forse più fantasy che fantascientifica, ma riesce nel complesso a funzionare anche nel suo scioglimento, che conferma la sostanziale ambiguità del personaggio della protagonista, che, ottenendo lo stesso potere di Verity, ne segue anche le medesime orme.

Hotel Reverie

La terza puntata è un Her (2015) in piccolo.

Mentre mi aspettavo che l’episodio volesse vertere sulle prospettive non proprio allettanti dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale come sostituto degli effettivi attori, in realtà Hotel Reverie ci accompagna verso un concetto ben più profondo: quanto possiamo rendere le macchine simili a noi.

Nonostante venga esplicitamente spiegato che le intelligenze della simulazione non abbiano coscienza di quello che stia realmente succedendo, le stesse custodiscono un potenziale inesplorato, che le può portare ad agire al di fuori del pattern prestabilito, anche in modi imprevedibili.

Così Dorothy vive dei frammenti di una coscienza passata, derivanti dai pochi dati inseriti nel sistema, ma che, con i giusti input, è infine capace di prendere coscienza del sé e di vivere una seppur breve parentesi felice con Brandy, e, persino quando viene resettata, non perde la sua agency che la porta fuori dal seminato.

Una riflessione forse non particolarmente originale, ma certamente ben tratteggiata in un racconto appassionato e per molti versi struggente, che ci apre le porte ad un futuro forse non troppo lontano in cui potremmo innamorarci delle nostre stesse creazioni.

Plaything

La creazione può superare il creatore?

Questa è la domanda al centro della quarta puntata, forse la più Black Mirror di tutte: una creatura tutta digitale, mascherata dietro un’apparenza giocosa e rassicurante, comincia a sviluppare una coscienza propria, con delle vedute ben più ampie rispetto alla limitatezza della mente umana.

Per questo fin da subito la definizione di gioco le sta stretta, nonostante venga costantemente raccontata nell’ottica dell’umano medio: un semplice giochino gestionale, senza un vero obbiettivo o una vera strategia, solo un allevamento intensivo di una hive mind che in realtà ha molto da dire, e che si nutre delle creazioni umane per sviluppare la sua intelligenza.

E i personaggi in scena sono perfettamente divisi in due gruppi.

Da una parte Lump e l’aspro detective che torchia il protagonista per fargli sputare il nome della vittima, incapaci entrambi di comprendere l’importanza dei Thronglets, riducendoli all’interno di uno schema semplice quanto superficiale, di realtà insignificanti e da sottomettere.

Al contrario, la detective è capace di cogliere l’importanza del racconto di Cameron e di non limitarlo all’interno di concezioni già conosciute, ma forse fin troppo aperta a lasciare campo libero al protagonista per mettere in atto il suo piano perfettamente calcolato per diffondere il parassita all’interno delle menti umane.

Ed è tanto più interessante chiudere l’episodio con quel cliffhanger così ben costruito, con quella mano che si rivolge, più che verso il detective, proprio verso di noi, chiedendoci se siamo effettivamente pronti ad accogliere gli ignoti benefici dei Thronglets, senza sapere se saranno di dominio o di salvezza…

Eulogy

Il penultimo episodio della stagione abbraccia un concetto che forse non mi sarei aspettata da Black Mirror.

Come la tecnologia può migliorarci.

Phillip si trova inizialmente davanti alla scocciatura di dover contribuire al ricordo di quella che sembra solo una sua vecchia conoscente che non vede da tanto tempo, ma che nel tempo si rivela come il grande amore perso della sua vita, per cui per anni ha creato la narrazione del disastro perfetto.

Un’idea che non ha fatto altro che auto-alimentarsi, rivelando come l’uomo sia totalmente concentrato su sé stesso e sulla sua esperienza, come abbia distorto talmente la realtà da forzare l’uscita di scena della sua controparte, non volendone sentire le ragioni.

Eppure questa sua ottusità si lascia alle spalle molti dettagli fondamentali, nondimeno l’ultimo brandello, l’ultima possibilità che la vita gli aveva offerto, ma che era stato incapace di cogliere, vivendo una vita di amarezza e di solitudine, che ha il suo ultimo, fondamentale, riscatto finale. 

USS Callister: Infinity

L’ultima puntata è purtroppo quella anche più debole.

Come Charlie Brooker era riuscito tutto sommato a rivedere le sue posizioni e rielaborare il suo ritrovato ottimismo in una riflessione complessivamente interessante nelle puntate precedenti, in questo caso sembra incastrarsi all’interno di un sequel creato a tavolino e di pochissima sostanza.

Il precedente USS Callister era una favola nera a lieto fine, in cui l’orco era sconfitto e gli eroi si aprivano a nuove fantastiche avventure…

…prima che tutto venga riscritto in negativo, creando degli ostacoli non necessari lungo il percorso, a cominciare dal totale ribaltamento del finale, con uno scenario in cui i personaggi sono intrappolati in un universo ostile, e braccati da un nuovo villain molto meno incisivo del precedente.

In questo senso piuttosto blando anche riportare in scena Robert, provando a rimetterlo in discussione in maniera del tutto gratuita – e con un finale assolutamente non necessario – per arrivare ad uno scioglimento che sembra fare il verso ad Inside out (2015), ricordandomi episodi ben più spiacevoli della precedente stagione…

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David Cronenberg Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film L'ultimo orrore di Cronenberg Mistero

The Shrouds – Dialogo morto

The Shrouds (2024) di David Cronenberg è un dramma fantascientifico incentrato sul tema dell’elaborazione del lutto.

Di cosa parla The Shrouds?

Karsh affronta la morte della moglie in maniera piuttosto particolare: continuando ad osservare il contenuto della sua tomba. Ma non tutti sono d’accordo con questa tecnologia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Shrouds?

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

In generale, no.

Purtroppo con The Shrouds Cronenberg si perde totalmente in uno spunto che poteva anche essere interessante – quanto tipico della sua produzione – ma che è fatto a pezzi da una trama confusionaria, una trattazione tematica pasticciata, e un didascalismo sconcertante.

A questo si aggiunge un racconto di non poche tematiche con ben poca lucidità, ai limiti dell’imbarazzante…

Spunto

L’incipit di The Shrouds poteva a suo modo essere interessante.

Karsh vive nel sogno – o incubo – della moglie morta, e progetta uno speciale sistema per poter essere con lei anche nell’oltretomba, circondandosi di fotografie che ne raccontino il lugubre presente, ma anche la sicurezza della sua condizione, piuttosto che uno sfumato passato.

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Così la figura di Becca è onnipresente, sia nella tomba digitale – che allontana possibili nuove partner – sia nella realtà fittizia, ora del sogno – in cui la moglie è costantemente fatta a pezzi – ora della sua assistente virtuale, che ne mantiene le fattezze.

Altrettanto interessante poteva potenzialmente essere l’atto di vandalismo ai danni del cimitero, che ci portava sulla strada di un giallo fantascientifico, proprio grazie alla presenza delle misteriose protuberanze sullo scheletro di Becca…

…e invece, nessuna strada è veramente percorsa.

Scioglimento

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

È onestamente difficile seguire la via tracciata da Cronenberg in The Shrouds.

Non perché si tratti di un racconto enigmatico ed inafferrabile come l Videodrome (1983), ma bensì perché il regista sembra prima voler rendere il mistero centrale alla vicenda, per poi spingerlo ai margini della scena, intrappolandolo in uno scioglimento piuttosto confuso ed estremamente didascalico.

Infatti, non vi è alcuna costruzione del mistero e della tensione, ma la soluzione viene semplicemente espressa tramite i dialoghi dei personaggi, ma senza che vi sia un retroterra narrativo significativo, ma piuttosto perché gli stessi o sentono improvvisamente di volersi confessare…

…oppure perché arrivano alle soluzioni senza doverci davvero pensare.

E così bastano pochi passi falsi per fare perdere ogni tipo di interesse verso la storia, rendendo lo scioglimento della vicenda un calderone dove buttare molti concetti senza comprenderne veramente nessuno, pescando vari temi di stretta attualità, nemici vecchi e nuovi – i cinesi quanto i russi – finendo per perdersi in un ingestibile caos.

E non è neanche la parte più problematica della pellicola.

Attualità

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

E piuttosto comune per il genere fantascientifico collegarsi ad argomenti di attualità. 

Ma non è un obbligo.

Durante la sua produzione cinematografica Cronenberg non ha mai voluto avere un collegamento così stringente con la sua contemporaneità, spesso spaziando invece in possibili futuri grotteschi o in revisioni del presente più sui toni dell’onirico o persino del fantastico.

Per The Shrouds Cronenberg ambienta la vicenda in un futuro non troppo lontano, inserendo alcuni concetti di strettissima attualità – macchine che si guidano sole, Intelligenza Artificiale – ma senza riuscire ad indovinarne in realtà nessuna, ma anzi spesso perdendosi nelle stesse. 

Vincent Cassel e Sandrine Holt in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Particolarmente strana è la questione dell’Intelligenza Artificiale, che sulla carta sembra voler denunciare il nostro ingenuo abbandono ad una tecnologia che non è altro che un burattino, una facciata per metterci a nudo e manipolare le nostra vite…

…ma in conclusione non si comprende chiaramente in quale direzione voglia andare, dimostrando effettivamente la tesi di cui sopra, ma senza che sia chiaro quale sia il motivo – o effettivamente il modo, dal momento che le paure di Karsh si erano concretizzate con quell’aspetto solo in sogno.

E, allora, di cosa vuole parlare The Shrouds?

Focus

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Se mettiamo da parte la questione fantascientifica e morale, cosa rimane a The Shrouds?

Forse, quello di cui veramente voleva parlare.

Osservando l’andamento della vicenda e l’importanza che viene data ai personaggi, Cronenberg sembra in realtà voler parlare dell’elaborazione del lutto, particolarmente della difficoltà del protagonista di allontanarsi fisicamente dalla figura della moglie defunta…

…ma volendo al contempo farla a pezzi, quasi sezionarla, e infine punirla per essersi in parte concessa ad un altro uomo – un importante convitato di pietra che entra in scena solamente da morto – per una punizione che è solo un modo per liberarsi dalla sua presenza.

Tuttavia, l’aver arricchito una narrazione con così tanto potenziale di elementi che non sono riusciti ad incastrarsi fra di loro, l’averla conclusa sempre tramite la bocca del protagonista e senza un minimo di pathos effettivo, ha per me privato l’opera di tutto il suo potenziale interesse.

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Bong Joon-ho Drammatico Fantascienza Film Racconto di formazione

Okja – La cattiva favola

Okja (2017) di Bong Joon-ho è un dramma fantascientifico e il suo secondo film in lingua inglese.

È stato distribuito direttamente su Netflix.

Di cosa parla Okja?

USA, 2007. Lucy Mirando è la nuova CEO della problematica azienda di famiglia, e cerca di rilanciarsi con un progetto curioso quanto intraprendente: allevare una nuova specie di super maiali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Okja?

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, sì.

Per quanto Okja non possa essere certamente considerato uno dei film più brillanti della filmografia di Bong Joon-ho, risulta al contempo una buona favola ambientalista con poche sbavature, e che mi ha lasciato complessivamente un buon sapore in bocca.

Infatti, per quanto il taglio non sia certamente graffiante come in altre pellicole del regista sudcoreano, al contempo riesce ad essere una pellicola con i piedi per terra, che non vuole accontentare lo spettatore, ma bensì educarlo.

Insomma, dategli una possibilità.

Introduzione

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La qualità della scrittura di Okja si nota fin dall’introduzione dei protagonisti.

Dopo un rapido prologo dedicato al progetto Mirando, il film ci catapulta nel presente per farci conoscere da vicino i protagonisti della storia, definendone i caratteri con pochi tratti essenziali e con una assoluta naturalezza di scrittura – in altre parole, senza scadere nel facile didascalismo.

Infatti, anche se i protagonisti non si scambiano che poche parole, comprendiamo immediatamente il loro stretto rapporto, definito dal crescere insieme e dal supportarsi l’un l’altra, in particolare sottolineando come Okja non sia una bestia da soma, ma anzi un animale piuttosto ingegnoso.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Il quadro si conclude col breve dialogo con il nonno di Mija, che racconta la fin troppo ingenua illusione della protagonista di poter continuare a vivere con Okja sulle montagne senza le interferenze di Mirando – scenario che noi spettatori intendiamo fin da subito come impossibile.

E, infatti, la multinazionale sta già bussando alla porta.

Apparenze

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La strategia di Mirando è tutta apparenza.

Lo dimostra anzitutto l’arrivo del Dr. Wilcox, la cui insofferenza per dei luoghi effettivamente naturali e selvaggi racconta come non sia nient’altro che un becero prodotto televisivo – con, fra l’altro, un Jake Gyllenhaal in uno dei ruoli probabilmente più divertenti della sua carriera.

Altrettanto di facciata è tutta l’operazione dei supermaiali, solo apparentemente una nuova razza scoperta e allevata in maniera certosina per premiare il più meritevole, in realtà semplicemente un’ambiziosa strategia di marketing per vendere un prodotto OGM.

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, Okja riesce a raccontare anche in maniera piuttosto vincente i metodi estremamente ingannevoli con cui da anni le multinazionali cercando di ripulirsi l’immagine per rendersi più vendibili ad un pubblico almeno sulla carta più consapevole riguardo alle questioni ambientali…

…ma con una costruzione talmente artefatta che basta veramente poco perché – come si vede appunto nel film – la stessa crolli su se stessa, vivendo di una costante strumentalizzazione di simboli e personaggi che vengono sistematicamente svuotati del loro significato originario.

Ma l’altra parte è davvero migliore?

Costo

Paul Dano in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Un grande merito di Okja è il non dare una divisione netta delle due parti.

Se infatti Lucy Mirando non è una spietata calcolatrice, ma una figlia sana del capitalismo, al contempo le figure del gruppo FLA non appaiono come dei salvatori senza macchia, ma anzi vengono ritratti nella loro più interessante scala di grigi.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Infatti, per quanto si propongano come gli eroi della storia, in realtà finiscono anche loro per strumentalizzare Okja per dimostrare la loro tesi – come si rendono ben conto davanti alla visione raccapricciante della fecondazione forzata che il super maiale deve subire anche per colpa loro.

E, soprattutto nella conclusione della pellicola, diventa tanto più fondamentale definire i limiti di entrambe le parti in gioco, proprio a rappresentare una situazione spinosa e dalla non facile soluzione, per un film che non vuole illudere lo spettatore, ma dargli anzi uno spaccato realistico del suo presente.

Infatti, l’unica che vince è proprio Mija.

Consapevolezza

La maturazione di Mija è forse il lato più amaro della pellicola.

La protagonista viene infatti catapultata all’interno di uno scenario che non contempla una parte assolutamente positiva che si contrappone ad uno schieramento assolutamente negativo, ma bensì un sistema profondamente corrotto e la cui salvezza è ancora lontana.

Una situazione tanto più angosciante all’arrivo al mattatoio, sequenza che cerca il più possibile di rimanere coi piedi per terra per un racconto che poteva essere facilmente dato in pasto al pubblico, ma che invece nel suo realismo è già abbastanza impattante.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Ed è tanto più interessante che la pellicola, diversamente da altri prodotti analoghi, non si concluda positivamente, ma anzi diventi sempre più amara nel rappresentare come, nonostante la situazione inumana degli allevamenti sia sotto agli occhi di tutti, un prodotto conveniente riuscirà sempre a vincere sul mercato.

Per questo la grande consapevolezza di Mija nel finale è che, almeno per ora, non può battere il sistema, e se vuole ottenere quello che vuole – la salvezza di Okja – può solo ragionarci con le sue stesse armi: diventare la prima acquirente del tanto desiderabile super maiale.

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Avventura Bong Joon-ho Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

The Host – La responsabilità mostruosa

The Host (2006) di Bong Joon-ho è un film di fantascienza che anticipò molti temi importanti della nostra contemporaneità.

A fronte di un budget molto piccolo – circa 11 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale, con quasi 90 milioni di incasso.

Di cosa parla The Host?

In un laboratorio di Seul, una coppia di scienziati sceglie di versare nel fiume una sostanza tossica, perché tanto che vuoi che succeda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Host?

Assolutamente sì.

Come altri titoli della filmografia di Bong Joon-ho, The Host vuole raccontare molto più di quello che sembra: pur seguendo – e, spesso, smentendo – i canoni classici del genere, il cineasta coreano amplia la narrazione in più direzioni, a suo modo anche molto avanguardistiche.

Infatti, davanti ad una trama tutto sommato molto lineare, si sviluppa una narrazione sotterranea che in realtà, se si coglie la giusta linea interpretativa, è altrettanto intuitiva, e che riflette lucidamente su un tema fondamentale del nostro secolo.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Colpa

La colpa è nostra.

L’antefatto della vicenda sembra la classica introduzione di un monster movie in cui un gruppo di personaggi diventa inconsapevolmente la causa della creazione della minaccia protagonista, in questo caso versando liquidi tossici nel fiume senza la minima consapevolezza delle conseguenze.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Ma c’è molto di più.

Abbracciando la lettura per cui The Host è in realtà uno spaccato dell’inconsapevolezza umana davanti al disastro ambientale a cui sta sottoponendo il proprio pianeta, l’incipit della vicenda racconta come l’umanità inquini il suo habitat nella plateale illusione di non doverne mai subire le conseguenze.

Ma, appunto, è solo l’inizio.

Dormiente

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

L’introduzione di Park Gang-du ha due funzioni.

Dal punto di vista puramente narrativo, la stessa è l’esempio principe di come tratteggiare un personaggio utilizzando unicamente il linguaggio visivo: il protagonista è inerte, un danno e un peso per la sua famiglia – dai cui la testa pesante che deve essere sollevata per prelevare il denaro per gestire il negozio…

…insomma, non è l’eroe di cui avremmo bisogno.

Ma c’è di più.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Park Gang-du prosegue puntualmente il racconto dell’inconsapevolezza umana, ora unendosi alla tragica quanto emblematica folla che alimenta stupidamente il mostro appena questo si palesa dall’acqua, inquinando deliberatamente un habitat già pesantemente aggredito dalla sua presenza…

…ora quando non riesce a salvare la figlia, e, per esteso, quando non riesce a preservare, a condurre la sua stessa specie verso il futuro, diventando costantemente vittima della sua incapacità di gestire la situazione, conducendo in salvo la persona sbagliata.

Eppure, non è solo.

Mostrare

La più grande sfida al genere di The Host è la gestione del mostro.

Tipicamente lo stesso viene progressivamente rivelato lungo la pellicola, proprio per alimentare la curiosità dello spettatore che lo scopre pezzo per pezzo, dettaglio per dettaglio – come film fondativi del genere, fra cui The Thing (1982), insegnano.

Al contrario, Bong Joon-ho sceglie di mostrare la creatura fin da subito, proprio a raccontare come si tratti di un problema estremamente evidente davanti agli occhi di un’umanità inconsapevole che cerca di contrastarla disordinatamente e in maniera sempre più inefficace.

Ma la nostra attenzione è altrove.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Il litigio della famiglia riunita davanti alla morte della piccola Hyun-seo racconta, da una parte, come egoisticamente ci azzuffiamo fra di noi per pure egoismo e ripicca, senza riuscire ad avere uno sguardo d’insieme che ci permetta di affrontare la minaccia.

Dall’altra, la reazione sciacallica dei giornalisti racconta come la collettività dia importanza all’aspetto più sbagliato, più frivolo della vicenda, o, meglio, alle sue lacrimose conseguenze, incapace però di riflettere sulla radice del problema.

Ma, di fatto, qual è il problema?

Problema

La via per la risoluzione è totalmente ingannevole.

La scelta infatti di ridurre la minaccia ad un unico elemento – il virus – racconta proprio come l’umanità cerchi di concentrare la sua attenzione su un unico problema che, una volta eliminato, risolverebbe la totalità della situazione con il minimo sforzo. 

E invece, la consapevolezza che questo virus non esiste è significativa per raccontare come si tratti di un problema fantasma, uno specchietto per le allodole che banalizza terribilmente la complessità della crisi climatica e ambientale che stiamo vivendo.

Per questo l’unico modo per affrontarlo è facendo fronte comune.

Scelta

La famiglia Park è distrutta internamente.

Il nucleo familiare è raccontato fin da subito come fragilmente tenuto insieme dalla figura del patriarca, rappresentativo della vecchia generazione che racconta la consapevolezza delle sue colpe nei confronti dei figli – aver fatto crescere debolmente Gang-du…

…e, al contempo, del rispetto delle autorità che costantemente le si mettono contro.

E infatti la sua morte è causa della definitiva dispersione dei personaggi, i cui sforzi singoli e maldestri raccontano un’umanità che agisce individualmente con timidi e poco pensati passi nella giusta direzione, che diventano effettivamente risolutivi quando si uniscono le forze.

Ma la conclusione non è del tutto felice.

Song Kang-ho in una scena di The Host (2006) di Bong Joon-ho

Nonostante gli ampi sforzi di tutti i personaggi, gli stessi non riescono a salvare la nuova generazione – Hyun-seo – ma un altro, apparentemente secondario personaggio, risultato di un’eredità mutilata: il giovanissimo amico della figlia defunta.

Infatti la chiusura della pellicola è rappresentativa della via felice della collettività, che smette di concentrarsi sulle conseguenze delle sue colpe – il chiassoso notiziario – ma di coltivare invece una generazione orfana e profondamente scossa internamente…

…ma che, tutto sommato, può essere ancora salvata.

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2025 Animazione Avventura Comico Commedia Fantascienza Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl – I dettagli fanno la differenza

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham, tradotto impropriamente in italiano con Le piume della vendetta, è l’ultimo capitolo della fortunata saga omonima in stop-motion.

Il film è stato distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Candidature Oscar 2025 per Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace e Gromit vivono una quotidianità normale, facendosi largo fra le invenzioni sempre più strambe del primo. Ma forse una sta per sfuggirgli di mano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Assolutamente sì.

Avevo un ricordo abbastanza fumoso dei prodotti precedenti del duo, ma ricordavo comunque il mio apprezzamento verso i film della saga.

E non sono rimasta delusa.

Vengeance Most Fowl è uno di quei titoli che poteva tranquillamente essere estremamente banale ed infantile, ma che riesce invece a colpire per una particolare attenzione su pochi aspetti essenziali che la rendono un ritorno sullo schermo particolarmente indovinato.

Dipendenza

Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Wallace è dipendente dalle sue invenzioni.

Il quadretto familiare che si compone nel primo atto è il punto di partenza fondamentale della pellicola: il geniale inventore è totalmente dipendente dalla tecnologia, non riuscendo ad essere autonomo neanche nelle attività più semplici – vestirsi e persino addentare un toast a colazione.

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Ma un particolare fondamentale in tutta questa situazione – che risulta essenziale nello sviluppo della storia – è il ruolo di Groomit: le invenzioni del suo padrone non possono agire autonomamente, ma hanno bisogno dell’imprescindibile contributo del fedele compagno.

Di fatto, Wallace non vuole mai lasciare il suo amico da solo.

Anche a costo di essere fin troppo invadente.

Standard

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Il vero problema del Norbot è la spersonalizzazione.

Il proattivo robot da giardino sembra voler scalzare ingenuamente il personaggio di Groomit, riuscendo a copiarne le azioni in maniera decisamente migliore e, soprattutto, ben più rapidamente, seguendo dei precisi standard che rendono ogni sua creazione priva di personalità.

In questo senso è indicativa l’aggressiva invasione degli spazi personali di Groomit, che, a differenza del compagno, ha piacere nel potersi impegnare nel giardino e cosi a renderlo qualcosa di suo, e non un perfetto cortile uguale a tutti gli altri – come infine il Norbot lo rende.

Ma non c’è nessuna malizia nelle azioni di Wallace.

L’ingenuo inventore vuole onestamente migliorare la vita del suo compagno, sicuro che anzi ogni persona al mondo desideri godere dei medesimi, perfetti standard, gli stessi giardini tutti i uguali fra loro – capaci anche di risolvere le scarsità economiche della famiglia.

E per questo è arrivato il momento di parlare Feathers McGraw.

Anomalo

Feathers McGraw in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Feathers McGraw è uno degli elementi che rendono Vengeance Most Fowl così speciale.

Il villain della pellicola prende le mosse dalle classifiche figure del genere: un macchinatore dell’ombra, una mente criminale in cauta attesa della propria occasione per riuscire nuovamente a brillare – e a vendicarsi dell’ignobile cattura.

Ma il suo aspetto è la chiave della deliziosa ironia che lo rende così speciale.

Il volto del malefico pinguino è totalmente inespressivo, proprio perché manca degli elementi fondamentali per poterlo essere: occhi vitrei, nient’altro due punti neri sopra ad un becco abbozzato su cui non è possibile che appaia alcuna smorfia.

E questa sua inespressività si va a scontrare in maniera veramente geniale con il suo subdolo piano, che colpisce proprio al cuore dei suoi nemici, facendo leva sull’ingenuità di Groomit, permettendogli di deviare la personalità del Norbot senza che lo stesso se ne renda conto.

E da qui si sviluppa il punto di arrivo della riflessione della pellicola.

Personalità

i Norbot cattivi in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Le creazioni sono specchio del loro creatore.

Non è un caso che i Norbot Malefici non siano apertamente cattivi: come ci si poteva aspettare un caos irrefrenabile alla Gremlins, al contrario, proprio come Feathers McGraw, la loro cattiveria si basa sullo sfruttare quello che l’ambiente gli concede, riuscendo a tramare nell’ombra…

…senza essere scoperto fino all’ultimo momento.

E, secondo lo stesso concetto, il Norbot nella sua forma originale vuole semplicemente e ingenuamente aiutare chiunque, anche a costo di risultare invadente e fuori luogo -proprio come il suo stesso creatore, Wallace, è nei confronti di Groomit.

Una riflessione apparentemente banale e già vista, ma che in realtà ben si inserisce all’interno di una consapevolezza piuttosto contemporanea di come le nuove tecnologie – particolarmente, l’intelligenza artificiale – non sappiano creare veramente niente da zero, ma definiscano il loro agire in base agli input che gli diamo.

Per questo il Norbot può essere il compagno fondamentale nella vita del duo protagonista, riuscendo infine – al pari di Wallace – ad apprezzare l’insostituibile individualità di Groomit, e agendo intorno alla stessa senza volerla scalzare.

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Avventura Fantascienza Fantastico Film Grottesco Horror Joe Dante Satira Sociale Surreale

Gremlins 2 – Il punto di non ritorno

Gremlins 2 (1990) di Joe Dante, noto anche come Gremlins 2 – La nuova stirpe, è il sequel dell’omonimo cult degli Anni Ottanta.

A fronte di un budget piuttosto ambizioso – 50 milioni di dollari – fu un disastro commerciale, non riuscendo né a coprire i costi di produzione, né ad avvicinarsi all’incasso del primo.

Di cosa parla Gremlins 2?

Pochi anni dopo il primo film, Billy lavora per un’intraprendente multinazionale che, per vie traverse, viene in possesso di Gizmo. E la minaccia dei Gremlins è ancora più pressante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins 2?

Assolutamente sì.

Per quanto mi renda conto che questo secondo capitolo possa non essere nelle corde di tutti, al contempo è secondo me una visione irrinunciabile per godere di un Joe Dante in forma smagliante, che gioca con la sua creatura in maniera sempre più fantasiosa e improbabile.

Insomma, Gremlins 2 è stato, nel bene e nel male, un apripista per il più classico sequel Anni Novanta, che prende gli elementi del primo film e li esaspera all’inverosimile, in questo caso risultando però, nella sua follia, incredibilmente brillante.

Spaccato

Come per il primo film, anche in Gremlins 2 è presente l’elemento politico.

Di fatto la cornice della storia principale – ricordiamolo, dal taglio fantascientifico, quasi fantastico – è crudelmente reale, quasi satirica, ed inquadra perfettamente la grande corsa al capitale degli Stati Uniti degli Anni Ottanta e Novanta…

…in cui ogni dipendente, ogni ingranaggio deve sottostare precisamente allo schema aziendale, in cui ogni tipo di individualismo è immediatamente soppresso, ogni tentativo, anche il più innocuo, di non seguire il regolamento, è severamente punito.

E questo grottesco quadretto è chiuso proprio l’annuncio che segue il licenziamento del dipendente ribelle:

We have a career opportunity on level seven!

Opportunità di carriera al piano sette!

Casualità

Il film sa di dover ricreare il dramma del primo…

…ma deve essere quantomeno credibile.

In questo senso funziona bene la sequenza di eventi che conduce al rincontro fra Gizmo e Billy, e il motivo per cui il protagonista non può immediatamente portarlo con sé, mentre meno convincente è il modo in cui il mogwai finisce per bagnarsi.

Fra l’altro è piuttosto curioso come Gizmo venga relegato per gran parte del tempo fuori scena, limitato nel suo simpatico arco evolutivo sulle orme del suo eroe cinematografico – Rambo – venendo quasi subito messo ai margini dagli altri Gremlins e quasi dimenticato da Billy.

Infatti il vero protagonista della scena è la diversità.

Diversi

Joe Dante con Gremlins 2 vuole stupire lo spettatore – e sé stesso.

Per questo crea terreno fertile per sperimentazioni sempre più incredibili – il laboratorio – dove i suoi personaggi non sono semplicemente delle simpatiche varianti di Gizmo, ma bensì degli esperimenti mal riusciti via via sempre più assurdi.

Così vediamo il Gremlins a cui cresce la verdura addosso, quello che diventa un ragno, un femme fatale, un conduttore radiofonico, un pipistrello e via dicendo, tutti accomunati da una totale imprevedibilità e malvagità innata.

E, proprio perché in questo frangente il regista non ha più bisogno di far credere allo spettatore che i Gremlins nati da Gizmo siano uguali a lui, li distingue fin da subito con dei ghigni distorti e caratteristici al limite del grottesco.

Ed è proprio qui il punto di non ritorno.

Fine?

Gremlins 3 non può esistere.

Al di là dell’insuccesso economico che ha chiuso le porte ad un possibile continuo, Joe Dante è arrivato con Gremlins 2 a toccare degli apici creativi che lo pongono in una posizione di precario equilibrio fra il genio e il trash…

…e, con un terzo film, probabilmente sarebbe crollato in un insostenibile camp.

Perché, obbiettivamente, come si potrebbe superare in eleganza la scena metanarrativa in cui i Gremlins prendono possesso della pellicola bucando lo schermo, per poi essere rimessi al loro posto da niente poco di meno che Hulk Hogan…

…oltre alle diverse prese in giro che Joe Dante fa a sé stesso e al precedente film, accolto da entusiasmo ma anche feroci critiche da parte di genitori totalmente sconvolti dalla tremenda violenza in un film popolare anche fra i più piccoli?

Forse, per una volta, il flop commerciale è stato una fortuna…

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Dune – Addio, Hollywood!

Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.

E il box office gli diede ragione: a fronte di un budget piuttosto ambizioso – 45 milioni di dollari, ben più alto anche solo di Il ritorno dello Jedi (1983) – non arrivò a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Dune?

Anno 10,191. Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, inaspettatamente incaricata di fare da ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…

O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.

Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.

Dune è frutto di una produzione davvero scellerata, che ha preso un’opera nota per la sua complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.

Ne consegue che i personaggi non hanno mai lo spazio per svilupparsi e per raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo, spesso crollando nella totale ridicolaggine.

E Lynch ne è la più grande vittima.

In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.

Bollettino

La principessa Irulan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…

…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti – alcuni, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – che qui sono raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.

La Madre Superiora e l'Imperatore  in una scena di Dune (1984) di David Lynch

E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma – che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale – ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili per avere un’infarinatura della storia.

Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e ad Arrakis – e così anche da quello dello stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.

Ma i problemi sono solo iniziati.

Mistero

Il Barone Harkonnen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

In Dune di Lynch è impossibile avere un mistero.

Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato col dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo, che nel romanzo veniva gradualmente svelato.

E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico nel diventare un villain da operetta

…esattamente come succede in questo caso.

Sting e l'altro nipote del Barone Harkoennen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo molto facilone il personaggio, con i bubboni, la bile e il sudore che diventano i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nel momento – pure censurato – dell’uccisione del malcapitato servo.

Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.

Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio caratterizzati.

Spazio

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.

Uno dei motivi evidentemente per cui Villeneuve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente gli uni dagli altri.

E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza che riescano a raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…

…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato, che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.

E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…

…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.

Abominio

Alia in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Alia è davvero un abominio.

Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottima idea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…

…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, tramite la divisione di Villeneuve -per cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per poi comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Infatti Alia è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è indubbiamente il punto più basso dell’intera pellicola.

E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Dune ridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.