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Deadpool 2 – Un film per famiglie

Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.

A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore: appena 734 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool 2?

Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool 2?

Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.

In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.

Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…

…che, di fatto, non vedremo mai.

Continuità

Deadpool sui barili di petrolio in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.

Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.

Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.

Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.

Solo un corpo da distruggere.

A pezzi

Deadpool X-Man in prova in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool deve essere rimesso insieme.

Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.

Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.

Russell in prigione in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.

Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio

…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.

Squadra

La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…

…pur andandole a vanificare un momento dopo.

La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.

Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.

Ma il team si deve ricomporre altrove.

Comporre

Deadpool in una scena del trailer di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

L’ultimo atto è un grande azzardo.

Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.

Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.

Deadpool X-Man  in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi tutto viene riscritto.

Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.

Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…

…forse ancora di più in vista di Deadpool e Wolverine (2024).

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E.T. – Fra emarginati ci si capisce

E.T. (1982) di Steven Spielberg è uno dei più grandi classici del cinema per ragazzi e della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Non a caso, a fronte di un budget di appena 10,5 milioni (circa 31 oggi), incassò 619 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 1,9 miliardi oggi).

Di cosa parla E.T.?

Elliot è un ragazzino molto timido, che riuscirà a trovare un nuovo amico grazie ad un incontro inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere E.T.?

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

E.T. è un classico della fantascienza non a caso, un film fondativo per il genere, nonché un punto di riferimento per la cosiddetta fantascienza positiva – quella di Una nuova speranza (1977), per capirci.

Oltre a questo, colpisce come Spielberg riuscì a dirigere e a scrivere con rara eleganza un prodotto che entrò profondamente nel cuore dei ragazzini dell’epoca – e di tutte le generazioni successive.

Indizi

Una delle dinamiche più classiche del genere è la rivelazione progressiva della creatura.

E E.T. ci riesce magistralmente.

Spielberg dirige le prime battute della pellicola con la precisa consapevolezza di starsi inserendo in un panorama cinematografico che ormai da anni era stato per sempre cambiato dai terribile e spaventosi alieni di Alien (1979) …

…e in cui voleva portare la sua alternativa – dopo averci già ottimamente provato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) – per cui il viaggiatore spaziale non è una minaccia, ma una curiosa creatura che vale la pena di conoscere.

Per questo l’introduzione di E.T. è funzionale a raccontare la vera natura del personaggio: non una bestia temibile che divora spietatamente un piccolo coniglietto indifeso, ma un mite erbivoro, che, con le sue lunghe dita nodose, sradica una pianta per nutrirsi.

Ma c’è ancora spazio per giocare con lo spettatore.

Parallelismo

Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Il rapporto fra E.T. e Elliot è definito indirettamente fin dalla prima apparizione del protagonista.

Infatti, in un certo senso, entrambi i personaggi vivono la stessa condizione: come l’alieno si trova in un paese sconosciuto, senza saper dove andare, lasciato indietro dai suoi compagni di viaggio, come se fosse un emarginato…

…allo stesso modo Elliot cerca per tutta la sua prima apparizione di introdursi nel circolo sociale del fratello maggiore, da cui viene spinto ad avventurarsi nelle lugubri atmosfere esterne della casa per guadagnarsi un posto al tavolo di gioco.

E proprio qui si sviluppano le ultime, significative, battute del primo atto.

Ritrovarsi

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

E.T. e Elliot si ritrovano.

Il loro primo approccio utilizza i toni ancora proprio dell’horror, tenendo in ombra le bizzarre quanto innocue sembianze dell’alieno, che cerca di venire in contatto col bambino con una dinamica giocosa – ma immediatamente travisata.

L’ultimo momento di questo teatrino delle incomprensioni è il primo incontro faccia a faccia fra i due: Elliot ha il compito di metterci per la prima volta davanti all’aspetto del nemico, portando ad un genuino quanto quasi comico terrore da entrambe le parti.

Gertie in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Un climax tensivo ottimamente costruito, proprio grazie all’inserimento dell’elemento chiave del cinema per ragazzi: il giovane eroe è l’unico personaggio che vede e crede alla creatura, mentre gli adulti la derubricano a pura fantasia.

Per questo Elliot si intestardisce nel voler provare la sua verità, nell’evadere il controllo della madre, eppure ricercandola quando si trova bloccato dalla paura mentre E.T. gli viene vicino con aria apparentemente minacciosa…

…e invece portando un messaggio di amicizia.

Caos

Gertie e Elliot in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

La famiglia di Elliot è un caos conveniente.

Anche qui Spielberg scrive la storia del cinema di genere riuscendo a rendere assolutamente credibile lo spazio che i giovani protagonisti – anzitutto Elliot – riescono a prendersi per sviluppare il loro rapporto con l’alieno…

…proprio raccontando una famiglia in cui il nucleo emotivo è la madre, che in un certo senso sono gli stessi figli a dover proteggere dal suo turbamento, dovuto al recente abbandono del marito, che la porta raramente ad avere il controllo della sua situazione familiare.

E.T. fra i pupazzi in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Per questo è tanto più semplice per il protagonista fingere la malattia per prendersi una giornata da dedicare ad E.T., per questo persino gli sciocchi tentativi della sorella minore, Gertie, di rivelare la presenza dell’alieno, risultano ironicamente fallimentari.

Perché Mary, semplicemente, non riesce a vedere: in più momenti ignora la verità che è sotto ai suoi occhi, da quanto E.T. è alle sue spalle a quando lo stesso si nasconde fra i pupazzi e riesce per questo perfettamente a mimetizzarsi, sfuggendo alla sua eloquente soggettiva.

Adattamento

E.T. beve la birra in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’adattamento di E.T. viaggia in due direzioni.

Da una parte, l’alieno esplora con curiosità quello che lo circonda, ed impara velocemente quella manciata di parole che gli bastano per comunicare con i suoi nuovi amici, scoprendo il meglio della cultura americana – fra i classici del western e le birre in frigo.

Allo stesso modo, E.T. sviluppa un rapporto profondissimo con Elliot, portandoli a diventare sempre più strettamente legati, fino ad arrivare al gustosissimo siparietto dell’ubriacatura dell’alieno, che influenza il bizzarro comportamento del protagonista a scuola.

E.T. legge un fumetto in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Allo stesso modo, il desiderio di E.T. di tornare a casa è ancora molto vivo.

Infatti, grazie all’esplorazione di quello che lo circonda, particolarmente di un fumetto di fantascienza con una storia simile a quella che lui sta vivendo, riesce a capire come può effettivamente comunicare col paese natale.

E il suo costruirsi un improbabile telefono che manda un messaggio di aiuto nello spazio è ancora una volta un bellissimo racconto della creatività infantile nel lavorare con quello che si ha, in cui persino dei giocattoli possono diventare strumenti essenziali.

Casa

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

Alla fine del secondo atto il legame emotivo fra E.T. e Elliot raggiunge il suo picco.

Ben deciso di fargli comunicare con il suo paese natale, il protagonista si sforza nell’aiutare l’amico alieno nella bizzarra impresa, nonostante la stessa sembri ormai destinata all’inevitabile fallimento.

Eppure proprio in quel momento E.T. abbraccia l’alternativa di una nuova casa in quel mondo, in quella persona che si è effettivamente prodigata per accoglierlo ed aiutarlo, nonostante la differenza di aspetto, e a cui si è legato troppo profondamente per distaccarsi.

Ma è un sogno impossibile.

E.T. in una scena di E.T. (1982) di Steven Spielberg

L’inizio del terzo atto è definito dallo svolgersi della tragedia di E.T.: il suo desiderio di rimanere sulla terra si scontra con l’impossibilità del suo corpo di rimanervi troppo tempo – una piccola accortezza di scrittura che offre il giusto grado di drammaticità e tridimensionalità al finale.

Così si raggiunge il picco massimo del dramma quando E.T. sceglie consapevolmente di dover lasciar andare il suo giovane amico, consapevole che altrimenti morirebbero insieme, in una scena genuinamente straziante, in cui Henry Thomas dà anche il meglio di sé come giovane attore.

Poi, un nuovo cambio di tono.

Alternanza

La finezza della scrittura di Spielberg si ritrova ancora nelle battute finali della pellicola.

Per dare una boccata di ossigeno allo spettatore, il film ritorna alla carica con un siparietto comico davvero gustoso, in cui E.T. si risveglia e comincia a ripetere ossessivamente la sua battuta iconica, rischiando di farsi scoprire.

Interessante in questo senso come la pellicola scelga di rappresentare gli adulti: mentre in molti film del genere fra i giovani eroi protagonisti e i grandi vi è un contrasto netto – come, per fare un paragone improprio, in Super 8 (2008) …

…al contrario, in E.T. gli adulti, semplicemente, non capiscono: pur mostrandoli mentre cercano di aiutare l’alieno, Spielberg ci tiene particolarmente a mettersi dalla parte dei suoi giovani spettatori, mostrando come solo loro capiscano la situazione e possano quindi risolverla.

Ne segue un’adrenalinica corsa e rincorsa dei protagonisti, pronti a tutto pur di permettere al loro amico di ritrovare la via di casa, e il cui punto di arrivo è una chiusura molto commovente, in cui E.T. promette di star per sempre al fianco di Elliot, pur trovandosi ad anni luce di distanza.

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RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

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The Dead Zone – Il sacrificio privato

The Dead Zone (1983) è un thriller fantascientifico e orrorifico, diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

A fronte di un budget medio – 10 milioni di dollari, circa 31 oggi – fu un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo – circa 113 oggi.

Di cosa parla The Dead Zone?

Johnny è un professore liceale che rimane coinvolto in un incidente stradale. Ma al suo risveglio, molte cose sono cambiate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Dead Zone?

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

In generale, sì.

The Dead Zone rappresenta un interessante incontro fra il thriller politico e il genere fantascientifico, oltre ad essere impreziosito da un intrigante taglio orrorifico – assomigliando per certi versi allo splendido Terrore dallo spazio profondo (1978) – e che deriva gran parte del suo valore dall’ottima performance di Christopher Walken.

Stranisce forse la struttura narrativa, che si snoda in una trama unitaria, ma divisa in una serie di piccoli episodi quasi auto-conclusivi, che assumono effettivamente un significato solamente arrivati al finale della pellicola.

Nel complesso. comunque. ve la consiglio.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

L’incipit di The Dead Zone è un delizioso quadretto familiare.

Felice della sua relazione e del suo prossimo matrimonio con Sarah, il protagonista sente di avere tutto il tempo del mondo, e di poter per questo allontanare le richieste della sua fidanzata di intrattenersi sessualmente prima di sposarsi…

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

…ma il destino è contro di lui.

L’incidente è costruito ad arte per definirne la totale casualità: un camionista assonnato che chiude gli occhi quel tanto che basta per perdere il controllo del mezzo, e mettersi fra capo e collo nel percorso di Johnny – e, così, farlo schiantare.

Ruolo

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Dopo aver perso la sua posizione nella comunità, il primo atto è dedicato alla riscoperta del ruolo.

Al suo risveglio, la pellicola costruisce una splendida tensione definita da piccoli dettagli: il corpo miracolosamente senza ferite né bende, i duri avvertimenti del dottore alla madre di Johnny, rappresentano le prime, dolorose pennellate di un quadretto inquieto.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Soprattutto, l’elemento più drammatico e di impatto è la dissoluzione del rapporto con Sarah – tanto che la madre gli consiglia di togliersela dalla testa – che ormai si è creata quella famiglia che lei e Johnny avrebbero dovuto costruire insieme.

Ma è solo l’inizio.

Prova

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Il secondo atto è da manuale.

La scoperta dei poteri è improvvisa e segna l’inizio delle dinamiche più strettamente orrorifiche, che risultano vincenti grazie ad una regia e ad un montaggio molto indovinati, oltre alla travolgente presenza scenica dell’attore protagonista.

Ma le premonizioni non si limitano al presente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Le visioni di Johnny sono sempre legate ad un’atmosfera funebre o quantomeno tragica, spaziando anche nella scoperta della morte presunta della madre del Dottor Sam Weizak – dinamica molto potente, ma che purtroppo appare unicamente funzionale alla trama

E subito il protagonista si trova preso d’assalto da chi crede di poterlo usare come sua personale palla di vetro per risolvere misteri e prevedere il futuro, mentre spesso le risposte che i personaggi ricevono non erano quelle che si aspettavano – o che desideravano…

Climax

Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Nella parte centrale si assiste ad un climax peculiare.

Vi è un momento di quiete, un apparente riavvicinamento – anche piuttosto intraprendente – di Sarah, la ricostruzione della famiglia spezzata, forse la possibilità di dimenticarsi dei suoi nefasti poteri…

…per poi ritornare immediatamente sui suoi passi.

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Per questo, ho trovato la gestione di Sarah piuttosto straniante: la donna sembra come dare una falsa speranza al suo vecchio fidanzato, per poi tirarsi indietro e rimanere perlopiù un personaggio fuori scena, comparendo solo di tanto in tanto per regalargli nuovi, deliziosi, turbamenti emotivi.

Spogliato di tutto, Johnny prende la dolorosa decisione di usare attivamente i suoi poteri.

Ed è una scelta devastante.

Impotenza

Tutta la dinamica dell’investigazione è quella che più ho apprezzato – e anche quella più propria dello stile di Cronenberg: Johnny ha una sorta di epifania, che lo porta alla scelta di aiutare finalmente lo sceriffo nel risolvere il misterioso caso di Castle Rock.

Ma c’è un prezzo da pagare.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Riuscendosi ad immergersi efficacemente nella visione dell’omicidio in atto, il protagonista diventa una sorta di testimone omertoso del delitto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena – arrivando così alla terribile consapevolezza di poter solo punire il colpevole.

Ne segue una rincorsa all’omicida, invadendo lo spazio familiare e svelando la complicità della madre stessa, mentre nell’intimità del bagno si svolge un’ulteriore tragedia: il suicidio quasi chirurgico del colpevole, che si getta sulla sua stessa arma del delitto e si fa trovare esangue nella vasca da bagno.

Quiete

Christopher Walken e Brooke Adams in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Poi, di nuovo un’apparente quiete.

Dopo aver fuggito la sua casa natale, Johnny sembra avere l’occasione per ricostruire almeno parte della sua vecchia vita, diventando insegnante – e confidente – di un giovane ragazzo con cui condivide la timidezza e la riservatezza.

E invece, la nuova tragedia è dietro l’angolo.

Toccando inavvertitamente la mano del suo allievo, Johnny scopre il destino tragico che attende il ragazzino se deciderà di andare a pattinare quel giorno, entrando così in aperto contrasto con il padre e venendo scacciato…

…ma riuscendo così, con il proprio sacrificio, non solo a salvare una vita, ma anche a comprendere il senso della sua zona morta, delle vere potenzialità del suo potere: cambiare le nefaste visioni future.

Sacrificio

Nel finale, Johnny mette in scena un sacrificio privato.

Per pura causalità – e per una simpatica scelta di scrittura – il protagonista non era riuscito a prendere per mano il futuro Presidente degli Stati Uniti al loro primo incontro – infatti, invece che stringerli la mano, Greg Stillson gli aveva dato una spilla della sua campagna.

Invece, quando finalmente riesce a venire in contatto con il favorito alle elezioni cittadine, Johnny riesce finalmente ad ottenere una visione futura chiara di quello che potrebbe succedere se questo grottesco capopopolo riuscisse effettivamente a diventare Presidente.

Christopher Walken in una scena di The Dead Zone (1983) di David Cronenberg

Si instaura così un dilemma morale piuttosto classico – il viaggiatore nel tempo assassino di Hitler – che viene risolto dal Dottor Weizak, che diventa inconsapevolmente la spinta finale che serviva al protagonista per prendere la sua scelta suicida.

Ma, a sorpresa, il suo intervento non porta alla morte di Stillson – almeno non immediatamente – ma al suo totale crollo di credibilità: usando un bambino come scudo di carne, l’uomo finisce sulle prime pagine dei giornali, e mette un punto fermo alla sua carriera politica…

…e, così, anche alla vita del martire Johnny.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.