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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

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Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

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RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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Civil War – Il limite dell’indifferenza

Civil War (2024) è forse l’ultimo (?) film di Alex Garland, che porta in scena la sua nuova zampata nei confronti degli Stati Uniti e delle sue contraddizioni.

A fronte di un budget di 50 milioni – il più alto mai investito dalla A24 – ha aperto molto nel primo weekend, con 49 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Civil War?

In futuro prossimo e molto possibile, un gruppo di giornalisti attraversa gli Stati Uniti devastati dalla guerra civile per raggiungere Washington prima che il Presidente venga assassinato…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo perché fa sembrare il film come quello che non è…

Vale la pena di vedere Civil War?

Assolutamente sì.

Civil War rappresenta una sorta di controparte contemporanea di La zona d’interesse (2023): Garland ci racconta un futuro purtroppo molto meno lontano di quello che si potrebbe pensare, prendendo come spunto l’Assalto al Campidoglio del 2021.

Ne deriva un ritratto degli Stati Uniti veramente anomalo per il cinema americano, in cui paradossalmente si concretizza il più grande sogno che ogni bravo statunitense porta nel cuore: ribellarsi al potere costituito grazie alle armi che lo stesso gli ha permesso di imbracciare.

Insomma, da riscoprire.

Ruolo

La colonna portante di Civil War è fin da subito drammaticamente rivelata.

Dopo aver liquidato distrattamente le parole dell’ormai inutile Presidente, in un attimo la protagonista, Lee, volge la sua attenzione al vero focus del suo lavoro: catturare momenti di reale e vendibile violenza per nutrire il suo pubblico.

Infatti dal suo lato della barricata si sviluppa il primo polo estremo degli Stati Uniti: un’attenzione maniacale, continua e sempre affamata di nuova, succosa e sanguinosa violenza da divorare, sempre più efferata e disumana finché…

…finché non ci lascia indifferenti.

E Lee è profondamente indifferente.

Dopo aver vissuto in prima persona una galleria piuttosto nutrita di brutalità, non ha più alcuna remore a cogliere i momenti in cui le armi vengono puntate, le interiora emergono, le teste scoppiano e i denti volano, protagonisti di scatti indimenticabili…

Ma la sua strada deve essere solitaria.

Eredità

Lee non vuole che Jessie la segua.

E in nessuno modo.

La ragazzina vorrebbe ripercorrere le orme del suo idolo: riuscire ad approfittare di ogni situazione, anche – e sopratutto – la più sconvolgente ed emotivamente devastante per portare a casa quelle fotografie che nessun altro sarebbe capace di scattare.

Ma purtroppo Jessie non riesce ad essere indifferente, anzi spesso si lascia ancora profondamente sconvolgere dalle immagini degli Stati Uniti che divorano se stessi, che si sentono legittimati ad essere protagonisti di quella violenza sopita, ma sempre presente, che finalmente trova il suo sfogo.

Ma l’alternativa è essere un cane sciolto.

Fin dalla sua prima scesa in campo, Jessie è spesso tenuta al guinzaglio, ora da Joel, ora da Lee, che cercano di stringerla a sé per impedirle di farsi troppo trasportare dal momento, di avvicinarsi troppo a quella violenza di cui vuole essere solo spettatrice

…ma di cui invece diventa inevitabilmente protagonista: il primo passo falso è il passaggio da una macchina all’altra, inizialmente assolutamente innocuo, anzi molto divertito, ma, che attraverso un drammatico climax, porta la protagonista prona su una pila di cadaveri.

Ma quel devastante risveglio non è abbastanza.

E non solo per lei.

Sentimento

Gli Stati Uniti hanno scelto da che parte stare.

Da una parte si sviluppa una escalation di violenza, sia indiretta che direttissima: si passa da un pubblico affamato di conoscere i dettagli più raccapriccianti della vicenda, per arrivare ad una radicalizzazione di sentimenti già profondamente radicati e difficili da scalzare.

Infatti, oltre al semplice emergere della violenza sopita, molti statunitensi hanno finalmente l’occasione per dare sfogo ai più disparati sentimenti di odio razziale – e non solo – che ben sono rappresentati nella scena con protagonista Jesse Plemons, che elimina sistematicamente dalla sua vista chiunque non sia un vero nord americano.

Altrimenti si può essere solo – e davvero – indifferenti.

Più volte nei loro racconti sia Jessie che Lee raccontano – e si distinguono – i loro genitori, che hanno scelto un placido isolamento nelle loro fattorie, immersi nella loro indifferenza e nella loro totale ignoranza del presente.

Un sentimento che è ancora più esacerbato nella ridente cittadina in cui i protagonisti si concedono una pausa, dove i suoi abitanti hanno programmaticamente scelto di non far parte del conflitto…nondimeno ricorrendo alla violenza per chiunque voglia turbare il loro equilibrio.

Sfuggire dalla violenza, insomma, è ormai impossibile.

Dopo

Il finale si definisce negli opposti.

Nonostante la sua morale ferrea, Lee è stata troppo brutalmente messa davanti ad una violenza che non può più derubricare come estranea, e crolla momentaneamente in un doloroso attacco di panico, sentendosi intrappolata in un vortice di brutalità senza via d’uscita.

Al contrario, il dolore dell’essere messa ripetutamente in faccia alla morte, sembra accendere l’entusiasmo di Jessie, che si sente sempre più sicura, sempre più audace e sfacciata nel mettersi nel mezzo del fuoco incrociato per catturare i momenti migliori.

E Lee cerca di salvarla.

Ma non dalla morte.

La donna cerca di salvare la ragazzina dal suo diventare come lei – se non peggio: una reporter interessata solamente all’ultimo scatto sensazionalistico, del tutto indifferente, anzi fin troppo entusiasta, davanti alla possibilità di partecipare e documentare la distruzione del suo stesso paese.

E infatti nel finale assistiamo all’ultimo capitolo dell’autodistruzione degli Stati Uniti, ormai guidati da una furia cieca che li porta a lasciare da parte ogni sentimento, ogni rimorso, ogni logica per fare semplicemente fuoco sul nemico.

Ma arriverá mai il momento di mettere via le armi?

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Robot Carnival – Uno spaccato di anime

Robot Carnival (1987) è una raccolta di cortometraggi animati curati da nove registi e animatori giapponesi.

Al tempo venne proposto come OAV, Original Anime Video, ovvero un anime distribuito direttamente in videocassetta.

Di cosa parla Robot Carnival?

Proprio come un parco dei divertimenti, Robot Carnival raccoglie diverse ispirazioni da diversi registi con un tema comune: i robot.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robot Carnival?

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

Assolutamente sì.

È praticamente impossibile rimanere delusi con Robot Carnival: ci si trova davanti ad una tale varietà di toni, di temi e di tagli narrativi che c’è veramente solo l’imbarazzo della scelta, con storie tutte diverse fra loro anche per stile artistico.

E se la poca presenza di dialoghi, o la loro totale assenza, potrebbe spaventare, a fine visione appare chiaro che gli stessi sarebbero stati del tutto inutili all’interno di una narrazione così ben strutturata da funzionare anche solo di musica e di suggestioni.

Rumore

Una scena di Franken's gear in Robot Carnival (1987)

Robot Carnival si apre con una collezione di rumori.

L’intro è visivamente aggressiva e sottilmente metanarrativa: sembra come se il colosso del film stesso, di questo strano parco dei divertimenti, entrasse prepotentemente in scena, distruggendo ogni cosa sul suo passaggio, anche gli indifesi spettatori.

Si passa poi ad un primo episodio semplice quanto efficace: una riproposizione moderna e robotica del classico di Mary Shelley: l’esperimento apparentemente fallimentare incorniciato dai rumori di laboratorio…

Una scena di Niwatori Otoko to Akia Kubi in Robot Carnival (1987)

…esplode in un climax ascendente per giungere a dinamiche non tanto dissimili dall’iconica scena di Frankenstein Junior (1974) ma con una ben più amara, quanto enigmatica, conclusione, in cui il successo dell’operazione sembra spezzarsi.

La stessa dinamicità si ripropone nel confusionario quanto surreale capitolo conclusivo, Niwatori Otoko to Akia Kubi, in cui un cittadino comune diventa testimone di una rivolta dei robot, che rinascono, si spezzano, cadono a pezzi in forme orrorifiche e incomprensibili.

Ma c’è spazio anche per il dialogo.

Dialogo

Una scena di Presence in Robot Carnival (1987)

Il dialogo in Robot Carnival è essenziale.

Nel terzo capitolo, Presence, lo è nel senso che è ridotto all’osso: la scena prima si anima di uno spaccato della difficoltosa vita dei robot nella società umana, per poi aprirci uno squarcio sulla vita del protagonista tramite un’intrusione nei suoi pensieri.

E questa impertinente macchina, questa creazione che sembra avere una vita propria, è anche l’unica che sembra comprendere la vera natura del suo creatore, che si è sempre privato dell’amore, vivendo una vita fra un gelido matrimonio e le sue invenzioni senza cuore.

Del tutto diversa l’atmosfera del penultimo capitolo, Strange Tales of Meiji Machine Culture: Westerner’s Invasion, in cui assistiamo ad un duello fra due enormi quanto primitive macchine, pilotate da un inventore squinternato e da una litigiosa coppia di ragazzini.

Un frangente che è l’unico veramente e propriamente comico della pellicola, con dinamiche che sembrano provenire da uno shonen degli Anni Ottanta (e non solo), e che permette allo spettatore infine di concedersi una risata.

Silenzio

Una scena di Deprive in Robot Carnival (1987)

In Robot Carnival ci sono diversi tipi di silenzi.

C’è il silenzio dei personaggi, che non hanno bisogno di alcun dialogo per raccontare la loro storia, ma che invece si avvicendano sulla scena con episodi estremamente dinamici e incalzanti, in piccole avventure a lieto fine.

È questo il caso sia di Deprive, in cui un’invasione aliena diventa lo sfondo per quella che si rivela infine una dolcissima storia d’amore con protagonista un’umana e un robot dall’aspetto cangiante, che infine la ragazzina riconosce nella sua nuova forma…

Una scena di Starlight Angel in Robot Carnival (1987)

…sia di Starlight Angel, il mio preferito della serie, che riprende sostanzialmente le stesse dinamiche, ma in un contesto più giocoso e onirico, in cui un sofferto tradimento amoroso si risolve nella formazione di una nuova e felice coppia.

E infine il silenzio c’è il silenzio Cloud, un bozzetto a matita che si anima per raccontare di un piccolo robot che attraversa le diverse epoche terrestri, nella silenziosa quanto inevitabile vittoria e distruzione del genere umano.

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Dune – Il prologo necessario

Dune (2021) di Denis Villeneuve è il primo capitolo della probabile trilogia di film tratti dal ciclo di romanzi cult di Frank Herbert.

Anche per via di una distribuzione criminale – negli Stati Uniti uscì allo stesso tempo al cinema e sul servizio streaming della Warner Bros – non fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 165 milioni di dollari, ne incassò appena 433 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune?

Paul è il primogenito della famiglia Atreides, che viene resa improvvisamente il vassallo dell’Impero nel prezioso pianeta Arrakis, anche detto Dune…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Timothée Chalamet e Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Denis Villeneuve è riuscito dove persino David Lynch ha fallito: portare in scena un ciclo fantascientifico che già dal primo romanzo risulta estremamente complesso da rendere – per la mitologia, i significati e il taglio narrativo.

In questo senso, la scelta piuttosto ardita di rendere il primo film una sorta di capitolo introduttivo non solo è intelligente, ma assolutamente necessaria: prima di arrivare ai punti caldi della storia, è essenziale che il pubblico abbia una conoscenza robusta del mondo di Dune.

In ogni caso, non ve lo potete perdere.

Mitologia

Zendaya in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

La gestione della mitologia in Dune è impeccabile.

La sequenza introduttiva getta le basi fondamentali per la comprensione del complesso panorama politico, creando un climax narrativo sulla dualità di Arrakis: nelle parole di Chani Dune è un luogo splendido, incontaminato…

…ma è anche una fonte di inesauribile ricchezza, che ha portato al pugno di ferro della terribile famiglia Harkonnen, la cui dipartita non porta nessun sollievo al popolo dei Fremen, che invece già si chiedono chi sarà il loro prossimo oppressore.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Un’introduzione che si ricollega perfettamente al protagonista…

…e in ben due modi diversi.

Come infatti Chani è la ragazza misteriosa – che rimane senza nome fino sostanzialmente alla conclusione della pellicola – protagonista degli strani sogni di Paul, che sembrano anticipare un futuro ora sereno, ora profondamente drammatico…

…sia nei piccoli inserti esplicativi di vari elementi della mitologia, essenziali per la comprensione del film e inseriti come parte della formazione del protagonista, profondamente interessato a capirne di più della sua nuova casa.

Piccolo

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Dune viaggia a due velocità.

All’inizio il fulcro della storia sembra la piccola storia di gelosia politica che ha come protagonista il Duca Leto, un personaggio più volte definito come sacrificabile e poco importante nel grande schema delle cose.

Non è un caso che Leto sia l’unico raccontato come smaccatamente positivo, consapevole dell’inganno in atto, ma deciso a portare fino in fondo la sua missione, volendo distinguersi dal crudele cugino Harkonnen.

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

A differenza infatti dei precedenti oppressori, Leto cerca un dialogo con i Fremen.

Mandando in avanscoperta il suo migliore guerriero – Duncan – accettando tutte le stranezze del popolo – come quando Stilgar sputa davanti ai suoi occhi – e accogliendo tutte le condizioni che gli indigeni gli impongono.

Questa suo tentativo di essere conciliante si dimostra infine fallimentare all’interno di un panorama politico dominato dall’inganno e dalla violenza, in cui la morte di Leto diventa sia lo sfogo della gelosia dell’Imperatore, sia la spinta necessaria per il concretizzarsi del destino di Paul.

Crudele

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il Barone Harkonnen è un villain incredibile.

Il film è riuscito perfettamente ad inquadrare un personaggio profondamente – a tratti quasi inutilmente – crudele, con la sua presenza imponente e terrorizzante, sempre intento ad intessere una trama di inganni e crudeltà, finalizzata unicamente al guadagno.

Particolarmente elegante ammorbidire un personaggio davvero impresentabile al cinema, ma nondimeno inserire indizi del suo terribile carattere: diciamo solo che i ragazzini che appaiono come servitori, in realtà lo servono soprattutto in altro modo…

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In generale, il Barone incarna il senso di Dune.

Il mondo di Herbert è basato sull’inganno nell’ombra, la trama politica nascosta – di cui Vladimir Harkonnen è lo splendido protagonista – in cui l’attacco diretto, l’azione ne è solo l’ultimo capitolo – ed infatti i momenti dedicati alla stessa sono pochissimi.

Eppure, persino questo villain appare minuscolo nel grande schema narrativo: pure se per motivi totalmente diversi, anche il Barone è concentrato unicamente sul guadagno immediato, sul potere politico presente…

Dominio

Infatti, il vero potere è nelle mani delle Bene Gesserit.

Questa congrega centenaria di donne è riuscita a spingere oltre ogni limite le potenzialità dell’umanità, destinata a sostituire la macchina: secondo la religione dominante, le tecnologie sono ridotte all’osso, e l’umano stesso deve diventare un computer vivente.

In questa ottica, la preziosa spezia che per gli Harkonnen e l’Impero è solo una fonte di guadagno, per le Bene Gesserit è invece uno strumento che permette loro di costruire un piano spalmato su arco temporale di secoli, se non millenni.

Rebecca Ferguson in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In questo schema, Jessica è solo una pedina.

Una pedina che, però, ha scelto di fare di testa sua.

La donna ha cercato di imporsi nello stringente piano della sua sorellanza, sfidando il potere delle Madri per intrecciare la sua linea di sangue con Leto e far nascere una figura mitologica dai tanti nomi – Kwisatz Haderach, Lisan al Gaib – che sarà protagonista dell’ambigua sorte di Dune.

Ma, soprattutto, Jessica ha scelto di sfidare il potere delle Bene Gesserit, formando un maschio ai poteri propri di una religione esclusivamente femminile, ponendo le basi per un destino ancora oscuro ed imprevedibile.

Imposto

Zendaya e Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Per questo, il destino di Paul è imposto.

Al riguardo, è stato piuttosto intelligente da parte del film inserire un elemento estraneo alla narrativa di Herbert: nel romanzo il protagonista accettava quasi passivamente, e con estrema freddezza, la sorte che era stata scelta per lui, come se fosse qualcosa di inevitabile.

Al contrario, nella pellicola Paul è costantemente tormentato da omen, visivi e vocali, che gettano i semi per la comprensione del suo fondamentale ruolo nella storia di Dune, che il personaggio vive ora con angoscia, ora con una genuina disperazione.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Ma la vera evoluzione di Paul è uscire dal controllo della madre.

Per assumere il suo ruolo, il protagonista deve effettivamente immergersi nella realtà di Arrakis, basata sull’idea di adattamento, non l’imposizione: i Fremen sopravvivo su Dune perché hanno imparato a conviverci, a muoversi imitando i naturali movimenti del deserto…

…al contrario degli oppressori che si sono susseguiti, i quali, nella loro corsa al guadagno e al profitto, si sono lasciati in più momenti divorare dai veri dominatori di Arrakis, ovvero i Vermi della Sabbia, attirati proprio dai segnali di mutamento dell’ambiente.

Per questo, Paul deve imparare a farne parte.

Inizio

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il destino di Paul è incerto.

Più viene a contatto con il deserto, e quindi con la spezia, più il protagonista si rende conto che la sua vittoria passa attraverso il lasciarsi guidare dagli istinti, intendere gli stimoli che lo circondano…

…e non pensare che gli avvenimenti futuri siano già stati matematicamente decisi, ma piuttosto viverli come ancora del tutto definibili dalle sue azioni e delle sue scelte – in particolare, la scelta di diventare personaggio attivo della storia.

Infatti, Paul riesce a diventare effettivamente protagonista del suo destino quando sceglie di farsi ingoiare da Dune: immersi nella terribile bufera di sabbia che avrebbe ucciso chiunque, il protagonista capisce che non deve forzare la sua presenza in quell’ambiente…

…ma piuttosto lasciare che la sua navicella si immerga nel pianeta, ascoltandolo e così capendo quale direzione prendere per arrivare alla prima tappa del suo viaggio predestinato: l’incontro con i Fremen.

Ma anche in questo caso, è un evento ambiguo.

Infatti, quando finalmente Paul si trova davanti sia a Chani sia, soprattutto, a quello che dovrebbe essere il suo futuro alleato – il Fremen Jamis – capisce che il futuro è ancora tutto da scrivere.

Per questo accetta infine l’inevitabile morte dell’uomo che gli si è opposto, non forza la relazione con la misteriosa ragazza, ma piuttosto accetta di entrare a far parte dei nativi, muovendo i primi passi verso questo nuovo inizio.

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.