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Superman – Lo slancio iniziale

Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve non è solo un film supereroistico, ma un punto di svolta per il genere tutto.

Non a caso, a fronte di un budget importante per l’epoca – 55 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale: 134 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Superman?

Nel lontano pianeta di Krypton, il visionario scienziato Jor-El vede l’ormai prossima distruzione del suo mondo, e decide di mandare il suo unico figlio su un pianeta sconosciuto: la Terra.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Superman?

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Assolutamente sì.

Pur nella sua semplicità ed ingenuità in alcuni punti, il Superman di Richard Donner rappresentò un ottimo esempio di sintesi fra uno stile prettamente fumettistico ed una certa epicità e drammaticità con cui il genere nel tempo cominciò a farsi prendere sul serio.

Ne risulta un esperimento particolarmente riuscito che, ancora a diversi decenni di distanza, riesce a colpire col suo piacevole umorismo e il suo toccante dramma familiare ed esistenziale, facendo fra l’altro sfoggio di un reparto tecnico di prim’ordine ed una regia con non pochi guizzi.

Insomma, da riscoprire. 

Protagonista

Per certi versi, Jor-El è il vero protagonista del primo atto.

Superman dedica infatti ampio spazio al racconto della figura del padre dell’eroe – per certi versi, più del figlio stesso – andando a definirlo nel suo ambiguo rapporto con il Consiglio, dal quale viene immediatamente messo alla prova per la condanna dei tre ribelli.

Ma proprio la punizione degli stessi e la subito successiva opposizione ad un governo miope davanti ai pericoli imminenti per Kripton, racconta un eroe silenzioso e lungimirante, che riesce a trovare nella salvezza dell’erede una possibilità per conservare intatte le conoscenze del suo mondo.

Ne consegue un lunghissimo antefatto che ha il suo apice, per certi versi, con l’arrivo di Kal-El sulla Terra, subito accolto fra le braccia dei suoi amorevoli genitori terrestri, la cui tragica sorte definisce il protagonista in questa fase chiave della sua formazione.

Ovvero, essere un eroe in potenza.

Bozzolo

Superman da adolescente in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Se si vuole fare una critica al film, si può dire che l’atto centrale è fin troppo sbrigativo – quantomeno, nella versione cinematografica.

Superman in effetti lascia poco spazio al suo protagonista per definirsi nel suo contrasto con il mondo terrestre, raccontandolo come un ingenuo ragazzino che vorrebbe dare il meglio di sé, ma che è stato – giustamente – educato a non dare troppo sfoggio dei suoi poteri.

Questa impotenza raggiunge il suo apice con la morte improvvisa del padre adottivo, che fa comprendere a Kal-El i limiti del suo campo di azione, apparentemente illimitato, in realtà drammaticamente limitato da situazioni in cui non ha nessuna possibilità di vincere.

Superman nella fortezza della solitudine in Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ed il rapido ed inevitabile sopraggiungere del funerale spinge infine il protagonista a cercare un nuovo punto di partenza per definirsi come eroe, grazie alle cure tardive – ma essenziali – del padre perduto – uno dei momenti, fra l’altro, che ho trovato personalmente più toccanti e coinvolgenti dell’intera pellicola.

Quindi se, ancora, si vuole rimproverare il poco respiro che ha Clark in questo snodo narrativo fondamentale, è altresì vero che lo stesso è un trampolino per abbracciare la seconda parte della pellicola, in cui il film dà davvero il suo meglio e in cui Christopher Reeve può finalmente brillare.

E, proprio qui, si trova un interessante equilibrio di toni.

Superfice

Superman in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ad uno sguardo più superficiale, il Superman di Reeve potrebbe essere un tedioso esempio dell’eroe senza macchia – ma con mantello.

In realtà, la sua costruzione non è così scontata.

Entrando infine in scena come eroe formato, Kal-El ci spiazza nella sua forma umana, un’abile maschera dietro cui si nasconde: Klark Kent è infatti un giovane impacciato e alle prime armi, che l’ormai navigata Lois Lane sembra subito inquadrare – e, per certi versi, disprezzare – nella sua inadeguatezza.

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ma la sottile ironia della pellicola si scopre immediatamente nella scena della rapina, in cui Kal-El fa di tutto – almeno a parole – per evitare lo scontro fisico, lasciando spazio a Lois per raccontarsi come personaggio attivo e fondamentale, ma che segretamente ha in mano tutta la situazione…

…ammiccando al pubblico con il proiettile fatale stretto fra le dita.

Superman, invece, è un’altra storia.

Superman e Lois volano insieme in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Quando infine il protagonista indossa le vesti eroiche, non rappresenta l’opposto della sua versione umana, ma bensì una sua naturale evoluzione: un eroe che non vuole mettere in mostra le sue spropositate capacità sovrannaturali, ma bensì limitarsi a fare il suo dovere.

Infatti, soprattutto all’occhio dello spettatore contemporaneo, potrebbe risultare quasi fuori luogo che l’arma più tagliente di Superman sia la sua ironia: raramente arriva allo scontro fisico e, il più delle volte, si limita ad acchiappare i furfanti e a consegnarli illesi alla giustizia.

E con Lex Luthor non è da meno.

Ombra

Lex Luthor è un irresistibile paradosso.

Tutto nel suo personaggio racconta un contrasto interno: si dichiara una sublime mente criminale, ma è ridotto ad un covo nelle fogne di Metropolis, si racconta crudele e spietato contro i suoi nemici, ma il suo sidekick lo inquadra perfettamente come villain da operetta…

…eppure, il contrasto con Superman ha un lato nondimeno inquietante.

Superman e Lex Luthor in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Riuscendo a trasmettere un messaggio che solo il protagonista può sentire, Luthor riesce a stanare Kal-El, intrappolandolo nella sua abile rete di esche che, una dopo l’altra, illudono il protagonista di poterlo facilmente sconfiggere, per poi trovarsi lui stesso vinto dal suo unico punto debole: la Kryptonite.

Fra l’altro, il piano di Luthor viaggia in un equilibrio piuttosto interessante fra la più classica macchinazione da villain fumettistico e un taglio realistico abbastanza inaspettato – visti i toni della pellicola – la spietata speculazione edilizia.

In realtà Luthor è solo una miccia che scatena dei profondi complessi morali del protagonista, ancora una volta impotente davanti alla morte di una persona amata, in una sequenza anche piuttosto angosciante in cui Lois Lane, di fatto, viene sepolta viva.

Una sofferenza troppo grande per essere sopportata due volte, e che getta le basi per un’evoluzione ulteriore del personaggio che, insieme al secondo villain più volte – Zod – aprì le porte ad un altro, scintillante successo: Superman II (1980).

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Lilo & Stitch – La storia che già conoscevi

Lilo & Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp è il remake live action dell’omonimo Classico Disney del 2002.

Di cosa parla Lilo & Stitch?

Lilo è una ragazzina che può contare solo su sua sorella, ma finalmente potrebbe trovare l’amico perfetto per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilo & Stitch?

In generale, no.

Purtroppo, già il Classico aveva qualche problema nello scioglimento della vicenda, ma era altresì molto forte nel suo antefatto e nella parte centrale, sforzandosi di dare una struttura coerente alla narrazione, e riuscendo nel complesso a portare in scena un prodotto ben riuscito.

Al contrario, il suo corrispettivo live action fallisce già solamente nelle sue premesse, ma ancora di più nel costruire disordinatamente una trama che si basa su un pericolosissimo presupposto: lo spettatore conosce già la storia, quindi non ha bisogno che gliela racconti davvero di nuovo.

In altri termini, un piccolo disastro.

Fretta

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

L’antefatto di Lilo & Stitch, per nessun chiaro motivo, è pervaso da una devastante fretta.

L’antefatto del Classico, con cui è impossibile non fare un paragone, era breve ma efficace nel mettere in scena i personaggi e le loro dinamiche, creando anche un piccolo ma efficace climax narrativo che portava Stitch a scappare e il Dr. Jumba ad essere riportato in scena con un nuovo obbiettivo.

Al contrario, il live action recupera solo le parti essenziali dell’attacco e le comprime all’interno di un’introduzione che si basa, come detto, sul pigro presupposto che le vicende raccontate siano già ben note allo spettatore, e quindi non ci sia bisogno di raccontarle effettivamente, ma solo di riassumerle.

In questo modo i personaggi non hanno il minimo tempo di respirare e di posizionarsi in scena, diventano le pallide ombre delle loro ben più iconiche controparti a due dimensioni, e questo non aiuta anche a farci distogliere l’attenzione dal loro drammatico character design, che ricorda il ben noto caso dell’Ugly Sonic.

Ma, riguardo alla coppia Dr. Jumba e Pleakley, si può aprire una parentesi parzialmente positiva. 

Alternativa

Con l’ottima eccezione di Stitch, i personaggi alieni ci accompagnano verso una devastante uncanny valley.

E il film, a suo modo, ne è consapevole.

Sarebbe stato veramente difficile dare personalità e spessore, financo espressività, a personaggi il cui character design funziona così bene nell’animazione tradizionale e assomiglia così tanto ad un incubo lovecraftiano nella versione a tre dimensioni – fra l’altro, per un assurdo ed incomprensibile principio di renderli il più realistici possibile.

Jeff Braff in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Per questo, la maggior parte del loro screentime è nelle vesti umane.

La scelta della coppia di attori in questo senso è stata forse la più azzeccata dell’intera pellicola, in quanto i due – particolarmente Billy Magnussen nei panni di Pleakley – sono riusciti davvero ad abbracciare la fisionomia e i caratteri dei personaggi, e a portare in scena una storia nel complesso abbastanza coerente, per quanto poco memorabile.

Ma il vero problema è l’assenza di Gantu.

Per quanto per certi versi la sua presenza potesse sembrare del tutto accessoria all’interno del Classico originale, al contrario era essenziale per inserire un villain finale veramente temibile e che caricasse di una – a tratti pure eccessiva – drammaticità lo scioglimento della vicenda…

…e, soprattutto, per non intaccare la personalità di Jumba, che doveva rimanere un personaggio grigio, un po’ cattivello ma, nel complesso, positivo: un adorabile pasticcione incapace di gestire la sua creazione, anche nel suo picco finale di totale follia.

Tuttavia, dovendo prendersi sulle spalle la grande mancanza del suddetto villain finale, finisce per diventare inutilmente cattivo, financo genuinamente crudele nei confronti di Lilo, particolarmente nella scena dove la attira in casa sua distruggendo tutti i suoi importanti ricordi.

Ma fosse lui il problema…

Svuotata

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Uno degli elementi che più contraddistingueva Lilo & Stitch da molti altri Classici Disney era l’ambiguità di Lilo.

Per questo nel 2002 le si era lasciato così tanto spazio all’inizio per raccontarla nelle sue manie e nella sua incontenibile aggressività, proprio a tratteggiare una bambina problematica che aveva sofferto moltissimo la perdita dei genitori, e che per questo viveva nell’inconsapevolezza di un mondo tutto suo...

…non riuscendo a trovare il suo posto, né nel complesso di danza, né altrove.

Stitch e Lilo in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E per questo era altrettanto importante che si confrontasse con un personaggio così caotico come Stitch, e che entrambi riuscissero a superare la loro inconsapevolezza nei confronti del mondo – potremmo quasi dire egoismo – riuscendo invece ad abbracciare una fondamentale scala di valori.

Per questo la banalizzazione del live action fa ancora più male.

Stitch, Lilo e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Non sapendo tratteggiare Lilo se non all’ombra della sua controparte del 2002, il film le toglie ogni profondità e la rende semplicemente un personaggio cattivo che non si rende conto di esserlo, dovendo tra l’altro dirlo esplicitamente, vivendo sempre nella grande paura delle produzioni odierne che il pubblico non riesca a seguire neanche la più semplice delle storie.

Così la giovane protagonista diventa progressivamente un personaggio ancillare rispetto a Nani, andando a togliere ogni tipo di valore all’atto centrale, che era fondamentale per definire come l’inconsapevolezza di Lilo distruggesse ogni possibilità della sua famiglia di esistere…

Lilo & Stitch live action

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

…tramite una serie di gag che rappresentano la sezione più iconica del Classico di partenza e che vengono indegnamente banalizzate in una serie di siparietti oltre che ripetitivi, inutilmente definiti dalla più blanda comicità slapstick e a misura di bambino.

Una dinamica che purtroppo si riflette anche negativamente su Stich, sostanzialmente privato del suo fondamentale – quanto imperfetto – arco evolutivo, diventando semplicemente e banalmente caotico e con un cambiamento per nulla costruito nel finale.

Ma non manca anche il frangente squisitamente politico…

Vincente

Nani deve essere una vincente.

Una purtroppo grave piaga delle produzioni mainstream degli ultimi anni è la necessità di parlare al pubblico femminile, risultando al contempo del tutto incapaci di farlo, rendendo spesso le protagoniste obbligatoriamente aderenti ad un modello standard di successo che consentirebbe loro il riscatto…

…andandole invece unicamente a rinchiudere in un nuovo stereotipo.

Così Nani non può intraprendere una maturazione legata alla cura di Lilo e alla creazione di una famiglia sana, ma deve obbligatoriamente essere un genio della biologia che si deve trattenere dal realizzare il proprio destino per via della famiglia che le è stata imposta.

Stitch e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E la risoluzione del problema, pur non così soddisfacente nella pellicola originale, è così palesemente programmatica all’interno del live action, al punto che gli altri personaggi – Lilo per prima – finiscono per orbitare intorno alla figura di Nani e alla sua realizzazione, non servendo per molti versi a nient’altro.

Di conseguenza, il sogno di Ohana che ci ha accompagnato per decenni viene totalmente banalizzato nella sua importanza di raccontare una famiglia diversa, ma che comunque può trovare la sua felicità e compattezza, con l’ennesima major che vuole dimostrarsi dalla parte delle donne…

…ma negando loro, di fatto, qualsiasi tipo di complessità.

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Comico Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film Surreale

8½ – Lo squallido catalogo dei miei errori

(1963) di Federico Fellini rappresenta forse il film più intimo e sentito della sua filmografia, oltre ad un apripista per la seconda parte della sua carriera, più vicina all’onirico e al surreale che al neorealismo (se così si può chiamare).

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 213 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla ?

Guido è un regista che deve assolutamente preparare il suo prossimo film, incalzato da produttori, attori e amanti per qualcosa che non riesce davvero a concepire…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 8½?

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

rappresenta la più sublime ed intensa riflessione felliniana, uno spaccato che ci permette realmente di penetrare la mente del regista e che rappresenta il punto di passaggio perfetto da La dolce vita (1960) al resto della sua carriera, con una formula che il nostro cinema tentò più nel tempo volte di replicare con scarso successo.

E la bellezza dell’opera sta proprio nel modo in cui Fellini si mette a nudo, in maniera davvero sincera verso se stesso e verso il proprio pubblico, con le sue manie e i suoi peccati quasi ridicoli, ma perfettamente portati in scena da un superbo Mastroianni, che seppe così dimostrare la pluralità delle sue capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Stallo

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è malato di sé stesso.

La sua situazione iniziale è quasi desolante: un uomo poco più che quarantenne confinato in un ritiro per la terza età, sottoponendosi a delle cure che sono più dei palliativi rigenerativi per un’angoscia esistenziale che si riflette anche sul suo aspetto tremendamente invecchiato e fragile.

Una ricerca di pace e di serenità che è facilmente guastata ora dall’imperiosa figura del Commendatore, che lo intima a più riprese di dare effettivamente avvio alla produzione del film – rappresentazione piuttosto ovvia delle case di produzione che assillavano Fellini dopo il successo de La dolce vita

Marcello Mastroianni e Sandra Milo in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

…ora dalla miriade di attrici e attori che esigono, pretendono e non danno mai nulla indietro, se non la costante sensazione di essere infestato da problemi che Guido non si sente in grado di risolvere, riuscendo solo a modellare gli interpreti in figure del suo passato e del suo presente, demoni di cui non riesce a liberarsi.

Infatti, è anche e soprattutto un racconto di liberazione della colpa.

Colpa

Anouk Aimée in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è colpevole.

Ad un livello più superficiale e immediato la sua colpa è l’infedeltà nei confronti della moglie – alter ego di Giulietta Masini, compagna e musa – per tutto il primo atto un convitato di pietra insieme al marito dell’amante, che è costantemente richiamato dalle parole di Carla, facendo sentire Guido un eterno secondo…

…e che infine, richiamata proprio dal protagonista, appare in scena, scontrandosi immediatamente, già solo con la sua presenza semplice e austera, con la figura invece chiassosa dell’amante, venendo presa al laccio dal desiderio del marito di modellare e riraccontare il suo presente, ma rifiutandosi quasi immediatamente.

L’intento di Guido è infatti metterle così in scena il suo passato e presente così da poterlo finalmente controllare e quindi capire, per potersi infine depurare da quelle colpe che sente che lo tengono a terra, impedendogli di librarsi verso gli orizzonti che desidera fare suoi.

Ma la colpa più importante – e anche più profonda – è l’educazione clericale: la stessa è proprio rappresentata come incastonata in un luogo segreto ed impenetrabile, che si apre solo per pochi momenti agli occhi del protagonista e solo per ribadirgli di dover tornare sotto i dettami della chiesa altrimenti…

Extra Ecclesiam nulla salus

Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.

Ma questa colpa, questo peccato originale viene da lontano…

Passato

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il tormento presente è in gran parte derivato dal passato.

Il passato ha infatti per Guido una doppia valenza: da una parte è un ricordo felice e rasserenante, con i suoi piccoli riti segreti che ancora vivono nella mente presente, con le cure amorevoli di molte donne – prima di tutto la madre – che ora non fanno più parte della sua vita.

Infatti la nostalgia per questo passato ben più semplice è identificata anche dall’angosciante visione di una sorta di aldilà in cui Guido può finalmente rivedere i suoi genitori – principalmente il padre – costretti in un paesaggio acre e angosciante, financo lugubre – con il padre che si stende nella fossa – e comunque con continui richiami al presente – la moglie e il Commendatore.

Particolarmente quest’ultima è una figura chiave che svela la seconda e fondamentale valenza del passato, ovvero quella della colpa, particolarmente la colpa sessuale: come il padre chiede all’imperiosa figura presente del produttore del comportamento del figlio, ricevendo un sordo brontolio di insoddisfazione, lo stesso si propaga anche nella colpa, anzi nelle colpe passate.

Una delle origini delle sue disperazioni presenti, soprattutto nei confronti delle donne, è proprio il peccato di aver voluto assistere allo spettacolo erotico di Saraghina, per cui viene punito proprio dall’ordine clericale che lo tormenta ancora nel presente, e che lo porta a relazioni amorose così disordinate.

Insomma, Guido vorrebbe solo ordine.

Obbiettivo

Claudia Cardinale in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il protagonista vive nell’ombra di un sogno impossibile.

In questo senso il cinema si intreccia con la vita reale, in un sogno ad occhi aperti in cui finalmente Guido riesce a mettere in ordine le figure passate e presenti, creando un harem in cui viene meticolosamente servito e coccolato, e dove può scegliere arbitrariamente quali donne avere ancora intorno e quali scartare.

Con questa scena si svela quindi il pensiero quasi infantile che domina la mente del protagonista, e che si espande anche nel sogno cinematografico di raggiungere la perfezione filmica, rappresentata dalla eterea presenza di Claudia Cardinale, simbolo di purezza, ordine e serenità che Guido vorrebbe finalmente raggiungere.

Per questo, il finale è duplice.

Davanti alla grottesca parata dei provini per il film, per cui Guido appare insoddisfatto nel suo plateale ribadire il disperato tentativo di controllo, la scena si sposta nella surreale ambientazione della navicella spaziale in costruzione, che diventa sfondo per il definitivo fallimento dell’operazione, in cui Guido si spara un colpo alla testa e così mette un punto a tutto il grottesco spettacolo…

…oppure no?

Il vero finale di è inafferrabile: Guido assume definitivamente le vesti di regista – del film e della vita – e riordina la sua esistenza in una parata di cui però non è solo orchestratore, ma anche attivo partecipe, riducendo così a riconciliarsi con tutti i suoi demoni in una rassicurante atmosfera carnevalesca e circense…

…che ci racconta, forse, un Fellini finalmente libero di esprimere la sua arte al di fuori di paure ed imposizioni.

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Le notti di Cabiria – Dall’alto al basso

Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini è una pellicola dedicata all’omonimo personaggio già apparso brevemente in Lo sceicco bianco (1953).

A fronte di un budget di circa 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) fu un enorme successo commerciale700 mila dollari – grazie anche alla vittoria come Miglior film straniero agli Oscar del 1958.

Di cosa parla Le notti di Cabiria

Cabiria è una prostituta che sembra essersi presa tutte le sfortune della vita. Ma forse una speranza c’è ancora…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le notti di Cabiria?

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Le notti di Cabiria è una splendida esplorazione felliniana dei numerosi strati sociali della Roma della fine del Decennio, spaziando fra diversi tagli narrativi, dalla più serena comicità alla dramma più straziante.

Difficile comprendere a così grande distanza di tempo la portata storica del racconto di una figura sociale così scandalosa come la prostituta, all’interno fra l’altro di un panorama di personaggi senza una particolare distinzione fra buoni e cattivi, ma con un’accattivante scala di grigi.

Amarezza

Cabiria è un personaggio profondamente incattivito.

L’apertura ci racconta un panorama idilliaco, in cui una coppia di innamorati passeggia allegramente nelle campagne romane, per poi improvvisamente mutare tono: l’uomo sottrae la borsetta alla donna e la getta nel fiume, dove questa rischia di morire.

Un momento di passaggio fondamentale in cui la protagonista muore e rinasce, di nuovo consapevole delle sua sua posizione di emarginata sociale per cui è impossibile riscattarsi, allergica ad ogni tipo di umanità nei suoi confronti, che non può altro che portare ad un giudizio di valore:

È una che fa la vita…

Espressione antiquata per indicare una donna che fa la prostituta.
Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

E la sua antipatia si espande a tutti i rapporti con gli altri personaggi, a cominciare da Wanda, la sua vicina di casa, da cui non vuole essere assolutamente aiutata, pena l’ammettere di essere stata gabbata in un momento di leggerezza in cui ha abbassato la guardia.

Infatti, Cabiria vive in un sogno.

Margine

Cabiria e Alberto Lazzari in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Nonostante il suo carattere turbolento, la protagonista crede che un riscatto sia ancora possibile.

E questo avviene ancora una volta nell’incontro con Alberto Lazzari, che, abbandonato dalla fidanzata, sceglie invece la compagnia di Cabiria, che si illude di essere effettivamente al centro dell’interesse del divo del cinema, di poter essere la sua nuova compagna.

Ma basta poco per essere scalzata dalla bellezza eterea della compagna di Alberto, che ritorna improvvisamente nella sua vita, spingendo la protagonista nuovamente ai margini della scena – e dell’interesse dell’attore, che prima la rinchiude in bagno, poi la congeda con una mazzetta.

E, giunti così in alto, non si può che scendere…

…molto in basso.

Prospettiva

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria vive in uno stato di potenza…

…di fallimento o di rinascita.

Nonostante la sua posizione sociale marginale, la protagonista ci tiene a rimarcare di essere riuscita a costruirsi una vita dignitosa – anzi, si scoprirà nel finale che è riuscita a mettere da parte una cospicua cifra sempre in funzione di un possibile riscatto futuro.

Ma Cabiria sa anche di essere in bilico.

E la prospettiva della pericolosità della sua ambigua posizione le appare chiara solo nel viaggio nelle grotte, sede dei veri emarginati sociali, crollati nella miseria più assoluta e sorretti dalla fragile e occasionale carità di pochi uomini buoni.

In questa amara desolazione emerge particolarmente la figura di Elsa, un tempo protagonista delle notti romane, ora definitivamente scomparsa dalla circolazione, vivendo delle illusorie speranze di potere ancora recuperare il suo precedente status.

E questa prospettiva, apparentemente così fine a sé stessa, è fondamentale per il terzo atto.

Ciclo

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria è bloccata in un ciclo?

Il drammatico scherzo ai danni della protagonista a teatro è solo un’ulteriore rappresentazione – anzi, forse la più straziante – di quel sogno che la protagonista sembra incapace di abbandonare, nonostante le umilianti conseguenze, tali da farla nascondere per ore all’interno del teatro.

Eppure la vita sembra darle un’occasione nuova di zecca per riscattarsi, per abbracciare quel destino che Frate Giovanni le racconta come assolutamente naturale e auspicabile – il matrimonio – persino con un uomo che conosce da pochissimo tempo, ma che sembra genuinamente interessato a lei.

E così lo spettatore è ottimamente rappresentato dalla figura di Wanda, che osserva preoccupata il totale abbandonarsi di Cabiria a questo nuovo sogno, scegliendo consapevolmente di liberarsi di tutti i suoi averi di troppo per cominciare una nuova vita.

E l’angoscia non fa che crescere più la protagonista mostra i suoi averi e più la coppia si avvicina al dirupo davanti al quale Cabiria crolla nell’ennesima consapevolezza di essere stata usata solo per soldi, e pure tramite una costruzione astrusa quanto genuinamente straziante.

Eppure, non è finita.

L’ultimo momento della pellicola, in cui Cabiria sembra definitivamente destinata alla miseria precedentemente mostrata, viene invece illuminato dalla giocosa apparizione della folla festante, per cui la dolorosa lacrima sul volto della protagonista diventa quasi un vezzo, quasi un trucco da pagliaccio felice.

Per raccontarci che, nonostante tutto, una speranza di rinascita c’è ancora…

…e ancora.

…e ancora.

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Bong Joon-ho Comico Drammatico Film Giallo Grottesco Mistero

Memorie di un assassino – Le parallele intersecate

Memorie di un assassino (2003) è il secondo film della ricca filmografia di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2,8 milioni di dollari – anche grazie alla distribuzione in Occidente a quasi vent’anni dall’uscita, è stato un ottimo successo commerciale: 12 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Memorie di un assassino?

Corea del Sud, 1986. In una piccola cittadina di campagna si susseguono una serie di omicidi piuttosto efferati nei confronti di giovani donne. E i metodi di indagine della polizia sono quantomeno dubbi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Memorie di un assassino?

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Memorie di un assassino rappresenta un punto di partenza fondamentale per ricoprire la filmografia di Bong Joon-ho, che già qui presenza la sua cifra distintiva fra comico, grottesco e drammatico, in un incontro piuttosto peculiare, ma estremamente efficace.

Di fatto il film inganna lo spettatore facendogli credere che la via verso il finale è già segnata e che lo sviluppo della storia sarà piuttosto lineare, riuscendo invece a sorprenderlo in un’evoluzione dei personaggi veramente sottile e perfettamente calibrata.

Insomma, da riscoprire.

Metodi

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I metodi della polizia sono quantomeno discutibili.

Park Du-man si fa largo all’interno di un caso spinosissimo a colpi di intuizioni senza alcuna base logica e con un atteggiamento fin subito aggressivo e perentorio, volto a individuare immediatamente il colpevole perfetto per chiudere il caso nel minor tempo possibile.

E, in maniera davvero sorprendente, la regia rende questo aspetto della vicenda apertamente grottesco, ma senza banalizzare la questione, anzi usandola come strumento per definire caratterialmente le due figure dei detective protagonisti e del panorama in cui si muovono.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I due poliziotti infatti sono incastrati in un contesto sociale particolarmente gretto, in cui le investigazioni vengono condotte, nella quasi totale mancanza di mezzi, quasi totalmente alla cieca, per i sentito dire, per i pettegolezzi che si rincorrono e chiusi grazie al tribunale popolare che sembra avere sempre la meglio.

E in questo senso l’arrivo del nuovo detective è emblematico.

Parallela

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Seo Tae-yun subisce immediatamente la giustizia sommaria.

In un contesto in cui il minimo indizio può portare alla condanna, il semplice chiedere indicazioni diventa stalking e la situazione precipita anche simbolicamente in un fosso, e ogni tentativo di recuperare la situazione – aiutare la donna a risalire – diventa invece la prova definitiva che lo porta ad essere ammanettato alla macchina.

E questo breve ma significativo incontro già basta per intraprendere un’indagine parallela, del tutto estranea ai disordinati tentativi di creare un caso sul primo malcapitato che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, seguendo invece la pista seminata dalla ben più attenta Kwon Kwi-ok, l’unica che trova una prova concreta.

Così finalmente il detective riesce a costruire una rete di indizi effettivamente significativa, basata su effettivi indizi, testimoni e collegamenti un minimo credibili fra i vari elementi in gioco, che lo portano in direzione di una figura apparentemente insospettabile.

Ed è a questo punto che Memorie di un assassino mi ha sorpreso.

Costretto

Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

La direzione del film appare chiara, quasi scontata.

Lo spettatore e lo stesso detective si aspettano di riuscire a seguire una linea chiara che li porterà ad inchiodare il vero colpevole, soprattutto grazie alle insperate tracce di sperma, che potrebbero essere la prova schiacciante per condannare quello che ormai sembrava il killer designato.

Questa ritrovata sicurezza conduce gradualmente Seo Tae-yoon ad avere una visione sempre meno oggettiva del caso e un’ossessione crescente verso il colpevole, che sembra scivolargli dalle mani ad ogni nuovo assassinio che non è riuscito a sventare.

Per questo l’arrivo dei test del DNA, l’unica via che ormai gli sembrava percorribile per arrestarlo, nella sua totale inutilità definisce l’ultimo atto del suo fallimento, che lo porta, di fatto, ad essere tutto quello che odiava:

esecutore di una giustizia sommaria.

Memories of a Murder finale

Il finale di Memories of a Murder è il suo punto più alto.

Nonostante Park Du-man sembra essersi lasciato il caso alle spalle, il destino lo riporta inevitabilmente nel primo luogo del delitto, dove ammette che effettivamente non c’è più niente da vedere, nonostante la regia indugi su un eloquente primo piano stretto che racconta l’aspettativa del personaggio di trovare qualcosa.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

E infine quel solitario scalo fognario diventa il punto di incontro mai prima riuscito fra il killer misterioso e il detective, che pende dalle labbra dell’unica, nuova testimone, ancora una volta incapace di dargli la prova schiacciante per chiudere il caso.

E ora?

Ci chiede Park Doo-man guardandoci direttamente negli occhi.

Sipario.

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Comico Commedia Dramma familiare Film I classici di Robin Williams

Mrs. Doubtfire – L’amore disgregato

Mrs Doubtfire (1993) di Chris Columbus, noto in Italia anche col sottotitolo imbarazzante di Mammo per sempre, è un classico della cinematografia di Robin Williams.

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un enorme successo commerciale: 219 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Mrs. Doubtfire?

Daniel è un padre stupendo, sempre presente con i figli, ma molto meno sopportabile come marito. E, una volta sottoposto al divorzio, dovrà prendere altre vie per stare vicino ai suoi amati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mrs. Doubtfire?

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Mrs. Doubtfire è una splendida commedia familiare che riesce a riflettere – come già per Chris Columbus in Mamma ho perso l’aereo (1990) – in maniera piuttosto fuori dagli schemi sui modelli di genere, evadendo l’idea stringente della famiglia unita come prerogativa della felicità della stessa.

Tuttavia, un trigger altert è dovuto: come tipico di altri prodotti dell’epoca, è un film apertamente discriminatorio nei confronti della comunità queer, particolarmente delle persone transgender e transessuali, come purtroppo ci si poteva aspettare considerando il tema di fondo.

Eccesso

Robin Williams con i suoi figli in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel è una forza irrefrenabile.

La prima scena inquadra da sola il personaggio, capace di regalare performance attoriali e vocali giocose e divertentissime, ma incapace di darsi un limite, di accettare le imposizioni esterne, persino a costo di perdere il lavoro.

Un entusiasmo che si conferma nella sequenza del compleanno del figlio, l’ultima goccia che fa definitivamente scoppiare il rapporto con Miranda, che si sente comprensibilmente scavalcata dalla figura del marito e che non riesce più a stare dietro alle sue continue follie.

E qui si apre un punto interessante.

Miranda (Sally Field) in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Mrs. Doubtfire avrebbe potuto semplicemente fare un’inversione delle parti, in cui la madre era il genitore assente e fissato con la carriera, e invece il padre appariva come il parente presente e attivo nella vita dei figli, nonché l’unico verso il quale andavano le loro attenzioni.

E invece la situazione familiare è ben più sfumata, e racconta un matrimonio che semplicemente non funziona più, ma dei figli che manifestano un attaccamento emotivo ad entrambe le figure genitoriali – non a caso, la madre non vuole mai abbandonarli o lasciarli a se stessi.

Ma c’è di più.

Valore

Nonostante la situazione familiare sia cristallina per noi spettatori, non lo è per la società.

In una sottile critica ad un sistema economico che inquina persino qualcosa di inquantificabile come l’affetto familiare, Daniel viene giudicato un padre poco adatto per la sua situazione economica instabile – e subito da risolvere.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

E la scelta del protagonista non solo di accettare un lavoro abbastanza degradante per le sue capacità, ma di affiancarlo anche al lavoro domestico per la sua stessa famiglia, racconta perfettamente il suo imprescindibile bisogno di stare vicino ai suoi figli.

Ed è un valore della pellicola non spingere troppo sul lato della incapacità iniziale del personaggio maschile di non saper condurre l’economia domestica, utilizzandola solamente come spunto per qualche gag, ma risolvendola rapidamente con l’impegno del personaggio nel migliorarsi per il bene dei suoi figli.

Così i ruoli della storia non sono mai così netti.

Colpa

Robin Williams e Pierce Brosnan in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel non è esente dalle colpe.

Ed è importante che lui stesso le riconosca.

In un altro contesto – come l’indimenticabile Genitori in trappola (1998) – si potevano facilmente giustificare i dispetti del protagonista nei confronti del nuovo interesse romantico di Miranda, e si poteva rendere lo stesso un evidente insidiatore della famiglia.

Al contrario Stuart è fin da subito raccontato come un personaggio attento e amorevole, capace di cambiare il suo punto di vista sui bambini per amore di Miranda, e per questo non merita davvero di essere punito da Daniel – che infatti si discolpa salvandolo dal rischio di soffocamento da lui stesso provocato.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

In generale, la grande mascherata del protagonista è davvero maligna, in quanto mette la moglie in una posizione veramente complessa da accettare, tanto che la risoluzione felice del film non è immediata, ma anzi passa per un ulteriore scontro fra i due. 

E per questo il ritratto familiare che si compone alla fine è tanto più importante quanto durante tutto il film Daniel si è dimostrato un adulto attento alle esigenze dei suoi figli, e per questo viene infine ricompensato con un programma televisivo tutto suo e un felice compromesso per stare con i suoi bambini…

Robin Williams nella scena finale di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

…nonostante questo non preveda di ritornare con la moglie.

Il finale di Mrs. Doubtfire è infatti quasi avanguardistico nel raccontare come una famiglia possa trovare la propria felicità anche al di fuori di un matrimonio solido e di una presenza costante di entrambi i genitori, aprendo le porte a più tipi di nuclei familiari che, oggi come ieri, non sono sempre considerati adatti.

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Comico Commedia Dramma storico Drammatico Film di guerra Robin Williams

Good Morning, Vietnam – La guerra bugiarda

Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson è un dramma storico con protagonista Robin Williams.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – 13 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 123 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Good Morning, Vietnam?

Saigon, 1965. Adrian Cronauer è la nuova voce della radio locale dell’esercito americano. Ma non è proprio il tipo di persona da lasciarsi minacciare dall’autorità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Good Morning, Vietnam?

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In generale, sì.

Good Morning, Vietnam ricorda per molti versi il poco successivo L’attimo fuggente (1989): Robin Williams diede il meglio di sé nel ruolo di voce fuori dal coro che sbaraglia le carte in tavola in un contesto rigido e stringente, venendo per questo osteggiato dalle autorità in carica.

La narrazione circa la Guerra in Vietnam ovviamente non raggiunge i picchi di Vittime di guerra (1989), ma riesce comunque a puntellare un film sostanzialmente comico di momenti piuttosto drammatici e rivelatori sulla mala condotta statunitense durante il conflitto.

Insomma, un’opera meno conosciuta di questo magnetico interprete, ma che merita di essere riscoperta.

Presenza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Adrian Cronauer è fin da subito un personaggio fuori dagli schemi.

Introdotto dal neutro bollettino della radio locale, il protagonista sfida subito le autorità locali, dimostrandosi del tutto indifferente davanti alle velate minacce e al tentativo di imbrigliarlo all’interno di un sistema molto fragile e perfettamente calibrato.

E, infatti, fin dalla sua prima apparizione, dimostra di essere una minaccia.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Cronauer non ha infatti alcun rispetto nei confronti dei maldestri tentativi del suo esercito di mantenere una certa facciata, ed esplode in un’irresistibile sequela di siparietti comici e irriverenti, conquistando il cuore dei militari in un’inarrestabile popolarità.

Ma questo suo essere fuori dagli schemi si riflette molto anche nei suoi rapporti con la popolazione locale.

Consapevolezza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Il protagonista non ha consapevolezza del conflitto e delle sue regole non scritte.

Cronauer si scontra infatti continuamente col feroce razzismo che domina il panorama politico, ma a cui si contrappone sia indirettamente – intrecciando sinceri rapporti con la popolazione locale – sia direttamente – prendendo di petto le ingiustizie, pure a costo di scatenare una rissa.

E, più in generale, il suo comportamento è ben diverso dal resto dei suoi conterranei anche per come affronta l’educazione dei vietnamiti, non limitandosi ad un’istruzione di base, ma fornendo ai suoi nuovi amici degli strumenti effettivi per affrontare la scomoda presenza straniera.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In maniera invece ben più irriverente, la sua posizione ribelle è ben raccontata dalla scelta di diffondere ufficiosamente una delle più tristi e recenti realtà del conflitto – l’attentato al bar – proprio a risvegliare le coscienze di un esercito che vive di un sogno filtrato dalle comunicazioni ufficiali.

Ma quindi cosa vuole davvero raccontarci Good Morning, Vietnam?

Speranza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Pur nella sua semplicità, Good Morning, Vietnam è un racconto di speranza.

La pellicola non vuole né semplificare né attenuare la gravità del conflitto, ma anzi la vuole sottolineare proprio affiancando ad una piacevole comicità pochi momenti struggenti e significativi, come a rappresentare il sogno fittizio di pace venduto agli statunitensi che viene facilmente svelato. 

E lo fa anche e soprattutto nel rappresentare i rapporti impossibili fra Cronauer e la popolazione locale: come una possibile relazione con Trinh è scoraggiata fin dall’inizio, anche la stessa amicizia con Tuan sembra minata dal profondo risentimento del giovane ragazzo verso la insopportabile presenza straniera.

Eppure, nonostante lo scoraggiamento temporaneo, il protagonista rimane fino all’ultimo una voce libera e irriverente, capace persino di sbeffeggiare il suo stesso presidente, rappresentazione, a più di dieci anni di distanza, della risposta di un paese affranto da una guerra bugiarda.

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2025 Animazione Avventura Comico Commedia Fantascienza Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl – I dettagli fanno la differenza

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham, tradotto impropriamente in italiano con Le piume della vendetta, è l’ultimo capitolo della fortunata saga omonima in stop-motion.

Il film è stato distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Candidature Oscar 2025 per Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace e Gromit vivono una quotidianità normale, facendosi largo fra le invenzioni sempre più strambe del primo. Ma forse una sta per sfuggirgli di mano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Assolutamente sì.

Avevo un ricordo abbastanza fumoso dei prodotti precedenti del duo, ma ricordavo comunque il mio apprezzamento verso i film della saga.

E non sono rimasta delusa.

Vengeance Most Fowl è uno di quei titoli che poteva tranquillamente essere estremamente banale ed infantile, ma che riesce invece a colpire per una particolare attenzione su pochi aspetti essenziali che la rendono un ritorno sullo schermo particolarmente indovinato.

Dipendenza

Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Wallace è dipendente dalle sue invenzioni.

Il quadretto familiare che si compone nel primo atto è il punto di partenza fondamentale della pellicola: il geniale inventore è totalmente dipendente dalla tecnologia, non riuscendo ad essere autonomo neanche nelle attività più semplici – vestirsi e persino addentare un toast a colazione.

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Ma un particolare fondamentale in tutta questa situazione – che risulta essenziale nello sviluppo della storia – è il ruolo di Groomit: le invenzioni del suo padrone non possono agire autonomamente, ma hanno bisogno dell’imprescindibile contributo del fedele compagno.

Di fatto, Wallace non vuole mai lasciare il suo amico da solo.

Anche a costo di essere fin troppo invadente.

Standard

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Il vero problema del Norbot è la spersonalizzazione.

Il proattivo robot da giardino sembra voler scalzare ingenuamente il personaggio di Groomit, riuscendo a copiarne le azioni in maniera decisamente migliore e, soprattutto, ben più rapidamente, seguendo dei precisi standard che rendono ogni sua creazione priva di personalità.

In questo senso è indicativa l’aggressiva invasione degli spazi personali di Groomit, che, a differenza del compagno, ha piacere nel potersi impegnare nel giardino e cosi a renderlo qualcosa di suo, e non un perfetto cortile uguale a tutti gli altri – come infine il Norbot lo rende.

Ma non c’è nessuna malizia nelle azioni di Wallace.

L’ingenuo inventore vuole onestamente migliorare la vita del suo compagno, sicuro che anzi ogni persona al mondo desideri godere dei medesimi, perfetti standard, gli stessi giardini tutti i uguali fra loro – capaci anche di risolvere le scarsità economiche della famiglia.

E per questo è arrivato il momento di parlare Feathers McGraw.

Anomalo

Feathers McGraw in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Feathers McGraw è uno degli elementi che rendono Vengeance Most Fowl così speciale.

Il villain della pellicola prende le mosse dalle classifiche figure del genere: un macchinatore dell’ombra, una mente criminale in cauta attesa della propria occasione per riuscire nuovamente a brillare – e a vendicarsi dell’ignobile cattura.

Ma il suo aspetto è la chiave della deliziosa ironia che lo rende così speciale.

Il volto del malefico pinguino è totalmente inespressivo, proprio perché manca degli elementi fondamentali per poterlo essere: occhi vitrei, nient’altro due punti neri sopra ad un becco abbozzato su cui non è possibile che appaia alcuna smorfia.

E questa sua inespressività si va a scontrare in maniera veramente geniale con il suo subdolo piano, che colpisce proprio al cuore dei suoi nemici, facendo leva sull’ingenuità di Groomit, permettendogli di deviare la personalità del Norbot senza che lo stesso se ne renda conto.

E da qui si sviluppa il punto di arrivo della riflessione della pellicola.

Personalità

i Norbot cattivi in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Le creazioni sono specchio del loro creatore.

Non è un caso che i Norbot Malefici non siano apertamente cattivi: come ci si poteva aspettare un caos irrefrenabile alla Gremlins, al contrario, proprio come Feathers McGraw, la loro cattiveria si basa sullo sfruttare quello che l’ambiente gli concede, riuscendo a tramare nell’ombra…

…senza essere scoperto fino all’ultimo momento.

E, secondo lo stesso concetto, il Norbot nella sua forma originale vuole semplicemente e ingenuamente aiutare chiunque, anche a costo di risultare invadente e fuori luogo -proprio come il suo stesso creatore, Wallace, è nei confronti di Groomit.

Una riflessione apparentemente banale e già vista, ma che in realtà ben si inserisce all’interno di una consapevolezza piuttosto contemporanea di come le nuove tecnologie – particolarmente, l’intelligenza artificiale – non sappiano creare veramente niente da zero, ma definiscano il loro agire in base agli input che gli diamo.

Per questo il Norbot può essere il compagno fondamentale nella vita del duo protagonista, riuscendo infine – al pari di Wallace – ad apprezzare l’insostituibile individualità di Groomit, e agendo intorno alla stessa senza volerla scalzare.

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2024 Avventura Comico Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Musical Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wicked – Il coraggio di essere un musical

Wicked (2024) di Jon M. Chu, più correttamente noto come Wicked: Parte I, è appunto la prima parte di una duologia tratta dall’omonimo musical.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 145 milioni di dollari – è già un successo commerciale: 455 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Wicked (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore attrice protagonista per Cynthia Erivo
Miglior attrice non protagonista per Ariana Grande
Miglior montaggio
Migliore colonna sonora originale
Miglior scenografia
Migliori costumi
Miglior trucco e acconciatura
Migliori effetti visivi
Miglior sonoro

Di cosa parla Wicked?

La malvagia Strega dell’Ovest è sempre stata malvagia? O la storia è più complessa di come Il mago di Oz (1938) ci volesse far credere?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wicked?

In generale, sì.

Per quanto abbia indubbiamente apprezzato Wicked, mi rendo conto che non sia un prodotto per tutti i palati: nonostante la parte musicale sia a mio parere gestita ottimamente, integrata in maniera molto naturale nella storia…

…al contempo rimane un musical che inciampa in piccole forzature ed ingenuità narrative, con una parte cantata fondamentale all’interno della narrazione stessa, che comunque è riuscita a incantare persino una non amante del genere come me.

Insomma, se fossi in voi gli darei una possibilità.

Fine?

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

L’inizio di Wicked è tanto più importante…

…proprio perché arriviamo alla fine.

Ricollegandosi direttamente al classico del 1938, l’attacco del film racconta la conclusione più classica della storia: la malvagia Strega dell’Ovest è stata uccisa e finalmente il regno può vivere in pace sotto le amorevoli cure della Strega dell’Est.

Ma, nonostante la gioia si diffonda in tutto il reame, nonostante la storia dominante si presenti con ben poche sfumature, una domanda dal pubblico diventa fondamentale per raccontare la vera storia dell’antagonista.

Ed è fondamentale avere già in mente il punto di arrivo sia per una dinamica molto classica del creare curiosità nella mente dello spettatore – che vuole ora scoprire come si è arrivati ad un finale tanto cruento…

…sia perché è necessario per il film giungere a conclusioni simili alla trama originale, ma con delle premesse ed un racconto ben diverso, che porti in scena le diverse sfumature di una storia altrimenti molto semplice e favolistica.

Ed è sempre su questi toni che si sviluppa anche il personaggio di Elphaba.

Mostro

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Elphaba è un mostro.

E non viene mai messo in dubbio.

La sua nascita avviene sotto il segno dell’inganno, da un tradimento ed un sorso di troppo, così che la bambina sia fin da subito posta ai margini, nascosta, continuamente maltrattata solamente per il suo aspetto – e per i pregiudizi che ne conseguono.

Un odio che ci accompagna fino all’arrivo all’università della sorella, in cui Ephalba si dimostra ben poco propensa a lasciarsi ulteriormente maltrattare, anticipando le battute che le verranno rivolte, e subendo irremovibile gli sguardi di disgusto dei presenti.

E proprio in questo frangente il film mostra le sue carte.

Da una parte, una certa debolezza narrativa: la scelta della protagonista come pupilla da parte Madame Morrible avviene davvero in un battito di ciglia, mentre poteva essere meglio costruita ed approfondita – nonostante le premesse ci fossero assolutamente tutte.

Dall’altra, un ottimo uso dell’elemento musicale: come poteva essere un patchwork di momenti musical, Wicked utilizza le canzoni per dare particolare enfasi ai pensieri e ai discorsi dei personaggi, tramite climax ben controllati che rendono più naturale il passaggio dal parlato al cantato.

In questo caso, Ephalba canta il suo sogno.

Ma non è l’unica ad averne uno…

Influenza

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda è figlia del suo tempo.

Un personaggio che potrebbe sembrare la classica Regina George, ma che in realtà fin da subito si dimostra il prodotto della cultura che l’ha cresciuta con l’idea di essere la migliore, la più bella e, soprattutto, la più meritevole…

…come viene confermato anche dagli altri personaggi che la circondano e che vivono di luce riflessa.

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Proprio su questa china Glinda continua a raccontarsi e riraccontarsi come personaggio di buon cuore, che concede alla sua compagna di stanza persino un angolino per vivere, e che per la sua bontà viene costantemente elevata…

…persino quando mette in mostra i suoi tratti apertamente manipolatori, particolarmente quando induce l’ingenuo Boq ad invitare Nessarose, la sorella di Glinda, alla festa segreta.

E la sua evoluzione si riflette molto bene anche nella sua controparte, Fiyero.

Risveglio

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda e Fiyero vivono un risveglio simile.

La presa di consapevolezza di entrambe queste figure di privilegiati, fino a quel momento ciechi davanti alla complessa realtà che li circonda, passa attraverso la visione di ingiustizie a cui, nonostante il loro passato, non riescono ad essere indifferenti.

Il percorso finora più completo è sicuramente quello di Glinda, che assiste ad una cattiveria che non può veramente sopportare, quando, in risposta alle ulteriori prese in giro dei suoi compagni, Ephelba improvvisa uno strano ballo in cui mette ancora più in mostra la sua stranezza.

Ariana Grande e Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E così unirsi a lei in questo momento è solo il primo passo per fare davvero qualcosa di altruista, e ha il suo apice nell’iconica Popular, – canzone che non cambia di fatto niente, se non aiutare la sua nuova amica ad essere un po’ più sicura di sé stessa e protetta dalle angherie altrui.

Ma non è un cambiamento del tutto positivo: rimane un’amarezza di fondo nell’assistere al cambio di passo degli altri personaggi solo per l’intervento benefico di Glinda nei confronti di Elphaba – la stessa, che fino ad un attimo prima era vittima di cattiverie del tutto gratuite…

Risveglio

Il cambiamento di Fiyero percorre invece altre strade.

Il ragazzo è fin da subito mostrato come l’alter ego di Glinda, forse pure più ingenuo nel bearsi della sua condizione, e anche di più nel non trovare alcun ribrezzo figura di Ephelba, ma anzi accettarla con amicizia e curiosità fin da subito.

La sua consapevolezza avviene davanti alla messa al bando del Dottor Dillamond e al cucciolo in gabbia portato a lezione, che Fiyero coglie la prima occasione per liberare, capendo, pur non avendo lo stesso background di Ephelba, di non poter accettare questa ingiustizia.

Ma la sua maturazione sta ancora muovendo i primi passi quando ci lasciamo alle spalle Shiz per avviarci verso la Città di Smeraldo, quando finalmente Glinda fa il primo passo indietro lasciando spazio a Ephelba per avere il suo meritato successo.

E a questo punto vale la pena di aprire una parentesi sulla trama politica.

Contorno

La trama politica di Wicked è quasi un contorno.

Per quanto sia fondamentale – e lo diventerà ancora di più probabilmente nella seconda parte – le viene concesso ben poco spazio, anzi è ridotta proprio agli elementi essenziali, svelando solo parte della macchinazione da parte del Mago di Oz.

Lo stesso Mago è raccontato fin da subito come un affabulatore, e neanche particolarmente scaltro, che, per dinamiche ancora tutte da chiarire – e che speriamo siano chiarire nella seconda parte – è riuscito a prendere posto a capo del regno, nonostante non abbia alcuna capacità magica.

E tornando proprio sull’argomento della debolezza narrativa, non si può dire che sia del tutto centrato il totale cambio di passo del Mago quanto di Madame Morrible, affrontato con fin troppa leggerezza, per quanto sia svelato nei suoi tratti essenziali.

E allora è il momento di ribellarsi.

Ribellione

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

La ribellione di Ephelba è il punto di arrivo naturale del suo personaggio.

Vivendo tutta la vita sotto l’egida della discriminazione e dell’isolamento sociale, le sta tanto più stretto il ruolo di simbolo di un sistema che vive dell’oppressione degli ultimi, che entrambi i villain avevano fin da subito preparato per lei.

Per questo la sua rivolta è tanto più importante in quanto racconta una riappropriazione di simboli più o meno imposti – il cappello, il mantello e, soprattutto, la pelle verde – tutti caricati di un valore negativo solo perché ormai propri della sua persona.

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E se Ephelba non vuole più far parte di un sistema che la ribalta a suo piacimento, Glinda ne rimane succube, anche se con una consapevolezza aggiuntiva: la futura Strega dell’Est, per quanto finalmente realizzi il suo sogno di essere effettivamente una figura importante del panorama politico di Oz…

… è anche internamente consapevole di essere nient’altro che una pedina scelta per convenienza a fronte del voltafaccia della sua amica, verso cui si rivolge con poche parole estremamente significative per la definizione del loro rapporto:

Spero tu sia felice.

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Intolerable Cruelty – Il punto più basso?

Intolerable Cruelty (2003), noto in Italia col titolo terrificante di Prima ti sposo, poi ti rovino, è una commedia romantica diretta da Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piuttosto sostanzioso – 60 milioni di dollari – ha avuto un riscontro piuttosto modesto al botteghino: appena 120 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Intolerable Cruelty?

Miles Massey è un brillante avvocato matrimoniale che si trova a scontrarsi con un ostacolo inaspettato: una donna fascinosa, quanto pericolosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intolerable Cruelty?

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Per quanto Intolerable Cruelty sia da molti considerato uno dei punti più bassi della carriera dei Coen, e nonostante sia un lavoro in cui si trova molto poco della loro cinematografia, l’ho trovata nel complesso una commedia frizzante e piacevole.

Infatti con i suoi colpi di scena, i suoi interpreti comici irresistibili, fra cui un George Clooney in ottima forma, e quel pizzico di surreale sicuramente opera del duo registico, è risultato infine un prodotto che è riuscito ad intrattenermi ed a divertirmi.

Insomma, dategli una possibilità.

Paradosso

Intolerable Cruelty inizia con un paradosso.

La classica dinamica della scoperta del tradimento goffamente celato, prende una via del tutto inaspettata introducendo una violenza esagerata e grottesca, che sembra comunque dare del tutto ragione ad un irresistibile Geoffrey Rush.

Ma presto scopriamo che questo siparietto non serviva ad altro che ad introdurre il protagonista del film, Miles Massey, e la sua brillante capacità di prendere una storia e manipolarla fino a ribaltarla completamente a favore del suo cliente.

George Clooney in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Poi c’è l’altra faccia del mercato del matrimonio.

Una dinamica altrettanto grottesca porta in scena la spietata Marilyn Rexroth, una sottile macchinatrice che ben si inserisce all’interno del surreale club delle arrampicatrici sociali, che saltano avide di matrimonio in matrimonio.

Un quadretto tanto più deliziosamente ironico se si ascoltano i dialoghi originali, in cui i mariti vengono appellati come solitamente si parla dei figli:

She was divorcing from his third.

Stava divorziando dal suo terzo (marito).

E allora l’amore può avere un ruolo?

Specchio

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Marilyn e Miles sembrano destinati ad incontrarsi.

Due personaggi che possono essere ora nemici giurati, impegnati nel mettersi vicendevolmente i bastoni fra le ruote – l’una creando complessi inganni per arricchirsi, l’altro cercando di minare gli stessi a proprio vantaggio…

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

…ora perdutamente innamorati, non tanto per il loro naturale fascino, ma soprattutto per come si possono specchiare l’uno nelle azioni dell’altro, vittime di un’irresistibile chimica che li porta naturalmente ad attrarsi. 

Su questo fronte ho apprezzato che Intolerable Cruelty non abbia spinto troppo l’acceleratore sull’idea di un amore risolutivo, che avrebbe esorcizzato ogni tipo di negatività dei personaggi in funzione dell’happy ending.

Infatti, la via per il lieto fine è piena di insidie.

Trappola

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Uno degli aspetti che ho più apprezzato di Intolerable Cruelty è la costruzione dell’inganno di Marilyn.

Infatti noi come Miles veniamo facilmente portati a pensare di aver perfettamente compreso le vere intenzioni del personaggio, nel suo indurre il futuro marito – o, meglio, la sua prossima preda – a fidarsi totalmente di lei.

Al contrario, dopo un’abile costruzione che fa leva proprio sui recenti timori di Miles di essere destinato ad una vita infelice dedita esclusivamente al suo lavoro, lo stesso cade nella trappola di Marilyn, che finge di fidarsi totalmente suo nuovo marito.

E invece basta poco a Miles per scoprirsi la vera vittima del piano della sua amata, per trovarsi senza più casa e moglie in un colpo solo, e, con un nuovo abile colpo di scena, diventare finalmente parte di una coppia paritaria…

…che infine non ha più nessuno ostacolo davanti a sé.

Neanche l’impenetrabile Massey prenup.