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Oliver & Company – Dietro una maschera

Oliver & Company (1988) di George Scribner è il ventisettesimo Classico Disney nonché l’ultimo film considerato propriamente parte del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget abbastanza importante – 31 milioni di dollari – ebbe, al tempo, un riscontro piuttosto scarso: appena 53 milioni di dollari alla sua prima uscita.

Di cosa parla Oliver & Company?

Oliver è un gattino che sogna di avere una famiglia tutta sua. Ma forse non andrà tutto come sperato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Oliver & Company?

Dodger e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Assolutamente sì.

Oliver & Company è una parentesi piuttosto interessante della storia Disney: un breve e isolato esperimento di rendere un Classico un musical a tutti gli effetti, con un’ironia piuttosto brillante ed una dose di violenza decisamente sorprendente visto il target di riferimento.

Di fatto, la pellicola è un thriller mascherato da film per l’infanzia, che riesce in più momenti a nascondersi dietro ad un umorismo leggero e spensierato ed un topos narrativo piuttosto classico.

Insomma, da riscoprire.

Durezza

Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Oliver vive in un mondo ostile.

L’apertura della pellicola è piuttosto esplicativa per raccontare da una parte il disperato desiderio del protagonista di trovare un nucleo di appartenenza, dall’altra il facile infrangersi di un sogno davanti ad una realtà che lo esclude fin dal primo momento.

Per questo Why Should I Worry? è una delle grandi maschere dietro cui il film si nasconde.

Dodger in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Dopo averci fatto stringere il cuore per la sorte infelice di Oliver, il film ci accompagna alla conoscenza della sua nuova famiglia, introdotta con il grande inganno di Dodger, che si racconta fin da subito come un abile approfittatore, anche a costo di rivalersi sui più deboli.

E proprio il racconto di una vita di strada spensierata è un perno fondamentale della pellicola nel suo volersi in parte raccontare come un’avventura dai toni spensierati e giocosi, un chiaro tentativo di ammorbidire diversi frangenti successivi per nulla felici, anzi piuttosto angoscianti e crudelmente realistici.

E, infatti, la crudeltà del film è tutta da scoprire.

Reale

Il racconto di Oliver & Company è, per certi versi, fin troppo reale.

Anche se il film non vuole essere mai troppo esplicito in questo senso, appare chiaro che Fagin si sia fatto intrappolare da uno strozzino che non sarà mai capace di ripagare, e che ora arranca nel disperato tentativo di raccogliere dei rottami per sfuggire alla morte certa.

La sua figura è un altro elemento fondamentale e funzionale alla trama per smorzare la violenza della maggior parte delle scene in cui è coinvolto, con una comicità slapstick piuttosto semplice, ma anche complessivamente ben integrata nella narrazione.

Ed è una scelta assolutamente fondamentale di fronte a frangenti così estremi – come la morte dei due cani di Sikes – da essere per forza portati fuori scena, rimanendo vivissimi nella mente dello spettatore, soprattutto nei momenti in cui i cani sono usati come metodo di punizione.

E il coinvolgimento di Jenny non è che ulteriore elemento di angoscia della pellicola, per cui Sikes non si fa scrupoli neanche nel rapire una bambina pur di mettersi qualche soldo in più in tasca, portando ad un adrenalinico finale che riesca a funzionare così bene per un unico motivo: l’ottima gestione della coralità.

Spazio

I cani in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Gestire un film corale è una sfida notoriamente complessa.

Ci si trova spesso davanti a pellicole che vorrebbero far dialogare le diverse parti in scena e arricchire il racconto popolandolo di diverse figure, ma che finiscono per fare importanza solo ai pochi, effettivi protagonisti – lasciando sullo sfondo tutto il resto.

Al contrario Oliver & Company riesce a dare a tutti il giusto spazio, definendo i membri della gang con pochi ma funzionali tocchi, senza mai perdersi in caratterizzazioni banali o stereotipate – anche se ce ne sarebbero spesso tutti i presupposti – rendendo tutti i membri, nel loro piccolo, assolutamente indispensabili.

Georgette in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

In questo modo, il film assume effettivamente la natura di storia corale, con anche degli importanti cambiamenti di passo di figure come Georgette, introdotta come villain secondario – o di passaggio – ma che infine sceglie di partecipare al salvataggio della sua piccola padrona.

E proprio intorno a questo personaggio che ruota uno dei pericoli più importanti della pellicola.

Incantesimo

Fagin e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Quando si ha fra le mani dei personaggi grigi, soprattutto in film per l’infanzia, lo scioglimento è la parte più rischiosa.

Infatti capita più spesso del dovuto che i protagonisti della storia, anche quelli più spiccatamente negativi, vengano come colpiti come da un incantesimo nella conclusione della pellicola, che li porta sotto la rassicurante morale del tutti possono essere migliori, negandogli il passaggio fondamentale in questa direzione.

Invece la bellezza del finale di Oliver & Company è che, di fatto, nulla cambia.

Come mi aspettavo una chiusura alla Lilli e il vagabondo (1955), in cui si arrivava senza farsi troppi problemi al punto di arrivo designato – e moralmente accettabile – in realtà lo status quo rimane sostanzialmente immutato: a fronte della significativa scelta di Oliver di rimanere con Jenny, tutti gli altri continuano, anzi esaltano la loro vita di strada.

Così infine Oliver e Dodger si devono separare un po’ a malincuore, ma nella consapevolezza di aver scelto la vita più giusta per loro, senza nessuna forzatura, come ben racconta lo screzio fra Goergette e Tito, che si rende infine conto di come lui e la barboncina siano di fatto incompatibili e che non possano forzarsi l’uno sull’altro.

E questa è una morale tanto più importante di un qualsiasi happy ending idealizzato.

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Basil L’investigatopo – L’atto centrale

Basil L’investigatopo (1986) di Burny Mattison, David Michener, Ron Clements e John Musker è il ventiseiesimo Classico Disney.

A fronte di un budget medio per il periodo – 14 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Basil L’investigatopo?

Londra, 1897. Hiram Flaversham è un giocattolaio particolarmente abile, che per questo entra nel mirino di un personaggio non proprio raccomandabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Basil L’investigatopo?

Assolutamente sì.

Il ventiseiesimo Classico Disney è, arrivati a questo punto, uno dei migliori prodotti di questa fase: una narrazione puntuale e avvincente, che riesce a seguire strade già battute, ma adattandole ottimamente all’economia narrativa e al poco minutaggio a disposizione.

Nondimeno i personaggi principali – Basil e Ratigan – sono due figure incredibilmente memorabili: l’uno che prende le mosse da Sherlock Holmes in maniera irresistibilmente comica, e l’altro che riesce ad incarnare uno dei villain più iconici della Disney, anche per la violenza efferata che lo caratterizza in non pochi momenti.

Insomma, da riscoprire.

Medias res

Uno dei meriti più importanti di Basil L’investigatopo è la gestione del tempo.

Nella consapevolezza di godere un minutaggio limitato, la pellicola riesce ad incastrare una storia lineare all’interno di una narrazione già avviata: ci bastano così poche scene per introdurre Hiram Flaversham e la sua abilità artigiana, che diventano subito oggetto dell’interesse di un misterioso personaggio nell’ombra…

E, come tutte le scene di violenza della pellicola, il rapimento del giocattolaio è ottimamente orchestrato fuori scena, raccontato ora attraverso le ombre drammatiche proiettate sul muro, ora tramite i suoni che la disperata Olivia è costretta ad ascoltare all’interno della credenza.

Ma questa è solo la scintilla iniziale per portarci alla conoscenza di Topson e conseguentemente di Basil, introdotti con lo stesso simpatico espediente di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) – le versioni più piccole dei corrispettivi umani che si vedono brevemente in scena.

E il primo approccio con Basil è particolarmente brillante.

Olivia e Topson entrano nella vita dell’investigatore quando questo è già invischiato nella faida con Ratigan, quando sta già cercando di incastrarlo seguendo una logica comprensibile solo a lui, che però si rivela infine fallimentare, rendendo ancora più importante il caso di Olivia.

Infatti questa presentazione di Basil fa gioco alla trama per riuscire ad essere credibile nella scelta subitanea del protagonista di prendersi sulle spalle il caso, non andando fra l’altro ad intaccare la sua figura di stravagante investigatore totalmente concentrato su se stesso e sulla sua bravura.

Ma Ratigan merita un discorso a parte.

Ombra

Il villain di Basil L’investigatopo è uno dei più riusciti di questa fase.

Anche in questo caso bastano pochi tocchi  per caratterizzarlo come personaggio estremamente vanesio ed egocentrico, che si è costruito una nutrita cerchia di sostenitori da cui desidera solamente il costante e cieco servilismo, mettendosi sempre al centro della scena – e della canzone – con la sua impotente presenza.

E la stessa è significativa anche per definire un altro lato del personaggio.

Ratigan non è un topo, ma bensì un ratto, quindi un animale decisamente più vile e deprecabile, natura che però cerca di sublimare sia nell’aspetto estremamente curato e pomposo, sia anche nell’agire, non sporcandosi fino all’ultimo mai veramente le zampe.

Infatti la sciocca mancanza di uno dei suoi scagnozzi nel chiamarlo ratto porta allo svelamento della sua arma segreta, un enorme gatto che emerge in scena con una presentazione degna di un kaiju, e che diventa lo strumento per il concretizzarsi ancora una volta di una violenza piuttosto efferata e fuori scena…

…che è prima di tutto mentale: come Ratigan potrebbe facilmente e direttamente punire da sé i suoi nemici – come si vedrà a fine film – preferisce invece distruggerli prima mentalmente – ora con la campanella, ora con le minacce velate a Flaversham – proprio nel suo volersi raccontare come villain efferato ma elegante nel suo agire. 

Tanto più che il suo piano non è così immediato…

Pista

La gestione del piano del villain è un ostacolo non facile da aggirare.

Spesso la stessa diventa o un mezzo per la maturazione dei personaggi – come in Taron e la pentola magica (1985) – o un semplice ostacolo e minaccia in divenire – in Gli Aristogatti (1970) quanto in Red e Toby (1981) – ma difficilmente, soprattutto all’interno di un film animato per un pubblico infantile, diventa centrale alla storia.

Per Basil l’investigatopo è tutto il contrario.

Il piano di Ratigan viene svelato progressivamente pezzo per pezzo e nei suoi inquietanti dettagli, intrecciandosi perfettamente con l’investigazione di Basil, in cui dà prova delle sue capacità di brillante investigatore, ma senza mai eccedere nel raccontarlo come protagonista imbattibile, anzi.

La tridimensionalità del personaggio e la stretta correlazione con il suo antagonista è data proprio dai suoi errori.

Per quanto Basil riesca a condurre abilmente l’indagine ed ad orchestrare furbi travestimenti e macchinazioni, finisce comunque nella trappola di Ratigan, che si misura con lui proprio con i medesimi strumenti mentali, riuscendo prima a sottrargli Olivia, e poi a renderlo parte del suo stesso piano.

E così si arriva ad un momento di passaggio classico, ma che non manca di qualche sorpresa.

Metamorfosi

Il frangente del fallimento è fondamentale nella narrazione dell’eroe

Infatti il protagonista non può immediatamente risultare vincitore, anzi più viene sconfitto in prima battuta, più diventa interessante la sua rinascita che lo porta allo scontro finale – per cui gli esempi in questo senso, da Hercules (1993) fino al Re Leone (1998), si sprecano.

E proprio questo succede a Basil, che viene intrappolato nel congegno mortale di Ratigan e si rinchiude in sé stesso, arrendendosi alla sua clamorosa sconfitta, venendo poi fatto rinsavire dai suoi aiutanti – Topson e in parte Olivia – riuscendo nuovamente ad utilizzare le sue capacità mentali per trovare una falla nella macchina del suo nemico.

Il successivo frangente è perfetta nella conclusione del climax narrativo del piano di Ratingan, che lo identifica ancora come antagonista mentale, e non fisico – non prende il potere per la forza, ma sostituisce la regina con l’inganno – mentre risulta più debole nella sua sconfitta da parte di Basil, fin troppo veloce e non adeguatamente costruita.

Ma non è finita qui.

La vera sconfitta di Ratigan avviene solo quando abbandona le vesti da antagonista macchinatore e crolla nel suo più importante incubo: non essere altro che un malefico e brutale ratto, che si rifà su Basil unicamente con la sua forza spropositata che finalmente porta in scena.

E così la spettacolare scena del Big Bang segna l’ultimo momento della pellicola e la definitiva sconfitta del villain, regalandoci un simpatico prologo che aprirebbe sulla carta la via a nuovi film, ma senza che, ad oggi, si siano mai concretizzati…

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Taron e la pentola magica – Diventare una sottomarca

Taron e la pentola magica (1985) traduzione abbastanza impropria di The Black Cauldron, è il venticinquesimo Classico Disney, nonché il primo realizzato con l’utilizzo della CGI.

A fronte di un budget gigantesco per il periodo – 44 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale, senza riuscire a coprire neanche la metà dei costi di produzione.

Di cosa parla Taron e la pentola magica?

Taron è un guardiano di porci che sogna di diventare un eroe. E forse lo stesso porcello che accudisce potrebbe essere la chiave per il riscatto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Taron e la pentola magica?

Direi di no.

E per due motivi.

Da una parte, fatta eccezione delle ottime animazioni dei non morti e di qualche sperimentazione in CGI, Taron e la pentola magica non sembra un Classico Disney, ma piuttosto un prodotto sottomarca che cerca di copiare la Casa del Topo, soprattutto per i character design piuttosto blandi e poco convincenti.

Allo stesso modo, la scrittura della pellicola è davvero carente: sembra prendere lo scheletro narrativo del viaggio dell’eroe e non svilupparla in alcun modo, introducendo i personaggi nei loro ruoli – spesso direttamente detti a parole – e poi abbandonandoli totalmente a loro stessi.

Insomma, per quanto non sia confermato, la pellicola è di un blando tentativo di fare Il Signore degli Anelli targato Disney.

Contrasto

Taron e la pentola magica è sostanzialmente incapace di creare il contrasto fondamentale di inizio pellicola.

Esattamente come nella trasposizione di Jackson, il film si apre con un prologo piuttosto eloquente, dove viene definita la minaccia in atto – Re Cornelius – e l’oggetto del desiderio – il calderone – raccontando le conseguenze che causerebbe il ritrovamento del diabolico artefatto perduto.

E questo sarebbe il momento cruciale per introdurre Taron…

…e invece la pellicola ne è assolutamente incapace: la narrazione dell’eroe per caso, il contrasto fra un potere incontenibile e un protagonista che sembra incapace di prevenirlo – e per questo è così vicino allo spettatore – viene totalmente spezzata da dall’introduzione di un protagonista che che è già al suo punto di arrivo.

In questo frangente probabilmente si è voluto ricalcare la classica dinamica della canzone del sogno, in cui Taron definisce quando la storia potrà dirsi conclusa, ma risultando in una presentazione del protagonista artificiosa e poco credibile, che lo rende estremamente bidimensionale.

Oltretutto, il suo sogno dovrebbe poi essere sostituito da un nuovo obbiettivo molto più importante – in una dinamica simile a quella di Rapunzel (2010), fra gli altri – ovvero crearsi delle relazioni significative e maturare attraverso le stesse lungo il viaggio…

…peccato che è proprio la dinamica su cui il film fallisce di più.

Costruzione

La costruzione credibile di un gruppo protagonista è l’ostacolo principe all’interno di questo tipo di narrazioni…

…e Taron e la pentola magica ricade nel più classico capitombolo.

Come ci si può facilmente rendere conto confrontando il mediocre Suicide Squad (2016) e l’ottimo The Suicide Squad (2021), per costruire un solido gruppo di protagonisti è fondamentale tratteggiare in maniera significativa i loro caratteri e le loro differenze, così da raccontare il loro rapporto tramite l’incastro delle stesse.

E invece il Classico Disney non solo manca in primo luogo delle caratterizzazioni dei suoi personaggi, ma sembra come costretto a spuntare una lista di figure da mettere in scena solo per dare un contorno al protagonista: l’aiutante bislacco e pasticcione, l’interesse romantico, e una sorta di consigliere che funge anche da spalla comica.

Ed è una dinamica tanto più grave quanto il pathos del finale si basa sulla costruzione del rapporto fra i personaggi, per cui Taron infine sceglie di non voler indietro la spada che lo renderebbe l’eroe che ha sempre sognato di essere, e invece riesce a far rivivere Gurghi, personaggio per cui dovrebbe nutrire un profondo affetto…

…che però è definito solamente a parole.

Ma questa superficialità è un tratto distintivo della pellicola.

Tappe

La narrazione per tappe è una delle più difficili da realizzare.

Come l’autore ha ben in mente il percorso che vuole far percorrere ai personaggi, per creare un racconto genuino ed avvincente non deve mostrare allo spettatore il suo modus operandi, ma deve invece collegare in maniera credibile e coinvolgente i vari passi del protagonista verso il suo obbiettivo.

In questo senso soprattutto Le due torri (2003) – da cui appunto il film pesca a piene mani – è un ottimo esempio di gestione di questo tipo di narrazione, riuscendo anzi a rendere credibili i vari momenti di stallo e di difficoltà dei protagonisti, così che la vicenda non si risolva immediatamente.

Al contrario, in Taron e la pentola magica il protagonista ha tutte le soluzioni sempre a portata di mano e senza il minimo sforzo, anzi persino quelli che sembrano sulle prime degli incidenti – come essere risucchiati in un vortice d’acqua – risultano infine la chiave per la risoluzione del problema.

E, come se tutto questo non bastasse, la maialina Ewy è un becero McGuffin.

Così, se Hitchcock ha fatto scuola in Psycho (1960) nel fingere che un mero vettore della trama fosse fondamentale per la storia, Taron e la pentola magica utilizza la piccola scrofa il tempo necessario per fare proseguire la narrazione, per facilmente scalzarla con altri personaggi nel medesimo stesso ruolo.

E non è neanche la parte peggiore…

Spreco

Re Cornelius potrebbe entrare nel novero dei villain più sprecati della storia della Disney.

Per quanto il suo character design non sia niente di così speciale od originale, la sua presenza scenica è particolarmente terrorizzante e poteva, al pari di Sauron, essere esplorata in molte direzioni, riuscendo invece a brillare solo in pochi momenti di astuzia – come quando lascia Taron libero di condurlo al calderone – ma che nel complesso aggiungono poco al suo personaggio.

Così risulta un villain con un minutaggio minuscolo, quasi insignificante nell’economia narrativa, tramutandosi quasi in uno strumento della trama per la maturazione – almeno sulla carta – del protagonista, da cui fra l’altro neanche viene sconfitto, diventando anzi vittima del suo stesso desiderio di potere.

E, per quanto quest’ultima dinamica poteva risultare non poco interessante, al contempo va ancora di più a calcare la mancanza di connessione fra l’eroe e l’antagonista: come Cornelius è uno dei tanti ostacoli nella maturazione del protagonista, Taron è una delle tante strade percorribili per la vittoria della villain…

…che diventa quasi il primo e generico boss di un videogioco con cui il protagonista deve mettersi alla prova.

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Red e Toby – Crescere divisi

Red e Toby (1981) di Art Stevens, Ted Berman, Richard Rich è il ventiquattresimo classico Disney, nonché l’ultimo in cui venne usata unicamente la tecnica tradizionale.

A fronte di un budget abbastanza alto per il periodo – 12 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 63 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Red e Toby?

Durante una sanguinosa battuta di caccia, la madre di Red lo deve abbandonare per salvargli la vita. E l’incontro con l’umano è croce e delizia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Red e Toby?

Assolutamente sì, ma…

Avevo memoria di quanto fosse struggente il racconto del film, ma avevo totalmente dimenticato il livello di violenza e il come la stessa viene portata in scena, rendendolo un film per molti versi persino disturbante, pur essendo proprio per questo forse tra i titoli più realistici di casa Disney. 

Infatti, a differenza di molti suoi predecessori, Red e Toby evade una struttura piuttosto insidiosa per cui il film non è un film, ma piuttosto una raccolta di momenti uniti da una spesso debole trama, risultando invece ben strutturato, con solo un inserto narrativo che sembra una pausa dalla narrazione.

Insomma, da riscoprire.

Sottrazione

Nella consapevolezza di dover gestire una trama piuttosto violenta, Red e Toby lavora per sottrazione.

Così non ci risparmia tutti i momenti di angoscia pressante nella fuga disperata della madre di Red, che per molti versi ricorda il momento analogo in Bambi (1942), ma che risulta infine ammorbidito grazie alla scena immediatamente successiva di aiuto degli altri animali nei confronti del protagonista…

…ma che non ci risparmia l’orrore nel sentire lo sparo in lontananza e l’inevitabile morte della volpe.

In altre parole, è come se ci fossero due livelli.

Il livello più adulto, più strettamente realistico – rappresentato da questo e da altri momenti in cui la violenza è presente ma più o meno sublimata, come gli spari con svolazzi di piume o la pila di pelli di animale che appare molto eloquentemente nel camion di Amos Slad, fino al terribile terzo atto…

…e il livello più infantile, più giocoso, che riassume in altri termini la vicenda in atto: la sciocca caccia di Sbuccia e di Cippi verso il povero bruco, che viene costantemente insidiato nella sua tana, ma che riesce in qualche modo ad averla sempre vinta e a salvarsi la vita.

Infatti, ogni barlume di speranza è facilmente soffocato.

Amici

Red e Toby possono essere amici?

La rappresentazione iniziale del loro rapporto – e del loro comportamento in generale – è tipica della fase infantile, del non riuscire a vedere le barriere sociali naturalmente imposte, cercando invece in un compagno di giochi un amico per la vita.

Un comportamento così ignaro dei pericoli che porta ad una totale inconsapevolezza di Red nel tentare nuovamente un approccio con Toby nonostante gli avvertimenti di quest’ultimo, creando un’aperta discordia fra gli umani stessi, racconto di una mentalità testarda e delirante, potenzialmente trasmessa anche agli animali.

Insomma, per i protagonisti è ora di crescere a immagine somiglianza dei padroni?

Crescere

Tutta la dinamica della crescita di Red e Toby riprende molto bene il concetto di growing apart.

Infatti, nonostante fossero inizialmente accomunati dalla medesima innocenza infantile, la stessa si va a scontrare con un mondo adulto ben più crudele, di cui all’inizio solo Toby sembra capirne le regole, riuscendo a diventare il cane di punta del suo padrone per le sue spietate battute di caccia.

Una consapevolezza che ben si riflette anche nel nuovo incontro con Red, la cui crescita – rappresentata da un character design veramente indovinato, con i baffetti non ancora formati che indicano come il personaggio sia un adulto di primo pelo – è solo visiva, e non mentale, tanto che si comporta ancora come un cucciolo…

…mettendo infine un punto alla sua amicizia con Toby, per una sfortunata concatenazione di eventi che lo porta prima il cane a salvare Red, poi a rivoltarsi contro di lui, accompagnandoci verso uno dei momenti più struggenti della storia della Disney: l’abbandono di Red incorniciato da una malinconica melodia.

Ed è qui che la pellicola cerca di ribilanciare i toni.

Scontro

Per dare modo a Red di maturare, il film gli concede una parentesi tutta sua…

…e solo apparentemente molto fine a sé stessa.

Infatti grazie all’incontro con Vicky, la volpe si affaccia finalmente al mondo selvaggio a cui non è mai appartenuto, definito da riti di accoppiamento da cui non esce immediatamente vincitore, anzi dovendosi scontrare con un’inabilità al vivere devastante e vergognosa, ma che è anche un tassello fondamentale per definire il terzo e ultimo atto.

La parte finale della pellicola è quella più apertamente spaventosa – ma anche più educativa: si giunge al punto massimo del climax ascendente dello scontro, in cui Amos si lancia all’attacco insieme a Toby per vendicare Fiuto, con metodi violenti quanto meschini, che infiammano entrambe le parti, facendoli persino mutare d’aspetto.

Ma la parte educativa è paradossalmente il personaggio dell’orso, in cui Amos dovrebbe rivedere se stesso nella sua furia omicida e distruttiva, andando ad incastrarsi nelle sue stesse, diaboliche trappole, per poi risultare del tutto irriconoscente davanti alla inaspettata umanità di Red, che decide di salvare entrambi i suoi nemici.

Ed è infine Toby a mettere fine alla lotta…

…ma senza ricomporre il quadro iniziale: nonostante la pellicola si chiuda con un siparietto comico fra Amos e la signora Tweed, la vera chiusura è lo sguardo di Red verso il suo vecchio amico e la sua nuova vita, che non si azzarda più a intralciare, rimanendo fisso ai margini nella scena, ancorato al suo nuovo contesto sociale.

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Le avventure di Bianca e Bernie – La pezza grottesca

Le avventure di Bianca e Bernie (1977) di Wolfgang Reitherman, John Lounsbery e Art Stevens è il ventitreesimo Classico Disney, nonché il primo ad aver avuto un sequel.

A fronte di un budget abbastanza significativo – 7.5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 48 milioni di dollari nella sua prima uscita.

Di cosa parla Le avventure di Bianca e Bernie?

Penny è una bambina orfana tenuta prigioniera dalla perfida Madame Medusa. E le persone su cui può contare sono davvero piccolissime…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Bianca e Bernie?

Bianca in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

In generale, sì.

Le avventure di Bianca e Bernie è forse il film che ha più sofferto del Medioevo Disney – anzi, forse è il primo film da considerare propriamente parte dello stesso – in quanto vive di idee anche ottime, momenti ormai diventati iconici e indimenticabili nella memoria collettiva…

…ma che soffre di non pochi difetti derivati probabilmente da una gestione produttiva piuttosto frettolosa e disordinata, con degli errori che potrebbero appartenere ad un qualunque prodotto di scarsa qualità di questo periodo, non certo a Casa Disney.

In ogni caso, merita un’occasione.

Spunto

Inizio di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

Le avventure di Bianca e Bernie fa a gara con Bambi (1942) per l’apertura più struggente.

Infatti non sappiamo di fatto niente di questa bambina, eppure la sua disperata richiesta di aiuto, con in sottofondo una melodia struggente che ci accompagna per tutti i titoli di testa, ci fa inevitabilmente stringere il cuore per un personaggio di cui non sapremo quasi nulla fino a metà film.

Infatti, i veri protagonisti devono ancora arrivare.

Il lato probabilmente più vincente della pellicola prende le mosse dall’ottimo La carica dei 101 (1961), creando un delizioso microcosmo sotterraneo di minuscoli agenti speciali, di salvatori certificati – rescuers in originale – che si espanderà – pur con qualche inciampo – lungo tutta la pellicola.

Ed è ancora più vincente come i protagonisti non siano inizialmente presentati come una coppia, ma anzi come due perfetti sconosciuti la cui caratterizzazione è totalmente indipendente, ma infine inevitabilmente interconnessa: come Bernie è un inserviente un po’ maldestro, ma che non si tira mai indietro…

Bernie sale sulla bottiglia in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

…Bianca è una fascinosa agente che ha gli occhi di tutti i personaggi addosso fin dalla sua prima apparizione, ma che sceglie consapevolmente di avere come suo compagno l’ultimo gradino della scala sociale, ma che ha saputo più di tutti dimostrare il suo valore nei pochi minuti in cui è stato introdotto.

Così la parte centrale ha un twist inaspettato.

Mistero

L’atto centrale è forse quello più centrato dell’intera pellicola.

Invece che dare immediatamente le indicazioni ai protagonisti per trovare il proprio obbiettivo, la pellicola imbastisce un’ottima trama mistery che riporta i due piccoli personaggi a seguire le tracce della bambina scomparsa, e così a tratteggiarne il carattere – pur senza riuscirci fino in fondo per via di un ultimo atto abbastanza claudicante.

Così scopriamo che Penny è vittima di una doppia ingiustizia: non solo è stata rapita, ma viene fatto credere che in realtà sia scappata, ormai insoddisfatta di un’esistenza in cui sembra impossibile trovare una nuova famiglia, nel suo essere anche piuttosto determinata, come ben dimostrano i successivi e continui tentativi di fuga.

Madame Medusa al telefono in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

Il punto di arrivo è infine la conoscenza di Madame Medusa, personaggio che riesce al contempo ad essere un buon villain, rafforzato anche dall’ambiente – il negozio d’antiquariato crepuscolare, poi la angosciante palude – e dai personaggi di cui si circonda – i temibili coccodrilli Bruto e …

…ma anche peccare nell’essere un palese riciclo di Crudelia Demon – da cui alcune sequenze, particolarmente quelle della macchina, che sono sostanzialmente le stesse – pur nella sua iconico stile decadente e nel suo carattere incontrollabile, quasi capriccioso, che ne definisce la insostenibile avidità.

E giungiamo così infine all’ultimo atto.

Monco

Madame Medusa allo specchio in una scena di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) ventitreesimo Classico Disney

L’ultimo atto della pellicola sembra monco in molti punti.

Se infatti l’elemento più vincente è la costruzione ottimamente orchestrata della situazione da risolvere, aggravata dai capricci di Medusa, che non desidera un qualunque dei gioielli ritrovati da Penny, ma bensì uno specifico e introvabile diamante, con anche la parvenza di un piano da mettere in atto…

…lo stesso si perde in snodi narrativi che paiono quasi improvvisati, aggravati da degli eventi errori di prospettiva – topi, marmotte, tartarughe e gufi sono tutti della stessa dimensione – e dall’inserimento di personaggi aggiuntivi nel ruolo di aiutanti dei protagonisti che appaiono in ultima analisi totalmente superflui.

Una tendenza che ben si esplica nel finale.

Anche qui si alterna la sequenza dell’avventura della caverna veramente ben pensata, in cui vediamo concretizzarsi le paure di Penny – e di qualunque bambino al suo posto – oltre a definire in maniera puntuale perché l’intervento dei piccoli protagonisti era così fondamentale…

…ad uno scioglimento della vicenda che appare veramente improvvisato, con la carica dei personaggi di riserva che entra in scena nel momento giusto per dare una chiusura alla storia, accompagnandoci ad un epilogo sicuramente appagante, ma che poteva essere costruito in maniera decisamente più vincente.

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Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Coming soon…

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Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.