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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

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I sogni segreti di Walter Mitty – Sognare con i piedi per terra

I sogni segreti di Walter Mitty (2013) è uno degli ultimi lavori da regista cinematografico di Ben Stiller – e anche uno dei più divisivi.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo: 188 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla I sogni segreti di Walter Mitty?

Walter Mitty è un impiegato di una rivista di fotogiornalismo, ed ha una particolarità: sognare costantemente ad occhi aperti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I sogni segreti di Walter Mitty?

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Dopo aver conquistato il pubblico prima con Zoolander (2001) e poi con Tropic Thunder (2008), I sogni segreti di Walter Mitty rappresentò la svolta di Ben Stiller come regista verso il genere drammatico – e questa idea potrebbe lasciarvi spiazzati.

Tuttavia, se accoglierete benevolente questa sua nuova narrativa, ne potrete rimanere facilmente incantati: Stiller gioca molto con il genere drammatico, riuscendo a portare in scena una storia apparentemente molto prevedibile, arricchendola invece con un taglio molto credibile e coi piedi per terra.

Insomma, da non perdere.

Sogno

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty è un sognatore…

…in un mondo ostile.

Non riuscendo neanche a chiedere un appuntamento alla donna dei suoi sogni, trovandosi nel mezzo di un ridimensionamento totale dell’azienda per cui ha dato la vita, Mitty si trova bloccato in un drammatico limbo...

…che può sfuggire solo tramite il sogno.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Un sogno che non rappresenta necessariamente una rivincita, ma più in generale uno scenario in cui, finalmente, il suo personaggio diventa estremamente attivo, in cui è finalmente il protagonista, l’eroe improbabile di una vita su cui, invece, non sembra di avere alcun controllo.

Eppure, nel mondo reale sembra destinato a rimanere solo sullo sfondo.

Sfondo

Ben Stiller e Adam Scott in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty vive nelle retrovie.

Nonostante svolga un lavoro di primaria importanza, senza il quale la stessa rivista non sarebbe possibile, la sua figura è profondamente sottovalutata, considerata niente più che uno strumento per finalizzare la chiusura dell’azienda.

Anzi, Mitty è considerato proprio uno strambo, uno sfogo per i suoi colleghi quanto per Ted Hendricks, che lo deride a più riprese per il suo essere sempre sulle nuvole – al contempo, lasciandosi in più momenti gabbare da Mitty in maniera sempre più improbabile.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Per questo, l’intervento di Sean è fondamentale per più motivi.

Anzitutto, perché permette a Mitty finalmente di relazionarsi faccia a faccia con Cheryl, intrecciando una relazione che, se nel suo sogno poteva sbocciare solo se il protagonista avesse assunto sembianze altre, in realtà riesce a concretizzarsi grazie al progressivo apprezzamento della donna per le doti nascoste di Mitty.

Allo stesso modo, il mistero della foto è la scusa per Mitty per – finalmente!partire per quell’avventura che finora aveva solamente sognato, che sembra costantemente metterlo alla prova, al contempo concretizzando delle fantasie che sulla carta parevano improbabili.

E proprio qui sta il gioco del film.

Sogno…

Per il primo atto, I sogni segreti di Walter Mitty ci abitua ad un’improvvisa escalation dei sogni del protagonista, che partono da situazioni in generale credibili, per poi andarsi a perdere in dinamiche sempre più improbabili – e proprie dei peggiori B-movie.

Proprio per questo, la sua partenza improvvisa alla caccia della foto impossibile sembra l’inizio di una di queste fantasie, anche per via dell’intrusione di elementi di familiarità che sembrano propri del sogno – la torta della madre, il ristorante dell’infanzia…

…ma anche di dinamiche spiccatamente fantasiose – come la serenata di Cheryl che convince Mitty a salire sull’aereo – che potrebbero persino fare credere allo spettatore di trovarsi in una sorta di fantasia nella fantasia di inceptioniana memoria – ma che invece si frantumano davanti agli innegabili elementi di realtà.

Infatti, proprio qui è la chiave di lettura fondamentale del film.

…e realtà

Ben Stillere Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

L’avventura di Mitty è costantemente riportata con i piedi per terra.

In questa apparentemente fantasia, vengono a più riprese inseriti elementi di disturbo, che suggeriscono sempre più insistentemente che l’avventura è (quasi) del tutto reale: così Mitty cade dalla bicicletta rubata, viene attaccato da uno squalo e sbaglia totalmente il salto dall’elicottero.

Si crea così un’indimenticabile alternanza di toni e di dinamiche, in cui progressivamente la fantasia di Mitty si spegne perché, in qualche modo, non più necessaria: l’avventura della vita reale, finalmente, diventa appagante e concreta.

E proprio in questa dinamica si trova una particolare finezza di scrittura.

Stiller sceglie consapevolmente di non caricare il film di momenti eclatanti, non volendo rendere i momenti chiave della pellicola smaccatamente a favore dell’emozione facile del pubblico, ma, al contrario, li vuole raccontare come altrettanto importanti e preziosi proprio grazie alla lezione fondamentale di Sean.

Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Una figura tanto eroica che racconta come l’emozione più raccolta, vissuta senza un filtro nel mezzo, sia ancora più folgorante…

…e che, più di tutti i suoi soggetti della sua incredibile carriera, il suo preferito è sempre stato questo piccolo e timido sognatore che viveva dietro le quinte, che si riscopre infine protagonista di una realtà che sembrava averlo lasciato indietro.

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Il libro della giungla – La naturale evoluzione

Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman è il diciannovesimo Classico Disney e l’ultimo uscito sotto la supervisione di Walt Disney, che venne a mancare proprio l’anno prima.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 73 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il libro della giungla?

Mowgli è un orfano abbandonato nella giungla, che crescerà sotto la protezione (e minaccia) di diversi animali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il libro della giungla?

Mowgli, Baloo e Baghera in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Assolutamente sì.

Il libro della giungla è un ottimo esempio di racconto di formazione mascherato, la cui prospettiva cambia se visto con un occhio più adulto, capace di cogliere i sottili sottintesi presenti nella pellicola.

Inoltre, pur facendosi portatore di una mentalità molto distante dallo spettatore contemporaneo, è uno splendido spaccato della stessa, impreziosito da personaggi iconici, anche se spesso niente più che protagonisti di siparietti comici quasi fine a sé stessi.

Il libro della giungla dietro le qunte

Noi possiamo fare personaggi animali più interessanti

Queste le parole di Bill Peet, sceneggiatore di moltissimi Classici a partire da Biancaneve e i sette nani (1937), che propose l’opera di Rudyard Kipling come punto di partenza per il nuovo prodotto targato Disney.

La prima idea di sceneggiatura, che cercò di semplificare molto il romanzo originale – dove, per esempio, Mowgli faceva avanti e indietro dal villaggio – e aggiungere personaggi – soprattutto Re Luigi – fu considerata poco vendibile da Disney.

Per questo, Bill Peet abbandonò la Disney nel 1964.

A questo punto Walt Disney assunse Larry Clemmons come nuovo sceneggiatore, dandogli il libro e intimandolo più o meno scherzosamente di non leggerlo, intervenendo a più riprese nella gestione della sua ultima storia.

La sceneggiatura eliminò molte scelte di Bill Peet, ma mantenne i caratteri dei personaggi, che dovevano essere l’asse portante del film: la sceneggiatura era più un modello di scene da cui partire, poi riempite dagli sceneggiatori di gag e battute.

Il casting vocale fu essenziale.

Molta della personalità e dell’aspetto dei personaggi fu modellato sui suoi doppiatori – sopratutto per Shere Khan, doppiato da George Sanders – e inizialmente si pensava ad una partecipazione dei Beatles per gli avvolti – da cui le particolari capigliature – ma che non andò mai in porto.

L’animazione fu fatta con la xenografia e con un’animazione più grezza rispetto ad altri prodotti precedenti – specificatamente Dumbo (1941) – e gli sfondi vennero dipinti a mano.

Famiglia

La famiglia di Mowgli è usa-e-getta.

Bagheera – il padre spirituale del protagonista – non volendosi prendere in toto sulle spalle la formazione del neonato, sceglie di lasciarlo nelle amorevoli – ma potenzialmente anche pericolose – zampe di una neonata famiglia di lupi.

Un punto di partenza che però funge più da prologo: il quadretto familiare viene dopo poco vanificato dall’intrusione della missione del protagonista e dall’introduzione – seppur solo a parole – dell’antagonista.

I lupi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Per questo le poche – e uniche – battute del padre lupo di Mowgli lasciano leggermente spiazzati: il suo personaggio esprime un affetto per il protagonista che in scena è stato appena accennato, e accetta senza troppe proteste la decisione del clan di allontanarlo.

E, in questo modo, rimane l’unico personaggio a scomparire totalmente dalla scena.

Crescere

Mowgl in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Di cosa parla veramente Il libro della giungla?

Questa prima fase della vita di Mowgli è, molto banalmente, l’infanzia – e su più livelli: vivendo sotto la protezione di un branco di lupi, il protagonista è rimasto fin qui all’oscuro della vera natura della giungla – e, per estensione, della vita.

Per questo Mowgli non capisce perché Bagheera voglia condurlo in un villaggio umano, non capisce perché non può vivere in una realtà in cui fino a quel momento era stato amorevolmente accolto.

Mowgli e l'elefante in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Eppure, la sua natura indifesa è in più momenti rivelata.

Nonostante, infatti, cerchi a più riprese di imitare gli altri animali – il giovane elefante Hathi Jr., e poi Baloo – in realtà Mowgli manca proprio degli strumenti essenziali per sopravvivere in quell’ambiente – banalmente, quando si lamenta di non avere gli artigli per arrampicarsi al sicuro su un albero.

E, non a caso, mentre tutti i personaggi animali combattono con le loro risorse naturali – e sfruttando l’ambiente che li circonda – Mowgli affronta e sconfigge Shere Khan con armi squisitamente umane – il bastone e poi il fuoco.

Ma le tentazioni sono molteplici.

Tentazioni

Mowgli e Khaa in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Le tentazioni della giungla sono rappresentate da un ventaglio piuttosto variegato di personaggi

…e che si aprono a diverse letture.

Il primo – e più insidioso – è sicuramente Khaa: questo maligno serpente vive di una doppia natura, risultando infido, ma anche piuttosto fallace – vista la facilità con cui si lascia stanare da Shere Khan.

Il suo personaggio racconta molto banalmente le tentazioni che deviano l’umano dalla retta via – sempre all’interno della stringente idea sociale degli Anni Sessanta – con tentazioni appetibili e mortali insieme – droga, alcol, gioco d’azzardo…scegliete voi.

Mowgli e Re Luigi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ancora più significativo è Re Luigi.

Se considerato come villain, l’orango è l’esatto opposto di Shere Khan: così innamorato dell’umano da voler usare Mowgli per comprendere ancora meglio quel passaggio evolutivo che gli sembra negato.

Al contempo, rappresenta il potenziale smarrimento del protagonista, che, intestardendosi nell’essere un animale, nel vivere nella giungla, rischia di perdere la sua vera natura umana – e, di conseguenza, non crescere mai.

Baloo in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Infine, l’icona del film: Baloo.

Il simpatico orso rappresenta forse la figura più lontana dall’immaginario contemporaneo: come il suo personaggio sceglie una vita semplice, fatta di poche, indispensabili risorse, del vivere alla giornata e senza una particolare programmaticità…

…nella visione del tempo Baloo rappresenta una vita caotica e senza certezze – la stessa di Biagio in Lilli e il vagabondo (1955) – un’eterna giovinezza mancante del passaggio dovuto e necessario alla vita adulta (e matrimoniale).

Paura

Shere Khan in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Shere Khan è la vera minaccia.

Un villain davvero straordinario, che rimane nell’ombra per molto tempo, raccontandosi come un antagonista su più livelli: non immediatamente aggressivo, ma in primo luogo macchinatore, che ascolta quello che lo circonda e medita sul momento giusto per attaccare.

Al contempo, sembra un villain imbattibile: Shere Khan supera in violenza e forza tutti gli altri personaggi, ed è insidiato solamente dagli strumenti umani che Mowgli utilizza contro di lui – motivo per cui voleva eliminarlo preventivamente.

Shere Khan e Mowgli in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ma il confronto con Mowgli è ancora più rivelatorio.

Shere Khan rimane piuttosto stupito dall’arroganza di questo bambino, che non sembra per nulla minacciato dalla sua presenza, ancora una volta dimostrando di non avere idea dei pericoli della giungla dove vorrebbe tanto vivere.

Di fatto, l’utilizzo di armi umane segna il passaggio fondamentale del protagonista – che comincia ad abbracciare la sua umanità e capisce come deve rapportarsi con la giungla – che lo porta alla scelta fondamentale.

Mowgli e gli avvoltoi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

E la scelta appare ancora più stringente per l’incontro con gli avvoltoi.

Questo piacevolissimo siparietto comico racconta in realtà un sottofondo piuttosto lugubre: tutta l’interazione si basa sul doppio significato di being down essere giù di morale, ma anche essere giù, per terra – e di being around stare insieme, ma anche intorno, come gli avvoltoi su un cadavere…

Quindi la giusta scelta di Mowgli, se non vuole andare incontro ad un destino mortale, è scegliersi una buona moglie, che, mentre raccoglie l’acqua al fiume, racconta esplicitamente quale sarà l’appetibile vita del protagonista se deciderà di seguirla.

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La spada nella roccia – Il coming of age della Storia

La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.

A fronte di un budget di 2 milioni di dollari, fu un buon successo commerciale: 4,75 milioni di dollari nella sua prima distribuzione.

Di cosa parla La spada nella roccia?

Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La spada nella roccia?

Assolutamente sì.

Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age

…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.

Insomma, da vedere.

La spada nella roccia Produzione

La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.

Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.

Proprio come La carica dei 101 (1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.

Il casting vocale fu turbolento.

La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.

Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.

Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-up per la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.

Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.

Immaturità

Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.

Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.

Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.

E proprio qui si inserisce Merlino.

Prospettiva

Merlino rappresenta lo spettatore…

…e con lo stesso dialoga.

Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…

Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.

Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.

In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.

Per questo Artù non è Artù…

Corrispondenza

Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.

Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.

Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.

Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.

Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.

In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.

Ostacolo

Perché Artù può estrarre la spada?

Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…

…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.

E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.

Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.

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Mad Max: Fury Road – La rinascita dell’antieroe

Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller rappresenta il rilancio della saga storica di Mad Max e il sequel spirituale di Mad Max oltre la sfera del tuono (1985).

Nonostante abbia ricevuto diversi riconoscimenti agli Oscar di quell’anno, al tempo della sua uscita fu un discreto flop commerciale: con un budget fra i 154 e 185 milioni, incassò appena 380 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mad Max: Fury Road?

Mad Max, un anti-eroe perseguitato dal suo passato, si trova involontariamente coinvolto nei complessi giochi di potere di Immortan Joe e della sua Imperatrice, Furiosa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mad Max: Fury Road?

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Assolutamente sì.

Fury Road è un ottimo esempio di come rilanciare una saga così profondamente legata per estetica e per dinamiche al periodo storico di uscita – insomma, esattamente il contrario di Il risveglio della Forza, che fra l’altro arrivò in sala lo stesso anno…

Infatti Miller confezionò una pellicola che si ricollega in maniera semplice ma funzionale a quanto visto in precedenza, ricostruendo il suo antieroe e il suo mondo ancora una volta con una regia spettacolare e piena di sorprese.

Insomma, da non perdere.

Rinascita

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

L’incipit di Fury Road è fondamentale.

A ben trent’anni di distanza dall’ultimo capitolo della saga, era necessario per Miller dare un’infarinatura generale del suo protagonista anche alle nuove generazioni di spettatori, assolutamente all’oscuro dei film originali.

Per questo, sceglie di rimescolare un po’ le carte in tavola, riprendere alcuni spunti di Oltre la sfera del tuono – i bimbi sperduti che Max salvava – per raccontare un antieroe solitario, costantemente perseguitato dai suoi rimpianti, che ne definiscono l’iconica pazzia.

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E tanto basta.

La personalità di Max è infatti profondamente turbata, tanto che sceglie programmaticamente di non legarsi mai veramente a nessuno, proprio per i dolorosi ricordi di non essere riuscito a salvare le persone a cui più teneva.

E proprio per questo il suo personaggio funge anche da vettore per catapultare – e catapultarsi – nella rinnovata scena politica dominata da Immortan Joe – fra l’altro una vecchia conoscenza, in quanto interpretato dal compianto Hugh Keays-Byrne, il villain di Mad Max (1979).

Succube

Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Non a caso, per tutto il primo atto Max è succube della situazione.

Spogliato, rasato, reso letteralmente una sacca di sangue alla mercé di uno di War Boys, il suo coinvolgimento nella preparazione della nuova corsa ci permette di gettare uno sguardo al dietro le quinte, alla precisa gerarchia della Cittadella.

Di fatto, Immortan Joe, preparato per presentarsi al pubblico con i suoi simboli distintivi, affama – o, meglio, asseta – il suo popolo mantenendo il totale monopolio sulla seconda risorsa più ricercata in questo nuovo mondo: l’acqua.

Hugh Keays-Byrne come Immortan Joe in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E il suo punto di forza è proprio la santificazione.

Immortan Joe non è un semplice dittatore, ma un personaggio che è riuscito a rendersi epico, in quanto immortale e apparentemente imbattibile, già solo andando a rimodellare il respiratore che lo tiene in vita non come un handicap, ma come una maschera feroce e temibile.

Sulla stessa linea, il villain sventa qualsiasi ipotesi di rivolta proprio modellando la sua forza militare intorno ad un mito eroico dal sapore norreno, in cui ogni soldato, anche il più inetto, può sperare di essere accolto nel Valhalla, la valle degli eroi.

Per questo Furiosa è fondamentale.

Ribellione

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

La ribellione di Furiosa viaggia su più livelli.

Di fatto, la donna vuole tornare alla sua terra d’origine, a quella terra dell’abbondanza da cui è stata rapita in giovane età e a cui ha cercato più volte di fare ritorno, fallendo anche per la sua crescente popolarità agli occhi di Immortan Joe.

Al contempo, Furiosa vuole salvare altre donne succubi, seppur in maniera diversa, della Cittadella.

Infatti, Immortan Joe tiene sotto scacco un gruppo di giovani e fertili donne con il solo obbiettivo di rimpolpare le sue file di War Boys, illudendole in una vita piena di lusso e comodità, per renderle sostanzialmente delle schiave sessuali.

E questa illusione, al pari del ricatto dell’acqua, è fortemente penetrata nelle menti di questi personaggi, tanto che in più di un’occasione una di loro ha l’istinto di tornare sui suoi passi, nella prigione dorata forse preferibile alla devastazione del mondo esterno…

E sia Furiosa che le madri sono accomunate dal loro essere indispensabili.

Non a caso, queste giovani donne sono particolarmente consapevoli del loro corpo e di come utilizzarlo a loro favore: particolarmente incisiva in questo senso la scena in cui Angharad minaccia di far saltare il bambino che porta in grembo.

Allo stesso modo, Furiosa è l’unica donna che in qualche modo Immortan Joe rispetta effettivamente, non rendendola solamente un’incubatrice o una fonte di latte materno, ma piuttosto la punta di diamante del suo esercito.

E, a questo punto, sorge una domanda fondamentale…

Centrale

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Furiosa è la vera protagonista?

Per certi versi non è l’Imperatrice ad inserirsi nella storia di Mad Max, ma piuttosto il contrario: il protagonista della saga, in maniera in realtà molto tipica, inciampa nelle trame di un altro personaggio

…e ne diventa parte fondamentale.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

E la gestione in questo senso è sublime.

Una scrittura più ingenua avrebbe banalizzato il rapporto fra Max e Furiosa in una relazione amorosa, con una classica dinamica enemy to lovers – sulla falsariga di quello che succede, per certi versi, fra Nux e una delle madri in fuga.

Al contrario, il rapporto di fiducia fra i due personaggi si costruisce gradualmente, arrivando alla comune consapevolezza che entrambi stanno cercando la libertà – Max dalle catene, Furiosa dal controllo della Cittadella – diventando così compagni di fuga.

Ma se il paradiso verde non esiste…

Alternativa

Charlize Theron come Furiosa in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Durante il loro viaggio, i protagonisti si imbattono quasi per caso in un luogo lugubre e a cui non dedicano più di uno sguardo…

…e che invece era effettivamente la loro meta.

Infatti, il felice rincontro con le Molte Madri si frantuma immediatamente davanti alla consapevolezza che il paradiso ricercato è stato ingoiato dalla devastazione che ha ormai avvelenato ogni cosa in questo scenario desertico e mortifero…

…e porta in prima battuta Furiosa ad avere l’istinto di diventare niente come Max: un viaggiatore in fuga, senza una meta, se non il pallido ricordo di un mondo che non esiste più, in una vita definita solo da dolorosi rimorsi.

Charlize Theron come Furiosa e Tom Hardy come Mad Max in una scena di Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller

Per questo, l’intervento di Max è fondamentale.

Il protagonista sceglie di dare a Furiosa una possibilità che ormai ha negato a sé stesso: costruire con le proprie forze un angolo felice in cui vivere all’interno della depressione presente, anche dove sembra più impossibile, proprio smascherando Immortan Joe…

Ma, proprio per questo, Max non può restare: dopo aver salvato la vita a Furiosa e dopo averla messa sul trono, il nostro eroe torna a cavalcare le strade, lasciando la nuova Imperatrice con uno sguardo d’intesa estremamente eloquente:

Esisto così, in questa terra devastata: un uomo, ridotto a un unico istinto: sopravvivere.

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Il giardino delle parole – Alla prossima pioggia

Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai è un mediometraggio anime di genere sentimentale.

Il film è stato distribuito in Giappone insieme ad un cortometraggio, ed è arrivato in Italia con una proiezione esclusiva nel Maggio del 2014.

Di cosa parla Il giardino delle parole?

Takao e Yakari sono due persone molto sole, che si ritrovano casualmente in un giardino pubblico. E da lì nasce qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il giardino delle parole?

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

In generale, sì.

Il giardino delle parole contiene una dinamica tipica della filmografia di Shinkai, in particolare del subito successivo Your name (2016): l’incontro apparentemente sofferto di due personaggi che sembrano destinati a vivere separati.

In questo caso il regista nipponico è sempre sul precipizio di scadere nel melodramma più smaccato, ma riesce nel complesso a mantenere un buon equilibrio dei toni, cercando il più possibile di rimanere coi piedi per terra, pur inserendo una componente fortemente drammatica ed emotiva.

Insomma, ve lo consiglio.

Fuga 

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Entrambi i protagonisti fuggono.

Per Takao la fuga è da una scuola in cui non sente di trovare un futuro, inseguendo i suoi sogni in maniera ben più matura dei suoi coetanei, rinunciando persino alle vacanze per poter lavorare e mettere via abbastanza risparmi per riuscire ad autofinanziarsi.

Yukari invece fugge da una situazione che non si sente di essere abbastanza forte da affrontare – al punto che, da qualche scampolo di dialogo, scopriamo quanto era stata profonda la sua sofferenza, non riuscendo a camminare, a mangiare altro che birra e cioccolato…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

E la pioggia è l’occasione perfetta.

La pioggia è quell’elemento che solitamente porta le persone a fuggire e a rifugiarsi nelle proprie abitazioni o in luoghi affollati, e a svuotare quel giardino che diventa invece il rifugio dei due protagonisti, inizialmente sorpresi di trovare un compagno di solitudine.

E qui di parole, paradossalmente, ne servono poche.

Essenziale

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Le parole sono ridotte all’essenziale.

In una situazione normale di incontro, nello sbocciare più consueto di un’amicizia, le prime parole che i due si sarebbero scambiati avrebbero riguardo i loro nomi, il loro passato, la loro più immediata quotidianità…

Invece è come se i due protagonisti fossero colti in fallo nella loro fuga, e per questo limitano i loro scambi di parole a quel poco da tenere l’uno compagnia all’altro – al punto che, verso il finale, Takao ammette di non sapere quasi nulla della giovane donna, neanche il suo nome…

Yukari Yukino in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Ma per Yukari quel silenzio è essenziale.

Infatti, la donna è stata derubata della sua autorità, della fiducia e dei buoni rapporti che sembrava portare avanti con i suoi alunni, e, tramite questo giovane studente in fuga, riesce a ricostruire la sua identità e a rimettersi in piedi, a cambiare vita.

E, a Takao, cosa rimane?

Inizio

Takao Akizuki in una scena de Il giardino delle parole (2013) di Makoto Shinkai

Lo scioglimento della vicenda nel complesso mostra una buona intelligenza di scrittura.

Come mi ha poco convinto lo sfogo di Takao – forse non adeguatamente costruito per essere così esuberante – al contrario ho apprezzato la maturità della giovane professoressa di mettere un freno all’improvviso innamoramento del suo studente…

…così da lasciargli lo spazio per maturare.

Infatti, il finale è volutamente aperto.

Takao ha capito la lezione della donna – non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento – e, anche se con difficoltà, riesce a superare gli esami finali, e a continuare parallelamente a portare avanti il suo sogno…

…così da ritornare, un giorno, da Yukari, quando sarà abbastanza maturo, lasciando come pegno nel parco le scarpe che ha creato per lei, una promessa per un futuro più sereno da condividere insieme.

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Alice nel Paese delle Meraviglie – Una morale impossibile

Alice nel Paese delle Meraviglie (1951) è il tredicesimo Classico Disney, tratto dal romanzo di Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) – e in parte dal sequel del 1871 dello stesso autore.

Purtroppo, a fronte di un budget di 2 milioni di dollari, incassò appena 2.4 milioni nella sua prima distribuzione, portando ad una perdita consistente per l’azienda.

Di cosa parla Alice nel Paese delle Meraviglie?

Walt Disney riprese le avventure del classico di Carroll non apportando particolari cambiamenti, ma semplicemente cercando di piegare la narrazione ad una morale più adatta al suo tempo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie?

Assolutamente sì.

Nonostante contenga dei frangenti genuinamente angoscianti – ma niente di nuovo per la Disney di questo periodo – Alice nel Paese delle Meraviglie è una visione davvero piacevole, che porta in scena con una buona fedeltà l’opera di Carroll.

L’unico grande difetto è il tentativo di piegare la storia in direzioni del tutto innaturali per la stessa: nello specifico, la volontà di dargli una morale – il romanzo di 1862 è volutamente amorale – rendendo spesso Alice meno incisiva nei suoi comportamenti.

Ma, nel complesso, è una visione davvero da non perdere.

Alice nel paese delle meraviglie Produzione

Alice nel paese delle meraviglie era il sogno d’infanzia di Walt Disney.

Come altri bambini della sua generazione, il libro di Carroll era parte della sua formazione scolastica, che lo portò nel 1923, quando era ancora un regista ventunenne, a produrre un cortometraggio liberamente ispirato alla storia, col titolo Il Paese delle Meraviglie di Alice.

Nel 1932 cominciò a pensare di creare un lungometraggio misto live action e animazione, ma due eventi gli fecero cambiare idea.

Ovvero, le nuove prospettive aperte con il successo di Biancaneve e i sette nani (1937) e, soprattutto, la Paramount che lo anticipò sui tempi, creando il terzo lungometraggio live action basato sull’opera di 1865.

Walt Disney infatti si approcciava ad un mercato in cui erano già usciti tre cortometraggi dedicati (dal 1903 al 1915), e tre lungometraggi in live action, di cui quello del 1937 era già il secondo con dialoghi.

I lavori iniziarono effettivamente nel 1938, quando venne registrato il marchio e venne creato la prima proposta, che venne però bocciata da Disney perché troppo basata sulle illustrazioni originali del libro – troppo difficili da animare – e con una storia troppo cupa per essere vendibile.

La produzione ricominciò però solamente dopo la guerra, nel 1945: la nuova versione aveva un taglio artistico ben più moderno, definito da colori più accesi e stravaganti, e la sceneggiatura venne riscritta mettendo più in evidenza il lato surreale dell’opera di Carroll piuttosto che le parti più dark.

Solo nel 1946, però, decise definitivamente di fare un prodotto solo animato.

Alice nel paese delle meraviglie scene tagliate

Nonostante nel complesso si cercò di stare molto vicini al romanzo, inserendo anche delle battute in maniera diretta, furono diversi i tagli.

In particolare, venne tagliata l’importante scena (che copre un intero capitolo nel libro) della Duchessa Brutta, mentre l’incontro con l’inquietante Ciciarampa venne sostituito con l’iconico racconto de Il tricheco e il carpentiere.

Per contro, venne scritto un numero piuttosto nutrito di canzoni per il film, e molte ebbero spazio nella pellicola, anche se per pochi secondi.

Creare

L’incipit di Alice nel paese delle meraviglie è significativo per più motivi.

Anzitutto, funge da prologo piuttosto eloquente della storia, grazie alle parole di Alice che ci guidano per il mondo senza senso che sta per creare – e per vivere – e che comincia ad esistere quando la bambina tocca lo specchio d’acqua – specifico riferimento al sequel del 1871, in cui Alice attraversa lo specchio.

D’altra parte, definisce questa Alice cinematografica in una maniera simile ma al contempo diversa rispetto alla sua controparte cartacea.

Infatti, anche se entrambe entrano in un sogno, lo fanno l’una – quella animata – per un effettivo desiderio di evasione dal noioso presente – l’altra – quella originale – più che altro spinta dalla curiosità.

Elemento che sarà determinante nel finale.

Succube

Alice più che esplorare questo mondo meraviglioso, ne sembra in molti tratti succube.

Infatti, dall’impossibile girotondo con gli uccelli sulla spiaggia alle brutte maniera del bruco, fino all’esplicito bullismo dei fiori, tanto belli quanto elitari, la protagonista vive un sogno ostile e su cui non sempre riesce a rivalersi.

Una situazione non in realtà particolarmente dissimile dal romanzo di partenza, almeno per quanto riguarda i modi piuttosto scostanti ed imprevedibili con cui i vari personaggi si rapportavano con Alice…

…ma con la grande differenza che la protagonista di Carroll era molto più in controllo della situazione.

Invece il senso di smarrimento della Alice disneyana è definito da due elementi.

Anzitutto, il suo disperato tentativo di mettersi sulle tracce del Bianconiglio, non per una vera motivazione, ma più che altro per quello che il personaggio rappresenta: una figura che apparentemente riesce a passare dal sogno alla realtà a cui, alla fine, Alice vuole tornare.

E proprio qui sta la differenza fondamentale.

Amorale

Alice nel paese delle meraviglie di Carroll è un racconto programmaticamente amorale.

La grande differenza fra l’opera del 1865 e altri romanzi per l’infanzia era proprio come la protagonista non vivesse la sua avventura per ricevere un insegnamento, ma piuttosto per educarsi da sola davanti alle varie insidie di questo mondo meraviglioso.

Proprio per questo, particolarmente d’impatto era la conclusione dell’avventura, in cui Alice chiosava siete solo un mazzo di carte, e in quel momento riprendeva il totale controllo sul sogno – e si risvegliava – dopo un’avventura di cui lei stessa aveva definito i modi e i tempi.

Al contrario, la Alice di Walt Disney viene dipinta come una ragazzina fin troppo curiosa e scostante, che si incastra in una vicenda da cui non riesce a scappare, arrivando prima ad essere francamente stufa di tutto questo nonsense, per poi rattristarsi, convinta di non essere capace di seguire neanche i suoi stessi consigli.

Così la chiusura del film, per quanto erediti la suddetta battuta del libro, si risolve invece con Alice ancora una volta tormentata dal suo sogno, che fugge disperatamente verso la sua via d’uscita – il risveglio – con una conclusione che in realtà non risolve nulla, anzi lascia un certo senso di angoscia…

Scelta che, fra l’altro, potrebbe aver influito sull’insuccesso del film.

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Baby Driver – Una sgommata al ribasso

Baby Driver (2017) di Edward Wright rappresenta finora il più grande successo commerciale del regista.

Infatti, a fronte di un budget di 34 milioni di dollari, ne incassò 226 in tutto il mondo.

Di cosa parla Baby Driver?

Baby è un ragazzo con una dote incredibile: essere capace di destreggiarsi per le strade di Atlanta come un maestro della fuga.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Baby Driver?

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

In generale, sì.

Per quanto sia un prodotto che apprezzo veramente poco, Baby Driver nel complesso è un discreto film di intrattenimento, con una sceneggiatura molto abbozzata, ma complessivamente non peggiore di molte altre pellicole del genere di riferimento.

Personalmente a me dispiace vedere il grande successo di questo lungometraggio, quando lo stesso – per regia, e, soprattutto, per scrittura – è il film più debole della filmografia di Wright, che per fortuna si è ripreso col successivo progetto, Last night in Soho (2021).

Ma se questo film vi farà avvicinare alla sua produzione, sarò solo che contenta.

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Per quanto l’idea centrale della pellicola – la musica diegetica che dà il ritmo alla scena – sia apparentemente molto creativa…

…personalmente non mi ha particolarmente soddisfatto.

Purtroppo, mettendo Baby Driver a confronto con il resto della produzione di Wright, il risultato mi sembra veramente debole: le sequenze in cui il protagonista si muove a ritmo di musica, con elementi della scena che richiamano la canzone che sta ascoltando…

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

…comparate anche solo alla scena di Don’t stop me know di Shaun of the dead essere (2004), mi sembrano più il lavoro di un regista che sta cercando di imitare lo stile dell’autore della Trilogia del cornetto più che di Wright stesso.

E se l’aspetto idealmente più interessante della pellicola non mi ha convinto…

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Baby non lo è solo di nome.

Wright cerca di tratteggiare un protagonista estremamente positivo – anche troppo: il personaggio di Ansel Elgort sembra costruito a tavolino per intercettare il gusto del pubblico di riferimento di ragazzini – e pure riuscendoci, visti gli incassi.

Questo aspetto tuttavia si traduce in una totale mancanza di evoluzione del protagonista, che semplicemente viene coinvolto in un’organizzazione criminale contro la sua volontà, senza mettere in mai in dubbio la propria moralità, anzi.

E questa infantilizzazione è particolarmente esplicata dal costante contrasto con i personaggi negativi – che meritano un discorso a parte – e le loro azioni cattivissime, che costringono il protagonista a mettersi costantemente davanti ad immagini di morte e di violenza.

Così anche il vestiario è indicativo: colori candidi e desaturati, che ne definiscono l’aspetto ed il carattere genuino e illibato, fortemente contrastante con i costumi invece chiassosi, volgari e al limite dello stereotipato degli antagonisti.

Ma parliamo di loro.

Ansel Elgort e Jon Hamm in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Gli antagonisti di Baby Driver sono tagliati con l’accetta.

Vengono raccontati come i più classici gangster ora con un passato problematico e oscuro, con la bocca piena di parolacce, ora con l’atteggiamento da gradassi, distruttivo e spaccone, motore dell’involuzione della vicenda stessa.

Insomma, un gruppo di villain che appaiono quasi ridicoli nel loro eccesso, mai veramente raccontato in maniera comica, anzi prendendosi drammaticamente sul serio, con dialoghi e battute frutto di una scrittura estremamente stereotipata e facilona.

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Ma la parte peggiore è Doc.

Il personaggio di Kevin Spacey dovrebbe essere un proto-Padrino, che si distingue nettamente dal resto dei criminali per un’intelligenza indubbiamente superiore, ma non mancando della stessa spietatezza che lo porta a minacciare Baby.

Tuttavia, questo elemento si perde in una totale incoerenza sul finale, quando invece Doc, senza nessun motivo – se non la a quanto pare inevitabile tenerezza della giovane coppia – diventa alleato del protagonista.

Ovviamente, mancando di qualunque evoluzione in questo senso.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Inizialmente pensavo di non sopportare né il personaggio di Debora né la sua relazione con Baby per il carattere completamente inconsistente del suo personaggio, protagonista di una storia d’amore nata sostanzialmente dal nulla e diventata strappalacrime nel giro di poche scene.

Mi sbagliavo.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

L’elemento veramente più grave di Debra è proprio come apparentemente dovrebbe rappresentare l’alternativa morale di Baby, un sogno irrealizzabile che lo porta infine a prendersi le sue responsabilità e consegnarsi alla polizia.

Al contrario, Lily James è semplicemente l’interesse amoroso del protagonista che doveva essere inserito nella storia da contratto, ma che diventa semplicemente un’ulteriore sottolineatura dell’intoccabile bontà del personaggio.