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Animazione Avventura Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Pixar Racconto di formazione

Elio – La trappola delle aspettative.

Elio (2025) di Domee Shi è un’avventura fantascientifica di produzione Pixar.

Di cosa parla Elio?

Dopo la perdita dei suoi genitori, Elio è disposto a tutto per avere un’altra occasione…davvero a tutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Elio?

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

In generale, sì.

Pur con qualche momento più debole – sopratutto gli snodi narrativi fondamentali, dovuti ad evidenti rimaneggiamenti in corsa – Elio è un film che ha davvero toccato tutti i punti giusti: un racconto non semplice sulla genitorialità e il senso di costante inadeguatezza…

…che riesce ad essere estremamente trasversale nel riuscire a raccontare entrambi i punti di vista: sia quello dello spettatore più giovane, sia quello dell’adulto che l’ha accompagnato alla visione, per un arricchimento comune di cui solo la Pixar è capace.

Fuga

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Fin dalla prima scena, Elio è in fuga.

La primissima scena è particolarmente potente nel raccontare l’angoscia del protagonista: nonostante i diversi e diversificati tentativi della zia di trovargli un’alternativa soddisfacente nel menù – e, per estensione, nella sua vita – Elio rimane fuori scena, nascosto sotto al tavolo.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

L’introduzione del personaggio si chiude con poche battute di circostanza che suggellano la dinamica appena introdotta, per accompagnare Elio nel primo atto della fuga che ne definirà il percorso per tutto il film: la convinzione e speranza che ci sia qualcos’altro oltre alla sua mera esperienza terrestre…

…che deve assolutamente evadere.

In questo senso, Elio e sua zia Olga viaggiano su due visioni del mondo inconciliabili.

Prospettiva

Il paradosso di Elio è nelle prospettive dei personaggi.

Entrambi infatti hanno lo sguardo rivolto nella stessa direzione – lo spazio – ma con due visioni dello stesso totalmente opposte: Olga vede nell’ignoto solamente un cumulo di dati e di detriti da sbrogliare, per un lavoro poco emozionante ed ridotto nei termini militareschi, rigidi e ben poco appassionanti.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Al contrario, Elio vede nelle stelle una possibilità di riscatto, di vivere delle emozioni che sulla Terra, dove si sente profondamente solo ed incompreso, non riesce a ritrovare, richiedendo insistentemente di essere salvato, in un modo – mettersi al centro di un cerchio sulla sabbia con un messaggio piuttosto esplicito – sulle prime può provocare ilarità…

…ma nella realtà è un grido d’aiuto davvero straziante di un bambino incompreso.

Per questo la scelta più semplice per la zia sembra quella di riportare Elio sul suo stesso tracciato, ovvero quello della scuola militare, in realtà nient’altro che l’occasione per ulteriore bullismo ed emarginazione – e infatti basta pochissimo perché Olga ci ripensi, anche se a quel punto è troppo tardi.

E proprio in questa disparità di visioni sta il nodo del problema.

Inutile

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Né Olga né Grigon hanno avuto i figli che desideravano.

Infatti involontariamente Elio e Glordon si ritrovano così bene fra di loro proprio perché condividono il medesimo dramma: avere delle strade tracciata dai genitori che non si sentono pronti a percorrere.

Una sensazione che emerge particolarmente nel assai amaro siparietto in cui Glordon ammette di essere stato definito in tanti modi, elencando una serie di epiteti poco piacevoli – un’emicrania, un errore… – che l’hanno portato ad essere, proprio come Elio, intrappolato in un irrisolvibile senso di inadeguatezza.

E, paradossalmente, entrambe le figure genitoriali sono legate dalla mancanza di un personaggio fondamentale – i veri genitori di Elio e la madre di Glordon – apparendo per questo inadatti nel loro ruolo e quasi prepotenti nel loro agire, quando in realtà sono semplicemente limitati dal loro poco coraggio nell’accettare compromessi.

Una sensazione che ha il suo apice nel confrontarsi di Elio con la sua copia perfetta, che rispecchia i desideri più egoisti della zia nei suoi confronti, come se questo bastasse per renderla appagata, dimenticandosi del vero ed imperfetto nipote.

E invece proprio qui sta la maggiore forza dei due personaggi.

Conoscere

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Olga e Grigon conoscono i loro figli…

…fin troppo.

Nello specifico risulta particolarmente sorprendente la velocità con cui Glordon si rende conto che Grigon non sia quello vero: proprio lui che sembrava così intrappolato in uno schema impossibile evadere, e che invece si libera dello stesso per salvare la vita al figlio, cullandolo in una scena genuinamente straziante.

In altri termini anche Elio e Olga intraprendono la strada della riappacificazione, anche se più complessa – e, anche per questo, inciampando in non pochi snodi narrativi fin troppo veloci e semplificati – con cui riescono a ritrovarsi nonostante le loro diverse visioni del mondo.

Così l’ultima avventura insieme raccoglie sia le nuove conoscenze di Elio, sia l’esperienza di Olga, che porta infine il protagonista a ritornare sui suoi passi – anche qui, forse fin troppo bruscamente e senza dargli abbastanza respiro – nel trovare nell’affetto della zia un’altra occasione per essere felice…

…persino sulla Terra.

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2025 Biopic Drammatico Film Musical Racconto di formazione

Better Man – La solitudine della vetta

Better Man (2024) di Michael Gracey è un biopic musicale dedicato all’icona del pop Robbie Williams.

A fronte di un budget abbastanza importante – 110 milioni di dollari – è stato un clamoroso insuccesso commerciale, non riuscendo neanche ad avvicinarsi ai costi di produzione…

Di cosa parla Better Man?

Nella sua volontà di mettersi a nudo, l’icona della musica pop Anni Novanta (e non solo) indossa vesti… particolari.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Better Man?

Assolutamente sì.

Nonostante, visto il risultato disastroso al box office sia un film sostanzialmente sconosciuto al pubblico, Better Man gode di una qualità che pochi altri biopic musicali possono vantare: la volontà di essere profondamente sincero, e non di raccontarsi in una luce migliore.

Infatti con la sua biografia Robbie Williams ci svela le sue più importanti paure, ci racconta la carriera scricchiolante, i suoi passi falsi, all’interno di una pellicola con reparto tecnico di prim’ordine, capace di raccontare oltre che con le parole, con le immagini stesse. 

Insomma, da riscoprire.

Gara

Il racconto di Robbie Williams non si apre con i migliori presupposti.

Mentre il regista avrebbe potuto imbastire un racconto classico di predestinazione, in cui il successo era semplicemente il punto di arrivo di una carriera già scritta, al contrario sceglie di raccontare l’ossessione per il successo stesso che definì la sua infanzia e il rapporto con il padre.

Infatti Williams viveva nell’ombra importante del genitore, che si era convinto di essere invece predestinato alla fama, lasciando un piccolo quanto fragile spazio al figlio nell’accompagnarlo nella sua avventura, ma togliendoglielo immediatamente al minimo passo falso – come interrompere la trasmissione sul più bello.

Un posizione talmente fragile da scegliere infine di abbandonare il nucleo familiare per essere più vicino agli dei, per proseguire la sua sconclusionata carriera senza il peso parentale, inducendo paradossalmente il figlio ancora di più ad inseguirlo nella sua mediocre esistenza di padre quanto di di cantante.

Ma l’inizio dell’ascesa di Williams non è tanto più felice…

Successo

Sempre all’interno di una racconto onesto prima di tutto verso sé stesso, Williams ci svela la verità del suo successo.

Nonostante l’industria capitalistica vorrebbe farci credere il contrario, gran parte del successo di un personaggio dello spettacolo dipende dal suo essere smaliziato, dalla parola giusta al momento giusto, e dall’avere alle spalle le giuste persone capaci di modellare una figura pubblica vincente.

In questo modo Williams svela la realtà della macchina dello show business: le capacità del singolo, persino di un’icona della musica come il protagonista, valgono poco, mentre è molto più importante avere un atteggiamento che mostri di meritarsi di essere scelto per quel ruolo.

Così Williams riesce effettivamente ad attirare l’attenzione di Nigel, e di essere inserito all’interno della classica pop band creata a tavolino, in cui i suoi membri sono più dei pezzi di carne dati prima in pasto al pubblico queer, e poi alle ragazzine affamate di trovare il loro prossimo idolo da divorare.

E infatti la via verso il successo è lastricata di continui fallimenti.

Limbo

Con i Take That Williams è intrappolato in un limbo.

Sempre più insofferente nel voler indossare una veste che non gli appartiene, sempre più inebriato di un successo in cui non si riconosce, il protagonista si lascia assorbire in una spirale autodistruttiva in cui sono i suoi demoni ad avere la meglio, e a renderlo un personaggio totalmente inadatto a rimanere all’interno del gruppo.

Anche in questo caso sarebbe stato tremendamente facile raccontarsi come la mosca bianca dell’industria, come il personaggio che non ha voluto lasciarsi domare dal sistema e abbia deciso di intraprendere una vita solitaria verso un successo più meritevole e duraturo, basato sulle proprie capacità artistiche.

Al contrario, Williams racconta del periodo più difficile della sua vita, definito dal rinchiudersi in un silenzio artistico insopportabile, diventando così terribilmente simile al padre nell’osservare il successo degli altri e denigrarlo, ma incapace di costruirsi il proprio, mettendo in crisi persino la relazione con Nicole.

Ma anche la rinascita è soffocante.

Migliore

Robbie può essere un uomo migliore?

Per quanto il suo aprirsi ad un ruolo che ben più lo rappresenta passi da una maggior consapevolezza e sincerità artistica, la stessa non porta ad una liberazione delle sue paranoie, che anzi diventano sempre più assillanti, portandolo ad essere la versione peggiore di sé stesso…

…ma quella migliore per gli occhi del padre, che cannibalizza costantemente la sua figura e vive di luce riflessa, del tutto indifferente davanti alle grida di aiuto del figlio, che si rifugia nell’abuso di sostanze e che vive la sua esistenza esclusivamente in funzione della realizzazione del successo, rappresentato dal concerto al Knebworth Festival.

Eppure, proprio qui troviamo la resa dei conti.

Non sapremo mai – almeno non in questa pellicola – se lo spettacolo sia stato grandioso o catastrofico, ma diventiamo piuttosto spettatori dello scontro tanto rimandato che Robbie ha con sé stesso e con le proprie paure, trascinandosi in un ultimo atto di angoscia e ripensamento, che lo porta infine a muovere l’unico, vero significativo passo per migliorare la sua esistenza.

Ovvero, risolvere il conflitto col sé stesso bambino, che infine vede concretizzarsi il suo più grande sogno:

cantare a fianco del padre.

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Animazione Avventura Azione Disney Fantasy Film Il medioevo Racconto di formazione

Taron e la pentola magica – Diventare una sottomarca

Taron e la pentola magica (1985) traduzione abbastanza impropria di The Black Cauldron, è il venticinquesimo Classico Disney, nonché il primo realizzato con l’utilizzo della CGI.

A fronte di un budget gigantesco per il periodo – 44 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale, senza riuscire a coprire neanche la metà dei costi di produzione.

Di cosa parla Taron e la pentola magica?

Taron è un guardiano di porci che sogna di diventare un eroe. E forse lo stesso porcello che accudisce potrebbe essere la chiave per il riscatto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Taron e la pentola magica?

Direi di no.

E per due motivi.

Da una parte, fatta eccezione delle ottime animazioni dei non morti e di qualche sperimentazione in CGI, Taron e la pentola magica non sembra un Classico Disney, ma piuttosto un prodotto sottomarca che cerca di copiare la Casa del Topo, soprattutto per i character design piuttosto blandi e poco convincenti.

Allo stesso modo, la scrittura della pellicola è davvero carente: sembra prendere lo scheletro narrativo del viaggio dell’eroe e non svilupparla in alcun modo, introducendo i personaggi nei loro ruoli – spesso direttamente detti a parole – e poi abbandonandoli totalmente a loro stessi.

Insomma, per quanto non sia confermato, la pellicola è di un blando tentativo di fare Il Signore degli Anelli targato Disney.

Contrasto

Taron e la pentola magica è sostanzialmente incapace di creare il contrasto fondamentale di inizio pellicola.

Esattamente come nella trasposizione di Jackson, il film si apre con un prologo piuttosto eloquente, dove viene definita la minaccia in atto – Re Cornelius – e l’oggetto del desiderio – il calderone – raccontando le conseguenze che causerebbe il ritrovamento del diabolico artefatto perduto.

E questo sarebbe il momento cruciale per introdurre Taron…

…e invece la pellicola ne è assolutamente incapace: la narrazione dell’eroe per caso, il contrasto fra un potere incontenibile e un protagonista che sembra incapace di prevenirlo – e per questo è così vicino allo spettatore – viene totalmente spezzata da dall’introduzione di un protagonista che che è già al suo punto di arrivo.

In questo frangente probabilmente si è voluto ricalcare la classica dinamica della canzone del sogno, in cui Taron definisce quando la storia potrà dirsi conclusa, ma risultando in una presentazione del protagonista artificiosa e poco credibile, che lo rende estremamente bidimensionale.

Oltretutto, il suo sogno dovrebbe poi essere sostituito da un nuovo obbiettivo molto più importante – in una dinamica simile a quella di Rapunzel (2010), fra gli altri – ovvero crearsi delle relazioni significative e maturare attraverso le stesse lungo il viaggio…

…peccato che è proprio la dinamica su cui il film fallisce di più.

Costruzione

La costruzione credibile di un gruppo protagonista è l’ostacolo principe all’interno di questo tipo di narrazioni…

…e Taron e la pentola magica ricade nel più classico capitombolo.

Come ci si può facilmente rendere conto confrontando il mediocre Suicide Squad (2016) e l’ottimo The Suicide Squad (2021), per costruire un solido gruppo di protagonisti è fondamentale tratteggiare in maniera significativa i loro caratteri e le loro differenze, così da raccontare il loro rapporto tramite l’incastro delle stesse.

E invece il Classico Disney non solo manca in primo luogo delle caratterizzazioni dei suoi personaggi, ma sembra come costretto a spuntare una lista di figure da mettere in scena solo per dare un contorno al protagonista: l’aiutante bislacco e pasticcione, l’interesse romantico, e una sorta di consigliere che funge anche da spalla comica.

Ed è una dinamica tanto più grave quanto il pathos del finale si basa sulla costruzione del rapporto fra i personaggi, per cui Taron infine sceglie di non voler indietro la spada che lo renderebbe l’eroe che ha sempre sognato di essere, e invece riesce a far rivivere Gurghi, personaggio per cui dovrebbe nutrire un profondo affetto…

…che però è definito solamente a parole.

Ma questa superficialità è un tratto distintivo della pellicola.

Tappe

La narrazione per tappe è una delle più difficili da realizzare.

Come l’autore ha ben in mente il percorso che vuole far percorrere ai personaggi, per creare un racconto genuino ed avvincente non deve mostrare allo spettatore il suo modus operandi, ma deve invece collegare in maniera credibile e coinvolgente i vari passi del protagonista verso il suo obbiettivo.

In questo senso soprattutto Le due torri (2003) – da cui appunto il film pesca a piene mani – è un ottimo esempio di gestione di questo tipo di narrazione, riuscendo anzi a rendere credibili i vari momenti di stallo e di difficoltà dei protagonisti, così che la vicenda non si risolva immediatamente.

Al contrario, in Taron e la pentola magica il protagonista ha tutte le soluzioni sempre a portata di mano e senza il minimo sforzo, anzi persino quelli che sembrano sulle prime degli incidenti – come essere risucchiati in un vortice d’acqua – risultano infine la chiave per la risoluzione del problema.

E, come se tutto questo non bastasse, la maialina Ewy è un becero McGuffin.

Così, se Hitchcock ha fatto scuola in Psycho (1960) nel fingere che un mero vettore della trama fosse fondamentale per la storia, Taron e la pentola magica utilizza la piccola scrofa il tempo necessario per fare proseguire la narrazione, per facilmente scalzarla con altri personaggi nel medesimo stesso ruolo.

E non è neanche la parte peggiore…

Spreco

Re Cornelius potrebbe entrare nel novero dei villain più sprecati della storia della Disney.

Per quanto il suo character design non sia niente di così speciale od originale, la sua presenza scenica è particolarmente terrorizzante e poteva, al pari di Sauron, essere esplorata in molte direzioni, riuscendo invece a brillare solo in pochi momenti di astuzia – come quando lascia Taron libero di condurlo al calderone – ma che nel complesso aggiungono poco al suo personaggio.

Così risulta un villain con un minutaggio minuscolo, quasi insignificante nell’economia narrativa, tramutandosi quasi in uno strumento della trama per la maturazione – almeno sulla carta – del protagonista, da cui fra l’altro neanche viene sconfitto, diventando anzi vittima del suo stesso desiderio di potere.

E, per quanto quest’ultima dinamica poteva risultare non poco interessante, al contempo va ancora di più a calcare la mancanza di connessione fra l’eroe e l’antagonista: come Cornelius è uno dei tanti ostacoli nella maturazione del protagonista, Taron è una delle tante strade percorribili per la vittoria della villain…

…che diventa quasi il primo e generico boss di un videogioco con cui il protagonista deve mettersi alla prova.

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Bong Joon-ho Drammatico Fantascienza Film Racconto di formazione

Okja – La cattiva favola

Okja (2017) di Bong Joon-ho è un dramma fantascientifico e il suo secondo film in lingua inglese.

È stato distribuito direttamente su Netflix.

Di cosa parla Okja?

USA, 2007. Lucy Mirando è la nuova CEO della problematica azienda di famiglia, e cerca di rilanciarsi con un progetto curioso quanto intraprendente: allevare una nuova specie di super maiali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Okja?

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, sì.

Per quanto Okja non possa essere certamente considerato uno dei film più brillanti della filmografia di Bong Joon-ho, risulta al contempo una buona favola ambientalista con poche sbavature, e che mi ha lasciato complessivamente un buon sapore in bocca.

Infatti, per quanto il taglio non sia certamente graffiante come in altre pellicole del regista sudcoreano, al contempo riesce ad essere una pellicola con i piedi per terra, che non vuole accontentare lo spettatore, ma bensì educarlo.

Insomma, dategli una possibilità.

Introduzione

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La qualità della scrittura di Okja si nota fin dall’introduzione dei protagonisti.

Dopo un rapido prologo dedicato al progetto Mirando, il film ci catapulta nel presente per farci conoscere da vicino i protagonisti della storia, definendone i caratteri con pochi tratti essenziali e con una assoluta naturalezza di scrittura – in altre parole, senza scadere nel facile didascalismo.

Infatti, anche se i protagonisti non si scambiano che poche parole, comprendiamo immediatamente il loro stretto rapporto, definito dal crescere insieme e dal supportarsi l’un l’altra, in particolare sottolineando come Okja non sia una bestia da soma, ma anzi un animale piuttosto ingegnoso.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Il quadro si conclude col breve dialogo con il nonno di Mija, che racconta la fin troppo ingenua illusione della protagonista di poter continuare a vivere con Okja sulle montagne senza le interferenze di Mirando – scenario che noi spettatori intendiamo fin da subito come impossibile.

E, infatti, la multinazionale sta già bussando alla porta.

Apparenze

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La strategia di Mirando è tutta apparenza.

Lo dimostra anzitutto l’arrivo del Dr. Wilcox, la cui insofferenza per dei luoghi effettivamente naturali e selvaggi racconta come non sia nient’altro che un becero prodotto televisivo – con, fra l’altro, un Jake Gyllenhaal in uno dei ruoli probabilmente più divertenti della sua carriera.

Altrettanto di facciata è tutta l’operazione dei supermaiali, solo apparentemente una nuova razza scoperta e allevata in maniera certosina per premiare il più meritevole, in realtà semplicemente un’ambiziosa strategia di marketing per vendere un prodotto OGM.

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, Okja riesce a raccontare anche in maniera piuttosto vincente i metodi estremamente ingannevoli con cui da anni le multinazionali cercando di ripulirsi l’immagine per rendersi più vendibili ad un pubblico almeno sulla carta più consapevole riguardo alle questioni ambientali…

…ma con una costruzione talmente artefatta che basta veramente poco perché – come si vede appunto nel film – la stessa crolli su se stessa, vivendo di una costante strumentalizzazione di simboli e personaggi che vengono sistematicamente svuotati del loro significato originario.

Ma l’altra parte è davvero migliore?

Costo

Paul Dano in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Un grande merito di Okja è il non dare una divisione netta delle due parti.

Se infatti Lucy Mirando non è una spietata calcolatrice, ma una figlia sana del capitalismo, al contempo le figure del gruppo FLA non appaiono come dei salvatori senza macchia, ma anzi vengono ritratti nella loro più interessante scala di grigi.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Infatti, per quanto si propongano come gli eroi della storia, in realtà finiscono anche loro per strumentalizzare Okja per dimostrare la loro tesi – come si rendono ben conto davanti alla visione raccapricciante della fecondazione forzata che il super maiale deve subire anche per colpa loro.

E, soprattutto nella conclusione della pellicola, diventa tanto più fondamentale definire i limiti di entrambe le parti in gioco, proprio a rappresentare una situazione spinosa e dalla non facile soluzione, per un film che non vuole illudere lo spettatore, ma dargli anzi uno spaccato realistico del suo presente.

Infatti, l’unica che vince è proprio Mija.

Consapevolezza

La maturazione di Mija è forse il lato più amaro della pellicola.

La protagonista viene infatti catapultata all’interno di uno scenario che non contempla una parte assolutamente positiva che si contrappone ad uno schieramento assolutamente negativo, ma bensì un sistema profondamente corrotto e la cui salvezza è ancora lontana.

Una situazione tanto più angosciante all’arrivo al mattatoio, sequenza che cerca il più possibile di rimanere coi piedi per terra per un racconto che poteva essere facilmente dato in pasto al pubblico, ma che invece nel suo realismo è già abbastanza impattante.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Ed è tanto più interessante che la pellicola, diversamente da altri prodotti analoghi, non si concluda positivamente, ma anzi diventi sempre più amara nel rappresentare come, nonostante la situazione inumana degli allevamenti sia sotto agli occhi di tutti, un prodotto conveniente riuscirà sempre a vincere sul mercato.

Per questo la grande consapevolezza di Mija nel finale è che, almeno per ora, non può battere il sistema, e se vuole ottenere quello che vuole – la salvezza di Okja – può solo ragionarci con le sue stesse armi: diventare la prima acquirente del tanto desiderabile super maiale.

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2024 Animazione Avventura Film Oscar 2025 Postapocalittico Racconto di formazione

Flow – Insieme

Flow (2024) di Gints Zilbalodis è un film animato muto, il primo film lettone ad essere candidato agli Oscar come Miglior film internazionale.

A fronte di un budget piccolissimo – 3.5 milioni di dollari – è stato nel complesso un buon successo commerciale: 17.5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Flow (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione
Miglior film internazionale

Di cosa parla Flow?

Il protagonista è un gatto che si immerge in un realtà apparentemente post-apocalittica con improbabili alleati incontrati lungo la strada.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Flow?

Assolutamente sì.

Flow è uno di quei prodotti indipendenti che emergono a sorpresa in un panorama al limite della saturazione, che però si sta rinnovando con sperimentazioni di tecnica mista che vanno dalle grandi produzioni come Il robot selvaggio (2024) fino a prodotti più piccoli – ma di valore.

Un effettivo esempio di arte povera, che lavora efficacemente coi pochi mezzi che ha, fra cui la mancanza del doppiaggio parlato, che diventa in realtà un valore dell’opera nel riuscire a portare in scena le dinamiche animali in maniera il più possibile reale.

Solo

Il gatto protagonista è solo.

Muovendosi in un ambiente abbandonato dall’umano per motivi imprecisati, la lotta diventa esclusivamente animale, totalmente selvaggia, dove il più forte ha inevitabilmente la meglio, dove un branco di cani rabbiosi vuole avere il dominio su tutto, terrorizzando il povero protagonista.

Il primo compagno sembra un altro solitario avventuriero, un capibara totalmente innocuo che lascia che il gatto viva insieme a lui nella sua barca di fortuna, lasciando pigramente salire chiunque lo desideri.

Ma il mondo del branco è ben più ostile.

Branco

Flow gioca molto sul concetto di branco e di smarcarsi dallo stesso.

Infatti in più momenti i personaggi si trovano a cercare una vita alternativa al di fuori della sicurezza del gruppo: il primo è proprio il curioso serpentario, che, per la sua imponenza, terrorizza il gatto, ma che cerca una via di pace offrendogli un pesce appena pescato.

Un tentativo di fatto inutile, perché l’uccello viene subito soverchiato dal resto del branco, che pensa prima di tutto a sé stesso raccogliendo il pesce per la propria prole, e che anzi gli si rivolta violentemente contro quando cerca di difendere il suo nuovo amico.

Una lezione di vita importante, che però non è subito colta dall’invece piuttosto ingenuo ed entusiasta labrador, che cercherà di coinvolgere i suoi compagni nel neonato gruppo, non riconoscendone pericolosità e il dannoso egoismo. 

Infatti, la minaccia è duplice.

Minaccia

Gli antagonisti di Flow sono due.

Uno reale, uno apparente.

Il nemico reale è un concetto: l’egoismo e la volontà di subordinare chiunque ci si metta contro, che si concretizza nel già citato branco di cani, che prima terrorizza il gatto, poi, accolto sulla nave, si impossessa senza ritegno del pesce faticosamente raccolto e rompe per dispetto lo specchio del lemure.

Un concetto in parte presente anche nella testarda solitudine del protagonista, che invece nel corso della pellicola impara a lavorare all’interno di un gruppo, anzi imparando dallo stesso – riuscendo a superare la paura dell’acqua e raccogliendo abbastanza pescato da sfamare i suoi compagni.

La minaccia apparente è invece l’immenso capodoglio che infesta le acque della città sommersa, una presenza che fa subito risalire il gatto sulla barca per paura di essere sbranato, ma che in realtà si limita ad esistere pacificamente accanto ai protagonisti protagonista, mostrandosi nella sua immensità.

Ma è una minaccia apparente perché lo stesso è vittima di quell’abbassamento delle acque che è invece la salvezza del gruppo, che riesce infine a vivere sulla terraferma senza paura di rimanere risucchiato dai flutti, essenziali per la sopravvivenza dell’enorme mammifero.

E proprio questa scena ci permette di comprendere il finale – e, per estensione, l’intera pellicola.

Flow significato

Il film può essere letto in due direzioni: per dichiarazione dello stesso regista, la pellicola racconta il percorso complesso ma necessario dell’imparare a lavorare in gruppo, nonostante le differenze e i timori, non mettendo più se stessi al primo posto – ma anche scegliendosi i giusti compagni.

Lo si capisce soprattutto nel comportamento dell’uccello segretario, che litiga con tutti per non far salire sulla barca i cani – che infatti si rivelano infidi ed egoisti fino all’ultimo – che si getta in un enigmatico sacrificio a cui segue la salvezza dell’intero gruppo. 

In senso più ampio, anche vista l’ambientazione serenamente post-apocalittica, l’opera può essere vista come racconto della necessità dell’umano di collaborare per non essere autore della propria distruzione, dettata  da un continuo egoismo che non avvantaggia davvero nessuno…

…e, in senso più ampio, nel finale si racconta la presa di consapevolezza del gruppo, che acquisisce comprensione del proprio esistere specchiandosi in quell’acqua che può essere ora salvezza, ora minaccia, a seconda di quale punto di vista la si guarda.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Dramma storico Fantastico Film Musical Nuovi Orizzonti Racconto di formazione

Inu-oh – La sinfonia delle maschere

Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa è un lungometraggio anime ispirato alle reali figure del teatro Sarugaku.

A fronte di un budget sconosciuto, anche per la distribuzione limitata, ha incassato meno di mezzo milione in tutto il mondo.

Di cosa parla Inu-oh?

Giappone, XI sec. Sullo sfondo di una tragica guerra fra clan, due ragazzi estremamente sfortunati saranno capaci di dare nuova linfa al panorama musicale del loro paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inu-oh?

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Assolutamente sì.

Inu-oh è una di quelle perle cinematografiche sostanzialmente sconosciute tranne agli appassionati, capace di distinguersi in maniera significativa dal resto del panorama del genere anime sia per lo stile visivo che per il taglio narrativo scelto.

Per farvi capire, è un po’ come se La storia della Principessa Splendente (2013) e Samurai Champloo (2004) avessero avuto un figlio.

E non vi dirò di più.

Intarsio

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Il primo atto di Inu-oh è un enigmatico intarsio narrativo.

La panoramica sulla scena politica e militare serve solo per darci un’infarinatura del mondo in cui si muovono i protagonisti, portando in scena momenti e personaggi apparentemente scollegati fra loro, accomunati da un taglio fantastico e misterioso insieme.

I due protagonisti sono infatti legati da un comune destino di sofferenza e di marginalizzazione, dovuto in entrambi casi all’avidità di personaggi terzi, che cercano di arricchirsi sulle loro pelle senza che loro neanche lo sappiano fino in fondo.

E, da questa maledizione comune, si sviluppano due temi fondamentali.

Memoria

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

La memoria è un elemento fondamentale in Inu-oh.

Infatti, nel contesto culturale in cui il sapere popolare è conservato nel ricordo della comunità, il più grande tesoro in realtà sono proprio le storie da raccontare e da tramandare, capaci di stupire un pubblico che ormai le ha dimenticate.

Per questo i suonatori biwa, i maggiori possessori di questo tesoro, sono due volte puniti: prima dalla tirannia dello shogun, che cerca di assoggettare questo patrimonio di parole ai propri bisogni politici, riducendo gli stessi a meri esecutori del suo potere…

…ma, soprattutto, sono vittime della spietata avidità del padre di Inu-oh, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per ottenere il totale controllo su questa inestimabile ricchezza, da utilizzare per sfidare lo stesso governo in carica in una disperata ricerca di popolarità.

E la memoria si intreccia perfettamente con il perno della vicenda.

Identità

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

L’identità è il cardine tematico di Inu-oh.

Entrambi i protagonisti sono accomunati da un’identità che li rende dei reietti sociali, ma si ritrovano proprio grazie alle loro comuni sfortune: Tomona è infatti l’unico che riesce a vedere la vera bellezza di Inu-oh, del tutto ignaro delle sua terribile deformazione.

La stessa si intreccia profondamente con le storie che i due scelgono di portare sul palco, che permettono gradualmente ad Inu-oh di liberarsi della sua maledizione, riacquistando ad ogni canzone un aspetto più umano

…ad eccezione del volto.

L'ultima maschera di Inu-oh in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Dal secondo atto sul palco si avvicendano una serie di maschere, da entrambe le parti: costretto a dover celare il suo aspetto, Inu-oh si nasconde ogni volta dietro ad una nuova faccia, fino ad arrivare allo svelamento del suo vero volto, quando però ormai questo è stato sanato dalla sua ultima canzone.

E lo stesso Tomona vive una ricerca dell’identità costante sia nell’aspetto che nel nome: il passaggio del tempo è infatti scandito, oltre che dalle maschere di Inu-oh, dal progressivo cambio di aspetto del protagonista, che passa da essere un anonimo biwa a vestire sembianze più prettamente femminili e teatrali.

Tomona nel finale di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Ma ancora più significativo è il cambio del nome: rimasto orfano, si sottomette prima al nominativo che lo rende succube dello shogun, per poi scegliere nuovamente di cambiarlo, allontanandosi dalla sua famiglia, e poi dal suo stesso amico da cui viene separato…

… finché il loro incontro non avviene a secoli di distanza, scandito dall’elemento che li aveva resi così affini:

la musica.

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Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, Piccole Donne non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi – io, personalmente, mi sono lasciata agganciare.

Infatti si tratta di una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, riuscendo, pur con qualche sbavatura, a riscrivere in chiave contemporanea la storia di Louisa May Alcott.

Luce

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Greta Gerwig è perdutamente innamorata della sua protagonista.

L’ottima Saroise Ronan era stata la sua attrice feticcio già fin dai suoi esordi registici in Lady Bird (2017), e qui diventa la protagonista assoluta della scena, sempre premiata sia dalla scrittura piuttosto compiacente, sia dalla fotografica disegnata sul suo personaggio.

E per me è stato tanto più difficile – non ai livelli di The Whale (2022), ma poco ci manca – abbracciare questa visione, che mi è parsa a tratti quasi forzata nel voler raccontare una protagonista che si ribella alle convenzioni sociali.

E, per quanto il suo comportamento sia più volte problematizzato, non lo è mai fino in fondo: Jo prima si lega profondamente a Laurie, poi lo respinge e scappa per trovare fortuna altrove, per finire in un dovutissimo bagno di realtà.

Di fatto, pur con le sue ingenuità, Jo racconta il passaggio dalla spensierata infanzia alla durezza della vita adulta, in cui il successo non è scontato, in cui le altre persone non vivono in nostra funzione, ma anzi la posizione di predominanza si ottiene fra insuccessi e dolorosissime fatiche.

Ma la vera vittima è un’altra.

Seconda

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è l’eterna seconda…

…anche metanarrativamente parlando.

Come Saoirse Ronan è la grande protagonista della scena, al contrario Florence Pugh è costantemente penalizzata da trucco e costumi: dalla frangetta improbabile nella giovinezza ai vestiti stretti fino alla gola in età adulta, tutto sembra imbastito per imbruttirla.

E così anche i suoi capricci giovanili, nonostante siano decisamente meno gravi rispetto ai comportamenti di Jo, infestano costantemente il suo personaggio, che sia presente in scena o meno – ovviamente, tramite la durezza delle parole della sorella meritevole.

Florence Pugh e Thimothee Chalamet in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

E invece io personalmente mi sento più vicina alla mediocrità di Amy, che cerca di disegnarsi il suo spazio nell’ingombrante ombra della sorella maggiore, che si arrende davanti al suo non-genio, davanti al triste destino di una donna del suo tempo – ben più consapevole di discorsi analoghi della stessa Jo. 

Per questo esce vittoriosa infine ottenendo una piccola felicità personale, ricambiata dal suo amore segreto, costruendosi una vita familiare con una persona con cui potrebbe davvero avere una esistenza complessivamente serena, forse non dovendo del tutto abbandonare le sue passioni…

…che escono ovviamente dalla scena in favore della ben più meritevole Jo.

Ma non è l’unica femminilità possibile.

Accontentarsi

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Nonostante il totale protagonismo di Jo, Piccole donne lascia spazio anche ad altre femminilità.

Meg è rappresentazione a suo modo di un’eroina romantica che abbraccia la nascente tendenza del matrimonio non più per motivi politici, ma per un sincero innamoramento, che la costringe ad abbandonare ogni prospettiva di ricchezza e di vita mondana a favore di una più frugale esistenza.

Infatti, nonostante le preoccupazioni di Jo siano nei confronti del matrimonio di per sé – proiezione dei suoi stessi timori – la vera angoscia di Meg riguarda il dover rimanere in un’amara povertà, di doversi privare delle bellezze di una vita più frivola e con meno preoccupazioni economiche.

Insomma il suo personaggio è tormentato dall’idea di lasciarsi tentare da un mondo più attraente, per quanto più insidioso, dove un giorno sei la favorita dell’ape regina di turno – il suo pet, il suo animaletto da compagnia – in un altro sei vittima di pettegolezzi che rappresentano il fulcro della sua esistenza.

Per questo per me è tanto più soddisfacente vedere la maturazione di Meg, che capisce quanto può essere più felice in una vita anche più modesta, ma con a fianco una persona che davvero può fare la sua felicità, anche se nella ristrettezza inevitabile dei mezzi.

Ma manca un fondamentale pezzo a questo puzzle.

Tragedia

L’ultima faccia della storia è Beth.

Personaggio apparentemente di contorno, apparentemente solo il nucleo tragico della vicenda, è in realtà il perno fondamentale della vicenda intorno a cui ruota tutto il passaggio fra passato e presente, nella continua angoscia per la malattia che potrebbe strapparla dal mondo ancora così giovane e innocente.

In questo senso Beth è in tutto e per tutto un’eroina tragica che, nonostante la sua bontà, non può pensare al suo futuro, ma solo ad un limitato presente, in cui viene premiata proprio per la sua innocente bontà e curiosità verso una passione che è anche indice della sua innata capacità musicale.

E così, per quanto lacrimevole, il momento sia della salvezza che della morte è anche il punto di arrivo di una ricongiunzione di un nucleo familiare che si rimette in discussione in tutte le sue parti e che infine si ritrova felicemente nella medesima eredità dell’arcigna zia March…

…dove ognuno sembra aver trovato il suo posto.

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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Candidature Oscar 2025 per Il robot selvaggio (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior colonna sonora originale
Miglior film d’animazione
Miglior colonna sonora originale

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.

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Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Candidature Oscar 2025 per Inside out 2 (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

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L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.