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Land of mine – Quel che resta del mio nemico

Land of mine (2014) di Martin Zandvliet è un dramma storico che racconta un capitolo piuttosto buio del secondo dopoguerra europeo.

A fronte di un budget piccolino – circa 6 milioni di dollari – nonostante la candidatura agli Oscar come Miglior film straniero, fu un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Di cosa parla Land of mine?

Danimarca, 1945. Dopo la resa della Germania, un gruppo di prigionieri di guerra tedeschi viene incaricato di ripulire le spiagge danesi dalle mine antiuomo nascoste sotto la sabbia. Ed è solo lo spunto per una riflessione ben più ampia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Land of mine?

Assolutamente sì.

Land of mine si inserisce in quel tipo di produzioni assolutamente necessarie, riuscendo a riflettere lucidamente su tematiche storiche spesso banalizzate e raccontate faziosamente, affiancandosi invece ad ottimi titoli come La caduta (2004) e Vittime di guerra (1989).

Resta per questo un film estremamente crudele, che, per quanto cerchi di mantenere un sguardo tutto sommato positivo e speranzoso sul futuro, non manca di includere non poche scene che lasciano poco spazio all’immaginazione…

Terra

Il sergente Rasmussen è il punto di partenza.

Basta la primissima sequenza per inquadrare sia il suo personaggio, sia, più in generale il risentimento che dominava il pensiero comune della Danimarca (e non solo): un odio cieco verso qualunque rappresentante di una Germania ormai sconfitta e inerme…

…ma che era stata per un intero lustro promotrice di una guerra destabilizzante e distruttiva.

E, se il vero nemico è irraggiungibile, non resta che prendersela con quello che resta.

Anche se quello che resta non è altro che un pugno di giovani che hanno buttato via la loro giovinezza per le aspirazioni di potere di qualcun altro, e che ora vivono nell’ansia perpetua di dover contribuire alla rinascita di una patria totalmente annichilita.

E, proprio per questo, vanno puniti.

Punizione

I tedeschi non sono più umani.

Sono strumenti.

Strumenti di un percorso di vendetta e, in qualche modo, di catarsi: liberare l’Europa della loro scomoda e odiosa presenza, ripulire ogni traccia della loro colpa, anche a costo di essere coinvolti in un’operazione ancora più assurda e mortale della stessa guerra che hanno appena combattuto.

Per questo non c’è alcun tipo di pietà e di compassione verso questi ragazzini poco più che adolescenti, che possono essere lasciati morire – con una mina in mano o con la pancia vuota – che possono umiliati come le bestie che sono.

Perché questi personaggi si trovano in una zona grigia, in un momento della storia in cui tutto è permesso, dove basta nominare il loro paese d’origine e gli ultimi dieci anni per scusare ogni tipo di azione, di punizione, di disumanizzazione.

E, quando tutto è permesso, siamo solo noi a decidere cosa vogliamo essere.

Ricominciare

Da dove vogliamo ricominciare?

Il percorso di consapevolezza di Rasmussen attraversa vie tortuose e contraddittorie, in cui il personaggio si rende progressivamente conto di come questi innocenti ragazzi siano diventati la valvola di sfogo di un continente stremato e accecato dal desiderio di vendetta.

Perché, anche se li vuole vedere come i colpevoli, come i fautori di una distruzione imperdonabile, in realtà gradualmente i suoi nemici si rivelano per quello che sono: compagni leali, indifesi e pieni di sogni, che possono davvero essere il punto di partenza di una indispensabile riappacificazione fra popoli.

Ma la maggiore consapevolezza è anche di come questi animi gentili possano essere schiacciati e annientati, come la storia si possa in qualche modo ripetere a parti alterne, in cui il nemico diventa la vittima, arrivando ad punto di esasperazione tale da scegliere la strada dell’autodistruzione.

Per questo Land of mine sceglie di lasciarci infine con una nota di speranza, di allungare l’occhio verso un futuro, un presente più consapevole.

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Inu-oh – La sinfonia delle maschere

Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa è un lungometraggio anime ispirato alle reali figure del teatro Sarugaku.

A fronte di un budget sconosciuto, anche per la distribuzione limitata, ha incassato meno di mezzo milione in tutto il mondo.

Di cosa parla Inu-oh?

Giappone, XI sec. Sullo sfondo di una tragica guerra fra clan, due ragazzi estremamente sfortunati saranno capaci di dare nuova linfa al panorama musicale del loro paese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inu-oh?

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Assolutamente sì.

Inu-oh è una di quelle perle cinematografiche sostanzialmente sconosciute tranne agli appassionati, capace di distinguersi in maniera significativa dal resto del panorama del genere anime sia per lo stile visivo che per il taglio narrativo scelto.

Per farvi capire, è un po’ come se La storia della Principessa Splendente (2013) e Samurai Champloo (2004) avessero avuto un figlio.

E non vi dirò di più.

Intarsio

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Il primo atto di Inu-oh è un enigmatico intarsio narrativo.

La panoramica sulla scena politica e militare serve solo per darci un’infarinatura del mondo in cui si muovono i protagonisti, portando in scena momenti e personaggi apparentemente scollegati fra loro, accomunati da un taglio fantastico e misterioso insieme.

I due protagonisti sono infatti legati da un comune destino di sofferenza e di marginalizzazione, dovuto in entrambi casi all’avidità di personaggi terzi, che cercano di arricchirsi sulle loro pelle senza che loro neanche lo sappiano fino in fondo.

E, da questa maledizione comune, si sviluppano due temi fondamentali.

Memoria

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

La memoria è un elemento fondamentale in Inu-oh.

Infatti, nel contesto culturale in cui il sapere popolare è conservato nel ricordo della comunità, il più grande tesoro in realtà sono proprio le storie da raccontare e da tramandare, capaci di stupire un pubblico che ormai le ha dimenticate.

Per questo i suonatori biwa, i maggiori possessori di questo tesoro, sono due volte puniti: prima dalla tirannia dello shogun, che cerca di assoggettare questo patrimonio di parole ai propri bisogni politici, riducendo gli stessi a meri esecutori del suo potere…

…ma, soprattutto, sono vittime della spietata avidità del padre di Inu-oh, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per ottenere il totale controllo su questa inestimabile ricchezza, da utilizzare per sfidare lo stesso governo in carica in una disperata ricerca di popolarità.

E la memoria si intreccia perfettamente con il perno della vicenda.

Identità

Tomona in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

L’identità è il cardine tematico di Inu-oh.

Entrambi i protagonisti sono accomunati da un’identità che li rende dei reietti sociali, ma si ritrovano proprio grazie alle loro comuni sfortune: Tomona è infatti l’unico che riesce a vedere la vera bellezza di Inu-oh, del tutto ignaro delle sua terribile deformazione.

La stessa si intreccia profondamente con le storie che i due scelgono di portare sul palco, che permettono gradualmente ad Inu-oh di liberarsi della sua maledizione, riacquistando ad ogni canzone un aspetto più umano

…ad eccezione del volto.

L'ultima maschera di Inu-oh in una scena di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Dal secondo atto sul palco si avvicendano una serie di maschere, da entrambe le parti: costretto a dover celare il suo aspetto, Inu-oh si nasconde ogni volta dietro ad una nuova faccia, fino ad arrivare allo svelamento del suo vero volto, quando però ormai questo è stato sanato dalla sua ultima canzone.

E lo stesso Tomona vive una ricerca dell’identità costante sia nell’aspetto che nel nome: il passaggio del tempo è infatti scandito, oltre che dalle maschere di Inu-oh, dal progressivo cambio di aspetto del protagonista, che passa da essere un anonimo biwa a vestire sembianze più prettamente femminili e teatrali.

Tomona nel finale di Inu-oh (2021) di Masaaki Yuasa

Ma ancora più significativo è il cambio del nome: rimasto orfano, si sottomette prima al nominativo che lo rende succube dello shogun, per poi scegliere nuovamente di cambiarlo, allontanandosi dalla sua famiglia, e poi dal suo stesso amico da cui viene separato…

… finché il loro incontro non avviene a secoli di distanza, scandito dall’elemento che li aveva resi così affini:

la musica.

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2025 Animazione Avventura Comico Commedia Fantascienza Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl – I dettagli fanno la differenza

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham, tradotto impropriamente in italiano con Le piume della vendetta, è l’ultimo capitolo della fortunata saga omonima in stop-motion.

Il film è stato distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Candidature Oscar 2025 per Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace e Gromit vivono una quotidianità normale, facendosi largo fra le invenzioni sempre più strambe del primo. Ma forse una sta per sfuggirgli di mano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Assolutamente sì.

Avevo un ricordo abbastanza fumoso dei prodotti precedenti del duo, ma ricordavo comunque il mio apprezzamento verso i film della saga.

E non sono rimasta delusa.

Vengeance Most Fowl è uno di quei titoli che poteva tranquillamente essere estremamente banale ed infantile, ma che riesce invece a colpire per una particolare attenzione su pochi aspetti essenziali che la rendono un ritorno sullo schermo particolarmente indovinato.

Dipendenza

Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Wallace è dipendente dalle sue invenzioni.

Il quadretto familiare che si compone nel primo atto è il punto di partenza fondamentale della pellicola: il geniale inventore è totalmente dipendente dalla tecnologia, non riuscendo ad essere autonomo neanche nelle attività più semplici – vestirsi e persino addentare un toast a colazione.

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Ma un particolare fondamentale in tutta questa situazione – che risulta essenziale nello sviluppo della storia – è il ruolo di Groomit: le invenzioni del suo padrone non possono agire autonomamente, ma hanno bisogno dell’imprescindibile contributo del fedele compagno.

Di fatto, Wallace non vuole mai lasciare il suo amico da solo.

Anche a costo di essere fin troppo invadente.

Standard

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Il vero problema del Norbot è la spersonalizzazione.

Il proattivo robot da giardino sembra voler scalzare ingenuamente il personaggio di Groomit, riuscendo a copiarne le azioni in maniera decisamente migliore e, soprattutto, ben più rapidamente, seguendo dei precisi standard che rendono ogni sua creazione priva di personalità.

In questo senso è indicativa l’aggressiva invasione degli spazi personali di Groomit, che, a differenza del compagno, ha piacere nel potersi impegnare nel giardino e cosi a renderlo qualcosa di suo, e non un perfetto cortile uguale a tutti gli altri – come infine il Norbot lo rende.

Ma non c’è nessuna malizia nelle azioni di Wallace.

L’ingenuo inventore vuole onestamente migliorare la vita del suo compagno, sicuro che anzi ogni persona al mondo desideri godere dei medesimi, perfetti standard, gli stessi giardini tutti i uguali fra loro – capaci anche di risolvere le scarsità economiche della famiglia.

E per questo è arrivato il momento di parlare Feathers McGraw.

Anomalo

Feathers McGraw in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Feathers McGraw è uno degli elementi che rendono Vengeance Most Fowl così speciale.

Il villain della pellicola prende le mosse dalle classifiche figure del genere: un macchinatore dell’ombra, una mente criminale in cauta attesa della propria occasione per riuscire nuovamente a brillare – e a vendicarsi dell’ignobile cattura.

Ma il suo aspetto è la chiave della deliziosa ironia che lo rende così speciale.

Il volto del malefico pinguino è totalmente inespressivo, proprio perché manca degli elementi fondamentali per poterlo essere: occhi vitrei, nient’altro due punti neri sopra ad un becco abbozzato su cui non è possibile che appaia alcuna smorfia.

E questa sua inespressività si va a scontrare in maniera veramente geniale con il suo subdolo piano, che colpisce proprio al cuore dei suoi nemici, facendo leva sull’ingenuità di Groomit, permettendogli di deviare la personalità del Norbot senza che lo stesso se ne renda conto.

E da qui si sviluppa il punto di arrivo della riflessione della pellicola.

Personalità

i Norbot cattivi in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Le creazioni sono specchio del loro creatore.

Non è un caso che i Norbot Malefici non siano apertamente cattivi: come ci si poteva aspettare un caos irrefrenabile alla Gremlins, al contrario, proprio come Feathers McGraw, la loro cattiveria si basa sullo sfruttare quello che l’ambiente gli concede, riuscendo a tramare nell’ombra…

…senza essere scoperto fino all’ultimo momento.

E, secondo lo stesso concetto, il Norbot nella sua forma originale vuole semplicemente e ingenuamente aiutare chiunque, anche a costo di risultare invadente e fuori luogo -proprio come il suo stesso creatore, Wallace, è nei confronti di Groomit.

Una riflessione apparentemente banale e già vista, ma che in realtà ben si inserisce all’interno di una consapevolezza piuttosto contemporanea di come le nuove tecnologie – particolarmente, l’intelligenza artificiale – non sappiano creare veramente niente da zero, ma definiscano il loro agire in base agli input che gli diamo.

Per questo il Norbot può essere il compagno fondamentale nella vita del duo protagonista, riuscendo infine – al pari di Wallace – ad apprezzare l’insostituibile individualità di Groomit, e agendo intorno alla stessa senza volerla scalzare.

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Nosferatu – Una bellezza già vista

Nosferatu (2024) di Robert Eggers è un remake dell’omonimo classico del cinema espressionista di Murnau.

A fronte di un budget comunque significativo – 50 milioni di dollari – ha aperto in maniera piuttosto promettente al box office statunitense: 21 milioni di dollari.

Candidature Oscar 2025 per Nosferatu (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior fotografia
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliori trucco e acconciatura

Di cosa parla Nosferatu?

Thomas Hutter vuole offrire una nuova vita alla sua neonata famiglia, e per questo accetta un incarico piuttosto particolare: visitare il misterioso conte Orlok in Transilvania.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nosferatu?

Lily Rose-Depp in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In generale, sì.

Con Nosferatu Eggers dimostra nuovamente le sue incredibili capacità registiche, riuscendo a portare in scena atmosfere effettivamente inquietanti, incorniciate da un montaggio particolarmente indovinato, che regala un davvero indemoniato alla pellicola. 

Rimane però un po’ di amaro in bocca nel constatare la quantità di temi e di riflessioni – già esplorate da Eggers altrove – che potevano essere meglio approfondite, cercando magari di dare maggiore originalità all’opera, che per il resto rimane un piacevole omaggio al classico di partenza.

Paura

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In un genere ormai oltre che saturo come l’horror, riuscire a spaventare non è semplice.

In questo senso, Nosferatu di Eggers è vincente nel caricare le atmosfere in scena, soprattutto nel primo atto, di un senso di puro terrore, basato su un abile uso del vedo-non-vedo, in cui le fattezze del Conte Orlok emergono fumose dall’oscurità della sua magione…

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

…e diventano sempre più agghiaccianti grazie agli altri elementi che animano la scena – i riti pagani di purificazione, i particolari gotici del castello, la carrozza fantasma… – riuscendo a far immergere lo spettatore nella corsa cieca e disperata del nostro ingenuo protagonista.

Ma non è finita qui.

Controllo

Nicholas Hoult e Lily Rose-Depp in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

Il perno centrale della narrazione di Nosferatu è la mancanza di controllo.

I protagonisti sembrano del tutto succubi ad una trama già intessuta molto tempo prima, a cui è impossibile sfuggire, come ben racconta il montaggio frenetico in cui le vicende si svolgono secondo la volontà del conte – e senza possibilità di replica alcuna.

In questo senso, altri due elementi contribuiscono al fascino della pellicola.

Nicholas Hoult in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

Il primo, è il senso di claustrofobia: proprio per la mancanza di controllo, Thomas Hutter sembra inevitabilmente imprigionato nell’ombra di Orlok, e vani sono tutti i suoi tentativi di ucciderlo e di fuggire, fino alla scelta disperata di buttarsi nell’oceano. 

A questo si aggiunge l’interessante paragone fra il vampiro e la peste, ben rappresentata dalla sfrenata corsa dei topi che scendono dalla nave e che si intrufolano in ogni angolo della città, portando con loro una malattia invisibile ed irrefrenabile.

Ma, davanti a queste scelte piuttosto convincenti, rimane per me un’amarezza di fondo.

Occasione

Come altri registi nascenti in ambito horror, fin da The Witch Eggers si è distinto nel portare un quid in più all’interno del genere.

Purtroppo, questo non è il caso di Nosferatu.

Proprio come il suo protagonista, anche Eggers sembra intrappolato all’interno dell’eredità di Murnau e del suo desiderio di omaggiarlo, senza riuscire così a portare una propria originale rilettura del film di partenza, limitandosi a confezionare un ottimo horror di atmosfere.

Lily Rose-Depp e Emma Corrin in una scena di Nosferatu (2024) di Robert Eggers

In questo senso, gli spunti si sprecano: il personaggio di Ellen da solo offriva il fianco a diverse riflessioni sulla liberazione sessuale, sulla considerazione degradante delle capacità mentali delle donne – nella appena citata isteria – che poteva dare un significato ben più interessante a tutte le scene di possessione.

Per questo per me Nosferatu è una buonissima prova registica di Eggers, ma che per brillare davvero come regista dovrebbe affidarsi ad una sua storia originale – o, almeno, ad una storia originalmente riproposta – senza vivere nell’ombra di nessun altro autore, per quanto importante.

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La ballata di Buster Scruggs – Un affettuoso saluto

La ballata di Buster Scruggs (2018) è – per ora – l’ultimo film codiretto dai Fratelli Coen, prima di prendere strade artistiche separate.

Il film è stato prodotto e distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Di cosa parla La ballata di Buster Scruggs?

Partendo dalle mirabolanti avventure di Buster Scruggs, il film si snoda fra sei storie ambientate nel selvaggio West, accomunate da un elemento lugubre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La ballata di Buster Scruggs?

In generale, sì.

Nella lunga carriera dei Coen, forse questo è uno dei loro film più riusciti dopo anni di produzioni molto meno indovinate: avendo ormai da tempo manifestato il loro amore per il genere western – già in Il Grinta (2010) – La ballata di Buster Scruggs rappresenta il punto di arrivo ideale per la loro carriera di coppia.

E i toni del film sono veramente molto variegati: si passa da episodi dal taglio comico, surreale, quasi grottesco, per sfociare in brevi storie invece decisamente più drammatiche, che tratteggiano un ritratto piuttosto disincantato del Vecchio West.

Insomma, vale la pena di dargli un’occhiata.

La ballata di Buster Scruggs si può leggere a suo modo come un sunto degli alti e bassi della carriera del duo registico.

E proprio in questo modo la voglio leggere.

Morte

Il leitmotiv di La ballata di Buster Scruggs è la morte.

Il trapasso infatti ci coglie di sorpresa fin dalla primissima storia, in cui lo sgargiante personaggio che dà il nome al film si destreggia fra diverse avventure che si concludono tutte con la sconfitta del suo avversario e il plauso del pubblico.

Questo attacco così peculiare può essere letto come uno spaccato dei primi anni del duo: forti di due successi di ampissimo respiro come Fargo (1996) e Il grande Lebowski (1998), al tempo di Fratelli Coen sembravano la nuova promessa di Hollywood.

E invece negli anni successivi i due hanno ottenuto un successo di pubblico sempre più tiepido, prima con i più incolori Fratello, dove sei?  (2000) e L’uomo che non c’era (2001), fino al totale decadimento registico con Prima ti sposo, poi ti rovino (2003).

Eppure, fu solo la prima volta…

Prima volta?

La seconda storia è tanto emblematica in quanto racconta la seconda risalita e discesa del duo.

Come il protagonista della storia si trova a dover affrontare le fortune alterne della sua carriera criminale, con un insperato salvataggio dall’impiccagione per poi finire nuovamente sulla gogna, allo stesso modo i Fratelli Coen ritrovarono un nuovo scoppio di popolarità con Non è un paese per vecchi (2007)…

…per poi tornare nel dimenticatoio già col film successivo, Burn After Reading (2008), l’anticamera di una serie di produzioni molto meno apprezzate, fra cui forse spicca il simpatico Il Grinta (2010), che però non gli valse un nuovo successo.

Infatti, gli umori del pubblico sono molto altalenanti.

Buio

Gli episodi centrali sono quelle che meglio raccontano le fasi più buie della loro carriera.

L’angoscia di fondo si fa particolarmente sentire nella terza storia, in cui i personaggi rimangono sostanzialmente in silenzio per la maggior parte del tempo, e in cui il grande protagonista è la recitazione dello sfortunato Harrison, che riecheggia ripetutamente per la scena.

In questo frangente il duo sembra voler raccontare una fortuna molto passeggera – ottenuta grazie ai suddetti titoli di successo – ma che ha portato gradualmente il pubblico ad abbandonarli, nonostante la loro opera – almeno ai loro occhi – avesse sempre lo stesso valore.

Insomma, si racconta un panorama selvaggio e senza pietà, in cui il circense – o il produttore – si affida al partito che gli è in quel momento più comodo e più redditizio, scaricando il suo protetto quando questo non riesce più a brillare come un tempo.

Una tendenza piuttosto amara che si conferma anche con il successivo episodio, che racconta la crudele caccia all’oro, in cui un vecchio cercatore riesce finalmente ad individuare un filone aureo, ma viene scalzato dal giovane approfittatore di turno…

…ma rimettendosi subito in piedi e risultando infine vincitore.

Infatti, la speranza è un altro tema persistente.

Futuro

Nonostante la carriera da duo artistico sia arrivata al capolinea, i due registi non sembrano perdersi d’animo.

Le lunghe riflessioni per ricominciare su una nuova strada partono proprio dal penultimo episodio, in cui diverse coppie si creano e si sfaldano: prima Alice e suo fratello, poi Alice e Knapp, il quale sceglie di scegliere una vita diversa rispetto al suo storico compare.

Un racconto su un futuro ancora incerto, una consapevolezza un po’ amara di intraprendere una nuova avventura partendo da un passato agrodolce, punteggiato da momenti di buio e quanto da gioie passeggere, come ben si riassume nell’ultimo episodio.

Infatti, la giocosa complicità del duo dei cacciatori di taglie è probabilmente un ritratto che i due registi fanno di sé stessi: piuttosto strambi e fuori dalle righe, non sempre apprezzati e non sempre capiti, ma che arrivano a fine giornata – e di carriera – sempre con il sorriso sulle labbra.

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Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, Piccole Donne non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi – io, personalmente, mi sono lasciata agganciare.

Infatti si tratta di una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, riuscendo, pur con qualche sbavatura, a riscrivere in chiave contemporanea la storia di Louisa May Alcott.

Luce

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Greta Gerwig è perdutamente innamorata della sua protagonista.

L’ottima Saroise Ronan era stata la sua attrice feticcio già fin dai suoi esordi registici in Lady Bird (2017), e qui diventa la protagonista assoluta della scena, sempre premiata sia dalla scrittura piuttosto compiacente, sia dalla fotografica disegnata sul suo personaggio.

E per me è stato tanto più difficile – non ai livelli di The Whale (2022), ma poco ci manca – abbracciare questa visione, che mi è parsa a tratti quasi forzata nel voler raccontare una protagonista che si ribella alle convenzioni sociali.

E, per quanto il suo comportamento sia più volte problematizzato, non lo è mai fino in fondo: Jo prima si lega profondamente a Laurie, poi lo respinge e scappa per trovare fortuna altrove, per finire in un dovutissimo bagno di realtà.

Di fatto, pur con le sue ingenuità, Jo racconta il passaggio dalla spensierata infanzia alla durezza della vita adulta, in cui il successo non è scontato, in cui le altre persone non vivono in nostra funzione, ma anzi la posizione di predominanza si ottiene fra insuccessi e dolorosissime fatiche.

Ma la vera vittima è un’altra.

Seconda

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è l’eterna seconda…

…anche metanarrativamente parlando.

Come Saoirse Ronan è la grande protagonista della scena, al contrario Florence Pugh è costantemente penalizzata da trucco e costumi: dalla frangetta improbabile nella giovinezza ai vestiti stretti fino alla gola in età adulta, tutto sembra imbastito per imbruttirla.

E così anche i suoi capricci giovanili, nonostante siano decisamente meno gravi rispetto ai comportamenti di Jo, infestano costantemente il suo personaggio, che sia presente in scena o meno – ovviamente, tramite la durezza delle parole della sorella meritevole.

Florence Pugh e Thimothee Chalamet in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

E invece io personalmente mi sento più vicina alla mediocrità di Amy, che cerca di disegnarsi il suo spazio nell’ingombrante ombra della sorella maggiore, che si arrende davanti al suo non-genio, davanti al triste destino di una donna del suo tempo – ben più consapevole di discorsi analoghi della stessa Jo. 

Per questo esce vittoriosa infine ottenendo una piccola felicità personale, ricambiata dal suo amore segreto, costruendosi una vita familiare con una persona con cui potrebbe davvero avere una esistenza complessivamente serena, forse non dovendo del tutto abbandonare le sue passioni…

…che escono ovviamente dalla scena in favore della ben più meritevole Jo.

Ma non è l’unica femminilità possibile.

Accontentarsi

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Nonostante il totale protagonismo di Jo, Piccole donne lascia spazio anche ad altre femminilità.

Meg è rappresentazione a suo modo di un’eroina romantica che abbraccia la nascente tendenza del matrimonio non più per motivi politici, ma per un sincero innamoramento, che la costringe ad abbandonare ogni prospettiva di ricchezza e di vita mondana a favore di una più frugale esistenza.

Infatti, nonostante le preoccupazioni di Jo siano nei confronti del matrimonio di per sé – proiezione dei suoi stessi timori – la vera angoscia di Meg riguarda il dover rimanere in un’amara povertà, di doversi privare delle bellezze di una vita più frivola e con meno preoccupazioni economiche.

Insomma il suo personaggio è tormentato dall’idea di lasciarsi tentare da un mondo più attraente, per quanto più insidioso, dove un giorno sei la favorita dell’ape regina di turno – il suo pet, il suo animaletto da compagnia – in un altro sei vittima di pettegolezzi che rappresentano il fulcro della sua esistenza.

Per questo per me è tanto più soddisfacente vedere la maturazione di Meg, che capisce quanto può essere più felice in una vita anche più modesta, ma con a fianco una persona che davvero può fare la sua felicità, anche se nella ristrettezza inevitabile dei mezzi.

Ma manca un fondamentale pezzo a questo puzzle.

Tragedia

L’ultima faccia della storia è Beth.

Personaggio apparentemente di contorno, apparentemente solo il nucleo tragico della vicenda, è in realtà il perno fondamentale della vicenda intorno a cui ruota tutto il passaggio fra passato e presente, nella continua angoscia per la malattia che potrebbe strapparla dal mondo ancora così giovane e innocente.

In questo senso Beth è in tutto e per tutto un’eroina tragica che, nonostante la sua bontà, non può pensare al suo futuro, ma solo ad un limitato presente, in cui viene premiata proprio per la sua innocente bontà e curiosità verso una passione che è anche indice della sua innata capacità musicale.

E così, per quanto lacrimevole, il momento sia della salvezza che della morte è anche il punto di arrivo di una ricongiunzione di un nucleo familiare che si rimette in discussione in tutte le sue parti e che infine si ritrova felicemente nella medesima eredità dell’arcigna zia March…

…dove ognuno sembra aver trovato il suo posto.

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Gremlins 2 – Il punto di non ritorno

Gremlins 2 (1990) di Joe Dante, noto anche come Gremlins 2 – La nuova stirpe, è il sequel dell’omonimo cult degli Anni Ottanta.

A fronte di un budget piuttosto ambizioso – 50 milioni di dollari – fu un disastro commerciale, non riuscendo né a coprire i costi di produzione, né ad avvicinarsi all’incasso del primo.

Di cosa parla Gremlins 2?

Pochi anni dopo il primo film, Billy lavora per un’intraprendente multinazionale che, per vie traverse, viene in possesso di Gizmo. E la minaccia dei Gremlins è ancora più pressante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins 2?

Assolutamente sì.

Per quanto mi renda conto che questo secondo capitolo possa non essere nelle corde di tutti, al contempo è secondo me una visione irrinunciabile per godere di un Joe Dante in forma smagliante, che gioca con la sua creatura in maniera sempre più fantasiosa e improbabile.

Insomma, Gremlins 2 è stato, nel bene e nel male, un apripista per il più classico sequel Anni Novanta, che prende gli elementi del primo film e li esaspera all’inverosimile, in questo caso risultando però, nella sua follia, incredibilmente brillante.

Spaccato

Come per il primo film, anche in Gremlins 2 è presente l’elemento politico.

Di fatto la cornice della storia principale – ricordiamolo, dal taglio fantascientifico, quasi fantastico – è crudelmente reale, quasi satirica, ed inquadra perfettamente la grande corsa al capitale degli Stati Uniti degli Anni Ottanta e Novanta…

…in cui ogni dipendente, ogni ingranaggio deve sottostare precisamente allo schema aziendale, in cui ogni tipo di individualismo è immediatamente soppresso, ogni tentativo, anche il più innocuo, di non seguire il regolamento, è severamente punito.

E questo grottesco quadretto è chiuso proprio l’annuncio che segue il licenziamento del dipendente ribelle:

We have a career opportunity on level seven!

Opportunità di carriera al piano sette!

Casualità

Il film sa di dover ricreare il dramma del primo…

…ma deve essere quantomeno credibile.

In questo senso funziona bene la sequenza di eventi che conduce al rincontro fra Gizmo e Billy, e il motivo per cui il protagonista non può immediatamente portarlo con sé, mentre meno convincente è il modo in cui il mogwai finisce per bagnarsi.

Fra l’altro è piuttosto curioso come Gizmo venga relegato per gran parte del tempo fuori scena, limitato nel suo simpatico arco evolutivo sulle orme del suo eroe cinematografico – Rambo – venendo quasi subito messo ai margini dagli altri Gremlins e quasi dimenticato da Billy.

Infatti il vero protagonista della scena è la diversità.

Diversi

Joe Dante con Gremlins 2 vuole stupire lo spettatore – e sé stesso.

Per questo crea terreno fertile per sperimentazioni sempre più incredibili – il laboratorio – dove i suoi personaggi non sono semplicemente delle simpatiche varianti di Gizmo, ma bensì degli esperimenti mal riusciti via via sempre più assurdi.

Così vediamo il Gremlins a cui cresce la verdura addosso, quello che diventa un ragno, un femme fatale, un conduttore radiofonico, un pipistrello e via dicendo, tutti accomunati da una totale imprevedibilità e malvagità innata.

E, proprio perché in questo frangente il regista non ha più bisogno di far credere allo spettatore che i Gremlins nati da Gizmo siano uguali a lui, li distingue fin da subito con dei ghigni distorti e caratteristici al limite del grottesco.

Ed è proprio qui il punto di non ritorno.

Fine?

Gremlins 3 non può esistere.

Al di là dell’insuccesso economico che ha chiuso le porte ad un possibile continuo, Joe Dante è arrivato con Gremlins 2 a toccare degli apici creativi che lo pongono in una posizione di precario equilibrio fra il genio e il trash…

…e, con un terzo film, probabilmente sarebbe crollato in un insostenibile camp.

Perché, obbiettivamente, come si potrebbe superare in eleganza la scena metanarrativa in cui i Gremlins prendono possesso della pellicola bucando lo schermo, per poi essere rimessi al loro posto da niente poco di meno che Hulk Hogan…

…oltre alle diverse prese in giro che Joe Dante fa a sé stesso e al precedente film, accolto da entusiasmo ma anche feroci critiche da parte di genitori totalmente sconvolti dalla tremenda violenza in un film popolare anche fra i più piccoli?

Forse, per una volta, il flop commerciale è stato una fortuna…

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Il Grinta – Un simpatico western

Il Grinta (2010) è il remake dell’omonimo film del 1969, questa volta sotto la direzione dei Fratelli Coen nell’ultima fase della loro carriera di coppia.

A fronte di un budget medio – 38 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 252 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il Grinta?

Mattie Ross, rimasta orfana di padre, cerca giustizia. Ma la sua giovane età potrebbe essere un ostacolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Grinta?

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

In generale, sì.

Il Grinta è il classico Coen minore, che si inserisce nel loro avvicinamento al genere western – già sperimentato in Non è un paese per vecchi (2007) e confermato nel successivo La ballata di Buster Scruggs (2018)…

…e che contiene al suo interno i classici elementi tipici della filmografia coeniana – specificatamente, il criminale inetto e l’ironia surreale – senza brillare particolarmente, ma rimanendo un film nel complesso piuttosto gradevole.

Insomma, non imperdibile, ma vale una visione.

Vantaggio

Hailee Steinfeld in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Mattie è limitata solo dalla sua età.

L’elemento più profondamente coeniano è infatti la brillantezza e intelligenza della protagonista, che risulta così inusuale nel suo costante scontro con la becera ignoranza degli altri personaggi, che cercano costantemente di ingannarla e limitarla nel suo agire.

Hailee Steinfeld in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Infatti il suo personaggio si muove all’interno di un ambiente definito dalla fama e dalla furbizia del singolo, dove l’unica legge è quella della forza e dov’è il valore dell’individuo è definito dalla sua autorità ed esperienza con il mondo…

…che deve piegarsi davanti a questi concetti così estranei di giustizia, contratti e avvocati, così misteriosi da incutere un certo timore nei personaggi con cui Mattie si interfaccia, che infine, volente o nolente, devono piegarsi alla sua volontà.

In questo senso, Rooster è l’esatto opposto.

Imbrigliare

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Mattie non è la prima a cercare di imbrigliare Rooster.

L’introduzione del personaggio avviene in un panorama del tutto anomalo: un tribunale in cui è torchiato dalle domande di un avvocato che cerca di chiedergli il conto dei suoi crimini, dei suoi omicidi, in un mondo selvaggio in cui le regole sono messe al bando. 

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

E infatti il vecchio giustiziere arranca fra particolari, sentito dire e una legge sotterranea che non gli ha mai chiesto il conto, ma ha solamente preteso da lui risultati che bene o male, più o meno legalmente, è riuscito infine ad ottenere.

Ma se in quel contesto Mattie potrebbe anche rivalersi, il mondo esterno è ben diverso.

Evasione

Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Come in altri contesti – specificamente Fargo (1996) – è evidente che anche qui i Coen volessero riscrivere un genere. 

Ovvero, il buddy movie – o, meglio, il sottogenere che coinvolge una coppia formata da un giovane e un vecchio. 

E proprio per questo, il duo registico si impegna nell’evadere la classica dinamica che costruisce un certo affetto fra i protagonisti, partendo da una condizione di assoluto antagonismo – per quanto, anche qui, ce ne fossero tutti i presupposti.

Hailee Steinfeld e Jeff Bridges in una scena di Il Grinta (2010) dei Fratelli Coen

Sostanzialmente Rooster all’inizio mette più volte Mattie alla prova, finché – attraversando intrepida il fiume a cavallo pur di inseguirlo – la protagonista si guadagna il suo rispetto, concedendole di seguirlo all’interno di un panorama selvaggio ed indomabile.

Infatti la passerella di personaggi che si alterna sulla scena racconta un mondo definito dall’astuzia e dalla prevaricazione, dal guadagno ricercato ovunque – persino in un cadavere, che può essere rivenduto per non pochi soldi.

Un mondo in realtà anche piuttosto meschino e mediocre, come lo stesso Chaney si dimostra, evadendo del tutto il modello del villain temibile e irrefrenabile tipico del genere western, che, insieme alla mancanza di un esplicito happy ending, è la massima evasione del film.

Tuttavia, nel loro voler a tutti i costi cambiare il modello i Coen rischiano di non centrare il punto, arrivando ad un finale che vorrebbe essere amaro e riflessivo come in Fargo, ma che finisce solo per essere insipido e insoddisfacente.

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Non è un paese per vecchi – Cosa resta di noi

Non è un paese per vecchi (2007) è probabilmente l’opera più nota e apprezzata della filmografia di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 25 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 117 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Non è un paese per vecchi?

Llewelyn Moss è un veterano del Vietnam ormai in pensione, che, approfittandosi di una faida fra gang, riesce ad impossessarsi di una grossa somma . Ma è un denaro fin troppo pericolosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Non è un paese per vecchi?

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Non è un paese per vecchi nasce da una riflessione lunga un decennio, partita dall’opera prima del duo registico, Fargo (1996) e riproposta all’interno di un contesto amaramente drammatico, segnando uno dei loro maggiori successi cinematografici.

Un’opera sicuramente complessa, quasi respingente per la sua crudeltà, per la sua scrittura che vive di sottrazione, di simboli, di non detti, dove tutto è lasciato alla messinscena e agli incredibili interpreti coinvolti.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Incontrollabile

Non è un paese per vecchi si apre con l’illusione del controllo.

Non conosciamo ancora le capacità di questo misterioso criminale, ma ci limitiamo ad osservarlo mentre viene caricato su una macchina della polizia, mentre è relegato alle retrovie della scena, mentre ci viene raccontato come sia un personaggio del tutto innocuo, sotto controllo…

…finché non si si riappropria prepotentemente della scena tagliando la gola al poliziotto per cominciare il proprio viaggio.

E la stessa illusione è anche propria di Llewelyn Moss, che si trova fin troppo facilmente fra le mani i soldi del cartello, e che inciamperà nei suoi stessi errori scena dopo scena, riuscendo a sfuggire solo per un soffio dal morso di uno dei cani sguinzagliati contro di lui.

E ancora, il protagonista si illude di aver totale controllo della situazione quando elabora un piano in realtà facilmente fallibile, fatto di cambi di macchine, di stanze in squallidi motel, di nascondigli astutamente ideati, pensando di sfuggire alla furia di Anton Chigurh.

Ma Moss non ha idea del pericolo che ha davanti.

Macchina

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Anton è un nemico imperscrutabile.

Nonostante gli altri personaggi cerchino più volte di ridurlo alle proprie regole, lo spietato killer segue costantemente una sua personale linea di condotta che non può mai essere messa in discussione, che non può essere in alcun modo frenata, neanche con le richieste più semplici.

Ma la chiave della sua figura si trova proprio in una delle scene in cui esercita il suo opprimente controllo contro un altro personaggio: sfidando l’ingenuo negoziante a scommettere sul lancio della moneta, Anton sta in realtà raccontando la sua visione del mondo.

Javier Bardem in una scena di Non è un paese per vecchi (2007) di Joel e Ethan Coen

Di fatto, lo spietato killer disprezza profondamente la realtà mediocre che lo circonda, in cui ogni individuo è soggetto ad una continua scommessa contro una vita irragionevole ed incontrollabile, vivendo nell’illusione di un poco credibile libero arbitrio.

E il suo controllo invece Anton lo esercita aggredendo la vita con un taglio chirurgico ed ineluttabile, come un colpo di pistola che trafora usci e volti senza possibilità di replica, senza possibilità di sottrarsi al suo indiscutibile giudizio.

E allora, cosa rimane?

Ineluttabile

Il più illuso e disilluso insieme è proprio lo sceriffo. 

Vedendo l’occasione per trovare un briciolo di giustizia in un mondo feroce e incontrollabile, si intestardisce sempre di più sull’idea di portare non una condanna, ma una salvezza in un duello che può avere come esito solo la morte dell’illuso veterano.

E quel briciolo di speranza che ci offre la sua presenza è infine strozzata da un climax interrotto, che prima ci illude che sarà possibile uno scontro alla pari fra i due duellanti, ma che invece porta all’ennesimo fuoco incrociato che, ancora una volta, Bell non è riuscito ad evitare.

E così tutte le morti significative avvengono fuori scena, fuori dal nostro controllo: non vediamo neanche il corpo di Moss, non abbiamo certezza del destino di Carla, e non sappiamo neanche nulla sulla sorte di Anton stesso, reso infine molto meno inarrestabile di quanto credessimo.

Ci restano solo le amare parole dello sceriffo, che riassume nel suo sogno la flebile speranza rappresentata dal defunto genitore nelle vesti di un cowboy di un’epoca ormai tramontata, con cui riesce a trovare ancora una scintilla di speranza in un mondo arido e crudele.

Ma poi…

But then I woke up.

Ma poi mi sono svegliato.
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Avventura David Lynch Dramma romantico Drammatico Film Surreale

Mulholland Drive – La storia sparsa

Mulholland Drive (2001) è da molti considerato il capolavoro di David Lynch – ed è anche il penultimo della sua produzione dopo la lunga pausa tutt’ora in corso.

A fronte di un budget come sempre molto piccolo – appena 15 milioni di dollari – nonostante sia stato un pesante insuccesso commerciale – 20 milioni in tutto il mondo – nel tempo è diventato un incredibile cult cinematografico.

Di cosa parla Mulholland Drive?

Betty è un’aspirante attrice piena di sogni, che un giorno si trova in casa una sconosciuta. Ma forse non è tutto così lineare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mulholland Drive?

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Assolutamente sì.

Mulholland Drive è indubbiamente uno dei film più incredibili della già inarrivabile filmografia di Lynch, distinguendosi per un racconto onirico ed enigmatico sottile quanto complessivamente comprensibile nei suoi contorni…

…ma ancora più sfocato nei particolari, nei piccoli elementi che continuamente sfuggono, in una storia che è sparsa in scena fra personaggi che sembrano non avere collegamento fra loro – e forse non ce l’hanno effettivamente.

Incontro

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita è in difficoltà.

E deve esserlo.

Fin dalle prime battute della sua fantasia Diane riscrive la sua vita, la sua eterna frustrazione in un’ottica nuova : non più una sosta improvvisa per una sorpresa per nulla piacevole, non una crudele illusione che la vera Camilla ha orchestrato ai suoi danni…

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

…ma bensì un effettivo incidente, un inganno da cui Rita si è salvata per un pelo, andando a rifugiarsi proprio nelle braccia di Betty, figura riscritta al limite dell’inquietante, come testimoniamo i sorrisi tirati dei due vecchi che fungono da introduzione del personaggio.

Ed è un inganno ben consegnato…

Bontà

Naomi Watts e Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Betty è un personaggio anche troppo positivo.

Ogni elemento della sua figura, a partire dai colori morbidi e pastello, fino alla dolce curva del suo caschetto, raccontano una ragazza amabile, che non ha remore ad accettare di mettersi in pericolo pur di difendere la sua nuova amica.

Ancora di più, la protagonista è un’interprete straordinaria, come ben dimostra la scena della sua audizione, in cui incanta tutti con le sue doti fuori dal comune, ma che non può essere scelta per il ruolo solamente per un inganno ai suoi danni.

Così Diane crea un universo sotterraneo di potenti e infidi macchinatori, di disgustosi personaggi che, per motivi incomprensibili, impongono la scelta di un’attrice che il regista, Adam Kesher, nonostante le sue proteste, è costretto ad accettare.

Eppure questo non impedisce al suo personaggio di notare con interesse Betty, quasi come fosse destinata ad essere scelta…

Ricerca

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita deve ritrovare la sua identità.

Cercando con difficoltà di definirsi tramite gli elementi che la circondano – fra cui il poster da cui prende il nome – si muove continuamente a tentoni per prendersi uno spazio in un mondo dove davvero Betty sembra la sua unica ancora di salvezza.

Ma in un certo senso persino Rita è consapevole dell’inganno.

Così l’enigmatica scena dello spettacolo canoro, tutto cantato in playback, è in realtà un indizio per raccontare la falsità delle vicende raccontate, anzi lo stesso crollo della cantante è indice della condizione stessa del sogno che esiste nonostante la morte di Diane/Betty.

Sulla stessa china, la ricerca disperata di Diane, altro nome che rimbomba costantemente nella mente di Rita, è una naturale spinta per trovare la chiave per comprendere la trama, il cui fulcro è rappresentato proprio dal cadavere in putrefazione della donna.

E, allora, dov’è il reale?

Reale

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Il reale è il paradosso.

Il ritorno alla realtà è dettato dall’entrata nella scatola, che ci catapulta in un mondo ben diverso da quello a cui eravamo abituati finora: una Betty/Diane con un aspetto ed un comportamento aspro ed insostenibile, che non riesce ad accettare la fine della storia con Rita/Camilla.

Ed è ancora più doloroso assistere alla cruda realtà in cui Diane non è così meritevole da essere scelta né come interprete, né come compagna di vita, trovandosi anzi continuamente ad assistere al suo irrimediabile fallimento.

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

E allora Diane non vuole semplicemente eliminare Rita, ma bensì rinchiuderla in una piccola scatola a cui solamente lei ha accesso, un piccolo mondo felice che conservi il sogno di una relazione che è ormai uscita dalla sua vita…

…tanto da togliersi la stessa per preservare un ricordo appagante, per quanto fittizio.