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Warfare – La guerra mediocre

Warfare (2025) è un film di guerra diretto e scritto a quattro mani da Ray Mendoza e Alex Garland, racconto di un reale evento avvenuto durante la guerra in Iraq.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 20 milioni di dollari – si sta rivelando un discreto flop al botteghino, riuscendo a malapena a coprire i costi di produzione in patria.

Di cosa parla Warfare?

La storia parla della reale tragedia avvenuta ad uno dei due registi, parte del reparto di Navy SEAL statunitense durante la Guerra in Iran il 19 novembre 2006.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Warfare?

In generale, sì.

Se si considera Warfare un film di Garland, probabilmente verrà ricordato fra i minori della sua produzione: interessante nella messinscena, nell’equilibrio dei toni e nel racconto delle emozioni strazianti…

…ma, forse, davanti alle potenzialità che aveva al suo interno, guardando anche alle altre narrazioni proprie del genere, per certi versi sembra un’occasione sprecata per raccontare qualcosa di veramente significativo.

Quotidianità

Proprio nel voler raccontare una storia di ricordi, la quotidianità comica domina il primo atto della pellicola.

L’apertura è fondamentale in questi senso per mostrarci come i soldati protagonisti non siano altro che un gruppo di scapigliati ragazzini addestrati a fare la guerra, che annullano ogni tipo di gerarchia per riunirsi in un rituale quasi edonistico.

E l’eco dell’incipit pervade anche le scene successive, che dovrebbero sulla carta essere più serie e riflessive, e invece il pesante silenzio che domina la sequenza è spezzato dai personaggi che ancora si divertono pensando a quel momento condiviso.

Una quotidianità che stona con l’invasione domestica di un’innocente famiglia locale, la cui casa casa diventa la nuova base per le operazioni militari dell’invasore, del tutto indifferente rispetto al disagio creato dalla sua ingombrante presenza.

Eppure, la stessa continua anche nei piccoli momenti di sciocco divertimento e degli scherzi fra i protagonisti, che si alterna alle operazioni di guerra volte a costruire una sorta di tensione sotterranea per l’esplosione della crudeltà visiva dell’atto centrale.

Ma anche quest’ultimo è del tutto coerente con quanto visto in precedenza.

Emozione

C’è poco di eroico nelle azioni dei personaggi.

Dopo la violenta esplosione, i tentativi di tenere insieme la squadra sono dilaniati dai continui e angoscianti particolari delle sofferenze delle vittime, per cui Garland non eccede in nessuna direzione, ma anzi equilibra i toni nel mostrare semplicemente quanto necessario, e nulla di più.

Ma bastano da soli gli angoscianti scambi fra vittime e soccorritori, in cui i del tutto comprensibili bisogni immediati dei feriti si scontrano con il più freddo – o tentato tale – intervento di chi cerca di tenerli in vita, riuscendo a trasmettere il dolore fisico straziante quanto penetrante provato in questi brevi momenti.

Eppure, forse, manca qualcosa.

Oltre

Non si può fare ad un film una colpa di non aver soddisfatto le aspettative dello spettatore.

Ma il confronto con altre opere di intenti simili è inevitabile.

È evidente che Garland avesse tutta l’intenzione di immergersi in un esperimento visivo che annullasse qualsiasi slancio tematico – di glorificazione o di condanna – per raccontare la mera quotidianità che spesso non è mostrata, per i più diversi motivi, all’interno delle narrazioni belliche.

Spunti di riflessione non sono per questo del tutto assenti – dall’accennato machismo della squadra di soccorso alla totale impotenza della famiglia davanti all’invasione nemica – ma diventano di fatto secondarie all’interno di un discorso con intenti diversi.

Eppure, davanti ad un regista di un’opera come Civil War (2024) e a prodotti che sono stati capaci di rappresentare il racconto del lato umano dell’eroe americano – da Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) fino alle sperimentazioni del nuovo millennio di 1917 (2019)…

…sorge in chi scrive una genuina perplessità davanti ad un’opera complessivamente piuttosto lodevole – ma, visti i nomi coinvolti, non ci si poteva aspettare niente di meno – ma che racchiude al suo interno un potenziale che, visto il pregresso del genere, risulta quasi sprecato nel panorama contemporaneo.

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Men in Black – Socchiudere le porte

Men in Black (1997) di Barry Sonnenfeld è il capostipite di una delle più importanti saghe sci-fi a cavallo fra i due millenni.

Infatti, a fronte di un budget abbastanza importante – 90 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: quasi 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Men in Black?

Vi siete mai chiesti chi nasconde le invasioni aliene sulla Terra? Con questo film lo scoprirete – e in una veste che potreste non aspettarvi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Men in Black?

In generale, sì.

Men in Black si posizionò in maniera piuttosto interessante in un panorama sci-fi in continua evoluzione, confezionando una commedia fantascientifica che, pur nella sua semplicità, riuscì ad essere vincente ed a conquistare diverse generazioni di spettatori.

E riuscì in questo intento soprattutto grazie all’equilibrio dei toni interni alla pellicola, che spaziano dalla comicità più pura – e, spesso, anche piuttosto nera – fino ai toni più profondamente drammatici, riuscendo ancora oggi a risultare un prodotto di intrattenimento di grande piacevolezza.

Contesto

Men in Black agisce come la più classica origin story

…ma con una contestualizzazione piuttosto puntuale.

Le primissime scene funzionano ottimamente sia per definire il contesto del film, sia il tono dello stesso: una semplice tratta di esseri umani si rivela in realtà l’occasione per smascherare il primo colpevole della presenza aliena.

E la totale serenità con cui l’Agente K gestisce la situazione racconta proprio la quasi quotidianità della vicenda, compresa la parte in cui congeda il collega, l’Agente D, tramite l’iconico neutralizzatore, proprio per aprire la strada alla sua nuova spalla.

In questo senso Men in Black procede in due direzioni, riuscendo perfettamente ad intrecciare i primi passi dell’Agente J con la minaccia effettivamente in atto, che comincia a svelarsi prima tramite il suicidio di uno degli adepti della misteriosa società extraterrestre…

…e poi tramite il caotico procedere dell’alieno che prende le sembianze del defunto Edgar, con un incedere che prosegue sullo sfondo, alla ricerca di un non meglio specificato oggetto che cambierà le sorti del pianeta stesso, con un’ironia quasi grottesca, quasi inaspettata.

E, in questo senso si trova un altro elemento di forza della pellicola.

Equilibrio

In una produzione come quella di Men in Black era molto facile cadere in una comicità eccessiva.

Ma, sarà perché non siamo ancora nella follia comica del decennio successivo, sarà perché per fortuna non stiamo guardando Il quinto elemento (1996), la comicità è ben equilibrata in tutte le sue parti, riuscendo a convincere con un atto centrale che ci accompagna alla effettiva scoperta del mondo raccontato.

La stessa in particolare funziona particolarmente bene all’interno del viaggio di James, coinvolto casualmente nelle indagini del suo futuro collega, permettendo allo spettatore prima di scoprire l’altro lato della presenza aliena sulla terra – quello più pacifico, di persone integrate nella società…

…e poi l’effettiva base degli MIB, ombre che si muovono nel dietro le quinte per gestire la massiccia presenza aliena sulla terra, costretti però anche a rinunciare alla propria vita ed identità, come ben mostrato nell’integrazione di James all’interno della squadra.

E il percorso di coppia è indubbiamente il più interessante.

Arrivo

La maturazione di J è funzionale al ritiro del suo collega.

Infatti il giovane agente viene scelto come nuova leva proprio per la sua capacità di pensare fuori dagli schemi, come ben dimostra il test del reclutamento, in cui fa le scarpe a tutte le altre reclute senza macchia, ma capaci solamente di vedere la minaccia immediata e non i sottotesti in scena.

Non a caso, la stessa intelligenza risulta fondamentale all’Agente J anche per sconfiggere l’alieno insettoide, provocandolo nello schiacciare uno dei suoi simili, così da liberare il suo collega e, di conseguenza, dimostrare come la sua turbolenta intraprendenza può essere l’arma vincente del futuro degli MIB…

…che purtroppo non riguarda l’Agente K.

Anche se il discorso rimane più sullo sfondo – anche smorzato spesso dalle gag di J, in particolare nella scena della cancellazione della memoria della moglie di Edgar – vi è un velo di drammaticità nell’importante scelta di vita degli MIB ed il loro abbandono di tutto quello che era venuto prima.

Per questo il punto di arrivo ideale per l’Agente K, ora che la minaccia è stata risolta, è l’essere a sua volta congedato dall’incarico, così da chiudere il cerchio della storia del film, ma lasciando comunque la porta socchiusa per un possibile sequel con la nuova coppia di agenti in azione.

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Independence Day – Un patriottismo inquieto

Independence Day (1996) è uno dei film di fantascienza più noti della ormai piuttosto ricca filmografia di Roland Emmerich.

A fronte di un budget decisamente importante – 75 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, superando gli 800 milioni di incasso.

Di cosa parla Independence Day?

Una navicella aliena si avvicina alla terra con intenzioni…tutte da scoprire. E un nutrito gruppo di personaggi è pronto ad accoglierla.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Independence Day?

In generale, sì.

L’unica colpa che – forse – si può imputare ad Independence day è la grande ingenuità con cui mette in scena un patriottismo americano piuttosto classico e che, ad oggi, con la consapevolezza delle successive evoluzioni del genere, può risultare poco digeribile.

Tuttavia, il classico di Emmerich ha anche il merito di portare avanti un tipo di fantascienza più riflessiva e negativa, che prese le mosse da Alien (1979) per mantenere vivo un filone che altrimenti rischiava di soccombere – e che, non a caso, nello stesso anno, Mars Attacks scelse di parodiare

Disastro

La costruzione del disastro di Independence Day è assolutamente puntuale.

Le prime battute della pellicola sono dedicate ad una breve carrellata dei personaggi, con anche una scrittura più indiretta per presentarli nei loro caratteri e nelle differenti dinamiche, mentre percorrono esistenze così diverse ma anche così evidentemente destinate ad intrecciarsi.

Infatti l’elemento fondamentale della pellicola – e di tutte le altre che derivarono dalla stessa – è proprio la scelta di garantire ad ognuno dei protagonisti un ruolo significativo nella vicenda, rendendoli un tassello fondamentale all’interno di un racconto corale di sforzo comune verso il medesimo obbiettivo.

Allo stesso modo, tutto il primo atto è finalizzato a raccontare i contorni di una minaccia che, concretamente, rimane per lungo tempo fuori scena, rappresentata quasi esclusivamente dalle imponenti astronavi che si posizionano strategicamente in tutto il pianeta.

E le motivazioni oscure – così come è oscuro per gran parte del tempo l’aspetto dei nemici – riescono a dare un valore tutto diverso ad un film che avrebbe facilmente potuto perdersi negli eccessi tipici del disaster movie, ma che sceglie invece una distruzione misurata e totalmente funzionale al racconto del disastro in essere.

E, proprio nella definizione dello stesso, il film è particolarmente vincente.

Parassita

Con tutti i suoi limiti, Independence Day va ad inserirsi all’interno della cosiddetta fantascienza negativa.

Ovvero, un racconto sci-fi in cui gli alieni sono tutt’altro che pacifici, anzi che risultano particolarmente minacciosi nei confronti degli umani e nelle modalità di invasione – in questo caso non una penetrazione silenziosa, ma una colonizzazione su larga scala.

Per questo la scoperta del nemico risulta quasi angosciante nel suo prendere, per certi versi, le mosse da Alien per raccontare alieni complessi nella forma quanto negli intenti, che possono essere compresi solamente tramite una tragica connessione mentale…

…grazie al quale è lo stesso presidente a scoprirne la natura di parassiti, locuste che viaggiano di pianeta in pianeta per assorbirne tutte le risorse, e con i quali è impossibile riuscire a stabilire una collaborazione pacifica e a comune vantaggio, rendendo possibile solo la distruzione reciproca.

E, proprio qui, Independence Day mostra la sua più grande debolezza.

Sogno

Independence Day racconta una tendenza forse mai veramente scomparsa.

Ovvero, la celebrazione statunitense attraverso la sconfitta della minaccia aliena.

Pur trattandosi di una celebrazione molto ingenua, la stessa è diventata quasi archetipica nel tempo, al punto da ridimensionarsi molto all’interno delle evoluzioni successive del genere, ampliando lo sguardo a livello effettivamente globale – come esempi successivi quali Arrival (2016) e Don’t Look Up (2021) dimostrano.

Nel caso del classico di Emmerich questa tendenza può risultare molto poco digeribile, ma nel complesso è anche abbastanza vincente nell’ottica di raccontare uno sforzo comune e quasi disperato di sgominare la minaccia aliena, fra l’altro con solo una manciata di minuti a disposizione.

Tuttavia, pur all’interno di un terzo atto complessivamente ben bilanciato, poteva potenzialmente essere ben più interessante approfondire la storia e la natura della minaccia aliena, magari penetrandola effettivamente nelle sue strutture, piuttosto che concentrarsi quasi unicamente sulla sua distruzione.

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Mars Attacks! – Sottrai che ti sottrai…

Mars Attacks! (1996) di Tim Burton è uno dei più grandi cult della fantascienza Anni Novanta.

Tuttavia, a fronte di un budget che si calcola essere arrivato fino a 100 milioni di dollari, è stato un enorme insuccesso commerciale, riuscendo a malapena a coprire i costi complessivi.

Di cosa parla Mars Attacks?

Una flotta di marziani sembra giungere sulla Terra con intenti pacifici, e così accolta a braccia aperte…oppure no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mars Attacks?

In generale, sì.

Mars Attacks è un film apparentemente anomalo all’interno della filmografia di Tim Burton, ma in realtà mantiene tutti i tratti caratteristici della sua poetica, a cominciare dall’umorismo grottesco e dalle bizzarrie sceniche che l’hanno reso così iconico.

Per il resto, la pellicola è un racconto sostanzialmente parossistico della più classica fantascienza statunitense, con i suoi eroi di guerra senza macchia, riuscendo allo stesso tempo a sorprendere e a deludere – a seconda di quale sia la vostra predisposizione a questa pellicola.

Pedine

I personaggi di Mars Attacks sono, per certi versi, nient’altro che delle pedine.

Il nutrito gruppo di protagonisti – con volti più o meno famosi al tempo – viene raccontato all’interno di situazioni molto diverse fra loro, ma accomunate da un taglio comune: la loro bizzarria, punto di partenza perfetto per l’umorismo grottesco che farà da padrone alla pellicola.

Un anche ampio intreccio di relazioni che viene quasi immediatamente vanificato dall’arrivo in scena della presenza distruttiva dei marziani, che prendono di mira sostanzialmente tutti, senza avere particolare remore verso la plot armor che lo spettatore si potrebbe aspettare che avessero.

Al contrario, la maggior parte di loro o diventa protagonista di morti piuttosto drammatiche – ma, paradossalmente, anche molto dimenticabili – o dei surreali esperimenti degli alieni nei loro confronti, degni del miglior Doctor Frankenstein che si rispetti.

Infatti, in Mars Attacks non c’è spazio per l’eroismo.

Distruzione

La distruzione di Mars Attacks ha un significato più ampio della mera carneficina scenica.

Burton si inserì all’interno di un panorama fantascientifico in cui – come anche nel contemporaneo Independence Day (996) – il cinema statunitense cercava nuovi spazi narrativi per un eroismo che aveva solo bisogno di nuovi nemici – gli alieni – e di nuovi modi di raccontarsi – anche con meno rimorsi, trattandosi di antagonisti immaginari.

E, proprio per questo, costruisce abilmente un racconto parossistico davvero sorprendente, che vanifica ogni possibilità non solo di controllo – con tentativi di ambasceria inutilmente pomposi – ma anche di rivalsa verso questi nuovi nemici, che appaiono semplicemente cattivi nella loro azione distruttiva.

E così in scena non è mai presente un effettivo dramma, ma anzi la stessa è dominata da una comicità grottesca che ha il suo apice nel salvataggio effettivo della Terra, ad opera dei due personaggi più improbabili e meno eroici possibili: il giovane Richie e la nonna, i classici emarginati protagonisti di Burton.

Ma, forse, proprio in tutta questa sottrazione e distruzione, risiede la grande debolezza del film.

Vuoto

Mars Attacks! è costantemente sottrattivo e distruttivo…

…e mai effettivamente costruttivo.

È indubbio che Burton si sia ampiamente divertito nel raccontare i suoi alieni così improbabili e grotteschi già solo per il loro aspetto, inutilmente crudeli nei loro esperimenti e genuinamente malvagi nei loro continui inganni, artefici di carneficine senza scampo.

Altrettanto certo è l’intento parodico, che pesca sia dai B-Movie del genere, sia da una tendenza del cinema statunitense che poteva risultare – e risulterà – alla lunga quasi ridicola, con un racconto genuinamente dissacrante, in cui gli alieni non hanno altra motivazione se non il puro gusto della distruzione, e in cui non vi è spazio per eroi di sorta.

Ma, per il resto?

Anche se molto probabilmente non era l’intento della pellicola, sembra mancare un punto di arrivo di tutto il discorso, un’antitesi davvero graffiante che potesse non solo distruggere dei concetti, ma crearne di nuovi – o anche solo dare degli spunti per gli stessi.

Al contrario, mancando di questo elemento, la pellicola potrebbe risultare alla lunga stancante, un grande – e iconico – esperimento dissacrante e divertito che conquistò intere generazioni, ma che vanificò il grande potenziale che racchiudeva al suo interno.

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Una pallottola spuntata – Uno schiaffo troppo brusco

Una pallottola spuntata (2025) di Akiva Schaffer è il requel del classico della commedia spoof omonimo.

A fronte di un budget comunque abbastanza consistente per un prodotto di questo tipo – 42 milioni di dollari – non ha aperto particolarmente bene al primo weekend, e si prospetta la possibilità di un flop commerciale.

Di cosa parla Una pallottola spuntata?

Frank Drebin Jr., al pari del padre da cui prende il nome, è un intrepido poliziotto pronto a sgominare un importante piano criminale...forse, troppo intraprendente.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Una pallottola spuntata?

Dipende.

Il remake di Liam Neeson può risultare genuinamente divertente, soprattutto per uno spettatore meno abituato a questo tipo di commedia – sempre più rara all’interno del cinema odierno – ma poco digeribile invece per un appassionato della saga.

Manca, infatti, un certo tipo di eleganza e costruzione dei momenti comici, preferendo invece un umorismo ben più sguaiato, quasi eccessivo, che punta a sorprendere continuamente lo spettatore piuttosto che costruire la battuta.

Insomma, non sconsigliato in toto, ma andateci preparati.

Contemporaneo

Era estremamente difficile riuscire ad adattare la comicità di Una pallottola spuntata (1988) al pubblico odierno.

La trilogia di Leslie Nielsen era infatti un misto piuttosto peculiare fra comicità slapstick più classica ed un umorismo più sottile e studiato che andò poi a definire lo spoof movie, sottogenere parodistico che ebbe la sua più infelice evoluzione nel cinema dei primi anni del 2000.

Lo stesso comprendeva anche un certo tipo di comicità che oggi verrebbe forse definita politicamente scorretta e che si temeva che, nella odierna Hollywood, non avrebbe più avuto spazio, e che così che il remake sarebbe risultato inevitabilmente incolore.

Un aspetto che, invece, non è un problema, anzi.

La riproposizione di Akiva Schaffer non manca di essere anche particolarmente cattiva, calcando piuttosto la mano con non poche sequenze che riescono ad avvicinarsi al tipo di umorismo sopra le righe di Leslie Nielsen, a volte anche a superarlo.

Ma è sufficiente?

Omaggio

A differenza di altri remake di recente produzione, quello di Una pallottola spuntata è estremamente rispettoso nei confronti del suo predecessore.

Infatti, se si va a guardare, lo scheletro narrativo e le dinamiche in scena sono sostanzialmente le medesime: un ambizioso poliziotto che si impunta di continuare a tenere sulle spalle un caso, persino andando a pestare i piedi sbagliati, il tutto in nome della giustizia e della sua recente fiamma.

Al contempo, l’omaggio alle battute di Leslie Nielsen è continuo, a partire dall’assurda scena della macchina sul marciapiede – forse uno dei frangenti più gustosi della pellicola – e, ovviamente la messa dei figli dei protagonisti originali davanti alle foto dei genitori defunti.

Anzi, la parentesi narrativa e quasi thriller della fuga d’amore – così futile e così divertente insieme – di Frank e Beth è per certi versi anche più divertente rispetto al film originale, riuscendo perfettamente ad inquadrare l’umorismo surreale della pellicola di partenza.

Ma, forse, proprio in questa scena si trova il punto del discorso.

Ritmo

Una pallottola spuntata aveva un ritmo quasi frenetico.

L’umorismo surreale e travolgente perennemente presente in scena non lasciava quasi un attimo di respiro persino nei momenti più drammatici, peccando forse in una comicità fisica non particolarmente memorabile, ma risultando assolutamente vincente nella costruzione dell’umorismo più iconico della saga.

E costruzione è la parola d’ordine.

L’umorismo più interessante di Una pallottola spuntata funziona perché spesso è inserito all’interno di un climax che non punta a far ridere lo spettatore grazie alla sorpresa della battuta improbabile, ma piuttosto a travolgerlo tramite l’assurda involuzione della situazione, come ben racconta questo iconico momento:

La scena in questione infatti parte con un momento piuttosto classico di corruzione del testimone, ma si evolve in un improbabile tira e molla in cui infine non solo Frank diventa quello da corrompere, ma persino il prestatore dei soldi per la sua stessa corruzione, in un cortocircuito comico veramente irresistibile.

Per questo, la parentesi narrativa del remake funziona: la storia del pupazzo di neve non è introdotta improvvisamente, ma è invece costruita tramite una dinamica comica che diventa progressivamente sempre più incredibile, fino ad arrivare a degli imprevedibili toni thriller.

Al contrario, la maggior parte delle battute della pellicola, purtroppo, manca proprio di questo tipo di costruzione, finendo invece per perdersi in una sequela di momenti che puntano più che altro sull’effetto sorpresa, e che raramente riescono ad essere memorabili e ben costruiti…

…ma, piuttosto, a provocare una risata momentanea, ma che, alla lunga, si spegne davanti ad una complessiva opacità della pellicola.

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I Fantastici Quattro – Manca qualcosa?

I Fantastici Quattro – Gli inizi (2025) di Matt Shakman è il terzo tentativo di rilancio del quartetto supereroistico – e il primo tentativo dell’MCU.

Di cosa parla I Fantastici Quattro?

I Fantastici Quattro sono da ben quattro anni i paladini della loro città – e del mondo – pronti a salvare la Terra da ogni minaccia…oppure no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Fantastici Quattro?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi nel consigliarvi questo film semplicemente perchè è solo un piccolo, quasi minuscolo passo nella giusta direzione per l’MCU, che riesce, dopo diversi prodotti anche molto discutibili, a portare in scena un film complessivamente buono…

…ma ricco anche di diverse debolezze, che vi colpiranno più o meno a seconda di quanto riusciate ad appassionarvi all’estetica e al taglio del film, che ricerca fortemente l’elemento giocoso e fumettoso, pur non mancando di momenti profondamente drammatici.

Pubblico

In I Fantastici Quattro il pubblico siamo noi.

Proprio come per il contemporaneo Superman (2025), anche questa pellicola non affronta direttamente la origin story dei protagonisti, ma sceglie di far vivere allo spettatore l’emozione di aprire un fumetto senza saperne nulla di loro, introducendoli tramite un breve riassunto contenuto nella cornice dello spettacolo televisivo.

Una scelta molto intelligente e che si riassume nella battuta del presentatore, che si rivolge al pubblico diegetico ed extradiegetico per dire che sì, la storia la conosciamo già, ma è giusto raccontarla di nuovo con questi nuovi volti, partendo dalle origini e arrivando fino alle minacce più recenti – e prontamente debellate.

Ma la scelta di renderli personaggi pubblici è un’arma a doppio taglio.

Da un lato, permette alla pellicola di avere un taglio tutto sommato inedito, smarcandosi dalla classica origin story dell’eroe solitario, anzi, dando una valenza politica ai protagonisti che permette loro di essere nel complesso credibili nella gestione di un intero pianeta davanti ad una minaccia globale.

Dall’altra, lascia il dubbio che questa scelta sia dovuta anche al poco interesse generale dei personaggi dal punto di vista supereroistico e, per certi versi, anche umano: i Fantastici 4 sono umani e fallibili, ma al contempo godono di pochissime aree grigie effettivamente esplorabili.

E proprio qui si trova la maggiore debolezza della pellicola.

Conflitto

La definizione di un personaggio è soprattutto tramite il conflitto.

La sua maturazione, specificatamente all’interno di una origin story, è definita proprio dai conflitti interni – con familiari, amici e altri personaggi di importanza emotiva – ed esterno – con il pubblico, il villain di turno, o entrambi.

E questo è un elemento drammaticamente carente in I Fantastici 4.

Nonostante ci fossero grandi possibilità di sfruttare drammaticamente sia Pedro Pascal che Vanessa Kirby – che comunque, quando possono, brillano in questo senso – gli stessi sono intrappolati all’interno degli stretti confini dei loro personaggi, avendo poco spazio per raccontarsi in maniera significativa.

Infatti il fulcro emotivo della pellicola – il neonato Franklin – e il suo utilizzo creano indubbiamente dei conflitti interni ed esterni: Sue e Reed si interrogano ripetutamente sia sulla vera natura del figlio, sia su quanto siano disposti a sacrificarlo o anche solo metterlo in pericolo per la salvezza del mondo. 

Eppure, manca qualcosa. 

La risoluzione delle fratture interne, nonostante la pellicola cerchi in più momenti di sottolinearne l’importanza, è fin troppo immediata e semplicistica: sembra come se ai personaggi basti scambiarsi poche parole nella scena successiva per ricomporre immediatamente l’unione interna del gruppo.

Invece, quanto avrebbe giovato in questa dinamica rendere significativo e continuo il conflitto del quartetto, soprattutto fra Sue e Reed, banalmente chiudendo delle scene con pensati silenzi o anche solo mancate risoluzioni, per poi cercare le stesse attraverso lo scontro con Galactus e i suoi pesanti dilemmi morali.

Invece, è come se rimanesse tutto in superficie.

Ma ci sono alcuni personaggi che questa mancanza la soffrono più di altri…

A parte

In I Fantastici Quattro è come se alcuni personaggi vivessero una storia a parte.

Lato eroi, il più sacrificato drammaticamente è Johnny Storm: come la linea comica funziona perfettamente nei tempi e nei modi, il lato più drammatico della sua indagine parallela è spalmato disordinatamente nella pellicola, emergendo in alcuni punti ma senza che lo stesso abbia un valore così significativo.

In particolare, risulta mal costruito l’arrivo al potenziale sacrificio nel finale, per cui non bastano pochi momenti in cui Johnny cerca di intervenire per giustificare l’importanza emotiva di quella scelta – che, in fin dei conti, è tutta sulle spalle di Sue, forse unico personaggio che davvero può godere di un dramma importante all’interno della pellicola.

Un problema analogo si ritrova anche nella gestione di Shalla-Bal, personaggio che speravo riuscisse a distaccarsi in maniera netta dalla gestione superficiale della sua controparte del film del 2007, per cui erano bastate poche parole di Sue Storm per farlo rinsavire.

Invece, nonostante la gestione sia complessivamente migliore, la costruzione del suo ripensamento è molto più discontinua e, anche se le parole di Johnny sono ben più incisive, le stesse non bastano a reggere sulle spalle un cambio di passo così importante, con un ripensamento che avviene quasi del tutto fuori scena.

Ma, lato villain, l’apparenza sembra vincere sulla sostanza.

Eccesso

I Fantastici 4 funziona nei suoi toni fumettosi…

…finché risulta credibile.

Purtroppo il taglio giocoso presentato fin dall’inizio non basta a giustificare la gestione di Galactus, personaggio che, per il lato estetico, è assolutamente impeccabile, portando sullo schermo uno degli antagonisti più iconici della Marvel con uno dei character design più azzeccati degli ultimi anni…

…ma che, invece, lato profondità narrativa, finisce vittima della classica trappola tipica di molti altri prodotti MCU: avere un’importanza ridotta per evitare di oscurare gli eroi protagonisti, finendo per essere veramente poco incisivo e fin troppo banale per un cinecomic uscito nel 2025.

Soprattutto, considerando come il quartetto sceglie di sconfiggerlo.

Se idealmente funzionava molto bene l’idea della consapevolezza dei quattro di non poterlo sconfiggere fisicamente, per quanto potesse essere anche accettabile il piano di spostamento dell’intera Terra sotto al suo naso – nonostante, più credibilmente, venga poi vanificato in un battito di ciglia…

…il piano di Reed risulta poco credibile persino in questo contesto.

La scelta di creare un piano così blando, una trappola così evidente senza neanche provare a nasconderla, va a sminuire da un lato la credibilità di Reed come uomo più intelligente del mondo, dall’altra l’importanza di Galactus, potenza millenaria che, evidentemente, non può farsi sconfiggere da un trucco così palese.

E se, per ovvi motivi, si fa il confronto con Superman proprio su questi ultimi punti, il risultato è abbastanza desolante – soprattutto se vogliamo considerare I Fantastici Quattro un punto di ripartenza per l’MCU.

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Fantastic 4 – Non chiederti perché succede

Fantastic 4 (2015) di Josh Trank rappresenta uno dei i peggiori flop del genere, anche per via di una ben nota gestione disastrosa della produzione.

Infatti, a fronte di un budget neanche troppo esigente – 120 milioni di dollari – è riuscito a malapena a coprire i costi di produzione.

Di cosa palra Fantastic 4?

La pellicola ripercorre la storia dei Fantastici Quattro partendo dall’inizio, dall’infanzia di Reed Richards e la sua amicizia con Ben Grimm, fino ai disastrosi effetti nel presente…

Vale la pena di vedere Fantastic 4?

Direi proprio di no…

…a meno che non vogliate assistere ad un esempio fin troppo da manuale su come non si scrive un film e di come, per il funzionamento della trama, si necessario non saltare a piè pari passaggi fondamentali per la scorrevolezza della stessa.

La visione, fra l’altro, si amplia anche dal punto di vista metanarrativo, in quanto leggere gli inspiegabili disastri produttivi della stessa getta una luce diversa su uno spaccato di Hollywood che al tempo non eravamo ancora pronti a scoprire.

Eredità

È difficile scegliere da dove partire per giudicare Fantastic 4.

Però, si può partire dall’inizio.

La pellicola è vittima prima di tutto della insulsa – e, per fortuna, molto breve – rincorsa al teen drama sci-fi dai toni dark di quel periodo, filone che aveva come protagonisti dei giovanissimi eroi più o meno geniali, che riuscivano a scalzare il ben più abile villain di turno.

In questo caso, il giovane Reed appare come una Mary Sue che, già in tenerissima età, è capace di creare mirabolanti invenzioni, spalleggiato da quello che sembra essere il suo unico amico – Ben – per la costruzione del macchinario che rappresenterà la sua stessa rovina.

E, da qui, comincia la corsa.

Non puoi sbattere gli occhi un momento che subito sono passati almeno dieci anni e Reed è alla fiera scientifica del liceo pronto a farsi coinvolgere dalla corporazione di turno che ne vuole sfruttare le capacità, così da annullare definitivamente ogni tipo di percorso o difficoltà che avrebbe rischiato di caratterizzarlo.

Altrettanto sconclusionato è l’arrivo all’effettivo incidente, in cui vengono coinvolti personaggi che di fatto si conoscono appena, fra cui spicca l’incomprensibile partecipazione di Ben, evidentemente portato in scena perché necessario ai fini della trama, ma le cui motivazioni del coinvolgimento sono fragilissime.

Eppure in questo frangente qualcosa…si salva?

Influenza

Fantastic 4 uscì in un periodo non proprio felice per il cinema commerciale.

Al tempo le major bramavano per avere la loro fetta di torta per il genere teen drama post apocalittico, di cui Hunger Games (2012) fu il capostipite, ma senza mai essere raggiunto per popolarità e incassi da prodotti similari – neanche quelli che inseguivano più da lontano la stessa tendenza.

E questo è appunto il caso del film di Josh Trank.

Nonostante non avrei avuto alcun tipo di interesse nel veder portare in scena una versione teen-dark dei Fantastici 4, nondimeno qualche brandello di originalità si può riscontrare nella drammaticità della scoperta dei poteri, molto meno digeribile dei film precedenti.

Eppure, ancora una volta, il tutto si perde all’interno di un campo minato di buchi di trama insormontabili, con una storia spaccata in un mosaico che sembra impossibile da ricomporre, proprio per la mancanza delle connessioni logiche – ed emotive – minime per poter funzionare.

Una mancanza che si vede per un personaggio in particolare.

Sparire

Dottor Destino non esiste.

All’interno di un film che, almeno sulla carta, vorrebbe raccontare il conflitto fra l’incontenibile – e deleterio – entusiasmo del quartetto e di un’azienda che vuole metterlo ai margini, anche con qualche breve – e mai effettivamente esplorato – accenno ad un dramma interno al gruppo che si risolve in uno schiocco di dita.

E quindi, Von Doom cosa c’entra?

Josh Trank sembra completamente dimenticarsi del personaggio per la maggior parte della pellicola, per poi farlo saltare fuori nelle ultimissime battute con un dramma e un piano già formato, senza concedergli neanche la minima possibilità di raccontarsi effettivamente al pubblico, se non tramite un debole monologo.

Ma, d’altronde, chi può dire di avere un tale privilegio in questa sfortunatissima produzione?

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I Fantastici 4 – Respira, inspira

I Fantastici 4 (2005) di Tim Story è il più noto prodotto dedicato al quartetto supereroistico del nuovo millennio. 

A fronte di un budget medio per un cinecomic di quel periodo – 100 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 333 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastici 4?

Quattro amici dai caratteri molto diversi partono all’avventura nello spazio. Ma forse le conseguenze non saranno delle più felici…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Fantastici 4?

In generale, sì.

Negli anni ho sentito pareri anche estremamente negativi riguardo a questa pellicola – e al suo sequel – forse anche perché, al confronto con altri prodotti superoistici più o meno contemporanei – come Spider Man (2002) e Batman Begins (2005) – effettivamente tendeva a sfigurare.

Eppure, a diversi anni di distanza, ho trovato la versione del quartetto di Tim Story una visione complessivamente piacevole, assolutamente da inquadrare nel periodo d’uscita, ma anche vincente nella costruzione dei personaggi in scena.

Insomma, dategli un’occasione.

Fondamenta

Un grande valore de I Fantastici 4 è il respiro che lascia ai suoi personaggi.

Il primo atto della pellicola è tutto dedicato alla presentazione dei protagonisti e delle loro tensioni, particolarmente quelle del terzetto Richards – Storm – Von Doom, di cui l’infelice passato dei primi due si riflette nell’invidia presente di Victor.

A lati emergono non meno importanti le figure di Grimm e Johnny Storm, totalmente opposti nei loro caratteri – e infatti principali protagonisti degli scontri interni alla pellicola – perfettamente inquadrati proprio quando la missione che gli cambierà la vita è ormai alle porte.

E proprio qui si pone uno snodo fondamentale.

Taglio

Con uno sguardo più contemporaneo – come ben racconterà il successivo Fantastic 4 (2015) – non era semplice rendere in maniera digeribile l’acquisizione dei poteri dei protagonisti.

La stessa avviene all’interno di un contesto prettamente umoristico, in cui le scoperte più felici di Sue e Reed – chiudendo un occhio davanti alla inutile sessualizzazione di Jessica Alba – che hanno il loro apice comico intorno alla figura di Johnny Storm e la sua divertita scoperta dei poteri.

Ben più drammatica è invece la realizzazione della Cosa, anticipata dallo scherzo di Johnny ai danni di Ben nel letto di ospedale, ma caricata di una quasi inaspettata drammaticità nel goffo e disperato tentativo del personaggio di ricongiungersi con la moglie, ultimo atto dell’effettiva rivelazione del gruppo.

E l’atto centrale ha toni alterni.

Evoluzione

La fase di transazione del film parla di evoluzione…

…ma anche di involuzione.

Ed entrambe si incontrano nei differenti percorsi dei personaggi.

Da una parte troviamo la neonata squadra costretta in un solo luogo, vivendo con la promessa di potersi liberare da una nuova condizione, con spinte interne molto diverse: dal profondo desiderio di liberazione – La Cosa – alla volontà di abbracciare questa nuova, ideale identità – La Torcia.

In questo frangente particolarmente significativa è l’evoluzione del rapporto fra Sue e Reed, che riescono finalmente a rincontrarsi in un frangente in cui il secondo riesce infine a metterla al primo posto nella propria vita, prendendosi un momento per reincontrarsi e riscoprirsi.

Ma questo stesso percorso è la causa dell’involuzione per Victor.

Dopo l’incidente, Von Doom crolla in un vortice distruttivo in cui vede l’oggetto del desiderio – Sue – scivolargli dalle dita, esplodendo di rabbia e di invidia verso una situazione verso cui non ha più il controllo, e da cui rimane inevitabilmente escluso.

Da questo punto di vista, il racconto della follia di Victor è ben rappresentato dal percorso di perdita della propria identità, nel suo continuo confrontarsi con il suo riflesso – forte anche dell’ottimo phisique du role di Julian McMahon – fino a  rinchiudersi totalmente nella nuova identità di Doctor Doom.

Per questo, il finale è così significativo.

Arrivo

Un grande problema dei film supereroistici è il ruolo del villain.

Spesso lo stesso non è che una prova finale del protagonista, financo semplicemente una chiusura di pellicola per garantire al prodotto l’elemento spettacolare e drammatico – ne è un fulgido esempio Thor: Ragnarok (2016), dove Clea rimane totalmente distaccata dal protagonista per buona parte del film.

Ed è una scelta piuttosto pigra – e piuttosto tipica di molti film MCU successivi – per non togliere importanza al protagonista, ma finendo così per privare del giusto peso il villain in questione, che diventa quasi un banale ostacolo nel percorso dell’eroe – e nulla di più.

Al contrario, il Von Doom di questa pellicola vive in funzione dei protagonisti e la sua involuzione, come detto, è strettamente correlata all’evoluzione degli stessi, tanto che il suo piano parte proprio dalla volontà di distruggere internamente un gruppo già di per sé molto fragile.

Per questo, nonostante lo scontro finale non sia particolarmente originale e degno di nota, rimane fondamentale per raccontare il punto di arrivo di un gruppo di personaggi che, a differenza di Doom, non cadono vittima del proprio egoismo e delle proprie invidie interne.

I Fantastici 4 e Silver Surfer

Il sequel, purtroppo, perde gran parte del mordente del primo.

Anzi, è forse ancora più grave perché fallisce dove il primo era risultato particolarmente vincente.

Infatti la pellicola si apre con un contrasto interno semplice ma complessivamente efficace, in cui Sue si trova ancora una volta in contrasto con Reed per la sua ossessione per il lavoro e per il voler salvare il mondo, finendo più volte per rimandare il loro matrimonio, non sembrando così veramente intenzionato ad una vita insieme.

Lo stesso, soprattutto nella decisione egoistica di Reed di rinunciare al suo ruolo di eroe, potevano intrecciarsi perfettamente al dramma di Silver Surfer, che rimane un’incomprensibile minaccia in agguato abbastanza a lungo per creare tensione, ma venendo gestito fin troppo sbrigativamente per risultare infine interessante.

Infatti sembra che bastino solo le parole di Sue per poter convincere il personaggio a ritornare sui suoi passi, con la medesima velocità con cui Reed fa un passo indietro rispetto alla sua decisione di cambiare vita – dramma che sembrava essersi sostanzialmente dimenticato da un certo punto della pellicola in poi.

Una passo falso che purtroppo ha tagliato le gambe ad una narrazione che nel suo piccolo poteva dare molto, ma che infine, insieme ad altre scelte infelici – come il fumoso character design di un personaggio così iconico come Galactus – è risultata ben poco soddisfacente anche negli stessi incassi.

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Stargate – Un’ossessione lunga un decennio

Stargate (1994) è stato il primo cult della fantascienza diretto da Roland Emmerich – autore, pochi anni dopo, di Indipendence Day (1996).

A fronte di un budget comunque non poco importante – 55 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, guadagnando quasi quattro volte tanto il budget.

Di cosa parla Stargate?

Daniel Jackson è uno studioso di lingua egizia con delle teorie piuttosto particolari: le piramidi sono ben più antiche degli egizi e di origine alinea. Eppure, forse non è così lontano dalla realtà…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Stargate?

In generale, sì.

Stargate si posiziona, insieme a La Mummia (1999) e, in parte, a Il quinto elemento (1997) nel trend del decennio di ambientare avventure sci-fi nelle misteriose atmosfere dell’antico egizio, spunto per storie di grande fascino, in bilico fra fantascienza e fantasy.

Nello specifico Stargate si presenta come un buon punto di incontro fra il film di avventura e una fantascienza abbastanza classica, apparendo forse in certi momenti fin troppo sovraccaricato, ma risultando nel complesso un prodotto di intrattenimento piacevole ed avvincente.

Stratificazione

Il primo atto di Stargate è piuttosto stratificato…

…ma mai eccessivo.

A differenza del poco successivo Il quinto elemento, dove tutta la trama è raccontata nei primi venti minuti, il primo atto del film di Emmerich offre un ben dosato assaggio della storia, seminando i primi indizi riguardo al mistero della pellicola, ma senza mai svelarsi eccessivamente.

Allo stesso modo, estremamente funzionale alla solidità della trama è l’introduzione parallela dei due protagonisti.

Da un lato, Jackson – che presenta dei parallelismi probabilmente non casuali con il protagonista di Atlantis (2001): il classico topos del protagonista sognatore incompreso, che lo spettatore, anche nella consapevolezza della natura della pellicola, è pronto a seguire nelle sue apparentemente strampalate teorie.

Ben pensata è anche l’introduzione di Jack, rinchiuso all’interno del suo più grande pentimento – la morte accidentale del figlio – evento che l’ha profondamente indurito e fatto chiudere in se stesso, tanto da apparire, nei primi momenti della pellicola, quasi come un antagonista.

Eppure, niente è come sembra.

Accompagnare

Un elemento di grande valore della pellicola è come accompagna lo spettatore.

La scoperta del mistero, per quanto sia in parte nota alla maggior parte dei personaggi, passa soprattutto attraverso il suo protagonista, che viene come messo alla prova prima di accedere alla vera sfida – lo Stargate – che solo col suo ingegno riesce ad attivare.

Così tutto il primo atto ci conduce in questa graduale scoperta, e, tramite le intuizioni del protagonista e le sue correzioni al lavoro precedente, riesce a farla digerire molto meglio ad uno spettatore che non si sente così sopraffatto dalla mole di informazioni.

Una tendenza che caratterizza in parte anche l’atto secondo.

L’entrata in un mondo sconosciuto e l’immediata scoperta dei suoi misteri è minata dall’inevitabile barriera linguistica fra i personaggi umani e gli abitanti del pianeta – scelta non scontata per un film di questo periodo – e che contribuisce ad alimentare il senso di inquietudine…

…ancora di più grazie alle enigmatiche scene di attacco di alcuni dei soldati del gruppo, che diventano prede di quelli che sembrano a tutti gli effetti degli dei egizi particolarmente spietati nel loro agire, diventando un’immediata minaccia per i protagonisti.

E infine, lo scioglimento funziona…e non funziona.

Sovrabbondanza

Vi è un solo elemento che ho trovato veramente centrato dello scioglimento di Stargate.

Ovvero, il racconto dell’antefatto.

Jackson è come se fosse stanato da Jack mentre ripercorre i passi della storia pianeta, e riesce a svelarne le complesse origini in cui la mitologia egizia si intreccia perfettamente con una trama scifi anche piuttosto dark, che ha il suo pieno compimento estetico nello svelamento di Ra.

Infatti, la scelta di abbracciare in tutto e per tutto l’estetica – pur molto hollywoodiana – dell’antica corte egizia riesce a caricare l’ultimo atto di un particolare fascino, sia nella ribellione degli schiavi, sia negli atteggiamenti pomposi e languidi del villain.

Eppure, nelle ultime battute Stargate sembra incartarsi.

Mentre si sarebbe potuto scegliere uno scioglimento ben più semplice ed immediato, lo stesso viene frazionato in più momenti e situazioni, diventando, per quello che voleva raccontare, fin troppo complesso e stratificato…

…soprattutto a fronte di un racconto già di per sé piuttosto impegnativo da seguire.

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Il quinto elemento – Una storia a parte

Il quinto elemento (1997) di Luc Besson è uno dei più grandi cult di fantascienza del decennio.

A fronte di un budget abbastanza importante per l’epoca – 90 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale – acquisendo notorietà solo successivamente: poco più di 60 milioni di dollari.

Di cosa parla Il quinto elemento?

Un’enorme palla infuocata minaccia la terra e chi può salvarla se non…una donna creata in laboratorio?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il quinto elemento?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi né nel consigliarvi né nello sconsigliarvi questo film, in quanto è talmente particolare che potreste odiarlo quando innamorarvene perdutamente: una storia semplicissima, resa complicata e sovraccaricata in maniere incomprensibili…

…in realtà diventando sfondo di un racconto incentrato su un futuro incredibilmente bizzarro e che si schiude davanti agli occhi dello spettatore in un’infinita serie di scatole cinesi, pronte ogni volta a sorprenderti – o inorridirti.

Introduzione

L’introduzione de Il quinto elemento mi è sembrata infinita.

Solitamente in questo genere di produzioni si tende ad aprire la pellicola con un breve prologo riassuntivo dell’antefatto, per calare lo spettatore all’interno della vicenda, per poi passare concretamente al vivo dall’azione e ai suoi protagonisti, che la scopriranno effettivamente insieme allo spettatore.

Al contrario, in questo caso Luc Besson decide di raccontare una buona porzione della storia all’inizio del film, scelta che non sarebbe assolutamente problematica di per sé, se non fosse per la sensazione, durante il resto della visione, di aver già visto tutta la storia nei suoi primi venti minuti. 

Ma forse, è proprio questo il punto: il regista si libera della storia nella primissima parte della pellicola, perché la stessa è la parte ai suoi occhi minoritaria del progetto, quasi un pretesto per invece imbastire un mondo fantascientifico piuttosto bizzarro, ma assolutamente proprio della fantascienza di quegli anni.

E i suoi due protagonisti ne sono l’assoluta dimostrazione.

Vettori

Korben e Leeloo non sono protagonisti, ma bensì vettori.

Gli stessi vengono infatti costantemente trascinati in scena, diventando per certi versi dei vettori non tanto della storia, ma bensì del mondo raccontato, il vero centro della pellicola, che Besson si compiace di svelare progressivamente nelle sue divertenti e divertite bizzarrie.

Da questo punto di vista, due sono gli esempi emblematici.

Anzitutto, la scena dell’incarico a Korben: altri registi avrebbero reso un monologo rivelatorio il protagonista della scena, e invece Besson rende quel momento solo lo spunto per una serie di gag piuttosto gustose in cui i vari personaggi vengono stipati negli angoli della casa proprio per raccontare la grottesca natura della stessa.

Altrettanto significativa in questo senso è l’apparizione in scena di Ruby Rhod, una parodia su gambe delle popstar del momento, la cui funzione nella storia è totalmente accessoria, ma che, al contempo, è un tocco di colore fondamentale per raccontare il mondo de Il quinto elemento nella sua totale follia.

Ma, in questo senso, Leeloo merita un discorso a parte.

Passivo

Leeloo è, per molti versi, un elemento passivo della storia.

Come sulla carta dovrebbe essere la figura chiave per la sconfitta della minaccia in agguato, nel concreto appare il più delle volte inerme nelle braccia di Korben – nei pochi momenti in cui lui stesso è protagonista della scena – financo strumentale alla definizione dello stesso.

In questo senso stupisce che, invece che caratterizzarla dall’inizio semplicemente come un personaggio inerme, viene anzi caricata di una forza sovrumana e di un’intelligenza fuori dal comune, che le permette – almeno in teoria – di evolvere nel tempo per poter portare a compimento la sua missione.

In questo senso è difficile dare un giudizio netto ad una produzione così lontana nel tempo, ma nondimeno appare abbastanza fuori luogo la centralità del corpo di Leeloo più che altro per il desiderio sessuale maschile fin dalla sua primissima apparizione, financo nel suo essere interesse romantico del protagonista.

Da questo punto di vista la costruzione del loro rapporto non è esattamente centrata, anzi sembra per molti versi forzata al fine di unire i due personaggi nella scena finale, che agli occhi dello spettatore odierno potrebbe apparire di cattivo gusto, ma che non è altro il punto di arrivo della già voyeuristica introduzione dello stesso.

Ma, allora, chi è il vero protagonista attivo?

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Paradossalmente, l’unico personaggio veramente attivo è il villain.

L’iconico personaggio di Gary Oldman è in effetti l’unica figura che porta effettivamente cambiamento e vivacità ad una trama che altrimenti sarebbe incredibilmente lineare – anzi, inserire in scena un antagonista ulteriore è una delle scelte più funzionali della pellicola.

Il problema è che, a suo modo, Zorg vive potenzialmente lo stesso dramma dello spettatore.

Se si è interessati al prosieguo e allo scioglimento della vicenda, e quindi molto di meno al vero focus della pellicola – il world building – come il villain si rimane costantemente scornati da una trama che non procede, anzi che si accartoccia in più momenti intorno ad un oggetto del desiderio che sembra impossibile da ottenere.

E, alla terza volta in cui Zorg sbatte il muso contro una scatola vuota, è il momento in cui si può accettare il film per quello che è – un magico excursus in una fantascienza incredibilmente bizzarra e così figlia dei suoi tempi – oppure essere ancora più frustrati di lui.

Soprattutto davanti ad uno scioglimento che, per forza di cose, è una continua corsa per risolvere la storia in pochissime scene.