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Superman – Lo slancio iniziale

Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve non è solo un film supereroistico, ma un punto di svolta per il genere tutto.

Non a caso, a fronte di un budget importante per l’epoca – 55 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale: 134 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Superman?

Nel lontano pianeta di Krypton, il visionario scienziato Jor-El vede l’ormai prossima distruzione del suo mondo, e decide di mandare il suo unico figlio su un pianeta sconosciuto: la Terra.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Superman?

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Assolutamente sì.

Pur nella sua semplicità ed ingenuità in alcuni punti, il Superman di Richard Donner rappresentò un ottimo esempio di sintesi fra uno stile prettamente fumettistico ed una certa epicità e drammaticità con cui il genere nel tempo cominciò a farsi prendere sul serio.

Ne risulta un esperimento particolarmente riuscito che, ancora a diversi decenni di distanza, riesce a colpire col suo piacevole umorismo e il suo toccante dramma familiare ed esistenziale, facendo fra l’altro sfoggio di un reparto tecnico di prim’ordine ed una regia con non pochi guizzi.

Insomma, da riscoprire. 

Protagonista

Per certi versi, Jor-El è il vero protagonista del primo atto.

Superman dedica infatti ampio spazio al racconto della figura del padre dell’eroe – per certi versi, più del figlio stesso – andando a definirlo nel suo ambiguo rapporto con il Consiglio, dal quale viene immediatamente messo alla prova per la condanna dei tre ribelli.

Ma proprio la punizione degli stessi e la subito successiva opposizione ad un governo miope davanti ai pericoli imminenti per Kripton, racconta un eroe silenzioso e lungimirante, che riesce a trovare nella salvezza dell’erede una possibilità per conservare intatte le conoscenze del suo mondo.

Ne consegue un lunghissimo antefatto che ha il suo apice, per certi versi, con l’arrivo di Kal-El sulla Terra, subito accolto fra le braccia dei suoi amorevoli genitori terrestri, la cui tragica sorte definisce il protagonista in questa fase chiave della sua formazione.

Ovvero, essere un eroe in potenza.

Bozzolo

Superman da adolescente in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Se si vuole fare una critica al film, si può dire che l’atto centrale è fin troppo sbrigativo – quantomeno, nella versione cinematografica.

Superman in effetti lascia poco spazio al suo protagonista per definirsi nel suo contrasto con il mondo terrestre, raccontandolo come un ingenuo ragazzino che vorrebbe dare il meglio di sé, ma che è stato – giustamente – educato a non dare troppo sfoggio dei suoi poteri.

Questa impotenza raggiunge il suo apice con la morte improvvisa del padre adottivo, che fa comprendere a Kal-El i limiti del suo campo di azione, apparentemente illimitato, in realtà drammaticamente limitato da situazioni in cui non ha nessuna possibilità di vincere.

Superman nella fortezza della solitudine in Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ed il rapido ed inevitabile sopraggiungere del funerale spinge infine il protagonista a cercare un nuovo punto di partenza per definirsi come eroe, grazie alle cure tardive – ma essenziali – del padre perduto – uno dei momenti, fra l’altro, che ho trovato personalmente più toccanti e coinvolgenti dell’intera pellicola.

Quindi se, ancora, si vuole rimproverare il poco respiro che ha Clark in questo snodo narrativo fondamentale, è altresì vero che lo stesso è un trampolino per abbracciare la seconda parte della pellicola, in cui il film dà davvero il suo meglio e in cui Christopher Reeve può finalmente brillare.

E, proprio qui, si trova un interessante equilibrio di toni.

Superfice

Superman in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ad uno sguardo più superficiale, il Superman di Reeve potrebbe essere un tedioso esempio dell’eroe senza macchia – ma con mantello.

In realtà, la sua costruzione non è così scontata.

Entrando infine in scena come eroe formato, Kal-El ci spiazza nella sua forma umana, un’abile maschera dietro cui si nasconde: Klark Kent è infatti un giovane impacciato e alle prime armi, che l’ormai navigata Lois Lane sembra subito inquadrare – e, per certi versi, disprezzare – nella sua inadeguatezza.

Superman e Lois in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Ma la sottile ironia della pellicola si scopre immediatamente nella scena della rapina, in cui Kal-El fa di tutto – almeno a parole – per evitare lo scontro fisico, lasciando spazio a Lois per raccontarsi come personaggio attivo e fondamentale, ma che segretamente ha in mano tutta la situazione…

…ammiccando al pubblico con il proiettile fatale stretto fra le dita.

Superman, invece, è un’altra storia.

Superman e Lois volano insieme in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Quando infine il protagonista indossa le vesti eroiche, non rappresenta l’opposto della sua versione umana, ma bensì una sua naturale evoluzione: un eroe che non vuole mettere in mostra le sue spropositate capacità sovrannaturali, ma bensì limitarsi a fare il suo dovere.

Infatti, soprattutto all’occhio dello spettatore contemporaneo, potrebbe risultare quasi fuori luogo che l’arma più tagliente di Superman sia la sua ironia: raramente arriva allo scontro fisico e, il più delle volte, si limita ad acchiappare i furfanti e a consegnarli illesi alla giustizia.

E con Lex Luthor non è da meno.

Ombra

Lex Luthor è un irresistibile paradosso.

Tutto nel suo personaggio racconta un contrasto interno: si dichiara una sublime mente criminale, ma è ridotto ad un covo nelle fogne di Metropolis, si racconta crudele e spietato contro i suoi nemici, ma il suo sidekick lo inquadra perfettamente come villain da operetta…

…eppure, il contrasto con Superman ha un lato nondimeno inquietante.

Superman e Lex Luthor in una scena di Superman (1978) di Richard Donner con protagonista Christopher Reeve

Riuscendo a trasmettere un messaggio che solo il protagonista può sentire, Luthor riesce a stanare Kal-El, intrappolandolo nella sua abile rete di esche che, una dopo l’altra, illudono il protagonista di poterlo facilmente sconfiggere, per poi trovarsi lui stesso vinto dal suo unico punto debole: la Kryptonite.

Fra l’altro, il piano di Luthor viaggia in un equilibrio piuttosto interessante fra la più classica macchinazione da villain fumettistico e un taglio realistico abbastanza inaspettato – visti i toni della pellicola – la spietata speculazione edilizia.

In realtà Luthor è solo una miccia che scatena dei profondi complessi morali del protagonista, ancora una volta impotente davanti alla morte di una persona amata, in una sequenza anche piuttosto angosciante in cui Lois Lane, di fatto, viene sepolta viva.

Una sofferenza troppo grande per essere sopportata due volte, e che getta le basi per un’evoluzione ulteriore del personaggio che, insieme al secondo villain più volte – Zod – aprì le porte ad un altro, scintillante successo: Superman II (1980).

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Animazione Avventura Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Pixar Racconto di formazione

Elio – La trappola delle aspettative.

Elio (2025) di Domee Shi è un’avventura fantascientifica di produzione Pixar.

Di cosa parla Elio?

Dopo la perdita dei suoi genitori, Elio è disposto a tutto per avere un’altra occasione…davvero a tutto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Elio?

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

In generale, sì.

Pur con qualche momento più debole – sopratutto gli snodi narrativi fondamentali, dovuti ad evidenti rimaneggiamenti in corsa – Elio è un film che ha davvero toccato tutti i punti giusti: un racconto non semplice sulla genitorialità e il senso di costante inadeguatezza…

…che riesce ad essere estremamente trasversale nel riuscire a raccontare entrambi i punti di vista: sia quello dello spettatore più giovane, sia quello dell’adulto che l’ha accompagnato alla visione, per un arricchimento comune di cui solo la Pixar è capace.

Fuga

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Fin dalla prima scena, Elio è in fuga.

La primissima scena è particolarmente potente nel raccontare l’angoscia del protagonista: nonostante i diversi e diversificati tentativi della zia di trovargli un’alternativa soddisfacente nel menù – e, per estensione, nella sua vita – Elio rimane fuori scena, nascosto sotto al tavolo.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

L’introduzione del personaggio si chiude con poche battute di circostanza che suggellano la dinamica appena introdotta, per accompagnare Elio nel primo atto della fuga che ne definirà il percorso per tutto il film: la convinzione e speranza che ci sia qualcos’altro oltre alla sua mera esperienza terrestre…

…che deve assolutamente evadere.

In questo senso, Elio e sua zia Olga viaggiano su due visioni del mondo inconciliabili.

Prospettiva

Il paradosso di Elio è nelle prospettive dei personaggi.

Entrambi infatti hanno lo sguardo rivolto nella stessa direzione – lo spazio – ma con due visioni dello stesso totalmente opposte: Olga vede nell’ignoto solamente un cumulo di dati e di detriti da sbrogliare, per un lavoro poco emozionante ed ridotto nei termini militareschi, rigidi e ben poco appassionanti.

Elio in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Al contrario, Elio vede nelle stelle una possibilità di riscatto, di vivere delle emozioni che sulla Terra, dove si sente profondamente solo ed incompreso, non riesce a ritrovare, richiedendo insistentemente di essere salvato, in un modo – mettersi al centro di un cerchio sulla sabbia con un messaggio piuttosto esplicito – sulle prime può provocare ilarità…

…ma nella realtà è un grido d’aiuto davvero straziante di un bambino incompreso.

Per questo la scelta più semplice per la zia sembra quella di riportare Elio sul suo stesso tracciato, ovvero quello della scuola militare, in realtà nient’altro che l’occasione per ulteriore bullismo ed emarginazione – e infatti basta pochissimo perché Olga ci ripensi, anche se a quel punto è troppo tardi.

E proprio in questa disparità di visioni sta il nodo del problema.

Inutile

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Né Olga né Grigon hanno avuto i figli che desideravano.

Infatti involontariamente Elio e Glordon si ritrovano così bene fra di loro proprio perché condividono il medesimo dramma: avere delle strade tracciata dai genitori che non si sentono pronti a percorrere.

Una sensazione che emerge particolarmente nel assai amaro siparietto in cui Glordon ammette di essere stato definito in tanti modi, elencando una serie di epiteti poco piacevoli – un’emicrania, un errore… – che l’hanno portato ad essere, proprio come Elio, intrappolato in un irrisolvibile senso di inadeguatezza.

E, paradossalmente, entrambe le figure genitoriali sono legate dalla mancanza di un personaggio fondamentale – i veri genitori di Elio e la madre di Glordon – apparendo per questo inadatti nel loro ruolo e quasi prepotenti nel loro agire, quando in realtà sono semplicemente limitati dal loro poco coraggio nell’accettare compromessi.

Una sensazione che ha il suo apice nel confrontarsi di Elio con la sua copia perfetta, che rispecchia i desideri più egoisti della zia nei suoi confronti, come se questo bastasse per renderla appagata, dimenticandosi del vero ed imperfetto nipote.

E invece proprio qui sta la maggiore forza dei due personaggi.

Conoscere

Elio e Glordon in una scena di Elio (2025) di Domee Shi

Olga e Grigon conoscono i loro figli…

…fin troppo.

Nello specifico risulta particolarmente sorprendente la velocità con cui Glordon si rende conto che Grigon non sia quello vero: proprio lui che sembrava così intrappolato in uno schema impossibile evadere, e che invece si libera dello stesso per salvare la vita al figlio, cullandolo in una scena genuinamente straziante.

In altri termini anche Elio e Olga intraprendono la strada della riappacificazione, anche se più complessa – e, anche per questo, inciampando in non pochi snodi narrativi fin troppo veloci e semplificati – con cui riescono a ritrovarsi nonostante le loro diverse visioni del mondo.

Così l’ultima avventura insieme raccoglie sia le nuove conoscenze di Elio, sia l’esperienza di Olga, che porta infine il protagonista a ritornare sui suoi passi – anche qui, forse fin troppo bruscamente e senza dargli abbastanza respiro – nel trovare nell’affetto della zia un’altra occasione per essere felice…

…persino sulla Terra.

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2025 Avventura Commedia Drammatico Fantasy Film

Dragon Trainer – Il linguaggio della consapevolezza

Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois è il remake dell’omonimo classico della Dreamworks del 2008.

Di cosa parla Dragon Trainer?

In un mondo immaginario dove i vichinghi combattono per la loro sopravvivenza con i draghi, Hiccup è un ragazzo così fuori posto…da cambiare il suo stesso ambiente sociale.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Dragon Trainer?

Assolutamente sì.

Nell’attuale panorama disastroso dei live action, Dragon Trainer, nel suo piccolo, fa scuola con un prodotto che non è, per una volta, né un bait per creare discussione online, né un becero tentativo di riposizionarsi politicamente…

…ma semplicemente un’opera che vuole riportare in scena un prodotto che ormai è un classico, per ovvie finalità economiche, ma mostrando una particolare attenzione nel passaggio fra due linguaggi differenti, con una consapevolezza, purtroppo, attualmente molto rara da trovare in produzioni analoghe.

Consapevolezza

Cosa distingue il live action di Dragon Trainer dalle analoghe produzioni Disney?

In una parola, la consapevolezza.

Infatti, i remake degli ultimi anni hanno due ordini di problemi: da una parte, la mancanza di consapevolezza della storia e dei significati, anche piuttosto immediati, che racchiude al suo interno, peccando di pigrizia e superficialità nel riportarli in scena.

Hiccup e Sdentato in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

L’esempio più recente è Lilo & Stitch (2025), che riesce a sbagliare anche le cose più semplici proprio per la suddetta mancanza di consapevolezza: fra gli altri, escludere l’importante simbologia dell’introduzione di Lilo che trova – e non trova – il suo posto fra le ballerine – e, per estensione, nel mondo.

Al contrario, Dragon Trainer, forte anche di avere alla guida il creatore dell’opera originaria, dimostra di aver compreso i punti fondamentali della storia e di riuscire così a riportarli – e in parte anche a rinnovarli – in scena, senza mancare nessun passaggio fondamentale, soprattutto di fronte ad una necessità non trascurabile.

Ovvero, adattare la storia alla rinnovata agenda politica della major.

Su questo punto è sufficiente aprire una breve parentesi, in quanto la Dreamworks è semplicemente riuscita a scampare tutti i passi falsi della Disney, riuscendo a contestualizzare e, di conseguenza, a valorizzare la multiculturalità del nuovo cast con poche e semplici battute.

Per questo non mi ha per nulla disturbato l’eliminazione della dinamica comica iniziale in cui nessuno dei vichinghi voleva seguire Stoick nella sua missione suicida, ma anzi ho apprezzato che la scena sia diventata un momento di valorizzazione dell’unione fra diversi popoli di diverse provenienze per un nemico ed un obbiettivo comune.

Fra l’altro, un tema drammaticamente contemporaneo.

Ma non è l’unico pregio in termini di consapevolezza.

Mezzo

Hiccup e Sdentato in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

Una grave, anzi gravissima colpa dei live action Disney è spesso l’inconsapevolezza del mezzo.

Non di rado infatti questo tipo di produzioni nell’adattamento fra animazione e live action non riescono a maneggiare adeguatamente quest’ultimo, finendo o per portare in scena situazioni perfettamente funzionanti in 2D ma molto meno nelle riprese con attori reali – in questo senso gli esempi del live action del Re Leone (2019) si sprecano…

…oppure, semplicemente, scardinano l’impianto spesso favolistico dell’originale, per portare invece in scena un realismo fin troppo crudo e fuori luogo, che finisce per togliere significato all’opera tutta – in questo senso, Peter Pan & Wendy (2023) pullula di situazioni questo tipo, riuscendo persino a non comprendere i punti fondamentali dell’opera letteraria.

Hiccup e Gambedipesce in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

Invece, Dragon Trainer raccoglie queste inconsapevolezze e le fa sue in senso positivo – e in due direzioni.

La prima, è un buon equilibrio fra il reale e l’animato: le atmosfere mantengono i toni più idealizzati e semplicistici dell’originale, ma al contempo si arricchiscono di fondamentali tocchi di reale, senza mai sbilanciarsi né da una parte né dall’altra.

La seconda, riuscire ad adattare la scena ai nuovi termini del prodotto, anche facendo sagge scelte di omissione.

Dragon Trainer Live action

Hiccup e Sdentato in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

L’esempio più virtuoso in questo senso è la scena del pesce: tutta la dinamica del primo segno di pace fra Hiccup e Sdentato nell’originale aveva dei toni estremamente umoristici e propri del linguaggio animato, così che la scena venisse giustamente caricata di toni che altresì in live action sarebbero risultati estremamente posticci.

Per questo il film sceglie consapevolmente di eliminare il cambio di umore di Sdentato – con la posa tipica di un cane e le pupille si ingrandiscono per renderlo più amichevole e coccoloso – e carica invece di un realistico disgusto il cibarsi del protagonista del pesce rigurgitato del drago, con l’interessante particolare dei resti del cibo che rimangono sulla bocca di Hiccup.

Pochi tocchi di colore, ma che dimostrano quanto è stata salda la mano di Dean DeBlois nel gestire la sua storia anche nella nuova versione.

Eppure, Dragon Trainer si porta dietro un peso non indifferente.

Cambiamento

Astrid in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

Uno dei pochissimi punti deboli dell’originale animato era il personaggio di Astrid.

La sua evoluzione è problematica per più motivi: parte come una sorta di villain secondario, definita costantemente come velenosa e aggressiva, caricandola anche di un bagaglio espressivo piuttosto impegnativo, per poi renderla, nel terzo atto, una pixie girl da manuale.

Infatti è abbastanza straniante il suo comportamento nei momenti finali della pellicola, in cui il problema non è tanto il cambio abbastanza repentino di umore nei confronti di Hiccup, ma quanto è evidente che il suo personaggio viva in funzione dello stesso, come ben racconta lo scambio che apre l’atto terzo:

– What are you going to do about it?
– Probably something stupid.
– Good, but you already done that.
– Probably something crazy.

– Cosa pensi di fare
– Probabilmente qualcosa di stupido.
– L’hai già fatto.
– Allora una pazzia.
Hiccup e Astrid in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

E nel live action?

Evidentemente consapevole di queste debolezze, il regista ha in parte riscritto la figura di Astrid ammorbidendone i toni, sia per toglierle quella carica espressiva che sarebbe risultata quasi caricaturale all’interno di un live action, sia rendendo più credibile il cambiamento di atteggiamento nel corso dell’opera.

Il problema è che in questo modo Astrid risulta molto meno incisiva, nonostante i timidi tentativi di darle un background politico più consistente – la figlia di nessuno – limitato ad una scena e mai più ripreso, portandola ad essere particolarmente compiaciuta – con, forse, un velato sottofondo erotico? – nei confronti di Hiccup.

Hiccup e Astrid in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

Troviamo così un personaggio poco definito, che vive nell’ombra della sua controparte animata, soprattutto nei momenti in cui dovrebbe ricalcarla pedissequamente – uno nello specifico: alla fine della prova a due, nell’originale Astrid esplodeva di rabbia per aver perso, e sputava praticamente in faccia a Hiccup la sua furia:

Late for what, exactly?

In ritardo per cosa, esattamente?

Dragon Trainer live action

Un frangente adatto solamente ad un personaggio che ha goduto fino a quel momento di un climax esplosivo, che la portava a rivolgersi al protagonista con il volto paonazzo e gli occhi iniettati di veleno, elemento inaccettabile per la versione live action, che, infatti, si limita a riportare la suddetta battuta con poca convinzione.

Hiccup e Astrid in una scena del live action di Dragon Trainer (2025) di Dean DeBlois

La medesima debole incisività si riscontra anche, in parte, in altri due personaggi che non hanno vissuto adeguatamente il passaggio: Gambedipesce e Testabruta.

Nello specifico il primo non riesce efficacemente a riportare la grande eccitazione intellettuale del personaggio – forse non aiutato da una regia particolarmente incisiva – mentre la seconda è, per ignoti motivi, non la gemella di Testaditufo, e risulta anche per questo molto più sbiadita nel confrontarsi con la massiccia presenza del fratello.

Ma si tratta di poche mosche bianche all’interno di un panorama di attori estremamente vincenti, in cui sicuramente esaltano Gerard Butler e Nick Frost, entrambi perfettamente in parte, oltre ad un ottimo Hiccup, che è la ripresa precisa della sua controparte…

…e, soprattutto, a sorpresa, Moccicoso, che, per quanto forse non abbia il physique du role, ha abbracciato perfettamente il suo personaggio, caricandolo anche di un suo arco evolutivo che fa da eco a quello del protagonista.

Insomma, qualche passo falso del tutto perdonabile all’interno di un prodotto che dovrebbe diventare il punto di riferimento per i live action di oggi.

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Oliver & Company – Dietro una maschera

Oliver & Company (1988) di George Scribner è il ventisettesimo Classico Disney nonché l’ultimo film considerato propriamente parte del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget abbastanza importante – 31 milioni di dollari – ebbe, al tempo, un riscontro piuttosto scarso: appena 53 milioni di dollari alla sua prima uscita.

Di cosa parla Oliver & Company?

Oliver è un gattino che sogna di avere una famiglia tutta sua. Ma forse non andrà tutto come sperato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Oliver & Company?

Dodger e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Assolutamente sì.

Oliver & Company è una parentesi piuttosto interessante della storia Disney: un breve e isolato esperimento di rendere un Classico un musical a tutti gli effetti, con un’ironia piuttosto brillante ed una dose di violenza decisamente sorprendente visto il target di riferimento.

Di fatto, la pellicola è un thriller mascherato da film per l’infanzia, che riesce in più momenti a nascondersi dietro ad un umorismo leggero e spensierato ed un topos narrativo piuttosto classico.

Insomma, da riscoprire.

Durezza

Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Oliver vive in un mondo ostile.

L’apertura della pellicola è piuttosto esplicativa per raccontare da una parte il disperato desiderio del protagonista di trovare un nucleo di appartenenza, dall’altra il facile infrangersi di un sogno davanti ad una realtà che lo esclude fin dal primo momento.

Per questo Why Should I Worry? è una delle grandi maschere dietro cui il film si nasconde.

Dodger in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Dopo averci fatto stringere il cuore per la sorte infelice di Oliver, il film ci accompagna alla conoscenza della sua nuova famiglia, introdotta con il grande inganno di Dodger, che si racconta fin da subito come un abile approfittatore, anche a costo di rivalersi sui più deboli.

E proprio il racconto di una vita di strada spensierata è un perno fondamentale della pellicola nel suo volersi in parte raccontare come un’avventura dai toni spensierati e giocosi, un chiaro tentativo di ammorbidire diversi frangenti successivi per nulla felici, anzi piuttosto angoscianti e crudelmente realistici.

E, infatti, la crudeltà del film è tutta da scoprire.

Reale

Il racconto di Oliver & Company è, per certi versi, fin troppo reale.

Anche se il film non vuole essere mai troppo esplicito in questo senso, appare chiaro che Fagin si sia fatto intrappolare da uno strozzino che non sarà mai capace di ripagare, e che ora arranca nel disperato tentativo di raccogliere dei rottami per sfuggire alla morte certa.

La sua figura è un altro elemento fondamentale e funzionale alla trama per smorzare la violenza della maggior parte delle scene in cui è coinvolto, con una comicità slapstick piuttosto semplice, ma anche complessivamente ben integrata nella narrazione.

Ed è una scelta assolutamente fondamentale di fronte a frangenti così estremi – come la morte dei due cani di Sikes – da essere per forza portati fuori scena, rimanendo vivissimi nella mente dello spettatore, soprattutto nei momenti in cui i cani sono usati come metodo di punizione.

E il coinvolgimento di Jenny non è che ulteriore elemento di angoscia della pellicola, per cui Sikes non si fa scrupoli neanche nel rapire una bambina pur di mettersi qualche soldo in più in tasca, portando ad un adrenalinico finale che riesca a funzionare così bene per un unico motivo: l’ottima gestione della coralità.

Spazio

I cani in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Gestire un film corale è una sfida notoriamente complessa.

Ci si trova spesso davanti a pellicole che vorrebbero far dialogare le diverse parti in scena e arricchire il racconto popolandolo di diverse figure, ma che finiscono per fare importanza solo ai pochi, effettivi protagonisti – lasciando sullo sfondo tutto il resto.

Al contrario Oliver & Company riesce a dare a tutti il giusto spazio, definendo i membri della gang con pochi ma funzionali tocchi, senza mai perdersi in caratterizzazioni banali o stereotipate – anche se ce ne sarebbero spesso tutti i presupposti – rendendo tutti i membri, nel loro piccolo, assolutamente indispensabili.

Georgette in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

In questo modo, il film assume effettivamente la natura di storia corale, con anche degli importanti cambiamenti di passo di figure come Georgette, introdotta come villain secondario – o di passaggio – ma che infine sceglie di partecipare al salvataggio della sua piccola padrona.

E proprio intorno a questo personaggio che ruota uno dei pericoli più importanti della pellicola.

Incantesimo

Fagin e Oliver in una scena di Oliver & Company (1988) di George Scribner

Quando si ha fra le mani dei personaggi grigi, soprattutto in film per l’infanzia, lo scioglimento è la parte più rischiosa.

Infatti capita più spesso del dovuto che i protagonisti della storia, anche quelli più spiccatamente negativi, vengano come colpiti come da un incantesimo nella conclusione della pellicola, che li porta sotto la rassicurante morale del tutti possono essere migliori, negandogli il passaggio fondamentale in questa direzione.

Invece la bellezza del finale di Oliver & Company è che, di fatto, nulla cambia.

Come mi aspettavo una chiusura alla Lilli e il vagabondo (1955), in cui si arrivava senza farsi troppi problemi al punto di arrivo designato – e moralmente accettabile – in realtà lo status quo rimane sostanzialmente immutato: a fronte della significativa scelta di Oliver di rimanere con Jenny, tutti gli altri continuano, anzi esaltano la loro vita di strada.

Così infine Oliver e Dodger si devono separare un po’ a malincuore, ma nella consapevolezza di aver scelto la vita più giusta per loro, senza nessuna forzatura, come ben racconta lo screzio fra Goergette e Tito, che si rende infine conto di come lui e la barboncina siano di fatto incompatibili e che non possano forzarsi l’uno sull’altro.

E questa è una morale tanto più importante di un qualsiasi happy ending idealizzato.

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2025 Avventura Comico Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film

Lilo & Stitch – La storia che già conoscevi

Lilo & Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp è il remake live action dell’omonimo Classico Disney del 2002.

Di cosa parla Lilo & Stitch?

Lilo è una ragazzina che può contare solo su sua sorella, ma finalmente potrebbe trovare l’amico perfetto per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilo & Stitch?

In generale, no.

Purtroppo, già il Classico aveva qualche problema nello scioglimento della vicenda, ma era altresì molto forte nel suo antefatto e nella parte centrale, sforzandosi di dare una struttura coerente alla narrazione, e riuscendo nel complesso a portare in scena un prodotto ben riuscito.

Al contrario, il suo corrispettivo live action fallisce già solamente nelle sue premesse, ma ancora di più nel costruire disordinatamente una trama che si basa su un pericolosissimo presupposto: lo spettatore conosce già la storia, quindi non ha bisogno che gliela racconti davvero di nuovo.

In altri termini, un piccolo disastro.

Fretta

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

L’antefatto di Lilo & Stitch, per nessun chiaro motivo, è pervaso da una devastante fretta.

L’antefatto del Classico, con cui è impossibile non fare un paragone, era breve ma efficace nel mettere in scena i personaggi e le loro dinamiche, creando anche un piccolo ma efficace climax narrativo che portava Stitch a scappare e il Dr. Jumba ad essere riportato in scena con un nuovo obbiettivo.

Al contrario, il live action recupera solo le parti essenziali dell’attacco e le comprime all’interno di un’introduzione che si basa, come detto, sul pigro presupposto che le vicende raccontate siano già ben note allo spettatore, e quindi non ci sia bisogno di raccontarle effettivamente, ma solo di riassumerle.

In questo modo i personaggi non hanno il minimo tempo di respirare e di posizionarsi in scena, diventano le pallide ombre delle loro ben più iconiche controparti a due dimensioni, e questo non aiuta anche a farci distogliere l’attenzione dal loro drammatico character design, che ricorda il ben noto caso dell’Ugly Sonic.

Ma, riguardo alla coppia Dr. Jumba e Pleakley, si può aprire una parentesi parzialmente positiva. 

Alternativa

Con l’ottima eccezione di Stitch, i personaggi alieni ci accompagnano verso una devastante uncanny valley.

E il film, a suo modo, ne è consapevole.

Sarebbe stato veramente difficile dare personalità e spessore, financo espressività, a personaggi il cui character design funziona così bene nell’animazione tradizionale e assomiglia così tanto ad un incubo lovecraftiano nella versione a tre dimensioni – fra l’altro, per un assurdo ed incomprensibile principio di renderli il più realistici possibile.

Jeff Braff in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Per questo, la maggior parte del loro screentime è nelle vesti umane.

La scelta della coppia di attori in questo senso è stata forse la più azzeccata dell’intera pellicola, in quanto i due – particolarmente Billy Magnussen nei panni di Pleakley – sono riusciti davvero ad abbracciare la fisionomia e i caratteri dei personaggi, e a portare in scena una storia nel complesso abbastanza coerente, per quanto poco memorabile.

Ma il vero problema è l’assenza di Gantu.

Per quanto per certi versi la sua presenza potesse sembrare del tutto accessoria all’interno del Classico originale, al contrario era essenziale per inserire un villain finale veramente temibile e che caricasse di una – a tratti pure eccessiva – drammaticità lo scioglimento della vicenda…

…e, soprattutto, per non intaccare la personalità di Jumba, che doveva rimanere un personaggio grigio, un po’ cattivello ma, nel complesso, positivo: un adorabile pasticcione incapace di gestire la sua creazione, anche nel suo picco finale di totale follia.

Tuttavia, dovendo prendersi sulle spalle la grande mancanza del suddetto villain finale, finisce per diventare inutilmente cattivo, financo genuinamente crudele nei confronti di Lilo, particolarmente nella scena dove la attira in casa sua distruggendo tutti i suoi importanti ricordi.

Ma fosse lui il problema…

Svuotata

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Uno degli elementi che più contraddistingueva Lilo & Stitch da molti altri Classici Disney era l’ambiguità di Lilo.

Per questo nel 2002 le si era lasciato così tanto spazio all’inizio per raccontarla nelle sue manie e nella sua incontenibile aggressività, proprio a tratteggiare una bambina problematica che aveva sofferto moltissimo la perdita dei genitori, e che per questo viveva nell’inconsapevolezza di un mondo tutto suo...

…non riuscendo a trovare il suo posto, né nel complesso di danza, né altrove.

Stitch e Lilo in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E per questo era altrettanto importante che si confrontasse con un personaggio così caotico come Stitch, e che entrambi riuscissero a superare la loro inconsapevolezza nei confronti del mondo – potremmo quasi dire egoismo – riuscendo invece ad abbracciare una fondamentale scala di valori.

Per questo la banalizzazione del live action fa ancora più male.

Stitch, Lilo e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

Non sapendo tratteggiare Lilo se non all’ombra della sua controparte del 2002, il film le toglie ogni profondità e la rende semplicemente un personaggio cattivo che non si rende conto di esserlo, dovendo tra l’altro dirlo esplicitamente, vivendo sempre nella grande paura delle produzioni odierne che il pubblico non riesca a seguire neanche la più semplice delle storie.

Così la giovane protagonista diventa progressivamente un personaggio ancillare rispetto a Nani, andando a togliere ogni tipo di valore all’atto centrale, che era fondamentale per definire come l’inconsapevolezza di Lilo distruggesse ogni possibilità della sua famiglia di esistere…

Lilo & Stitch live action

Stitch in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

…tramite una serie di gag che rappresentano la sezione più iconica del Classico di partenza e che vengono indegnamente banalizzate in una serie di siparietti oltre che ripetitivi, inutilmente definiti dalla più blanda comicità slapstick e a misura di bambino.

Una dinamica che purtroppo si riflette anche negativamente su Stich, sostanzialmente privato del suo fondamentale – quanto imperfetto – arco evolutivo, diventando semplicemente e banalmente caotico e con un cambiamento per nulla costruito nel finale.

Ma non manca anche il frangente squisitamente politico…

Vincente

Nani deve essere una vincente.

Una purtroppo grave piaga delle produzioni mainstream degli ultimi anni è la necessità di parlare al pubblico femminile, risultando al contempo del tutto incapaci di farlo, rendendo spesso le protagoniste obbligatoriamente aderenti ad un modello standard di successo che consentirebbe loro il riscatto…

…andandole invece unicamente a rinchiudere in un nuovo stereotipo.

Così Nani non può intraprendere una maturazione legata alla cura di Lilo e alla creazione di una famiglia sana, ma deve obbligatoriamente essere un genio della biologia che si deve trattenere dal realizzare il proprio destino per via della famiglia che le è stata imposta.

Stitch e Nani in una scena del live action di Lilo e Stitch (2025) di Dean Fleischer Camp

E la risoluzione del problema, pur non così soddisfacente nella pellicola originale, è così palesemente programmatica all’interno del live action, al punto che gli altri personaggi – Lilo per prima – finiscono per orbitare intorno alla figura di Nani e alla sua realizzazione, non servendo per molti versi a nient’altro.

Di conseguenza, il sogno di Ohana che ci ha accompagnato per decenni viene totalmente banalizzato nella sua importanza di raccontare una famiglia diversa, ma che comunque può trovare la sua felicità e compattezza, con l’ennesima major che vuole dimostrarsi dalla parte delle donne…

…ma negando loro, di fatto, qualsiasi tipo di complessità.

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Avventura Azione Cinecomic Drammatico Film MCU

Thunderbolts* – Il vero nemico

Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier è un cinecomic Marvel facente parte della Fase 5 della timeline MCU.

A fronte di un budget medio per un cinecomic – 180 milioni di dollari – ha aperto piuttosto bene al box office, auspicando un buon successo commerciale.

Di cosa parla Thunderbolts*?

Yelena Belova, Ghost, John Walker e un misterioso quarto personaggio si trovano coinvolti in una missione suicida. Ma l’obbiettivo non è quello che pensavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thunderbolts*?

Il gruppo dei Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Assolutamente sì.

Dopo non pochi inciampi, la Marvel riesce a portare finalmente e nuovamente in scena un film solido, che, pur con qualche mancanza anche significativa lato scrittura, riesce complessivamente a funzionare molto bene e a gestire la dinamica di gruppo in maniera con grande lucidità e abilità.

Nondimeno, la pellicola contiene al suo interno uno dei migliori villain visti in tempi recenti in casa MCU, che non è – come spesso capita – un figura anonima e funzionale unicamente al mettere alla prova l’eroe, ma una minaccia profonda e significativa per l’evoluzione del gruppo.

Insomma, dategli un’occasione.

Scrupolo

Yelena Belova (Florence Pugh) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Nonostante Thunderbolts* sia un film corale, Yelena è il fulcro della trama.

E per questo la sua introduzione è estremamente funzionale.

Il suo personaggio vorrebbe raccontarsi come un mercenario senza scrupoli e senza legami, che agisce meccanicamente per concludere la missione senza particolari remore, anzi apparendo – o volendo apparire, appunto – come quasi annoiata e disinteressata alla sua vita.

Nella realtà, un elemento della primissima missione è un indizio visivo cardine per la comprensione dei personaggi.

Yelena Belova (Florence Pugh) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

Consapevole di dover fare esplodere l’intero edificio, Yelena addocchia un porcellino d’india, probabilmente cavia per il laboratorio che sta distruggendo, e lo porta con sé salvandolo da morte certa per sua stessa mano, quasi una sorta di feticcio per rimarcare un salvataggio che non è riuscita a compiere in passato…

…ma soprattutto un elemento apparentemente fine a sé stesso ma che invece racconta perfettamente i personaggi in scena, che vogliono fare credere di essere del tutto privi di emozioni e di rimorsi, ma che in verità sono schiacciati dagli stessi, mantenendo e nascondendo quel briciolo di umanità che li ha sconfitti in primo luogo.

Ed è proprio questo che infine li unisce.

Introduzione

Il gruppo dei Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

L’introduzione credibile di un gruppo di eroi è un’impresa estremamente complessa…

…e di antieroi ancora di più.

Di fatto la Marvel con questo film si trovava sul precipizio di un inciampo per nulla desiderabile: portare in scena un gruppo di cattivi rinsaviti incredibilmente piatti e fini a sé stessi, incapaci di creare un legame – emotivo e non – credibile e che ci facesse concretamente tifare per loro, senza dover arrivare ad uno status finale di gruppo senza che ci fosse stata nessuna effettiva costruzione.

Yelena Belova (Florence Pugh) e Centry (Lewis Pullman) in una scena di Thunderbolts* (2025) di Jake Schreier

In altre parole, Suicide Squad (2016).

Al contrario, i protagonisti di Thunderbolts* sono fin da subito raccontati come accomunati da un dramma comune: aver, per motivi diversi, vissuto esperienze traumatiche e tanto devastanti da renderli delle vittime inermi della crudeltà di Valentina della Fountain, di cui diventano personaggi assolutamente sacrificabili proprio per il loro essere irrimediabilmente soli.

E proprio qui troviamo un altro ostacolo significativo.

Thunderbolts villain

Con la gestione perigliosa degli ultimi anni, l’MCU si è trovato fra le mani un nutrito gruppo di personaggi dalle provenienze più disparate: film molto lontani nel tempo, alcuni veri e propri flop – e quindi poco conosciuti – o film molto meno memorabili – o, peggio di tutto, serie TV che si pretende che il pubblico conosca a menadito.

Invece, forse memori di quel pasticciaccio di The Marvels (2023), in cui i personaggi mancavano totalmente di un’introduzione estremamente necessaria, in Thunderbolts* riusciamo a conoscere nuovamente i protagonisti tramite poche ma significative battute che rimarcano alcuni eventi salienti delle loro esistenze.

E le stesse si inseriscono all’interno di un comicità piuttosto aspra, che però permette ai personaggi di raccontarsi fra loro cose che già sanno, ma di rendere delle battute pungenti che sono anche la matrice che li porta progressivamente ad unirsi in un gruppo, prima per la reciproca sopravvivenza, poi per salvare una vittima come loro.

Per questo Centry merita un discorso a parte.

Costruito

Bene o male la maggior parte dei film Marvel si basano su un racconto del supereroe piuttosto classico.

Il protagonista infatti solitamente scopre i suoi poteri e viene messo alla prova in un contesto del tutto positivo, in cui deve trovare il suo spazio all’interno di un contesto per molti versi ostile – e, proprio tramite il suo percorso di affermazione come eroe, diventa significativo per il pubblico e per la storia.

Ma The Boys, nel bene e nel male, ha cambiato tutto.

Se infatti ai tempi di Civil War (2016) poteva apparire quantomeno bizzarro vedere una sorta di burocratizzazione del supereroe con i Trattati di Sokovia, ormai la trama dell’eroe creato a tavolino è quasi scontata per i nuovi prodotti del genere, ma nondimeno risulta efficace anche nel contesto di Thunderbolts*.

Anzi, forse la parte introduttiva di Centry è la più indovinata.

Bob appare come un personaggio totalmente fuori posto, una figura che si è trovata sulle strade dei protagonisti per puro caso, senza mostrare la minima capacità speciale, anzi risultando quasi un peso all’interno di un gruppo che cerca in qualche modo di salvarsi, nonostante vengano comunque seminate le prime avvisaglie che ci sia qualcosa di più.

Da questo punto di vista la parte più debole è quella successiva, in cui Centry viene prima rivelato per la sua cera natura, poi preso al lazo dalla Contessa Serbelloni, che funge da villain politico della pellicola, e si lascia in poco tempo piegare alle nuove richieste con una velocità quasi allarmante.

Ma, nondimeno, l’ultimo atto è il poi significativo.

Depressione

Anche se non viene detto esplicitamente, il vero villain di Thunderbolts* è la depressione.

Anche se ci arrivano per vie diverse, a loro modo tutti i protagonisti vivono su un precipizio, ad un passo dall’essere risucchiati da un vuoto profondo e incolmabile, dove Centry li spinge ancora di più, facendomi rivivere le cause della loro condizione con realismo davvero angosciante.

Per questo è tanto più interessante la rappresentazione della depressione stessa, un’ombra che ci consuma e che ci definisce, portandoci totalmente ad annullarci e a diventare il fulcro di un vortice di distruzione e autodistruzione in cui coinvolgiamo anche tutto quello che ci circonda, in parabola inaspettata quanto genuinamente straziante.

Eppure, dentro di noi niente è cambiato.

Per questo Yelena sceglie consapevolmente di immergersi in questa tenebra, e li ritrova la vera natura di Bob, un giovane solo ed indifeso, che avrebbe solo voluto essere importante, utile per qualcuno, senza invece farsi soffocare da quel senso di impotenza e di inutilità che porta la sua depressione a definire tutta la sua personalità.

Un personaggio che avrebbe ancora molto da dire, ma chissà se gliene daranno lo spazio…

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Animazione Avventura Disney Film Giallo Il medioevo Mistero Thriller

Basil L’investigatopo – L’atto centrale

Basil L’investigatopo (1986) di Burny Mattison, David Michener, Ron Clements e John Musker è il ventiseiesimo Classico Disney.

A fronte di un budget medio per il periodo – 14 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 38 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Basil L’investigatopo?

Londra, 1897. Hiram Flaversham è un giocattolaio particolarmente abile, che per questo entra nel mirino di un personaggio non proprio raccomandabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Basil L’investigatopo?

Assolutamente sì.

Il ventiseiesimo Classico Disney è, arrivati a questo punto, uno dei migliori prodotti di questa fase: una narrazione puntuale e avvincente, che riesce a seguire strade già battute, ma adattandole ottimamente all’economia narrativa e al poco minutaggio a disposizione.

Nondimeno i personaggi principali – Basil e Ratigan – sono due figure incredibilmente memorabili: l’uno che prende le mosse da Sherlock Holmes in maniera irresistibilmente comica, e l’altro che riesce ad incarnare uno dei villain più iconici della Disney, anche per la violenza efferata che lo caratterizza in non pochi momenti.

Insomma, da riscoprire.

Medias res

Uno dei meriti più importanti di Basil L’investigatopo è la gestione del tempo.

Nella consapevolezza di godere un minutaggio limitato, la pellicola riesce ad incastrare una storia lineare all’interno di una narrazione già avviata: ci bastano così poche scene per introdurre Hiram Flaversham e la sua abilità artigiana, che diventano subito oggetto dell’interesse di un misterioso personaggio nell’ombra…

E, come tutte le scene di violenza della pellicola, il rapimento del giocattolaio è ottimamente orchestrato fuori scena, raccontato ora attraverso le ombre drammatiche proiettate sul muro, ora tramite i suoni che la disperata Olivia è costretta ad ascoltare all’interno della credenza.

Ma questa è solo la scintilla iniziale per portarci alla conoscenza di Topson e conseguentemente di Basil, introdotti con lo stesso simpatico espediente di Le avventure di Bianca e Bernie (1977) – le versioni più piccole dei corrispettivi umani che si vedono brevemente in scena.

E il primo approccio con Basil è particolarmente brillante.

Olivia e Topson entrano nella vita dell’investigatore quando questo è già invischiato nella faida con Ratigan, quando sta già cercando di incastrarlo seguendo una logica comprensibile solo a lui, che però si rivela infine fallimentare, rendendo ancora più importante il caso di Olivia.

Infatti questa presentazione di Basil fa gioco alla trama per riuscire ad essere credibile nella scelta subitanea del protagonista di prendersi sulle spalle il caso, non andando fra l’altro ad intaccare la sua figura di stravagante investigatore totalmente concentrato su se stesso e sulla sua bravura.

Ma Ratigan merita un discorso a parte.

Ombra

Il villain di Basil L’investigatopo è uno dei più riusciti di questa fase.

Anche in questo caso bastano pochi tocchi  per caratterizzarlo come personaggio estremamente vanesio ed egocentrico, che si è costruito una nutrita cerchia di sostenitori da cui desidera solamente il costante e cieco servilismo, mettendosi sempre al centro della scena – e della canzone – con la sua impotente presenza.

E la stessa è significativa anche per definire un altro lato del personaggio.

Ratigan non è un topo, ma bensì un ratto, quindi un animale decisamente più vile e deprecabile, natura che però cerca di sublimare sia nell’aspetto estremamente curato e pomposo, sia anche nell’agire, non sporcandosi fino all’ultimo mai veramente le zampe.

Infatti la sciocca mancanza di uno dei suoi scagnozzi nel chiamarlo ratto porta allo svelamento della sua arma segreta, un enorme gatto che emerge in scena con una presentazione degna di un kaiju, e che diventa lo strumento per il concretizzarsi ancora una volta di una violenza piuttosto efferata e fuori scena…

…che è prima di tutto mentale: come Ratigan potrebbe facilmente e direttamente punire da sé i suoi nemici – come si vedrà a fine film – preferisce invece distruggerli prima mentalmente – ora con la campanella, ora con le minacce velate a Flaversham – proprio nel suo volersi raccontare come villain efferato ma elegante nel suo agire. 

Tanto più che il suo piano non è così immediato…

Pista

La gestione del piano del villain è un ostacolo non facile da aggirare.

Spesso la stessa diventa o un mezzo per la maturazione dei personaggi – come in Taron e la pentola magica (1985) – o un semplice ostacolo e minaccia in divenire – in Gli Aristogatti (1970) quanto in Red e Toby (1981) – ma difficilmente, soprattutto all’interno di un film animato per un pubblico infantile, diventa centrale alla storia.

Per Basil l’investigatopo è tutto il contrario.

Il piano di Ratigan viene svelato progressivamente pezzo per pezzo e nei suoi inquietanti dettagli, intrecciandosi perfettamente con l’investigazione di Basil, in cui dà prova delle sue capacità di brillante investigatore, ma senza mai eccedere nel raccontarlo come protagonista imbattibile, anzi.

La tridimensionalità del personaggio e la stretta correlazione con il suo antagonista è data proprio dai suoi errori.

Per quanto Basil riesca a condurre abilmente l’indagine ed ad orchestrare furbi travestimenti e macchinazioni, finisce comunque nella trappola di Ratigan, che si misura con lui proprio con i medesimi strumenti mentali, riuscendo prima a sottrargli Olivia, e poi a renderlo parte del suo stesso piano.

E così si arriva ad un momento di passaggio classico, ma che non manca di qualche sorpresa.

Metamorfosi

Il frangente del fallimento è fondamentale nella narrazione dell’eroe

Infatti il protagonista non può immediatamente risultare vincitore, anzi più viene sconfitto in prima battuta, più diventa interessante la sua rinascita che lo porta allo scontro finale – per cui gli esempi in questo senso, da Hercules (1993) fino al Re Leone (1998), si sprecano.

E proprio questo succede a Basil, che viene intrappolato nel congegno mortale di Ratigan e si rinchiude in sé stesso, arrendendosi alla sua clamorosa sconfitta, venendo poi fatto rinsavire dai suoi aiutanti – Topson e in parte Olivia – riuscendo nuovamente ad utilizzare le sue capacità mentali per trovare una falla nella macchina del suo nemico.

Il successivo frangente è perfetta nella conclusione del climax narrativo del piano di Ratingan, che lo identifica ancora come antagonista mentale, e non fisico – non prende il potere per la forza, ma sostituisce la regina con l’inganno – mentre risulta più debole nella sua sconfitta da parte di Basil, fin troppo veloce e non adeguatamente costruita.

Ma non è finita qui.

La vera sconfitta di Ratigan avviene solo quando abbandona le vesti da antagonista macchinatore e crolla nel suo più importante incubo: non essere altro che un malefico e brutale ratto, che si rifà su Basil unicamente con la sua forza spropositata che finalmente porta in scena.

E così la spettacolare scena del Big Bang segna l’ultimo momento della pellicola e la definitiva sconfitta del villain, regalandoci un simpatico prologo che aprirebbe sulla carta la via a nuovi film, ma senza che, ad oggi, si siano mai concretizzati…

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Avventura Comico Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

Le notti di Cabiria – Dall’alto al basso

Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini è una pellicola dedicata all’omonimo personaggio già apparso brevemente in Lo sceicco bianco (1953).

A fronte di un budget di circa 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) fu un enorme successo commerciale700 mila dollari – grazie anche alla vittoria come Miglior film straniero agli Oscar del 1958.

Di cosa parla Le notti di Cabiria

Cabiria è una prostituta che sembra essersi presa tutte le sfortune della vita. Ma forse una speranza c’è ancora…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le notti di Cabiria?

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Le notti di Cabiria è una splendida esplorazione felliniana dei numerosi strati sociali della Roma della fine del Decennio, spaziando fra diversi tagli narrativi, dalla più serena comicità alla dramma più straziante.

Difficile comprendere a così grande distanza di tempo la portata storica del racconto di una figura sociale così scandalosa come la prostituta, all’interno fra l’altro di un panorama di personaggi senza una particolare distinzione fra buoni e cattivi, ma con un’accattivante scala di grigi.

Amarezza

Cabiria è un personaggio profondamente incattivito.

L’apertura ci racconta un panorama idilliaco, in cui una coppia di innamorati passeggia allegramente nelle campagne romane, per poi improvvisamente mutare tono: l’uomo sottrae la borsetta alla donna e la getta nel fiume, dove questa rischia di morire.

Un momento di passaggio fondamentale in cui la protagonista muore e rinasce, di nuovo consapevole delle sua sua posizione di emarginata sociale per cui è impossibile riscattarsi, allergica ad ogni tipo di umanità nei suoi confronti, che non può altro che portare ad un giudizio di valore:

È una che fa la vita…

Espressione antiquata per indicare una donna che fa la prostituta.
Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

E la sua antipatia si espande a tutti i rapporti con gli altri personaggi, a cominciare da Wanda, la sua vicina di casa, da cui non vuole essere assolutamente aiutata, pena l’ammettere di essere stata gabbata in un momento di leggerezza in cui ha abbassato la guardia.

Infatti, Cabiria vive in un sogno.

Margine

Cabiria e Alberto Lazzari in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Nonostante il suo carattere turbolento, la protagonista crede che un riscatto sia ancora possibile.

E questo avviene ancora una volta nell’incontro con Alberto Lazzari, che, abbandonato dalla fidanzata, sceglie invece la compagnia di Cabiria, che si illude di essere effettivamente al centro dell’interesse del divo del cinema, di poter essere la sua nuova compagna.

Ma basta poco per essere scalzata dalla bellezza eterea della compagna di Alberto, che ritorna improvvisamente nella sua vita, spingendo la protagonista nuovamente ai margini della scena – e dell’interesse dell’attore, che prima la rinchiude in bagno, poi la congeda con una mazzetta.

E, giunti così in alto, non si può che scendere…

…molto in basso.

Prospettiva

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria vive in uno stato di potenza…

…di fallimento o di rinascita.

Nonostante la sua posizione sociale marginale, la protagonista ci tiene a rimarcare di essere riuscita a costruirsi una vita dignitosa – anzi, si scoprirà nel finale che è riuscita a mettere da parte una cospicua cifra sempre in funzione di un possibile riscatto futuro.

Ma Cabiria sa anche di essere in bilico.

E la prospettiva della pericolosità della sua ambigua posizione le appare chiara solo nel viaggio nelle grotte, sede dei veri emarginati sociali, crollati nella miseria più assoluta e sorretti dalla fragile e occasionale carità di pochi uomini buoni.

In questa amara desolazione emerge particolarmente la figura di Elsa, un tempo protagonista delle notti romane, ora definitivamente scomparsa dalla circolazione, vivendo delle illusorie speranze di potere ancora recuperare il suo precedente status.

E questa prospettiva, apparentemente così fine a sé stessa, è fondamentale per il terzo atto.

Ciclo

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria è bloccata in un ciclo?

Il drammatico scherzo ai danni della protagonista a teatro è solo un’ulteriore rappresentazione – anzi, forse la più straziante – di quel sogno che la protagonista sembra incapace di abbandonare, nonostante le umilianti conseguenze, tali da farla nascondere per ore all’interno del teatro.

Eppure la vita sembra darle un’occasione nuova di zecca per riscattarsi, per abbracciare quel destino che Frate Giovanni le racconta come assolutamente naturale e auspicabile – il matrimonio – persino con un uomo che conosce da pochissimo tempo, ma che sembra genuinamente interessato a lei.

E così lo spettatore è ottimamente rappresentato dalla figura di Wanda, che osserva preoccupata il totale abbandonarsi di Cabiria a questo nuovo sogno, scegliendo consapevolmente di liberarsi di tutti i suoi averi di troppo per cominciare una nuova vita.

E l’angoscia non fa che crescere più la protagonista mostra i suoi averi e più la coppia si avvicina al dirupo davanti al quale Cabiria crolla nell’ennesima consapevolezza di essere stata usata solo per soldi, e pure tramite una costruzione astrusa quanto genuinamente straziante.

Eppure, non è finita.

L’ultimo momento della pellicola, in cui Cabiria sembra definitivamente destinata alla miseria precedentemente mostrata, viene invece illuminato dalla giocosa apparizione della folla festante, per cui la dolorosa lacrima sul volto della protagonista diventa quasi un vezzo, quasi un trucco da pagliaccio felice.

Per raccontarci che, nonostante tutto, una speranza di rinascita c’è ancora…

…e ancora.

…e ancora.

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Animazione Avventura Azione Disney Fantasy Film Il medioevo Racconto di formazione

Taron e la pentola magica – Diventare una sottomarca

Taron e la pentola magica (1985) traduzione abbastanza impropria di The Black Cauldron, è il venticinquesimo Classico Disney, nonché il primo realizzato con l’utilizzo della CGI.

A fronte di un budget gigantesco per il periodo – 44 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale, senza riuscire a coprire neanche la metà dei costi di produzione.

Di cosa parla Taron e la pentola magica?

Taron è un guardiano di porci che sogna di diventare un eroe. E forse lo stesso porcello che accudisce potrebbe essere la chiave per il riscatto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Taron e la pentola magica?

Direi di no.

E per due motivi.

Da una parte, fatta eccezione delle ottime animazioni dei non morti e di qualche sperimentazione in CGI, Taron e la pentola magica non sembra un Classico Disney, ma piuttosto un prodotto sottomarca che cerca di copiare la Casa del Topo, soprattutto per i character design piuttosto blandi e poco convincenti.

Allo stesso modo, la scrittura della pellicola è davvero carente: sembra prendere lo scheletro narrativo del viaggio dell’eroe e non svilupparla in alcun modo, introducendo i personaggi nei loro ruoli – spesso direttamente detti a parole – e poi abbandonandoli totalmente a loro stessi.

Insomma, per quanto non sia confermato, la pellicola è di un blando tentativo di fare Il Signore degli Anelli targato Disney.

Contrasto

Taron e la pentola magica è sostanzialmente incapace di creare il contrasto fondamentale di inizio pellicola.

Esattamente come nella trasposizione di Jackson, il film si apre con un prologo piuttosto eloquente, dove viene definita la minaccia in atto – Re Cornelius – e l’oggetto del desiderio – il calderone – raccontando le conseguenze che causerebbe il ritrovamento del diabolico artefatto perduto.

E questo sarebbe il momento cruciale per introdurre Taron…

…e invece la pellicola ne è assolutamente incapace: la narrazione dell’eroe per caso, il contrasto fra un potere incontenibile e un protagonista che sembra incapace di prevenirlo – e per questo è così vicino allo spettatore – viene totalmente spezzata da dall’introduzione di un protagonista che che è già al suo punto di arrivo.

In questo frangente probabilmente si è voluto ricalcare la classica dinamica della canzone del sogno, in cui Taron definisce quando la storia potrà dirsi conclusa, ma risultando in una presentazione del protagonista artificiosa e poco credibile, che lo rende estremamente bidimensionale.

Oltretutto, il suo sogno dovrebbe poi essere sostituito da un nuovo obbiettivo molto più importante – in una dinamica simile a quella di Rapunzel (2010), fra gli altri – ovvero crearsi delle relazioni significative e maturare attraverso le stesse lungo il viaggio…

…peccato che è proprio la dinamica su cui il film fallisce di più.

Costruzione

La costruzione credibile di un gruppo protagonista è l’ostacolo principe all’interno di questo tipo di narrazioni…

…e Taron e la pentola magica ricade nel più classico capitombolo.

Come ci si può facilmente rendere conto confrontando il mediocre Suicide Squad (2016) e l’ottimo The Suicide Squad (2021), per costruire un solido gruppo di protagonisti è fondamentale tratteggiare in maniera significativa i loro caratteri e le loro differenze, così da raccontare il loro rapporto tramite l’incastro delle stesse.

E invece il Classico Disney non solo manca in primo luogo delle caratterizzazioni dei suoi personaggi, ma sembra come costretto a spuntare una lista di figure da mettere in scena solo per dare un contorno al protagonista: l’aiutante bislacco e pasticcione, l’interesse romantico, e una sorta di consigliere che funge anche da spalla comica.

Ed è una dinamica tanto più grave quanto il pathos del finale si basa sulla costruzione del rapporto fra i personaggi, per cui Taron infine sceglie di non voler indietro la spada che lo renderebbe l’eroe che ha sempre sognato di essere, e invece riesce a far rivivere Gurghi, personaggio per cui dovrebbe nutrire un profondo affetto…

…che però è definito solamente a parole.

Ma questa superficialità è un tratto distintivo della pellicola.

Tappe

La narrazione per tappe è una delle più difficili da realizzare.

Come l’autore ha ben in mente il percorso che vuole far percorrere ai personaggi, per creare un racconto genuino ed avvincente non deve mostrare allo spettatore il suo modus operandi, ma deve invece collegare in maniera credibile e coinvolgente i vari passi del protagonista verso il suo obbiettivo.

In questo senso soprattutto Le due torri (2003) – da cui appunto il film pesca a piene mani – è un ottimo esempio di gestione di questo tipo di narrazione, riuscendo anzi a rendere credibili i vari momenti di stallo e di difficoltà dei protagonisti, così che la vicenda non si risolva immediatamente.

Al contrario, in Taron e la pentola magica il protagonista ha tutte le soluzioni sempre a portata di mano e senza il minimo sforzo, anzi persino quelli che sembrano sulle prime degli incidenti – come essere risucchiati in un vortice d’acqua – risultano infine la chiave per la risoluzione del problema.

E, come se tutto questo non bastasse, la maialina Ewy è un becero McGuffin.

Così, se Hitchcock ha fatto scuola in Psycho (1960) nel fingere che un mero vettore della trama fosse fondamentale per la storia, Taron e la pentola magica utilizza la piccola scrofa il tempo necessario per fare proseguire la narrazione, per facilmente scalzarla con altri personaggi nel medesimo stesso ruolo.

E non è neanche la parte peggiore…

Spreco

Re Cornelius potrebbe entrare nel novero dei villain più sprecati della storia della Disney.

Per quanto il suo character design non sia niente di così speciale od originale, la sua presenza scenica è particolarmente terrorizzante e poteva, al pari di Sauron, essere esplorata in molte direzioni, riuscendo invece a brillare solo in pochi momenti di astuzia – come quando lascia Taron libero di condurlo al calderone – ma che nel complesso aggiungono poco al suo personaggio.

Così risulta un villain con un minutaggio minuscolo, quasi insignificante nell’economia narrativa, tramutandosi quasi in uno strumento della trama per la maturazione – almeno sulla carta – del protagonista, da cui fra l’altro neanche viene sconfitto, diventando anzi vittima del suo stesso desiderio di potere.

E, per quanto quest’ultima dinamica poteva risultare non poco interessante, al contempo va ancora di più a calcare la mancanza di connessione fra l’eroe e l’antagonista: come Cornelius è uno dei tanti ostacoli nella maturazione del protagonista, Taron è una delle tante strade percorribili per la vittoria della villain…

…che diventa quasi il primo e generico boss di un videogioco con cui il protagonista deve mettersi alla prova.

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Animazione Avventura Commedia Disney Drammatico Film Il medioevo

Red e Toby – Crescere divisi

Red e Toby (1981) di Art Stevens, Ted Berman, Richard Rich è il ventiquattresimo classico Disney, nonché l’ultimo in cui venne usata unicamente la tecnica tradizionale.

A fronte di un budget abbastanza alto per il periodo – 12 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 63 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Red e Toby?

Durante una sanguinosa battuta di caccia, la madre di Red lo deve abbandonare per salvargli la vita. E l’incontro con l’umano è croce e delizia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Red e Toby?

Assolutamente sì, ma…

Avevo memoria di quanto fosse struggente il racconto del film, ma avevo totalmente dimenticato il livello di violenza e il come la stessa viene portata in scena, rendendolo un film per molti versi persino disturbante, pur essendo proprio per questo forse tra i titoli più realistici di casa Disney. 

Infatti, a differenza di molti suoi predecessori, Red e Toby evade una struttura piuttosto insidiosa per cui il film non è un film, ma piuttosto una raccolta di momenti uniti da una spesso debole trama, risultando invece ben strutturato, con solo un inserto narrativo che sembra una pausa dalla narrazione.

Insomma, da riscoprire.

Sottrazione

Nella consapevolezza di dover gestire una trama piuttosto violenta, Red e Toby lavora per sottrazione.

Così non ci risparmia tutti i momenti di angoscia pressante nella fuga disperata della madre di Red, che per molti versi ricorda il momento analogo in Bambi (1942), ma che risulta infine ammorbidito grazie alla scena immediatamente successiva di aiuto degli altri animali nei confronti del protagonista…

…ma che non ci risparmia l’orrore nel sentire lo sparo in lontananza e l’inevitabile morte della volpe.

In altre parole, è come se ci fossero due livelli.

Il livello più adulto, più strettamente realistico – rappresentato da questo e da altri momenti in cui la violenza è presente ma più o meno sublimata, come gli spari con svolazzi di piume o la pila di pelli di animale che appare molto eloquentemente nel camion di Amos Slad, fino al terribile terzo atto…

…e il livello più infantile, più giocoso, che riassume in altri termini la vicenda in atto: la sciocca caccia di Sbuccia e di Cippi verso il povero bruco, che viene costantemente insidiato nella sua tana, ma che riesce in qualche modo ad averla sempre vinta e a salvarsi la vita.

Infatti, ogni barlume di speranza è facilmente soffocato.

Amici

Red e Toby possono essere amici?

La rappresentazione iniziale del loro rapporto – e del loro comportamento in generale – è tipica della fase infantile, del non riuscire a vedere le barriere sociali naturalmente imposte, cercando invece in un compagno di giochi un amico per la vita.

Un comportamento così ignaro dei pericoli che porta ad una totale inconsapevolezza di Red nel tentare nuovamente un approccio con Toby nonostante gli avvertimenti di quest’ultimo, creando un’aperta discordia fra gli umani stessi, racconto di una mentalità testarda e delirante, potenzialmente trasmessa anche agli animali.

Insomma, per i protagonisti è ora di crescere a immagine somiglianza dei padroni?

Crescere

Tutta la dinamica della crescita di Red e Toby riprende molto bene il concetto di growing apart.

Infatti, nonostante fossero inizialmente accomunati dalla medesima innocenza infantile, la stessa si va a scontrare con un mondo adulto ben più crudele, di cui all’inizio solo Toby sembra capirne le regole, riuscendo a diventare il cane di punta del suo padrone per le sue spietate battute di caccia.

Una consapevolezza che ben si riflette anche nel nuovo incontro con Red, la cui crescita – rappresentata da un character design veramente indovinato, con i baffetti non ancora formati che indicano come il personaggio sia un adulto di primo pelo – è solo visiva, e non mentale, tanto che si comporta ancora come un cucciolo…

…mettendo infine un punto alla sua amicizia con Toby, per una sfortunata concatenazione di eventi che lo porta prima il cane a salvare Red, poi a rivoltarsi contro di lui, accompagnandoci verso uno dei momenti più struggenti della storia della Disney: l’abbandono di Red incorniciato da una malinconica melodia.

Ed è qui che la pellicola cerca di ribilanciare i toni.

Scontro

Per dare modo a Red di maturare, il film gli concede una parentesi tutta sua…

…e solo apparentemente molto fine a sé stessa.

Infatti grazie all’incontro con Vicky, la volpe si affaccia finalmente al mondo selvaggio a cui non è mai appartenuto, definito da riti di accoppiamento da cui non esce immediatamente vincitore, anzi dovendosi scontrare con un’inabilità al vivere devastante e vergognosa, ma che è anche un tassello fondamentale per definire il terzo e ultimo atto.

La parte finale della pellicola è quella più apertamente spaventosa – ma anche più educativa: si giunge al punto massimo del climax ascendente dello scontro, in cui Amos si lancia all’attacco insieme a Toby per vendicare Fiuto, con metodi violenti quanto meschini, che infiammano entrambe le parti, facendoli persino mutare d’aspetto.

Ma la parte educativa è paradossalmente il personaggio dell’orso, in cui Amos dovrebbe rivedere se stesso nella sua furia omicida e distruttiva, andando ad incastrarsi nelle sue stesse, diaboliche trappole, per poi risultare del tutto irriconoscente davanti alla inaspettata umanità di Red, che decide di salvare entrambi i suoi nemici.

Ed è infine Toby a mettere fine alla lotta…

…ma senza ricomporre il quadro iniziale: nonostante la pellicola si chiuda con un siparietto comico fra Amos e la signora Tweed, la vera chiusura è lo sguardo di Red verso il suo vecchio amico e la sua nuova vita, che non si azzarda più a intralciare, rimanendo fisso ai margini nella scena, ancorato al suo nuovo contesto sociale.