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Shaun of the Dead – Un mostruoso immobilismo

Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.

A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.

Di cosa parla Shaun of the dead?

Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Assolutamente sì.

Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead (1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.

E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.

Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!

Immobile

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è immobile.

La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…

…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.

Ma anche il resto del mondo è immobile.

gli zombie in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.

Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.

Proprio come il Winchester.

Indifferente

Bill Nighy in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è anche indifferente.

Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…

…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.

Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.

Regressione

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Ma la rottura non porta ad un miglioramento.

Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.

Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.

Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.

Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.

Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...

Ma ormai non è più possibile.

Scoperta

L’ultimo atto è il momento della scoperta.

Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…

E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.

Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…

…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo (1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.

Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.

Cambiamento

Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.

E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.

Simon Pegg e Nick Frost nel finale di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

E infine, cosa è cambiato?

Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.

E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.

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Cast Away – Il crocevia

Cast Away (2000) è uno dei film più iconici della filmografia di Robert Zemeckis – che, fra l’altro, lo stesso anno fece uscire un altro prodotto totalmente diverso, Le verità nascoste.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale: quasi 430 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Cast Away?

Chuck è un dipendente piuttosto appassionato della FedEx, che si trova in una situazione ai confini del mondo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cast Away?

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Cast Away è stata una bellissima sorpresa: Zemeckis riprese il sodalizio con Tom Hanks dopo l’ancora più iconico Forrest Gump (1998), per confezionare un prodotto piuttosto appassionante e splendidamente diretto.

Infatti, il regista statunitense sceglie consapevolmente di non abbracciare un taglio narrativo troppo idealizzato, preferendo invece una regia al limite del found footage, ma nondimeno ben dosata.

Insomma, da non perdere.

L’incastro perfetto

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

L’incipit di Cast Away è ingannevole.

La pellicola non ci introduce immediatamente il protagonista, ma ci accompagna alla scoperta dell’azienda di riferimento – la FedEx – per raccontarci il suo più appassionato dipendente, facendoci anche intendere che il suo lavoro lo tiene lontano da casa.

Così, nonostante l’insistenza del protagonista, le diverse chiamate senza risposta di Kelly ci fanno sospettare che la compagna sia insoddisfatta del comportamento di Chuck, fino al momento in cui va a trovarla in ufficio…

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

…e invece Kelly e Chuck sono fatti l’uno per l’altra: nonostante la turbolenta agenda del protagonista, i due riescono a trovare l’incastro perfetto nelle loro vite, con in sottofondo una proposta di matrimonio mai avvenuta.

L’ultimo incontro fra i due si chiude con un emozionante commiato, in cui Chuck sembra lasciare alla compagna qualcosa da cui tornare, così da rassicurarla che passeranno il Capodanno insieme come le aveva promesso.

Ma il destino è crudele.

Il grande silenzio

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Già con l’incidente aereo, Zemeckis sperimenta con la regia.

Un utilizzo piuttosto attento di inquadrature sbilenche e imprevedibili, che alternano fra particolari, primi piani e soggettive piuttosto drammatiche del protagonista, lasciando anche il giusto spazio ai frangenti più violenti, permettendo un’immersione nella scena davvero vincente.

Così anche per i primi momenti dell’isola si sceglie un taglio il più possibile verosimile: i tentativi impacciati e disordinati del protagonista di sopravvivere sono del tutto credibili, anzi rappresentano a grandi linee quello che noi stessi faremmo in una situazione analoga.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Così l’intera sequenza è dominata da un costante silenzio, inframmezzato solo dai gemiti e dalle poche parole che il protagonista pronuncia, mentre la frustrazione e la disperazione lo assalgono…

…soprattutto quando cerca di trovare qualche uso per quei pacchi della FedEx, un tempo fondamentali, ora di dubbia utilità.

Infatti appare evidente che la più grande sofferenza di Chuck non sia la mancanza di cibo, ma la profonda solitudine che lo divora, la devastante frustrazione che lo obbliga a stare in silenzio e non poter neanche esprimere ad alta voce i suoi pensieri…

E così avviene il cambiamento.

Wilson, mi ascolti?

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Il punto di svolta è definito da due momenti – l’uno conseguente all’altro.

Il primo ovviamente è Wilson, a cui Chuck sceglie di dare un volto per giustificare un dialogo con lui, riuscendo finalmente a vincere questo assordante silenzio, e così ad avere uno scambio utile non solo a non impazzire, ma anche a mettere in ordine le idee.

Questa scelta rappresenta proprio la consapevolezza di Chuck sul fatto che questa situazione anomala non si risolverà tanto in fretta.

Da qui, la scelta di togliersi violentemente il dente guasto.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Non a caso, proprio da qui parte un salto in avanti nel tempo di ben quattro anni, che ci rivela un protagonista ben più disperato, che ormai vive in funzione di due elementi: il ricordo di Kelly, che sia va via sbiadendo come la sua foto, e il dialogo con Wilson, che ha cercato di rendere un interlocutore sempre più credibile.

Così, quando sembra davvero al limite della disperazione e della follia, tornato al suo stato naturale, in realtà Chuck dimostra una sorprendente lucidità nel continuare a cercare di trovare una via di fuga – persino tramite il suicidio.

Per questo, l’effettivo abbandono dell’isola è un momento chiave piuttosto potente.

In particolare, per quanto riguarda Wilson: prima di partire Chuck gli regala una forma definitivamente umana – un corpo di legno – per poi perderlo nei flutti, disperandosi all’idea di aver maltrattato quello che per me anni era stato il suo unico compagno di vita.

Il crocevia

Nei suoi momenti finali, Cast Away sceglie di non banalizzarsi.

Sarebbe stato molto facile cavalcare l’onda emotiva di Chuck e Kelly, e così disfare quel matrimonio probabilmente di ripiego per ricomporre la coppia – e in effetti l’incontro a casa della donna, con anche la corsa disperata sotto la pioggia, farebbe intendere questa direzione.

E invece la scrittura ci sorprende.

Riportando Kelly a casa, Chuck prende finalmente consapevolezza di un concetto molto importante: come la sua vita non era finita il giorno in cui è naufragato, come non è finita quando ha provato a suicidarsi, così non è finita adesso che non può più realizzare il suo sogno d’amore.

Infatti, nel finale il protagonista si trova in un effettivo crocevia: il destino gli sta dando l’occasione di una nuova vita, di provarci con un’altra donna a cui sembra inevitabilmente collegato proprio per la sua avventura.

E così Chuck si posiziona al centro dell’incrocio e guarda serenamente in camera, come a dirci:

E adesso cosa facciamo?

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Forrest Gump – Una semplice corsa

Forrest Gump (1994) rappresenta indubbiamente una delle opere più di culto della filmografia di Robert Zemeckis, nonché uno dei maggiori successi della carriera di Tom Hanks.

Non a caso, a fronte di un budget comunque consistente – 55 milioni di dollari – fu un incredibile successo commerciale: quasi 700 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Forrest Gump?

Forrest è un bambino molto stupido ha un IQ pari a 75 – che però si troverà a diventare protagonista delle tappe più importanti della storia statunitense, mantenendo intatta la sua inguaribile semplicità di visione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Forrest Gump?

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Per quanto personalmente non la consideri l’opera più brillante di questo autore, Forrest Gump è una pellicola piacevolissima e che gode di una scrittura attenta ed intelligente, che riesce perfettamente a modulare l’apparato comico con i momenti più profondamente drammatici.

Questo cult degli Anni Novanta ci permette di seguire con ironia e leggerezza la storia di quest’uomo tanto stupido quanto fondamentale per la storia di una nazione, proponendoci anche riflessioni morali e sociali per nulla scontate.

Insomma, vale assolutamente una visione.

Un passo indietro

Michael Conner Humphreys in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Forrest comincia un passo indietro agli altri.

Per quanto sia un bambino del tutto innocente e pieno di buone intenzioni, viene fin da subito ostacolato dal mondo sia degli adulti che dei pari: i primi lo bloccano sia fisicamente – i tutori alle gambe – che intellettualmente – volendolo relegare ad una scuola per ragazzi speciali

…e anche i suoi compagni fin da subito – e ancora negli anni successivi – lo emarginano e lo bullizzano.

In questo senso, Jenny e la madre sono considerabili i suoi angeli custodi.

Michael Conner Humphreys e Hanna R. Hall in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Per quanto complessivamente il suo percorso sia sostanzialmente autonomo, sarebbe stato di fatto impossibile senza l’intervento iniziale di questi due personaggi chiave: anzitutto la madre, che dona letteralmente il suo corpo e la sua dignità per permettergli di frequentare una scuola normale.

Allo stesso modo Jenny, pur non riuscendo a contrastare direttamente i suoi aguzzini, è una figura educativa – lo aiuta ad imparare a leggere, fra le altre cose – ma anche, e soprattutto, ispiratrice.

Banalmente, se la bambina non l’avesse incoraggiato a correre, e così a liberarsi delle sue limitazioni, Forrest non sarebbe riuscito a vivere la sua vita allo stesso modo.

Una figura sfuggente

Jenny è una figura fondamentale quanto sfuggente.

Il protagonista si ritrova spesso a rincorrerla, a cercarla, ma anche ad essere sistematicamente abbandonato da questa donna troppo malinconica e tormentata dai suoi demoni per poter davvero accettare nella sua vita la bontà di Forrest.

Infatti, fin da bambina Jenny è vittima di abusi, prima dal padre, poi dai diversi uomini che si susseguiranno nella sua vita, in cui Forrest è sulle prime solo spettatore, poi figura attiva di protettore e salvatore.

Tuttavia, il ruolo di Forrest nella vita di Jenny non va assolutamente banalizzato: il protagonista non si limita a salvarla fisicamente dalle aggressioni, ma ha soprattutto la funzione di far comprendere la gravità degli abusi che sta subendo.

Una lezione che purtroppo la donna capirà solamente alla fine della sua vita, quando dovrà fare i conti con il peso delle sue scelte – con ogni probabilità, una malattia sessuale – che la porterà però a vivere finalmente un momento felice, accettando l’amore di Forrest.

Salvato da sé stesso

Gary Sinise in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Un’altra figura fondamentale nella vita di Forrest è il tenente Dan.

L’uomo è del tutto ubriaco della retorica dell’eroismo militare, e per questo preferirebbe morire sotto il fuoco nemico, anzi sente di essere destinato a questa fine, prima che Forrest rovini ogni cosa – idea che gli rinfaccerà più e più volte nel corso della pellicola.

In questo senso, il protagonista, nella sua semplicità di pensiero, assume un ruolo non tanto dissimile da quello che ha per la vita di Jenny: Forrest sa solamente che è giusto salvare la vita del suo compagno – e questo fa, nonostante le proteste dello stesso.

Gary Sinise e Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

A margine, si può notare come tutta l’esperienza militare di Forrest sia una sottile satira della realtà militaresca americana, in cui il protagonista eccelle proprio perché incapace di sviluppare un pensiero critico e, per questo, essere del tutto ligio al dovere.

Ma lo stesso pensiero bidimensionale gli permette di salvare Dan in un senso più ampio, ovvero mostrandogli come ci possa essere un’altra vita, non da eroe, ma da privato cittadino, altrettanto soddisfacente quanto quella sul campo di battaglia.

Notevole per questo il parallelismo fra le protesi del veterano sul finale e i tutori di Forrest all’inizio del film: se per il giovane protagonista erano un impedimento, per Dan sono il suo modo per accettare finalmente quella seconda vita.

Un simbolo?

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

A livello più ampio, Forrest diventa un simbolo.

Zemeckis riesce a rappresentare con grande lucidità – per la corsa senza fine tanto in quella del misterioso discorso – la turbolenta realtà sociale degli Stati Uniti negli Anni Sessanta – Settanta, in cui vi era una ricerca disperata ad un’icona.

Per questo così tante persone seguono ed incitano la corsa di questo strano soggetto, proprio come a voler partecipare allo sconvolgimento politico e sociale dell’epoca, trovandoci ognuno un proprio riscatto sociale.

Tom Hanks in una scena di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis

Ma Forrest non vuole essere un simbolo.

Il protagonista non abbraccia nessuna battaglia sociale, ma riesce comunque a portare inconsapevolmente nel mondo una bontà semplice, senza malizia, una nuova prospettiva su una realtà politica complessa e combattuta.

Forrest è solamente un uomo seduto su una panchina, che si trova a dialogare con diversi spettatori che si susseguono in scena, persone del tutto comuni che si arricchiscono indirettamente con i suoi insegnamenti.

E, come loro traggono importanti lezioni dalla sua storia, così noi, vedendola sullo schermo, ne siamo profondamente arricchiti.

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Il Corvo – Un semplice amore

Il Corvo (1994) di Alex Proyas, tratto dall’omonimo fumetto di James O’Barr, è uno dei più grandi cult cinematografici degli Anni Novanta.

La sua fama è legata anche all’infausto incidente dell’attore protagonista, Brandon Lee, che morì sul set a soli ventott’anni e non poté mai vedere il film finito…

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 23 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, tanto da portare a ben due sequel.

Di cosa parla Il Corvo?

Eric e Shelly sono una giovane coppia innamorata, il cui destino viene stroncato da un evento improvviso. Ma la vendetta è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il Corvo?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

In generale, sì.

Non voglio troppo sbilanciarmi: Il Corvo è un film che va veramente inquadrato nel periodo in cui è uscito, in quanto figlio di un’estetica che ad oggi potrebbe essere considerata quasi trash e dozzinale.

Inoltre, se siete appassionati del fumetto d’origine, potreste rimanere parzialmente delusi – per me è stato così – in quanto questa trasposizione cerca di rendere più digeribile una vicenda davvero cupa e malinconica.

Tuttavia, al di là di questo, Il Corvo è indubbiamente una lettera d’amore verso l’opera di James O’Barr – presente anche con un piccolo cameo – che riesce al meglio delle sue possibilità – e con scelte complessivamente vincenti – a rendere una graphic novel così complessa e sofferta.

Insomma, da vedere.

In questa recensione inevitabilmente ci saranno dei confronti con l’opera originale, che vi invito a riscoprire.

Frammenti di dolore

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Non era semplice rendere la scena dell’omicidio iniziale de Il Corvo.

Il film sceglie un taglio peculiare, ma assolutamente adatto alla narrazione dell’opera originale: un montaggio travolgente, in cui frammenti della scena si susseguono sullo schermo, attimi di dolore e paura…

Inoltre la pellicola opera alcuni cambiamenti funzionali alla riuscita del film: la violenza non avviene in strada, ma nell’appartamento della coppia, e così Shelly non viene uccisa con un colpo alla testa, ma affronta trenta ore di dolore in ospedale.

La monumentalità ammorbidita

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Allo stesso modo, anche portare in scena Eric era la sfida più ardua.

Nel fumetto il protagonista è una figura monumentale e paurosa, che vive del contrasto fra l’orrido presente e la morbidezza delle scene d’amore quotidiano con Shelly, che sottolineano la profondità del dolore e del desiderio di vendetta del suo personaggio.

La pellicola in questo senso sceglie un taglio leggermente diverso: Brandon Lee sembra quasi uno zombie che riemerge dalla tomba…

…e riesce nel complesso a reggere sulle spalle un personaggio così complesso, con una buona presenza scenica e una resa visiva veramente calzante.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Al contempo però il film sceglie anche di riportare il protagonista più coi piedi per terra, di non giocare troppo con il contrasto fra presente e passato…

…ma piuttosto di mantenere questa dicotomia nel presente stesso: come Eric è un killer insaziabile, al contempo è anche un giovane ragazzo distrutto dal lutto, ma ancora legato agli affetti terreni.

Nello specifico, al personaggio di Sarah.

La felicità intrusiva

Nonostante ne comprenda la funzione, Sarah è l’elemento che ho meno apprezzato.

Nel fumetto Sarah ha un ruolo minore, limitato a pochi momenti, mentre nel film diventa una figura fondamentale per rendere più umano il protagonista e permettere allo stesso di trovare col suo ritorno in terra una funzione ulteriore oltre alla vendetta.

Insomma, serve a dare un briciolo di speranza in più allo spettatore.

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Sempre per lo stesso fine, la madre di Sarah segue un percorso di redenzione proprio grazie al protagonista, liberandosi dalla dipendenza dalle droghe e ricominciando a curare la figlia.

Una scena di per sé inutile ai fini della trama, ma del tutto funzionale per ammorbidire il tono del film.

E lo stesso avviene nel finale.

Il vero amore?

Brandon Lee in una scena de Il Corvo (1994) di Alex Proyas

Il finale del film ruota principalmente intorno al personaggio di Sarah.

A differenza del fumetto, Eric nel terzo atto ha fondamentalmente concluso la sua missione ed è pronto a ricongiungersi con Shelly, ma ritorna in campo proprio per salvare la ragazzina, perdendo anche parte dei suoi poteri – l’immortalità – e quindi dovendo combattere ad armi pari T-D.

Nel complesso tuttavia ho apprezzato il cambiamento della fine di del boss, che solo alla fine Eric comprende essere il vero artefice del suo dramma: per questo decide di punirlo con qualcosa di peggiore della morte stessa.

Ovvero, fargli provare l’insopportabile dolore di Shelly prima di morire.

Al contrario, mi è ha meno convinto la chiusura del film.

Per rendere la vicenda più comprensibile allo spettatore medio, si sceglie di glissare totalmente sul motivo originario – nel fumetto – della vendetta di Eric, ovvero il tentativo di liberarsi dalla colpa di non essere riuscito a salvare la sua amata, così da poter lasciare questa vita di mezzo e ricongiungersi con lei.

Il film sceglie una via più semplice, sottolineando la forza di un amore così sincero ed immortale come quello fra Eric e Shelly, che gli ha permesso di tornare in vita e di punire i suoi aguzzini, e, infine, di ricongiungersi amorevolemente con lei.

Il Corvo Sequel

A cura di Carmelo.

Vale la pena di vedere i sequel de Il Corvo?

Il secondo film è molto vicino allo spirito del primo capitolo: nonostante il protagonista sia diverso, la sua motivazione e le dinamiche della sua storia sono simili.

Fra l’altro, è presente un collegamento diretto con il film del 1994, per la presenza di Sarah, che funge da guida per il nuovo protagonista.

Un sequel che si distingue per un taglio più onirico e surreale, ma che può essere comunque apprezzato.

Lo stesso si può dire de Il Corvo 3 – Salvation (2000).

In questo caso il protagonista è un ragazzo condannato alla sedia elettrica per il presunto omicidio della sua fidanzata, e torna per vendicarsi dei veri assassini.

Insomma due sequel che cercano di mantenere il taglio del primo film, e che possono comunque essere apprezzati se vi intriga la dinamica raccontata.

Assolutamente sconsigliato invece il quarto capitolo, Il Corvo – Preghiera maledetta (2005): girato tutto alla luce del sole – quindi mancando totalmente dell’atmosfera originale – porta l’elemento magico-fantastico in direzioni molto meno desiderabili, snaturando l’opera originale.

Insomma, da evitare.

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Back to the future Part III – Una buona conclusione?

Back to the future Part III (1990) è il capitolo conclusivo della trilogia iconica creata da Robert Zemeckis.

A fronte di un budget complessivo fra secondo e terzo film – 40 milioni di dollari, circa 100 oggi – questa pellicola confermò il successo del precedente, anche se con un incasso leggermente inferiore: 245 milioni di dollari (circa 576 oggi).

Di cosa parla Back to the future Part III?

Dopo aver ricevuto la sua lettera dal passato, Marty raggiunge Doc nel Vecchio West…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future Part III?

Christopher Lloyd (Doc) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

Con Back to the future Part III Zemeckis riesce a mantenere una qualità costante anche per il finale della trilogia, pur ambientandolo in un contesto veramente anomalo per un’avventura fantascientifica, ma che invece permette di trovare nuovi spazi di esplorazione della storia e dei personaggi.

Il terzo capitolo infatti riprende i ritmi serrati e adrenalinici del film precedente, ma non manca di portare a compimento anche quegli spunti interessanti per l’evoluzione dei protagonisti già accennati nel secondo film.

Insomma, da vedere.

Il solito aggancio

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Come per Back to the future Part II (1989), anche in questo caso il film si riaggancia direttamente al precedente.

Ma invece di ricalcare la scena finale del secondo capitolo, la pellicola fa rivivere allo spettatore l’iconico finale di Back to the future (1985), in cui il Marty del futuro si ricongiunge con il Doc del 1955, al tempo convinto di aver risolto tutti i problemi del viaggio nel tempo…

E bastano poche scene ben contestualizzate per preparare lo spettatore al nuovo scenario della pellicola – nello specifico, al nuovo villain – e ad introdurre un elemento già esplorato nei precedenti capitoli, ma ancora perfettamente funzionante: la morte di uno dei personaggi principali.

Due filoni

Ancora una volta Marty viene accolto nella casa dei suoi antenati…

…ma, in questo caso, introducendo il primo punto di riflessione del film – nonché il più importante: dalle parole del suo bisnonno il protagonista ritrova nel suo antenato defunto quel comportamento testardo e permaloso che attraversa tragicamente la sua famiglia.

Per il resto, i due antenati di Marty sono quasi del tutto limitati a questa funzione, rimanendo di fatto sullo sfondo per la maggior parte della pellicola, pur ben contestualizzati all’interno del panorama del Selvaggio West.

Thomas F. Wilson (Biff) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Segue l’introduzione della parte più adrenalinica della pellicola, ovvero la minaccia di Biff Mad Dog: si comincia col più classico incontro fra il villain e Marty, che però a sorpresa non serve a portare ad una rocambolesca fuga del protagonista e alla conseguente umiliazione di Biff…

…ma piuttosto a reintrodurre in maniera veramente ottima Doc: con un breve scambio fra Brown e Biff si ripercorre una discordia emersa in precedenza – con al centro, come sempre, un antagonista sbruffone e spaccone – coronata dall’epifania di Marty sulla futura morte dell’amico.

La minaccia formativa

Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Tutta la dinamica fra Biff e Marty è funzionale alla maturazione del protagonista.

Trovandosi costretto ad affrontare Biff in un duello all’ultimo sangue, Marty raggiunge due consapevolezze: l’importanza di essere più scaltri che violenti, proprio riuscendo a sconfiggere il nemico non con la banale forza bruta, ma piuttosto la sua furbizia ed inventiva.

E, soprattutto, anche memore delle sue sconsolanti prospettive future, il protagonista riesce finalmente ad abbandonare quella sciocca permalosità che gli ha portato – e gli porterà – solamente guai, e a diventare molto più maturo e capace di scegliere le giuste battaglie da combattere.

Come confermato, fra l’altro, dallo scontro in auto evitato nel 1985.

Fughe & ritorni

Christopher Lloyd (Doc) e Michael J Fox (Marty) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Per quanto riguarda le battute finali, Back to the future Part III delude.

Anzi, forse il piano per ritornare al futuro è il migliore della saga, perché inserisce l’incognita non tanto del possibile insuccesso – e del conseguente rimanere bloccati nel passato – ma proprio il pericolo di lasciarci la pelle, eventualità evitabile solamente sulla base di calcoli scientifici ed ipotesi totalmente teoriche.

Ma proprio per questo la conclusione è così emozionante e al contempo così ben contestualizzata nel panorama del film, con diversi picchi emotivi, non ultimo il ricongiungimento fra Doc e Clara, portando apparentemente ad un finale tragico sia per la macchina del tempo che per Doc.

Christopher Lloyd (Doc) e Mary Steenburgen (Clara) in una scena di Back to the future Part III (1990) di Robert Zemeckis

Invece, il finale è perfetto.

Come Marty aveva avuto un assaggio del suo futuro, al contrario Doc non aveva niente di particolarmente esaltante a cui puntare. Per questo è fondamentale per il suo personaggio trovare una compagna con cui condividere la sua passione, e, di conseguenza, con cui poter continuare le sue avventure nel tempo.

Così la coppia di amici si lascia con delle ottime prospettive all’orizzonte: il destino di entrambi non è ancora scritto, ma è totalmente nelle mani dei protagonisti e nella loro capacità di giocare al meglio le loro carte per un futuro migliore.

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Halloween – Il nuovo horror

Halloween (1978) è uno dei film più importanti della filmografia di John Carpenter, che non solo lanciò la carriera attoriale di Jamie Lee Curtis, ma fu anche uno dei punti di partenza del genere slasher.

La pellicola fu anche un grande successo commerciale: a fronte di un budget veramente minuscolo – appena 700 mila dollari, circa 3 milioni oggi – incassò 70 milioni in tutto il mondo (circa 330 oggi).

Di cosa parla Halloween?

Haddonfield, 1963. Il giovanissimo Michael Myers uccide la sorella a sangue freddo. E quindici anni dopo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Halloween?

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

In generale, sì.

Per quanto non lo consideri uno dei migliori lavori di Carpenter – per il budget e la realizzazione può essere considerato quasi amatoriale – è un film altresì davvero sperimentale, nonché un caposaldo del genere slasher.

Infatti, in Halloween troviamo tutti gli elementi distintivi di questo sottogenere dell’horror, che avrà la sua fortuna negli anni successivi, soprattutto con film come Venerdì 13 (1980) e Nightmare (1984)

Insomma, una pellicola piuttosto fondamentale.

L’origine del male

L’incipit di Halloween è sperimentale quanto iconico.

Tutta la sequenza è filtrata dalla soggettiva di Michael, che si muove nelle ombre sinistre della casa natale, appropriandosi dei due elementi che definiranno il suo personaggio: la maschera e il coltellaccio – ormai iconico sia per Psycho (1960) che, successivamente, per Scream (1996)

E così anche il suo movente, anche se non è mai dichiarato, è tipico dei killer degli slasher: una sorta di purismo e punizione nei confronti delle pulsioni sessuali che Michael non può comprendere e che non può esperire, essendo fin da subito un emarginato sociale.

Lo svelamento infine del volto innocente del bambino omicida racconta la profondità della malvagità del personaggio, alla ricerca di un’identità alternativa dietro cui nascondersi, che in questa scena – e così anche alla fine del film – gli viene violentemente strappata di dosso.

La distinzione del femminile

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Secondo un sentimento comune al genere, vi è una distinzione del femminile.

I personaggi femminili che circondano la protagonista sono accomunati dall’essere posseduti da un profondo desiderio sessuale, e dall’essere raccontate come ragazze poco serie che non si impegnano nello studio e che vogliono solo divertirsi.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

Al contrario, Laurie è vestita in maniera piuttosto distintiva, è molto più contenuta nella sua sessualità ed è anzi da associare al modello materno, in quanto è l’unico personaggio che effettivamente si impegna per gestire i bambini fino alla fine.

Proprio per questo all’inizio a lei spetta il ruolo di vedere – a differenza di tutti gli altri – il mostro in agguato, che si nasconde dietro ad ogni angolo, funzione che poi passerà al piccolo Tommy, la cui voce di allarme verrà costantemente ignorata dagli altri personaggi.

Uccidere il sesso

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

L’avversione per il sesso è costante per tutti gli omicidi.

E si accompagna anche ad una certa lascivia dei corpi: la prima vittima, Annie, è costretta a privarsi degli abiti e a rimanere sostanzialmente nuda in scena per moltissimo tempo, e così viene uccisa mentre si sta dirigendo proprio verso il prossimo appuntamento sessuale.

Ma il parallelismo più evidente è l’uccisione di Lynda, che viene strangolata dal fantasma della sua colpa, proprio mentre si trova senza vestiti a letto ad aspettare il fidanzato dopo che la sua passione è stata soddisfatta, proprio come la sorella di Michael all’inizio del film.

Jamie Lee Curtis in una scena di Halloween (1978) di John Carpenter

E, nonostante Laurie non sia associabile a questo modello, il killer con il primo fendente cerca di renderla una vittima lasciva, proprio strappandole parte della camicia e rivelandone la pelle nuda…

Ma proprio per il suo non aderire a quel tipo di ragazza, la protagonista è l’unica capace di usare la propria inventiva per combattere il mostro, con la sua stessa arma o con tecniche improvvisate, non riuscendo a vincere solamente perché il male non si può veramente mai sconfiggere…

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Back to the future – Il cambiamento positivo

Back to the future (1985) non solo è fra i titoli più apprezzati della filmografia di Robert Zemeckis, ma è soprattutto uno dei più grandi cult di fantascienza della storia del cinema.

Non a caso, al tempo divenne un fenomeno culturale: a fronte di budget medio – 19 milioni di dollari, circa 54 oggi – e incassò 383 milioni di dollari in tutto il mondo (circa un miliardo ad oggi).

Di cosa parla Back to the future?

Marty McFly è un adolescente che viene coinvolto in una particolarissima avventura con il suo amico, lo scienziato pazzo Doc Brown…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Back to the future?

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Back to the future è un cult non per caso: un film con una storia semplice, ma orchestrata perfettamente in tutte le sue parti, con una scrittura e una regia ben calibrate per raccontare le differenze fra le diverse epoche storiche e gli inevitabili parallelismi.

Uno di quei film che, anche a decenni di distanza, lascia facilmente un buon sapore in bocca per il suo ottimo equilibrio fra il dramma e una piacevole comicità, oltre a due protagonisti assolutamente iconici.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il primo inizio

A sorpresa, il dramma familiare in Back to the future è importante quanto il viaggio nel tempo.

L’incipit serve infatti ad inquadrare la famiglia di Marty e il suo carattere, con un utilizzo di rara intelligenza delle didascalie: tramite le parole dei personaggi e le dinamiche in scena, scopriamo anzitutto come il protagonista si senta un emarginato incompreso, dalla scuola e dai suoi parenti.

Così la sua famiglia rappresenta la classica situazione della middle class americana, con l’aggravante di uno zio galeotto e di un padre totalmente sottomesso al suo bullo storico, Biff, e per questo incapace di farsi veramente strada in una vita di successo.

Così ampio spazio è concesso anche alla madre di Marty, che appare fin da subito piuttosto bacchettona e puritana, tanto che il protagonista le nasconde consapevolmente il suo progetto della gita al lago con la fidanzata.

La fantascienza di sottofondo

Christopher Lloyd in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Il dramma familiare si alterna ottimamente con l’elemento fantascientifico.

Lo stesso è introdotto fin dall’inizio, con un Doc che però rimane fuori scena fino alla fine del primo atto, ma che conosciamo già perfettamente dal dialogo al telefono con Marty: un intraprendente scienziato, autore di invenzioni piuttosto bislacche, legato da un forte rapporto col protagonista.

Così quando entra in scena rappresenta in tutto e per tutto il modello di inventore pazzo, che però non cade mai nel ridicolo grazie alla recitazione appassionata e ormai iconica di Christopher Lloyd – che ritornerà a lavorare con Zemeckis anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988).

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Così tutti gli elementi del viaggio del tempo vengono raccontati con precisione e creando anche una piccola tensione iniziale, quando il mistero non è ancora svelato, in modo da far identificare il totalmente l’ignaro Marty con lo spettatore.

Infine, quando l’avventura sta ormai per partire, il protagonista sembra già star per uscire di scena, in maniera talmente credibile che allo spettatore verrebbe anche da chiedersi a cosa è servita tutta la sua introduzione…

…ma proprio per questo l’atto centrale funziona così bene.

Un atto consapevole

Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Tutti gli elementi della parte centrale sono gestiti con particolare consapevolezza.

Appena Marty arriva nel 1955, già ci risuonano nella mente le parole di Doc, in una frase che sul momento sembrava inutilmente nostalgica, ma che invece è fondamentale per l’identificazione dello spettatore: qui intorno prima era tutta campagna.

Allo stesso modo la reazione della famiglia che entra per la prima volta in contatto con il protagonista sembra puramente una gag, ma risulterà invece determinante successivamente, quando il protagonista dovrà convincere il padre ad invitare al ballo scolastico la sua futura moglie.

E, al contempo, la dinamica della scena racconta il sentimento di Marty per tutta la sua permanenza nel passato: lo straniamento.

Allo stesso modo, Back to the future convince particolarmente nel raccontare le incomprensioni di un ragazzo del 1985 in un contesto così anomalo.

A partire dal fatto che viene continuamente scambiato per un marinaio per il suo giubbotto smanicato – tipico della moda degli Anni Ottanta – fino ai vari riferimenti storici – l’elezione futura di Ronald Raegan e gli eventi intorno alla famiglia Kennedy – tutti elementi che contestualizzano perfettamente il panorama di riferimento.

Così, per avvicinare ancora di più il protagonista al padre, particolarmente brillante la scena del loro incontro, in cui si muovono allo stesso modo e si girano contemporaneamente verso Biff quando il bullo chiama il padre di Marty per cognome.

Il teen drama âge

Lea Thompson e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

La parte centrale di Back to the future è dominata dal teen drama.

La pellicola riprende un topos abbastanza tipico, in cui un personaggio cerca di far smuovere un suo compagno un po’ nerd così che riesca a conquistare la ragazza di turno e a diventare più sicuro di sé.

In questo caso ovviamente la situazione è molto più interessante ed avvincente, in quanto non c’è in ballo solamente un rapporto amoroso, ma piuttosto la sopravvivenza stessa del protagonista, e, più in generale, la maturazione del padre.

Lea Thompson e Crispin Glover  in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Infatti, tutti i personaggi compiono un percorso di maturazione.

Anzitutto, il protagonista diventa ben più consapevole di sé stesso e delle proprie potenzialità, riuscendo a superare il suo limite dell’essere mingherlino, tramite l’intraprendenza e l’inventiva, e così tenendo testa ad un bullo minaccioso come Biff.

Ma la maturazione principale, sopratutto a posteriori, è quella del padre, che smette di essere un totale perdente che si fa mettere i piedi in testa, per diventare invece un uomo consapevole e di successo, che riesce a combattere contro le sue paure.

Lorraine McFly

Ma la storia più interessante è quella della madre.

Back to the future riesce ben ad inquadrare la situazione femminile negli Anni Cinquanta: Lorraine vive alternativamente nel sogno della crocerossina e della principessa da salvare, all’interno di un mondo maschile violento e ostile.

Non a caso, anche se non è detto esplicitamente, la madre di Marty è stata sostanzialmente salvata da un tentato stupro da parte di Biff, e così, anche durante il ballo, prima di essere ripresa da George, è un pacco che viene passato di mano in mano.

Tuttavia, anche il suo personaggio ha il suo margine di maturazione: se all’inizio del film la donna era aspramente bigotta, al contrario nella situazione finale scopriamo un personaggio che è riuscito a trarre il meglio dalla sua esperienza adolescenziale, mantenendo una mente aperta e sapendosi prendere cura di sé.

Una nuova occasione

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Parallelamente alla parentesi adolescenziale, la trama fantascientifica è indubbiamente la più iconica.

Il rincontro con Doc pone al suo personaggio un dilemma morale fondamentale, che è in realtà tipico dei racconti del viaggio del tempo: l’importanza di non cambiare il passato, consapevoli dei risultati potenzialmente disastrosi che potrebbe portare al presente.

Per questo, nonostante i vari tentativi di Marty, lo scienziato si ribella all’idea di essere salvato dal protagonista.

Christopher Lloyd e Michael J. Fox in una scena di Back to the future (1985) di Robert Zemeckis

Invece, davanti ad un finale che rischiava di essere assai drammatico, Back to the future sceglie una via diversa.

Infatti, capiamo che il presente deve essere cambiato, perché ne va della sopravvivenza dei personaggi stessi, e, più in generale, della loro maturazione, compresa quella di Doc: l’uomo diventa meno rigido sulle dinamiche del viaggio del tempo e ne accetta le piacevoli conseguenze.

E, anche di più, il suo personaggio da questa esperienza riesce anche a migliorare la sua invenzione, rendendola meno dipendente da un materiale così difficilmente reperibile – il plutonio – e non più una semplice macchina, con tutti i limiti del caso, ma un mezzo che non ha bisogno di strade:

Roads? Where we’re going, we don’t need roads.

Strade? Dove andiamo non ci servono strade.
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The Thing – Il nemico è fra noi.

The Thing (1982) è una delle opere più note della filmografia di John Carpenter, nonché il secondo capitolo della sua proficua collaborazione con Kurt Russell dopo 1997: Fuga da New York (1981).

A fronte di un budget stimato di quindici milioni di dollari – circa 55 oggi – non ebbe un grande riscontro al botteghinoappena 19 milioni negli Stati Uniti – anche per la grande concorrenza di film come E.T. e Blade Runner usciti nello stesso periodo.

Di cosa parla The Thing?

Un gruppo ricercatori statunitensi assiste attonito alla caccia di un elicottero contro un cane apparentemente indifeso. Ma l’orrore è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Thing?

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Assolutamente sì.

The Thing è un classico della filmografia di Carpenter, una delle migliori prove come regista, oltre ad essere un incredibile prodotto nella resa visiva, con un reparto di effettistica che ha fatto la storia del cinema per la sua creatività ed iconicità.

Inoltre, come il precedente Alien (1979), The Thing fu un altro ottimo esempio di come fantascienza e orrore potessero portare ad un connubio vincente se messe nelle mani del giusto autore, con una tensione palpabile ad ogni scena…

Un’ombra

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

L’orrore di The Thing viene da lontano.

I protagonisti e lo spettatore si trovano ugualmente attoniti davanti alla tentata uccisione di quel cane così apparentemente innocuo, e così davanti all’aggressività ingiustificata del norvegese – la cui incomprensibilità della lingua porterà alla sua stessa morte.

Questa dissonanza fra l’amabilità dell’animale e la violenza che gli viene rivolta è un primo indizio della vera natura di questa figura, che si muove liberamente nella base per fin troppo tempo, in particolare nella scena in cui entra nella stanza di Clark, di cui si vede solo l’ombra…

E quando infine viene rinchiuso, assistiamo alla prima esplosione di violenza, in cui tutta la crudezza e l’orrore del mostro vengono rivelati in un essere con un aspetto indefinito, composto da carne viva che si plasma in un puzzle incomprensibile…

Al sicuro?

La progressiva scoperta della vera natura del nemico si accompagna ad un’apparente sicurezza.

I personaggi si trovano davanti ad un orrore che si è già formato, ad una tragedia che si è già svolta, e che rappresenta uno dei migliori esempi di fantascienza negativa del periodo, insieme al già citato Alien – di cui condivide anche alcune dinamiche del primo atto.

Ma l’annientamento apparente della creatura e lo studio della stessa offrono un breve momento di pace e sicurezza…

…prima dell’inizio del vero orrore: scoprire che la creatura è molto più viva di quanto sembri, pronta ad attaccare, e la portata del pericolo per l’umanità stessa è la miccia per un’esplosione di violenza che percorrerà tutto il resto della pellicola.

Gatto e topo

Da questo momento in poi è una caccia al gatto e al topo.

La tensione è scandita da un’inquietudine più sotterranea, per cui il pericolo è sempre dietro l’angolo, per cui quel volto amico può essere solo una maschera che cela una realtà mostruosa, pronta a rivelarsi in qualsiasi momento, e senza preavviso…

Infatti, tutti i momenti in cui i personaggi cercano di gestire lucidamente la situazione non sono che i prologhi di scoppi di violenza incontrollabile: così l’esame del sangue che svela il traditore, così il tentativo di rianimare Norris, il cui petto si apre in una bocca mostruosa…

E, in ultimo, la soluzione è solo una.

Una sola strada

Kurt Russell in una scena di The Thing (1982), di John Carpenter

Nel finale, sia il nemico che i protagonisti possono solo uscire di scena.

Il mostro si rende conto che la lotta non può avere né vincitori né vinti, che non è possibile salvarsi davanti ad un gruppo di antagonisti così scatenati e che non si fermano davanti a nulla, e che non gli permetteranno mai di uscire vivo da questa situazione…

…ed infatti gli stessi capiscono che salvarsi è diventato di fatto impossibile, e che l’unica via è immolarsi per il salvataggio degli altri, dell’umanità tutta, quindi di utilizzare tutte le armi a disposizione, anche le più distruttive, per mettere fine alla terribile minaccia.

Di particolare eleganza il finale, in cui gli unici due superstiti si spartiscono una bottiglia di alcol, ormai del tutto provati dalla battaglia, ridendo con un’ironia amara che maschera l’angosciosa consapevolezza di star morendo senza aver la certezza della vittoria.

Perché The Thing

The Thing rappresenta una tendenza piuttosto ingegnosa della fantascienza e dell’horror del periodo:

Non dare un nome agli antagonisti.

Nello specifico la creatura di Carpenter si incasella fra l’alieno senza nome di Alien e l’iconico villain di Stephen King, It: come il diabolico pagliaccio è chiamato semplicemente con un pronome neutro, così il mostro di The Thing è chiamato appunto thing, cosa

In tutti e tre i casi infatti i protagonisti positivi sono degli eroi comuni – e per questo molto vicini allo spettatore – che si ritrovano a combattere contro qualcosa di indefinito ed indefinibile

…e che, con questi non-nomi, raccontano l’immediatezza dell’identificazione del nemico: qualcosa a cui non sanno dare un nome.

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1997: Fuga da New York – L’eroe anarchico

1997: Fuga da New York (1981) è una delle opere più note della filmografia di Carpenter, nonché l’inizio del sodalizio artistico con Kurt Russell.

Con un budget veramente miserevole – appena 6 milioni di dollari, circa 22 oggi – fu un discreto successo al botteghino, con un incasso di 25 milioni (circa 93 oggi).

Di cosa parla 1997: Fuga da New York?

1997, New York. Ormai da dieci anni l’isola di Manhattan è diventata una prigione da cui è impossibile scappare, autogestita dai prigionieri stessi. E se qualcuno di importante ci finisse dentro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1997: Fuga da New York?

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Assolutamente sì.

1997: Fuga da New York è un classico della filmografia carpenteriana, in cui il cineasta statunitense predilige una fantascienza urbana e dark, ma che non manca neanche di tinte orrorifiche tipiche della sua filmografia, soprattutto nel suo precedente cult Halloween (1978).

A fronte di un budget veramente ridotto, Carpenter fu in grado di produrre un cult che sarà ricordato nei decenni a venire, grazie alle sue incredibili capacità di messinscena e di uso della fotografia.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Carne da macello

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Snake Plissken – Iena in italiano – è un eroe imperscrutabile.

Inizialmente membro di spicco dell’apparato militare statunitense, questo misterioso personaggio ha deciso di punto in bianco di mordere la stessa mano che gli dava da mangiare, diventando un pericoloso criminale.

L’efficacia del protagonista deriva anche dall’ottima performance di Kurt Russell, che lavora totalmente di recitazione corporea, muovendosi con decisione all’interno degli spazi del film e godendo di una presenza scenica che da sola racconta il personaggio.

Snake è infatti un criminale senza scrupoli, che può essere riutilizzato come carne da macello nella missione suicida per salvare il Presidente, tanto più che, in caso di fallimento, si avrà una scusa per portarlo definitivamente fuori scena.

Chi vince, insomma, è sempre quell’opprimente governo

Atmosfere

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Con 1997: Fuga da New York Carpenter ha utilizzato il poco che aveva per caricare la scena di atmosfere quasi orrorifiche.

Per la prima parte del film infatti gli spazi sono terribilmente vuoti, e, proprio per questo, fanno molta più paura: le minacce si muovono come spettri, ombre che scivolano sui palazzi in rovina, che strisciano fuori dai tombini, pronti a saltarti addosso…

Così, sfruttando le diverse location notturne, la regia riesce a raccontare un piccolo mondo che mostra i danni dell’anarchia che lo domina, sfruttando le diverse luci diegetiche per offrire al suo protagonista anche una maggiore drammaticità scenica.

Un viaggio impossibile

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Infatti, Snake si immerge in un mondo totalmente sconosciuto.

Il protagonista non conosce né le dinamiche né le regole di questo luogo estremamente sinistro, e per questo si muove alla cieca, riuscendo subito e solo apparentemente a concludere la missione per come era stata inizialmente concepita.

Ma l’unica guida a disposizione è stata distrutta.

Kurt Russel e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

E così Snake deve risalire la scala gerarchica per arrivare fino al Duca, dovendo passare per i suoi sottoposti – Caddie e poi Brain – che cercano a loro volta di assicurarsi la favolosa carta dell’Esci gratis di prigione.

Ma se nella sua scalata Snake sembrava imbattibile, riuscendo a farsi strada nella folla inferocita e derubando il Duca di una delle sue macchine, non può fare a meno di soccombere sotto i colpi degli scagnozzi dello stesso.

Così si trova finalmente davanti al temibile signore della guerra di New York, di cui diventa sostanzialmente il giullare, coinvolto in una lotta all’ultimo sangue per il personale ludibrio del Duca e della sua corte.

Dall’alto del mio muro

Isaac Hayes e Harry Dean Stanton in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

La lotta per il salvataggio del presidente rappresenta la classica dinamica in cui i personaggi secondari cadono come mosche, così che il protagonista risulti come unico vincitore.

Ma c’è di più.

La sequenza è un’occasione anche per mostrare il vero carattere dei personaggi, anche i più secondari come Maggie, che sono pronti persino a sacrificare la propria vita per dei principi imprescindibili – l’onore e la vendetta – capaci per questi anche di lottare a mani nude…

…a differenza del Presidente degli Stati Uniti, che da solo rappresenta la mediocrità della classe dirigente, incapace di gestire il picco di criminalità, trattando i carcerati come bestie da abbandonare a sé stesse, da mettere l’una contro l’altra…

E per questo Snake lo mette alla prova.

Ribellione

Kurt Russel in una scena di 1997: Fuga da New York (1981) di John Carpenter

Come lo spettatore, anche il protagonista arriva al finale con la consapevolezza della vera natura del Presidente e di tutto il suo entourage.

Ma Snake offre all’uomo un’ultima possibilità di redenzione, chiedendogli il conto per tutte le vite sacrificate per salvare la sua persona, o anche solo un senso di umana comprensione e perdono.

Ma il Presidente, lo stesso che non è stato capace di affrontare il Duca ad armi pari, crivellandolo di colpi dalla posizione sicura del muro di cinta, mette da parte con noncuranza questo pensiero, considerando anzi la morte di quegli individui come dovuta.

Per questo Snake, ormai liberatosi dalle catene, sceglie di rivoltarsi tacitamente contro il Governo, anzi arrivando ad umiliarlo, scambiando le importanti informazioni militari della cassetta con una musica da sala d’attesa…

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Juno – Il fallimento della comunità

Juno (2007) di Jason Reitman è uno dei più importanti cult adolescenziali dei primi Anni Duemila, che fra l’altro lanciò Elliot Page come attore.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 6.5 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 232 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Juno?

Juno è una ragazzina di 16 anni che si trova davanti ad un problema molto più grande di lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Juno?

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dipende.

Juno è un film che terrei il più possibile lontano da bambini e adolescenti: è difficile quantificare quanto questo prodotto sia diseducativo e totalmente fuori dal tempo – anche se rappresentativo di aree politiche ancora molto reali…

Se siete abbastanza grandi da guardarlo con un occhio critico e volete immergervi in un prodotto che è la rappresentazione di tutto quello che c’era – e c’è tutt’ora – di sbagliato nella concezione del corpo femminile, sarà una bella avventura…

Una ragazza diversa

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Juno è una ragazza diversa.

Questo concetto viene riproposto in innumerevoli momenti del film, sia in senso positivo che negativo, ma andando a rincorrere un ideale incredibilmente popolare nei teen movie del periodo: dividere le donne in figure di serie A e di serie B.

Solitamente la protagonista femminile in questo tipo di prodotti viene premiata proprio per la sua diversità dal resto delle ragazze così superficiali, insipide e che inseguono le mode del momento, oltre ad essere molto spesso fin troppo sessualmente attive – per non dire altro…

La protagonista e il film stesso si nutrono profondamente di questo ideale, andando anzi ad elevare ancora di più il suo personaggio così tanto altruista e che, secondo la morale della pellicola, ha fatto la scelta che nessuna ragazza avrebbe fatto – e quella più giusta.

Il sesso meccanico

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ancora più problematica è la rappresentazione del sesso.

Per quanto Juno dica che l’intercorso con Becker sia stato fantastico, la scena e i personaggi raccontano invece tutt’altro: la messinscena è nient’altro che la rappresentazione del sogno erotico maschile, della ragazza pronta a soddisfarlo, senza aver avuto bisogno di alcun preliminare…

… e non è un caso che si mostri il piacere di Becker, ma mai quello di Juno.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ma il racconto del sesso da parte degli adulti è anche peggiore.

Nello specifico, Brenda spiega come gli adolescenti facciano sesso perché si annoiano, tenendo nello specifico a sottolineare che il rapporto con Becker è stata un’idea di Juno: una ragazza che va quindi colpevolizzata, e che deve portare fino alla fine i risultati della sua colpa, per riuscire a trarne qualcosa di buono.

La comunità ostile

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La radice del problema va ricercata negli adulti, e in generale in tutta la comunità di cui Juno fa parte.

Anzitutto, è particolarmente problematica la rappresentazione di Woman Now, che dovrebbe essere un luogo che, come dice la stessa Juno, aiuta le donne, ma che invece nella realtà del film, le umilia, come ben raccontato dal modo in cui la ragazza al welcome desk si rivolge a Juno:

We need to know about every score and every sore

Devi metterci ogni scopata e malattia beccata.
Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Questo scambio ha, di fatto, due principali obbiettivi: anzitutto, raccontare questi luoghi come dei covi di donne con una sessualità esplosiva e quindi condannabile, financo disgustosa – in questo senso, lo scambio sui preservativi è tutto un programma.

Oltre a questo, questi luoghi, che dovrebbero appunto aiutare le donne, in realtà non sono per nulla accoglienti, anzi, sono degli spazi ostili, dove le donne dovranno far presente di tutta la loro vergognosa vita sessuale.

Al contrario, Brenda e soprattutto Vanessa sono figure materne e accoglienti, capaci di chiudere un occhio sulla cattiva condotta della protagonista, premiandola proprio per il suo essere così altruista nel portare avanti questo miracolo divino.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La ciliegina sulla torta è Su-chin, la ragazza che Juno incontra davanti a Woman Now, che si fa portatrice di una retorica propria dei movimenti antiabortisti: i bambini che le donne abortiscono soffrono, e sono già molto più formati di quanto si creda.

Non penso di dover spiegare quanto queste argomentazioni siano deliranti, nonchè puro terrorismo psicologico.

Ma Juno è ancora più un fallimento della sua comunità perché la stessa non è stata in grado di fornirle un’adeguata educazione sessuale, che le permettesse in primo luogo di non vivere l’esperienza sessuale come un’alternativa alla noia, e che le insegnasse in particolare il misterioso concetto di sesso protetto.

Un figlio a tutti i costi

La rappresentazione del rapporto fra Vanessa e Mark è terrificante su più livelli.

Anzitutto per Mark, che non solo si mostra totalmente indifferente per tutta la dinamica della nuova famiglia, ma al contempo è anche un adulto incapace di crescere e maturare, del tutto ancorato all’immaginario adolescenziale.

Ovviamente l’elemento peggiore è come uomo di quasi quarant’anni intraprenda una relazione con una sedicenne, evidentemente cercando di essergli molto più che un amico, anzi sottintendendo di voler lasciare Vanessa per intraprendere un rapporto con lei…

Ma neanche Vanessa è molto meglio.

Ovviamente per il film il suo personaggio è quasi una donna angelica, il cui unico obbiettivo è diventare madre – non a caso, non sappiamo se abbia un lavoro e quale sia – e che celebra e santifica la gravidanza e la maternità come esperienze a prescindere splendide e imperdibili.

Ma se guardiamo più cinicamente il suo personaggio, sotto quest’aurea mariana intravediamo una maniaca del controllo, che si è costruita un matrimonio su misura, con un compagno che evidentemente – e anche legittimamente – ha altri interessi nella vita oltre all’essere un padre.

L’unica speranza è che sia una migliore come madre che come una compagna…

La gravidanza idilliaca

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dei genitori giudiziosi avrebbero accompagnato la figlia verso la scelta più giusta per la sua età, e soprattutto per il suo reale desiderio.

Infatti, è veramente grottesco quanto Juno insista sul fatto di quanto non voglia quel figlio: non quindi una donna effettivamente altruista, ma piuttosto un’adolescente che anche comprensibilmente – vuole togliersi un peso.

Ma, di fatto, Juno è il sogno di ogni antiabortista.

Un discorso che viene spesso proposto per dissuadere le ragazzine ad abortire è l’idea di tenere il bambino e darlo in adozione – esattamente quello che succede nel film – del tutto ignorando cosa significa per una donna – soprattutto una giovane donna – affrontare una gravidanza.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

E infatti nel film fondamentalmente non vediamo mai alcun problema fisico o psicologico che la protagonista deve affrontare, ma al più i suoi turbamenti legati al rapporto tossico dei genitori adottivi, e a come Juno sia una martire a portare avanti la gravidanza, nonostante tutti le parlino dietro…

…elemento che, nei fatti, non viene mai mostrato.

Ed è tanto più semplice raccontare come Juno si disinteressi totalmente del bambino nato, lasciandole alle amorevoli cure di Vanessa, con una dinamica che sfiora la depressione post-partum, ma che viene portata in scena come una conclusione ideale.

Infatti, l’amore e la vita hanno trionfato.