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Killers of the flower moon – La strage silenziosa

Killers of the flower moon (2023) è l’ultima fatica di Martin Scorsese, autore arrivato a ormai più di cinquant’anni di carriera, ma ancora capace di sorprendere.

Il film è stato un enorme insuccesso commerciale: a fronte di un budget di ben 200 milioni di dollari, ne ha incassati appena 156 in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Killers of the flower moon (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista

Migliore attrice protagonista a Lily Gladstone Miglior attore non protagonista a Robert De Niro
Miglior fotografia
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore scenografia
Migliore colonna sonora
Miglior canzone

Di cosa parla Killers of the flower moon?

Anni Venti, Oklahoma. I membri della Nazione Osage scoprono un ricco giacimento di petrolio che li renderà ricchi. Ma non sono gli unici a metterci gli occhi sopra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Killers of the flower moon?

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Sì, ma…

Killers of the flower moon non è un film che si potrebbe definire scorrevole – né vuole esserlo: Scorsese torna al cinema con un film impegnato e pregno di significato, difficilmente apprezzabile se non ci si lascia travolgere dalla narrativa del film.

In un certo senso il regista statunitense scommette con lo spettatore, proponendogli un tipo di prodotto a cui non è abituato, con ritmi lenti e cadenzati, che vanno di pari passo con una regia molto curata ed una storia che necessita di un certo tipo di andamento per essere raccontata…

Siete pronti ad accettare la sua scommessa?

La baraonda, la calma

Dopo un breve prologo che racconta i sentimenti contrastanti degli Osage – l’euforia della ricchezza scoperta e la mestizia per il loro futuro incerto – l’arrivo di Ernest in scena mostra in poche sequenze la natura del mondo in cui è approdato.

Una realtà caotica, in cui domina una violenza senza significato, in cui due popoli si sono mischiati e sembrano in totale sintonia, almeno all’apparenza…

Poi, improvvisamente, la calma.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Il trasferimento nella più pacifica residenza di William Hale ci illude di essere sfuggiti alla baraonda, e così il pacato colloquio fra il patriarca e il protagonista: lo scambio appare con il più classico dei dialoghi fra il nonno e il nipote, che aggiorna il suo vecchio sull’andamento della sua vita.

Sulle prime ci lasciamo ingannare dalle parole di Bill, dal suo raccontarsi come amico degli indiani, del tutto fuori dalle dinamiche di guadagno e di potere che coinvolgono gli altri bianchi della città, invece unicamente interessato all’idea che il nipote si sistemi con una bella ragazza locale.

Ma la realtà è ben diversa.

La via obbligata

Lily Gladstone e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

L’amore fra Mollie e Ernest sulle prime sembra genuino.

Il giovane uomo corteggia la donna che appare – anche comprensibilmente – molto restia a dargli confidenza, pienamente consapevole di come i bianchi stiano eliminando il suo popolo nelle retrovie, uno dietro l’altro…

Tuttavia, dal momento che la sua famiglia al tempo non è stata ancora toccata, infine Mollie si decide a sposare l’uomo.

Lily Gladstone in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma ci troviamo sulla soglia della tragedia.

In questo senso, da notare come Zio Bill si rivolge alla prima vittima dell’ancora non svelato piano di eliminazione sistematica.

La donna appare sofferente, provata, e l’uomo la sovrasta con tutta la sua statura e in maniera estremamente opprimente, rincuorandola su come potrà prendersi cura di lei e darle tutte le medicine di cui ha bisogno per farla stare meglio, quando è lui stesso ad essere il mandante della sua angosciante dipartita.

Una tragedia giustificata

Rovert De Niro in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Nel secondo atto, Bill rivela finalmente sua natura.

Il suo personaggio è indubbiamente il più significativo per il concetto fondamentale del film: al contrario di quei selvaggi violenti autori della strage di Tulsa, il caro zio è invece una figura accogliente, che voleva solamente fare in modo che le due famiglie si unissero pacificamente.

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

…rivelando in realtà una sorta di razzismo benevolo: per quanto Bill possa aiutarli, gli indiani rimangono comunque una razza inferiore, che viene facilmente stroncata da diverse malattie – anzitutto il diabete – per il naturale svolgersi degli eventi.

E allora è meglio salvare quello che si può salvare…

Una convinzione che il suo personaggio mantiene fino all’ultimo…

Il non colpevole.

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è anche peggiore.

L’uomo si mostra fin da subito come un personaggio piuttosto ingenuo, la preda perfetta per le maligne bugie di Bill, pronto a farsi sottomettere e punire come un bambino a sculacciate, per non aver saputo tenere una mano ferma nel controllare la sua famiglia.

Ed infatti la sua mano è sempre incerta quando comincia a somministrare quella miracolosa medicina alla moglie, soprattutto quando deve sottoporle il siero letale, talmente combattuto con sé stesso da berne pure un bicchiere, come se questo potesse liberarlo dai suoi peccati…

Per questo, ad indagine avviata, Ernest diventa un burattino nelle mani delle due parti, convincendosi infine a mordere la mano del suo padrone, vedendo in questo gesto una possibilità per potersi redimere dalle proprie colpe, di potersi ricongiungersi pacificamente con la moglie e la sua famiglia.

L’ultimo degli Osage

Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Quando sposa Ernest, Mollie si fida ciecamente.

Non a caso davanti alle continue morti della sua famiglia, fino all’ultimo si fida del marito, si fida a lasciare solamente a lui la gestione delle sue medicine, e fino all’ultimo non ha il minimo dubbio che i colpevoli siano da ricercare altrove, tanto che, ormai distrutta dal veleno, mentre viene portata via, chiede dove si trovi Ernest…

E così, dopo essersi ripresa nella mente e nel corpo, sceglie di dare al marito la possibilità di ricominciare, raccontargli prima un sogno in cui congiuntamente si lasciano alle spalle le colpe, ricominciando così a camminare insieme, per poi metterlo davanti alla domanda fondamentale:

Cosa c’era veramente in quella medicina?

Leonardo Di Caprio in una scena di Killers of the flower moon (2023) di Martin Scorsese

Ma Ernest è incapace di prendersi le sue responsabilità, ormai sentendosi rassicurato nell’idea di aver aiutato la giustizia e di aver trasferito i suoi peccati sul capro espiatorio di turno, rimanendo così indenne dalle condanne, soprattutto agli occhi della moglie.

Invece così Mollie capisce che non potrà più fidarsi del marito.

Ma il suo non è un finale positivo.

Fuori scena scopriamo che la donna è morta comunque piuttosto giovane, distrutta da una malattia che i bianchi salvatori non hanno saputo curare, dopo essere stata al centro di una tragedia che una giustizia tardiva e approssimativa non è stata capace di salvare dalla dimenticanza di una storia scritta da vincitori.

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David Fincher Drammatico Film Thriller True Crime

Zodiac – Il caso infinito

Zodiac (2007) di David Fincher fu il film con cui il regista tornò al genere del thriller puro, prendendo in parte le mosse da Seven (1997), pellicola per cui si era ispirato proprio al caso del Killer dello Zodiaco.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso (65 milioni di dollari), incassò piuttosto poco: appena 84 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Zodiac?

Davanti al caso di uno dei più enigmatici e spietati serial killer della storia statunitense, il timido disegnatore Robert Graysmith cerca di far luce dove la polizia brancola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zodiac?

Jake Gyllenhaal e Robert Downey Jr. in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

In generale, sì.

Non vedevo questo film da anni, nonostante ne avessi un buonissimo ricordo. E non mi sono di certo annoiata, però devo ammettere che, se non ci si sente coinvolti con la storia e, più in generale, se non si ha un minimo di interesse per il true crime, ci si potrebbe perdere facilmente nei dialoghi verbosi ed incredibilmente dettagliati dei personaggi.

Infatti, Zodiac non vuole essere un film semplice, che adatti la complessità del caso del Killer dello Zodiaco in modo che sia digeribile anche per il pubblico non esperto. Anzi, tutto il contrario: il film va estremamente nei particolari e sceglie un taglio verosimile e realistico, con pochi momenti di vera tensione.

Insomma, se con questa descrizione vi siete già annoiati, non ve lo consiglio.

Un killer banale

La particolarità del Killer dello Zodiaco fu il mito che si creò intorno ai suoi omicidi.

E fu tanto più peculiare tanto che il suo modus operandi non aveva niente di particolare o interessante, ma molto spesso si trattava semplicemente di uccisioni a sangue freddo. Insomma, se lo paragoniamo ad altri protagonisti della golden era dei serial killer statunitensi – Jeffrey Dahmer, per dirne uno – Zodiac appare decisamente il più banale.

Infatti, l’interesse intorno al suo caso nacque per due motivi: l’apparente impossibilità di catturarlo e il mito che lui stesso si costruì.

Zodiac mostra molto chiaramente la difficoltà, financo l’impossibilità, di identificare il vero colpevole nel marasma di prove e piste puramente indiziarie, che porta tutt’oggi questo caso ad essere ancora aperto.

Al contempo, fu il killer stesso – o chi per lui – ad alimentare il suo stesso mito, attraverso lettere deliranti ed enigmatiche – che in realtà non lo erano poi così tanto…

La complessità intrinseca

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Zodiac sceglie consapevolmente di essere complesso.

Come pubblico siamo abituati a thriller con un andamento tutto sommato lineare e complessivamente comprensibile – persino Seven, da un certo punto di vista – in cui noi stessi possiamo unire tutti gli indizi del caso ed arrivare soddisfacentemente alla rivelazione del killer.

Nel caso Zodiac non vi è nulla di semplice: dal momento che le prove sono pochissime ed indiziare, il caposaldo del caso sono le lettere stesse del colpevole, attraverso le quali si è cercato di identificarlo. Tuttavia, lo stesso metodo ha portato all’esclusione di sospettati piuttosto promettenti…

Tanto più complesso quanto la valutazione della grafia delle lettere non sembrava al tempo seguire una linea così precisa e netta, e si ipotizzava anche la possibilità che il killer avesse mutato appositamente la sua grafia…

L’ossessione dello spettatore

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Nel terzo atto, quando il caso sembra arrivato ormai ad un vicolo cieco, il film incalza la tensione e mette quasi del tutto al centro della scena Robert. E così lo spettatore segue la sua folle, impossibile impresa di smascherare Zodiac.

Ed è tanto più impossibile tanto più avvincente.

Infatti, anche se lo spettatore è consapevole che il caso non ha una conclusione, nondimeno può essere facilmente travolto dalla ricerca del protagonista, che si barcamena fra brandelli di prove, possibili collegamenti, ma mai niente di veramente concreto e definitivo…

Effettivamente le prove erano così indiziarie, i riscontri così dubbi – senza contare quel pizzico di sfortuna che ha definitivamente troncato il caso quando sembrava alla svolta – che il film assume un sapore quasi estenuante, ma non di meno coinvolgente, nella sua chiusura.

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Accadde quella notte... Drammatico Film Giallo Notte degli Oscar True Crime

Il caso Spotlight – Serve un villaggio per…

Il caso Spotlight (2015) di Tom McCarthy è un film che racconta l’inchiesta giornalistica che coinvolse il gruppo giornalistico Spotlight del The Boston Globe, riguardo al famoso caso di pedofilia e omertà nella Chiesa Cattolica.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 20 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: quasi 100 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il caso Spotlight?

2001, Boston. Il gruppo di giornalisti d’inchiesta Spotlight si trova improvvisamente coinvolto in un caso di proporzioni inizialmente inimmaginabili: omertà e insabbiamento di tantissimi casi di pedofilia, e non solo a Boston…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il caso Spotlight?

In generale, sì.

Nonostante non abbia un grande valore artistico né una regia così interessante – e c’è un motivo per cui lo dico – Il caso spotlight è un film davvero avvincente e che riesce ottimamente nel suo lavoro: raccontare un caso con una tematica molto delicata come la pedofilia, riuscendo al contempo a non scadere nel facile dramma e pietismo.

Con, fra l’altro, un cast d’eccezione.

Raccontare il contesto

If it takes a village to raise a child, it takes a village to abuse one.

Se ci vuole un villaggio per crescere un bambino, ce ne vuole anche uno a molestarlo.

Per raccontare la storia de Il caso Spotlight, era fondamentale riuscire a raccontare il contesto.

Avendo in mente film dalla tematica simile, come Bombshell (2019) o il recente She said (2022), questo è a mio parere uno dei prodotti che meglio riesce ad immergere lo spettatore nell’ambiente raccontato.

Infatti, il film ben ci racconta come la problematica non fosse tanto l’omertà, quanto la presenza pressante e onnipresente della Chiesa Cattolica. Questo elemento viene esplicato in vari punti, in particolare nelle battute iniziali, quando Mary Barton, il nuovo direttore, viene invitato ad un colloquio privato con l’Arcivescovo Law.

E già in quel caso l’ambiente parla da sé: l’ufficio è ricco e quasi barocco, Law vi torreggia come un sovrano che si permette di offrire il suo aiuto al giornale, chiudendo l’incontro con un omaggio, che ben racconta le intenzioni del personaggio.

Altrettanto esplicative sono le varie interazioni con i diversi avvocati: tutti raccontano una realtà blindata e inaccessibile, in cui i colpevoli riescono a nascondersi nelle pieghe di un sistema corrotto e che fa leva sul potere inattaccabile della Chiesa.

E in cui un po’ tutti gli attori in scena sono colpevoli.

Non feticizzare

Un classico scivolone in questo tipo di racconti è il cadere nel facile dramma, mettendo esplicitamente in scena i crimini, sopratutto quelli più disturbanti.

Bombshell (2019) è esplicativo in questo senso.

In questo caso sarebbe stato semplicissimo, prendendo le dovute misure, inserire flashback che raccontassero gli abusi subiti dalle vittime. Invece, per la maggior parte, si mettono in scena personaggi già adulti che vogliono raccontare la loro storia, mentre i numerosi colpevoli non si vedono quasi per nulla.

Ma non per questo il film è meno coinvolgente.

Un’altra tensione

Il focus della tensione è tutto sui protagonisti dell’inchiesta.

Lo spettatore è fin da subito coinvolto nel mistero, che tocca una tematica indiscutibilmente delicata e disturbante, anche solo a parole. E per questo viene facilmente da fare il tifo per gli eroi e la loro strenua lotta contro un’istituzione apparentemente inattaccabile.

Al contempo, la tensione è ben distribuita all’interno della pellicola, mentre i protagonisti svelano poco a poco – a se stessi e allo spettatore – l’ampiezza del caso che hanno fra le mani e da cui, alla fine, escono vittoriosi.

Con punte drammatiche – e soddisfacenti – come la scena in cui Matty sbatte il giornale sull’uscio del prete pedofilo vicino di casa, o quando Peter, l’avvocato amico di Walter, cerchia tutti i nomi della lista di presunti pedofili.

Uno studio certosino

Avete notato che molto dei personaggi in scena hanno una loro particolarità che li rende unici e facilmente riconoscibili?

Questo perché la maggior parte degli attori protagonisti si sono premurati di venire – ed essere durante le riprese – in contatto diretto con le persone reali che stavano portando in scena.

In particolare Michael Keaton scoprì casualmente che il vero Walter Robinson abitava vicino a casa tua e lo andò a trovare. Lo stesso dichiarò, dopo aver visto il film:

Guardare Michael Keaton è stato come guardare in uno specchio, senza avere il controllo dell’immagine speculare.

Mark Ruffalo, che nella pellicola interpreta Michael Rezendes, si spinse anche oltre: non solo prese contatti con la persona reale, ma gli faceva anche leggere le battute prima di recitarle. E infatti Rezendes dichiarò:

Vedere Mark Ruffalo rimettere in scena cinque mesi della mia vita è stato come guardare in uno specchio.

Il caso Spotlight meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2016 sono ricordati principalmente per la vittoria di Leonardo di Caprio come Miglior attore per The Revenant (2015), dopo tantissime candidature andate in fumo.

Ma, più in generale, fu un’annata abbastanza particolare: nonostante Il caso Spotlight vinse Miglior film, non fu quello con maggiori nomination e neanche con le maggiori vittorie. Il grande vincitore della serata fu infatti Mad Max: Fury Road (2015) – che venne candidato a dieci statuette e ne vinse quattro – seguito da The Revenant – con dodici candidature e tre vittorie.

In effetti la pellicola vincitrice di Miglior film fu piuttosto anomala, più che altro perché, a differenza delle altre due sopra nominate, non ha grandi meriti artistici né grande profondità, nonostante sia comunque ben scritta e di grande coinvolgimento.

Infatti penso che vinse principalmente per la tematica trattata.

Non dico che non meritasse di vincere, ma, valutando da un punto di vista più oggettivo possibile, penso che meritasse di gran lunga la vittoria The Revenant – nonostante sia un film che mi annoia profondamente.

Invece, per il mio gusto personale, avrei fatto vincere quella meraviglia di Mad Max: Fury Road.

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American Animals – L’insoddisfazione rapace

American Animals (2018) di Bart Layton è un heist movie di rara bellezza, capace di sperimentare con il formato del documentario in maniera assolutamente originale e sperimentale. È difficile spiegare questo film a chi non l’ha mai visto: basti sapere che non è ispirato ad una storia vera, ma, come il film stesso spiega fin dall’inizio, è effettivamente una storia vera.

Le notizie sul budget non sono sicure, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 3 milioni di dollari, con un incasso di 4 milioni in tutto il mondo: un incasso piuttosto misero, per un film di grande valore.

Di cosa parla American Animals?

Spencer e Warren sono due studenti universitari annoiati dalla vita, totalmente insoddisfatti del percorso che sembra già stato scelto per loro. Per questo decidono di intraprendere una apparentemente semplicissima rapina…

Vi metto qua il trailer, ma personalmente vi sconsiglio di guardarlo: un caso da manuale di come banalizzare drammaticamente un prodotto, cercando di collegarlo ad un film di maggior successo.

Infatti nella pellicola si cita brevemente Le iene (1992) di Quentin Tarantino, e il trailer italiano gira tutto intorno a questo, quando di fatto è una citazione che, se decontestualizzata come in questo caso, mostra un taglio narrativo che il film di fatto non possiede.

Perché guardare American Animals?

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Come anticipato, American Animals è un prodotto incredibilmente sperimentale. All’interno del film ci sono le interviste dei protagonisti reali della rapina raccontata, che interagiscono anche direttamente con gli attori in scena. Quindi la storia raccontata è totalmente genuina e corrispondente agli eventi reali.

Non dovete però immaginarvi un mockumentary: il documentario è reale e ottimamente integrato all’interno della pellicola, ma non finge di essere quello che non è. Ma, per capire di cosa sto parlando, dovete guardarlo voi stessi.

È un film che mi sentirei di consigliare abbastanza a tutti: se siete appassionati di heist movie, sopratutto quelli più interessanti e di concetto come Logan’s Lucky (2017), non potete veramente perdetevelo.

Perché i manoscritti sono così importanti in American Animals?

Ci tengo a spendere due parole riguardo all’importanza e alla preziosità dei manoscritti, perchè potrebbe apparire strana a chi non è del settore.

Anzitutto, certi manoscritti sono considerati effettivamente delle opere d’arte: i cosiddetti volumi illuminati sono impreziositi da miniature, di fatto piccoli dipinti di anche di grande valore, fatti per esempio con la foglia d’oro. Non a caso facevano (e fanno) parte delle collezioni di re e regine.

Inoltre, i manoscritti, anche senza essere belli, possono avere un valore storico incalcolabile: semplificando molto, più un volume si avvicina temporalmente ed a livello di fedeltà al testo originale dell’opera, più è prezioso. E, soprattutto nel caso dei testi a stampa, le prime edizioni hanno un valore altissimo fra studiosi, ma anche e soprattutto collezionisti.

E il mercato nero di questi manoscritti è più prolifico di quanto si possa pensare…

Raccontare una storia vera

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

L’incontro fra la forma del documentario e film in senso stretto è fondamentalmente perfetta: oltre ad una messa in scena della parte documentaristica che si vede essere passata nelle mani di un autore capace, il montaggio è magistrale.

La fluidità con cui si passa da una scena all’altra, con un montaggio dinamico e che riesce perfettamente a coniugare le parole delle persone reali della vicenda con gli attori in scena. E la macchina da che riesce veramente a cogliere l’essenza del loro racconto, lasciando che i protagonisti si raccontassero, per riportare visivamente le loro parole sullo schermo.

La scelta degli attori

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il casting degli attori è davvero ottimo: tutti gli interpreti sono scelti e diretti con grande cura, riuscendo oltre ad assomigliare moltissimo alle persone reali, ad essere le loro perfette controparti in scena.

In particolare è stato veramente interessante vedere in scena due attori di grande valore, ma che abbiamo cominciato a conoscere davvero solo recentemente. Anzitutto Evan Peters, che è noto principalmente al grande pubblico per il suo ruolo di Quicksilver negli ultimi due film degli X-Men e come Fietro (Fake Pietro, in riferimento al casting finto di Piero Maximoff) in Wandavision. In realtà ha fatto molto altro, anzitutto vincendo recentemente l’Emmy per l’acclamata serie Omicidio ad Easttown.

E come non parlare di Barry Keoghan, interprete con un volto e un’espressività tutta sua, che lavorato in film molto di nicchia come Il sacrificio del cervo sacro (2017) e che recentemente si è affacciato al grande pubblico con Eternals (2021). Ma probabilmente lo ricorderete soprattutto per il poco che l’abbiamo visto come Joker in The Batman (2022).

L’insoddisfazione rapace

Barry Keoghan in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

American Animals si propone anche di esplorare le motivazioni dietro ai protagonisti, che sembrano del tutto essere ricondotti ad una insofferenza e insoddisfazione rapace. La stessa insoddisfazione che sembra divorarli dentro, rinchiusi in una vita già definitiva senza aver fatto nulla di interessante.

Per certi versi mi ha ricordato Bling Ring (2013), anche se in questo caso la motivazione è molto più profonda. I protagonisti si immaginavano al centro di una vicenda avventurosa e avvincente, che gli cambierà la vita e che ricorderanno per sempre. E che sarà di fatto senza conseguenze.

Ma la realtà si rivela molto diversa.

Il punto di rottura

Evan Peters in una scena di American Animals (2018) di Bart Layton

Il punto di rottura gira tutto intorno alla figura della bibliotecaria.

La donna è infatti l’incognita del piano che nessuno, nemmeno Warren, vuole davvero affrontare. Nel suo racconto del piano la questione sembra molto semplice: la donna gli sviene semplicemente fra le braccia.

Ma quando invece deve molto maldestramente colpirla e legarla, quando la donna piange e addirittura si urina addosso, allora tutto crolla. Se notate prima di quel momento i personaggi sono abbastanza contenuti, anzi decisamente scherzosi nei loro rapporti.

Invece, da quel momento in poi la situazione precipita, e tutte le tensioni sotterranee esplodono, arrivando fino al punto in cui Chas li punta una pistola addosso, Eric fa a botte per un nonnulla, Warren ruba stupidamente da un supermercato e Spencer provoca un incidente.

Di fatto tutti i personaggi arrivano ad un punto di esplosione, in cui vogliono solo farsi prendere, farsi punire.

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Bombshell – Raccontare uno scandalo

Bombshell (2020) di Jay Roach è una pellicola che racconta lo scandalo che nel 2016 coinvolse Roger Ailes, ex-capo dell’emittente teleivisva FOX, e altri dirigenti accusati da diverse donne di molestie ed aggressioni a sfondo sessuale.

Il film ha alle spalle una produzione molto sentita, con a capo Charlize Theron, che è anche l’interprete principale. Fra l’altro un prodotto che si sbilanciò molto nell’attaccare non solo l’emittente televisiva incriminata, ma anche Trump quando era ancora in carica.

La pellicola purtroppo non è stata un grande successo commerciale, rientrando a malapena nelle spese: appena 61 milioni di dollari di incasso a fronte in un budget di 30.

Di cosa parla Bombshell?

La vicenda ruota intorno a tre donne: Megyn Kelly (Charlize Theron), Kayla Popsil (Margot Robbie) e Gretchen Carlson (Nicole Kidman), tutte accumunate dall’esssere impiegate presso l’emittente televisiva FOX Television e di dover subire attenzioni non volute o effettivi ricatti sessuali per fare carriera. E non sono le sole…

Bombshell può fare per me?

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

Bombshell si inserisce nella lungo trend che vedremo da qui ai prossimi anni (come il film in prossima uscita incentrato sul caso Weinstain, She said), che racconta i vari scandali sessuali che sono scoppiati a partire dal 2015 in poi anche grazie al movimento Me too.

E vi si inserisce bene, sperimentando anche con il genere mockumentary e offrendo un prodotto che non vuole nè feticizzare nè spettacolarizzare una vicenda assai drammatica. La regia è invece capace di raccontare in maniera potente e coinvolgente il dramma di queste tre donne, particolarmente quello della giovane ed ingenua Kayla, senza praticamente mostrare nulla.

Un film necessario, per conoscere un vicenda che non ha avuto particolare risalto al di fuori degli Stati Uniti.

Raccontare la paura

Margot Robbie e John Lithgow in Bombshell (2019) di Jay Roach

Come anticipato, non è per nulla semplice riuscire a raccontare una vicenda così importante senza arrivare a spettacolizzarla, anche involontariamente. E Bombshell riesce perfettamente a non farlo: l’unica scena che vediamo rappresentare effettivamente una molestia è diretta alla perfezione, senza sessualizzare il corpo di Margot Robbie, ma anzi enfatizzando la sua ottima recitazione corporea ed espressiva, che già di per sè è molto esplicativa.

Così anche il resto della vicenda non è mostrato, perchè non ce ne era bisogno: basta raccontare la terribile camminata di Kayla verso l’ufficio di Roger: una donna sola, che sa che deve sottoporsi ad un processo umiliante per ottenere un minimo di attenzioni.

E che, lo vediamo, ottiene quello che vuole: più si va avanti nel film, più il suo trucco si fa appariscente, per avvicinarsi al modello di donna perfetta e da mettere in mostra in primo piano per fare audience.

Ogni tipo di molestia

 Charlize Theron in Bombshell (2019) di Jay Roach

La capacità di Bombshell è di saper raccontare tutto lo spettro di molestie a cui le donne del film (e nella vita reale) sono sottoposte. E nessuna è meno grave: si parte dalla molestia verbale, anche in diretta televisiva, con umiliazioni viste come complimenti e battute innocenti.

Si arriva poi ai ricatti sessuali neanche troppo sottili, ai licenziamenti per le donne che non si volevano far schiacciare, alle ripetute molestie per quelle che hanno ceduto. E non solamente per le tre protagonista, ma per un numero in continua crescita di donne che hanno finalmente la possibilità di farsi avanti.

Un sistema marcio, che non accenna a migliorare.

Nessun cambiamento

Il finale del film non è per fortuna consolatorio nè inutilmente ottimista: lo dimostra chiaramente Kayla, che, anche se i colpevoli sono stati licenziati, decide lo stesso di andarsene. Perchè chiaramente le altre persone che dovrebbero prendere il posto dei colpevoli non hanno interesse a proteggere le vittime nè a cambiare il sistema, ma a solo a salvare la faccia.

Non un finale positivo, ma piuttosto molto duro e realistico, che ho molto apprezzato.

Per quanto in generale il film sia molto fedele agli eventi raccontati, ci sono comunque alcune piccole differenze da segnalare.

Anzitutto, la scelta di Megyn Kelly di mettersi contro Ailes potrebbe essere stata una scelta più opportunistica di quanto la racconti il film: davanti alla causa intentata da Gretchen Carlson, Kelly si trovò davanti alla possibilità di liberarsi da un capo che non la sosteneva più e in generale di poter rimettere in riga i suoi colleghi uomini, oltre che a uscirne meglio come immagine personale e poter avere più potere negoziale per il suo contratto.

Per quanto Kayla Pospisil sia un personaggio inventato ad hoc per il film, effettivamente una delle dipendenti dirette di Ailes, Laurie Luhn, raccontò di aver avuto il compito di procacciare al suo capo delle giovani ragazze dipendenti dell’emitettente, per spingerle ad un incontro privato con lui, consapevole che questo sarebbe probabilmente finito (come minimo) in una molestia sessuale.

Altro in Bombshell

Anche il personaggio di Jess Carr è totalmente inventato: fra le vittime denunciate di Ailes non ce ne era nessuna che portasse il suo nome o avesse attinenze col personaggio. Tuttavia la stessa racconta una realtà sotterranea di giornalisti di tendenze liberali all’interno della Fox News.

Da segnalare che la leg cam del film non è per nulla un’invenzione, anzi è un elmento denunciato più volte negli anni all’interno dell’emitettente. La frase detta da una delle truccatrici riguardo a una delle ragazze che tornava da un incontro con Ailes senza il trucco sul naso e il mento (segno di essere stata coinvolta in delle prestazioni sessuali), è altresì vera.