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Dodgeball – Apologia dell’uomo medio

Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber, in Italia noto anche come Palle al balzo, è un classico della commedia Anni Duemila.

Al tempo fu anche un grande successo commerciale: con un budget di appena 20 milioni, ne incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dodgeball?

Peter Lafleur è proprietario di una piccola palestra vicina alla bancarotta. Ma c’è ancora una speranza per salvarla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dodgeball?

Ben Stiller e Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Assolutamente sì.

Oltre ad essere un classico dell’inizio del Nuovo Millennio, Dodgeball è in generale una pellicola piacevole ed accessibile, che gioca molto con gli stereotipi del genere di riferimento, facendosi portatore di messaggi non scontati.

Infatti, in un’epoca in cui vivevamo immersi in una grassofobia paragonabile ad un’isteria di massa, questa piccola commedia prese una posizione intelligente e non scontata sull’argomento.

Insomma, avete tutti i buoni motivi per recuperarvela.

Uomini comuni…

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Peter è un uomo come tanti.

Dodgeball sceglie intelligentemente di non rendere il suo protagonista uno stereotipo, ma di tratteggiare un personaggio anche abbastanza tridimensionale: un leader con un gran cuore, ma con anche una variegata vita sessuale.

Peter è talmente nella norma che sembra che Vince Vaughn stia interpretando sé stesso, mancando anche di un mordente comico che mostrerà in altre commedie più scollacciate come Due single a nozze (2005).

Così anche tutti i personaggi che compongono la sua squadra sono raccontati secondo la stessa linea: figure piuttosto comuni con problemi altrettanto comuni, come la conquista della ragazza di turno o il riuscire ad arrivare a fine mese.

Non a caso la loro palestra si chiama Average Joe, che significa letteralmente Joe Medio.

…e un villain esagerato

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

I picchi di follia del film sono tutti sulle spalle di White Goodman.

In Dodgeball Ben Stiller porta in scena sostanzialmente il gemello cattivo del suo personaggio in Zoolander (2001): entrambi sono incredibilmente sopra le righe e hanno una visione del mondo limitata alla realtà opprimente in cui vivono.

Ma, a livello più sottile, White è un personaggio quasi tragico, che odia sé stesso e che trasmette questo sentimento anche ai suoi sottoposti, stressando all’inverosimile il suo corpo per cercare di raggiungere – e ribadire – un certo status.

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Ma il suo ego è talmente fragile che basta una battuta per metterlo fuori gioco, basta una sconfitta insignificante per portarlo all’autodistruzione, a fare del male a sé stesso ed essere incapace di vivere al di fuori dei due estremi: l’obesità impossibile e il bodybuilding isterico.

E questo è tanto più indicativo considerando il suo rapporto incredibilmente tossico con il cibo, soprattutto quello che fa ingrassare, di cui si priva in maniera quasi violenta, ma che rimpiange al punto da utilizzarlo per masturbarsi – con un’evidente citazione alla scena iconica di American Pie (1999).

Contro la diet culture

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Soprattutto nel suo finale, Dodgeball si impegna a portare un messaggio positivo per nulla scontato per l’epoca.

Del tutto negativa è la rappresentazione della Globe Gym, un tempio del fitness che è lo specchio del suo stesso fondatore, basato su una concezione dell’essere in forma non solo esagerata, ma proprio dannosa e legata solo all’idea della bellezza e dello status sociale.

Lo si nota in particolare nello spot di White Goodman che apre la pellicola, che spiega come la grassezza e la bruttezza siano delle malattie genetiche, e che, di fatto, è solo colpa nostra se non ci odiamo abbastanza da fare qualcosa al riguardo.

Questa narrazione è del tutto ribaltata, tramite un parallelismo piuttosto funzionale, dallo spot della Average Joe sul finale, che rassicura sul fatto che andiamo bene così, ma che se vogliamo perdere qualche chilo e essere più in salute, possiamo venire alla sua palestra.

Evoluzione e involuzione del femminile

Ben Stiller e Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il racconto del femminile in Dodgeball merita un discorso a parte.

Di per sé Kate è una donna molto piacente, e che anche per questo vive delle situazioni drammaticamente comuni per le donne di oggi e di ieri: essere costantemente sminuita, considerata solo un pezzo di carne e mai presa seriamente per la sua posizione professionale.

Ma è anche un personaggio combattivo, che non si lascia vincere dalle squallide avances né di Peter – che mette subito al suo posto dicendo di essere specializzata in casi di molestie – né soprattutto di White – a cui risponde proprio con la violenza fisica dopo aver ricevuto attenzioni non richieste.

Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Più in generale, Kate si rifiuta di essere ridotta a trofeo per i personaggi maschili, come esplicitato dalla minaccia di White

Your gym, your life and your gal are gonna be mine.

La tua palestra, la tua vita e la tua donna saranno miei.

scegliendo infatti di far parte della squadra di Average Joe non per le richieste di Peter, ma perché vuole vendicarsi del torto imperdonabile – e su più livelli – di White.

Ma non è finita qui.

La commedia scorretta

Dodgeball è indubbiamente una commedia scorretta.

E questo si traduce anche in scelte di ironia e rappresentazione che non toccano i picchi ben più problematici di altri prodotti del periodo – come l’assai criticato Amore a prima svista (2001) – ma, al contempo, che a volte risultano quasi contraddittorie.

Infatti, se da una parte troviamo una sessualizzazione del personaggio femminile principale solo nella sua prima apparizione – quando si vedono prima le gambe che lei – al contempo in più punti sembra che la regia voglia compiacere lo sguardo maschile, mettendo le classiche donnine ipersessualizzate in scena.

Vince Vaugh in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Al contempo si respinge lo stereotipo della ragazza considerata streotipicamente più mascolina – e quindi lesbica – perché capace in un ambito maschile, non riducendola a trofeo per la vittoria del protagonista sul finale, ma facendole rivendicare la sua sessualità senza vergogna.

Così il personaggio di Fran, la più classica rappresentazione della donna bruttissima, diventa l’interesse amoroso di Owen, ribaltando agilmente lo stereotipo, come poi si farà anche nell’ottimo She’s the man (2006).

E, per chiudere, troviamo la battuta proprio più scorretta dell’intera pellicola, quella legata al personaggio della ragazzina trans che, per via degli steroidi che assume per la transizione, provoca la squalifica della sua squadra e viene per questo bullizzata.

Insomma, Dodgeball è un incontro fra tendenze veramente molto diverse.

La conquista graduale

Chuck Norris in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il mio rapporto con Dodgeball è veramente peculiare.

Se infatti film come Zoolander e Bad Teacher (2010) riescono a conquistarmi fin dalla prima inquadratura, Dodgeball mi cattura scena dopo scena, battuta scorretta dopo battuta scorretta, sorpresa dopo sorpresa.

La storia è infatti piuttosto semplice e tipica – fra l’altro con una scansione anomala dei tre atti, con l’ultima parte che si mangia gran parte della sezione centrale – sulle prime parte quasi in sordina e senza mostrare subito le sue carte.

Ma quando comincia a costruire una narrazione con snodi di trama non scontati e sempre piuttosto spassosi, un villain incredibilmente iconico e uno scontro finale perfettamente orchestrato – quasi un duello western – non posso che innamorarmi.