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M – E sarete anche voi f…

M – Il figlio del secolo (2025 – …) è una serie tv italiana basata sull’omonimo romanzo storico di Antonio Scurati, con protagonista Luca Marinelli nei panni di Benito Mussolini.

La serie TV è stata co-prodotta da Sky Studios e distribuita in esclusiva sui suoi spazi.

Di cosa parla M – Il figlio del secolo?

Rivolgendosi direttamente allo spettatore, Mussolini si racconta nella sua ascesa al potere.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere M – Il figlio del secolo?

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Assolutamente sì.

A più di un secolo di distanza dall’inizio del Ventennio, non avevamo bisogno di un altro prodotto incolore sul tema – come d’altronde neanche l’ennesimo film sull’Olocausto condito con un pietismo molto spicciolo – che non aggiungesse niente di nuovo alla discussione…

…e proprio per questo M – Il figlio del secolo è la serie di cui avevano una disperata necessità, capace di farci veramente comprendere le dinamiche dietro alla rapida ascesa di Mussolini, creando, proprio come quella meraviglia di La zona d’interesse (2023), un dialogo diretto con il presente.

Insomma, non ve la potete perdere.

Per semplicità e per distinguere la figura storica da quella della serie, qui di seguito Mussolini portato in scena da Marinelli sarà chiamato semplicemente M.

Promessa

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

M – Il figlio del secolo si apre con una promessa:

Seguitemi, anche voi mi amerete, anche voi diventerete fascisti.

E già così, M racconta tutto sul suo personaggio.

Infatti il dialogo che il protagonista intraprende con noi è finalizzato a convincerci ad apprezzare le sue idee, la sua figura, mostrandosi con i suoi pensieri, paure ed emozioni così da rendersi più umano e vicino a noi, pur in tutte le sue contraddizioni.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Ed è un percorso pericolosissimo, che rischia in ogni momento di cadere nel ridicolo, ma che invece riesce nel rendere l’idea di un ributtante macchinatore capace di dire tutto e il contrario di tutto per far trionfare il sogno nascente del superuomo.

In altre parole, M è il figlio del suo tempo.

Super

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Mussolini è imbattibile?

Il fascismo – come d’altronde anche il nazismo, pur con finalità differenti – si basava sul raccogliere le macerie di un paese distrutto socialmente ed emotivamente dalla Grande Guerra – da cui, ricordiamolo, non aveva di fatto ottenuto nulla – proprio con la promessa di una rinascita gloriosa.

Proprio per questo la posizione politica di Mussolini è così fumosa e contraddittoria, in quanto non si basa su una specifica parte in gioco, ma bensì sul far emergere un risentimento sotterraneo piuttosto trasversale, e farlo diventare un micidiale strumento di violenza e di distruzione.

Per questo M ha sempre bisogno di giustificarsi ai nostri occhi – e, per estensione, agli occhi del suo popolo – perché non può mai mostrare il fianco alla sua debolezza intrinseca e innegabile: essere un simbolo basato su un ideale irraggiungibile e facilmente trasferibile.

Non a caso, il primo nemico di M è proprio D’Annunzio, l’apoteosi del Superuomo, che già da decenni era stato capace di far innamorare il popolo italiano della sua figura, diventando un personaggio incredibilmente variegato e trasversale in tutti i campi, dalla politica all’arte.

Per questo, nel concreto, la posizione politica di M è così fragile.

Dualità

Il fascismo nasce dal basso…

… ma, per vincere, non può rimanere in basso.

M muove infatti i primi passi dal Partito Socialista, quindi vicino al proletariato e alle rivendicazioni sociali nate in seno alla Rivoluzione Comunista, ma si distacca dallo stesso in quanto troppo timido nel non avere il coraggio di prendere di petto la storia e piegarla al suo volere.

Per questo le prime fila fasciste sono formate da un braccio armato di estrazione popolare, da un gruppo di cani – come lui stesso li definisce – capaci delle peggiori nefandezze pur di vendicarsi dei propri nemici, ma senza che M in persona si sporchi mai veramente le mani.

Infatti, il futuro di M è tutto borghese.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Più il protagonista si avvicina al Parlamento, più si allontana dai primi sentimenti di rivoluzione violenza che lui stesso ha fomentato, proprio a raccontare come il suo appoggio politico fosse una semplice questione di opportunismo, di raccogliere gli umori della parte che più gli faceva gioco in quel momento.

E il vero alleato di M è infatti la tanto odiata borghesia, di cui di fatto comincia a far parte, diventando il più classico arricchito che si dimentica della sua estrazione originaria, che si lascia alle spalle lo squallore della sua famiglia per abbracciare il lusso delle camere presidenziali e dell’amante.

E se questo non bastasse?

Inconsapevolezza

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

Potevamo fermare il Fascismo?

M – Il figlio del secolo racconta in più momenti come la scalata di Mussolini poteva essere frenata anche con poca fatica, ma che fu avallata proprio dalla totale inconsapevolezza e mancanza di reattività da parte delle altre parti politiche, così litigiose e divise fra loro.

Non a caso in più occasioni sembra che il Fascismo sia finito prima ancora di cominciare: dalla baracconata della Marcia su Roma – un dichiarato bluff piuttosto fortunato – fino allo stresso Delitto Matteotti, che rese manifesta la vera natura del Fascismo.

Luca Marinelli nei panni di Mussolini in una scena di M - Il figlio del secolo (2025 - ...) di Joe Wright

E proprio in queste occasioni M ci parla direttamente.

Quando Matteotti si scaglia furibondo verso la legge elettorale liberticida, richiamando la Sinistra alla consapevolezza di star dando uno spazio sempre più incontenibile alla minaccia fascista, M ci guarda e ci conferma che no, non si stavano rendendo conto di quello che stava succedendo…

…ma, soprattutto, nel finale di stagione, quando M dà l’esplicita possibilità al Parlamento di eliminarlo dalla scena politica, ma lo stesso rimane inerte davanti alla sua provocazione, in un assordante silenzio che riecheggia ad un secolo di distanza nel nostro drammatico presente.

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Il pianista – Dall’altra parte

Il pianista (2002) di Roman Polanski è uno dei titoli più noti della sua carriera sia, più in generale, del cinema sull’Olocausto.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 120 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il pianista?

Władysław Szpilman è un ottimo pianista che riesce a conquistare le folle grazie al suo programma radiofonico. Eppure la radio è fra le prime cose che gli toglieranno in quanto ebreo

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il pianista?

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Se vi dicessi assolutamente sì non sarebbe abbastanza.

Il pianista è indubbiamente una delle migliori opere in assoluto sul tema, proprio per la sua capacità di farci spostare l’occhio dai lati più strazianti della vicenda verso una prospettiva diversa, di cui è rimasto ai margini della storia.

Oltretutto, la regia è precisa e perfetta nella sua dovuta freddezza e nel suo consapevole distacco, che permette di inquadrare le vicende con occhio più lucido, guardando oltre l’orrore immediato e riflettendo sullo stesso in maniera ben più profonda e contemporanea.

Insomma, non potete perdervelo.

Flusso

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

L’incipit de Il pianista è significativo.

Il punto di partenza è la realtà più piccola ed apparentemente protetta della radio, dove il protagonista fa innamorare il pubblico con la sua esibizione, per essere poi drasticamente interrotto da un’esplosione che ne trancia l’esibizione.

È così la macchina nazista che ha fatto irruzione.

Infatti la vicenda comincia in un certo senso in medias res, quando la repressione sistematica degli ebrei è già stata avviata, e Szpilman e la sua famiglia sono già sottoposti alle costanti riduzioni della loro libertà personale, disgregata pezzo per pezzo, diritto dopo diritto.

E vani sono i tentativi dei personaggi di conservare la propria dignità, di vivere sotto traccia, perché è la loro stessa esistenza ad essere minacciata, il loro esistere sotto lo stesso cielo di Hitler e dei suoi seguaci, per cui anche passeggiare su un marciapiede è un delitto.

E già qui si spargono i semi del tema cardine della pellicola.

Passivo

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Perché nessuno interviene?

È una domanda quanto mai attuale, che potrebbe farsi uno spettatore sia de Il pianista, sia delle vicende storiche raccontate in toto: il panorama sociale sembra dominato da un popolo di indifferenti o, peggio, di omertosi, financo di complici.

Insomma, una prospettiva piuttosto desolante: oltre alle timide proteste dette a bassa voce, nessuno sembra avere la capacità di ribellarsi e di opporsi effettivamente al potere dominante, e tutti rimangono impotenti ad osservare la storia mentre si compie drammaticamente davanti a loro occhi.

Eppure, Polanski non vuole condannare questo aspetto.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

La rappresentazione dell’occupazione nazista è estremamente significativa per comprendere la portata dell’orrore a cui si doveva far fronte: pur nelle loro sfumature, i nazisti sono rappresentati come cani lasciati a briglia sciolta, che agiscono con la consapevolezza di poter rimanere infinitamente impuniti.

Proprio per questo la violenza, come il prepotente schiaffo che Samuel Szpilman ottiene in piena faccia per aver osato passeggiare sul marciapiede, appare improvvisa, irragionevole e senza una logica, se non il puro desiderio di esercitarla.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Di fatto, nessun cittadino polacco, che fosse ebreo o meno, poteva sentirsi al sicuro, in quanto era possibile che persino il più innocente di loro potesse essere casualmente scelto per essere la vittima del giorno – e senza nessuna ragione.

Ma la paura non ci ha resi immobili.

Reazione

Il pianista non parla di eroi.

Szpilman si fa largo in un panorama profondamente ambiguo, una rete umana di cui riesce a comprendere vagamente i contorni, una catena di contatti che lavorano sottobanco per fare quello che possono per arginare l’incontrollabile minaccia nazista.

Ma i limiti delle loro possibilità sono subito evidenti nei continui cambi di dimora, nel protagonista che spesso si trova abbandonato a se stesso, costretto a cibarsi degli ultimi avanzi che la miseria ha lasciato dietro di sé, sempre più irriconoscibile nella forma.

Ed è un discorso tanto più interessante quando si parla di Wilm Hosenfeld.

Polanski ha a mio parere consapevolmente riscritto la storia di quello che sarebbe definibile, senza timor di smentita, un eroe di guerra – o, più correttamente, giusto fra le nazioni – che fu un punto di riferimento fondamentale per diversi ebrei che riuscirono a sfuggire dallo sterminio.

Nella scena dell’incontro fra i due infatti sembra come se il dubbioso nazista scelga di salvare Szpilman per le sue incredibili capacità di musicali, mentre per me il suo approccio ha un significato ben più profondo: il protagonista è la scintilla di una consapevolezza sopita.

Arbitrio

Sono innumerevoli i personaggi che potrebbero definirsi pentiti di aver supportato la dittatura nazista, nonostante il loro appoggio potesse essere derivato dalle motivazioni più diverse – ambiziosi personali, opportunità di carriera, o un semplice essere coinvolti senza neanche rendersene conto.

Per questo Szpilman e, soprattutto, la sua musica, può essere interpretata come il racconto del perno di una collettività fragile, ribaltata dall’esasperazione degli odi interni da parte di Hitler, ma mai veramente soffocata dalla stessa…

…e che Hosenfeld vede in quel momento la possibilità di ricomporre.

In altri termini, questo perfetto nazista si trovava in una situazione di totale libero arbitrio, in cui poteva ancora decidere di agire impunemente, e in cui ha scelto da che parte della storia stare, rendendo la salvezza del protagonista l’ultimo atto del suo importante ripensamento.

E così arriviamo all’ultimo punto della riflessione.

Spettatore

Chi è Władysław Szpilman?

La narrazione sull’Olocausto raramente si distacca da un racconto a tre piuttosto semplice ed immediato.

Ovvero eroi, vittime e carnefici.

E per quanto sia sicuramente una narrazione rappresentativa del dramma nazista, spesso la stessa tende ad allontanare il discorso dallo spettatore che non ha vissuto in prima persona i fatti raccontati e che, per questo, li vede come isolati e lontani dal suo presente.

Invece, Il pianista si propone proprio di raccontare la tragedia più profonda, quella di un popolo talmente sconvolto da spesso non essere capace di opporsi, ma solo di rimanere a guardare – o, al massimo, di reagire quando non vi è più alcuna possibiltà di vittoria.

Adrien Brody in una scena di Il pianista (2002) di Roman Polanski

Ed è proprio quello che Szpilman rappresenta.

Il protagonista potrebbe essere quasi definito un ignavo, una persona che è riuscita, mai per merito suo, ma sempre grazie ad altre figure più proattive, oltre ad una buona dose di fortuna, a salvare se stesso.

Szpilman rappresenta insomma tutto il sommerso, l’uomo comune che è finito in balia degli eventi, che si pose, anche nei decenni successivi, nella posizione di riflettere sulla radice della vertiginosa ascesa dei totalitarismi, una causa intrinseca nella società umana, di cui è stato sempre spettatore inconsapevole…

…proprio come ben racconta lo scambio finale:

– E perché indossi quel cappotto?
– Ho freddo.

Perché la regia di Polanski è così fredda?

In coda, vorrei analizzare la regia di una scena emblematica de Il pianista.

In uno dei primi momenti all’interno del ghetto, la famiglia Szpilman si trova ad osservare l’irruzione di un gruppo di nazisti nel palazzo di fronte – uno dei momenti cardine del racconto dell’impotenza dei personaggi davanti alla storia:

Ma l’aspetto interessante è come la scena è raccontata.

Come siamo abituati ad un cinema sul tema caricato all’inverosimile di momenti drammatici e toccanti, con una regia che abbonda – e, spesso, abusa – di primi piani stretti e particolari sul dolore protagonisti, impegnandosi nello spremere più lacrime possibili nello spettatore…

…allo stesso modo Polanski sceglie una regia fredda e distante, che alterna piani americani sulla famiglia Szpilman, sostanzialmente immobile e impotente, ad accezione del grido subito soffocato della madre, e una camera fissa con campi medi sulla scena dell’appartamento di fronte.

Un’importante scelta di stile e di significato che dimostra come, anche spogliando la storia delle sue punte più violente, anche limitandosi a mostrare corpi che cadono muti a terra, personaggi impacciati e umiliati che ballano o sono trascinati via a bocconi…

…l’immensità del dramma arriva comunque potentissima.

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The Elephant Man – Dietro l’orrore

The Elephant Man (1980) è il primo film della fase commerciale di David Lynch – aperta e chiusa in pochi anni con Dune (1984).

A fronte di un budget molto piccolo – 5 milioni di dollari, circa 19 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 26 milioni in tutto il mondo (circa 100 oggi).

Di cosa parla The Elephant Man?

Frederick Treves è uno studioso di chirurgia che si trova davanti ad un caso veramente anomalo. Ma quello che sembra solo una bestia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Elephant Man?

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

In generale, sì.

Facendo parte del suo timido approccio al grande pubblico di Lynch, The Elephant Man non offre ovviamente la tipica esperienza della sua filmografia, ridotta a pochi accenni comunque ben pensati, ma che mai farebbero pensare ad uns sua pellicola.

Tuttavia, nel complesso rimane una pellicola godibile, che in tempi non sospetti affronta con rara delicatezza – e, soprattutto, senza una virgola di pietismo – la storia di un moderno Frankenstein da un altro punto di vista.

Insomma, dategli un’occasione.

Nascosto

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Una delle idee più indovinate di The Elephant Man è tenere per lungo tempo nascosto il protagonista.

Infatti, quella che potrebbe sembrare la classica tattica di questo tipo di film di tenere nascosto il mostro per accrescere la curiosità morbosa dello spettatore, è invece un modo intelligente e sottile di fare in modo di farci vedere prima la crudeltà che circonda il personaggio…

…così da farci empatizzare con lui per la sua condizione ora di fenomeno da baraccone, quasi una bestia, e poi come corpo che mostrare e umiliare a piacimento per una dimostrazione scientifica, senza mai curarsi dei suoi sentimenti.

E così, pur arrivando alla rivelazione del suo mostruoso aspetto in una modalità molto classica, ci arriviamo anche carichi di una particolare consapevolezza sull‘angoscia ancora inespressa di questa creatura, che proprio per la mancanza apparente di intelletto non può avere alcuna dignità.

Eppure…

Prova

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

John deve dare prova della sua umanità.

I goffi tentativi del Dottor Treves sono facilmente rivelati come se volesse ammaestrare l’uomo elefante, quasi come una scimmia che non fa altro che imitare il parlato umano, ma senza avere alcun tipo di capacità di elaborare pensieri propri.

E invece molti timidamente infine il protagonista riesce a dimostrare di essere molto più di quello che sembra, di saper decantare interi passi di opere letterarie, che ha segretamente imparato a memoria, e che gli permettono di evadere questa dolorosa condizione.

E nella fase centrale, man mano che John acquisisce il suo nuovo status, il film viaggia sul filo di un pericoloso pietismo, proprio per le struggenti esternazioni del protagonista davanti alla ritrovata e insperata gentilezza nei suoi confronti.

Eppure The Elephant Man rimane sempre solido su questo fronte…

…e per fortuna, considerando l’ultimo atto.

Agguato

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Lo stato bestiale è sempre in agguato.

È in agguato nelle parole delle domeniche, le stesse che sulle prime erano inorridite dall’aspetto di John, ma che ora invece si dimostrano concretamente preoccupate davanti alla curiosità morbosa degli ospiti di John…

…per paura che il protagonista possa essere ferito da individui che lo continuano a considerare come un fenomeno fa baraccone.

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

E quel pericolo è sempre in agguato soprattutto per la presenza del crudele, colpevole di una scena veramente struggente in cui John viene totalmente spogliato della sua ritrovata umanità per diventare una pura bestia da strattonare secondo i desideri del pubblico…

…per poi essere definitivamente rapito per capitalizzare sulla sua pelle, spogliato e rinchiuso in una gabbia, vittima del generale ludibrio, che perlomeno attrae la naturale pietà degli altri freaks, che gli offrono la possibilità di fuggire.

John Hurt in una scena di The Elephant Man (1980) di David Lynch

Ma non basta.

Nel finale è fondamentale per il protagonista riuscire finalmente ad autodeterminarsi come uomo, davanti ad una folla pronta ad assaltarlo, accompagnandoci così ad un finale agrodolce, in cui John si abbandona ad un sonno sereno di quel che rimane della sua breve vita.

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Samurai Champloo – Fra due realtà

Samurai Champloo (2004) è un anime giapponese di Shinichirō Watanabe – lo stesso che ha curato la regia Cowboy Bebop (1998 – 1999), per intenderci.

La serie è stata importata in Italia solo nel 2008 con Panini Video.

Se non sapete niente di Samurai Champloo, continuate a leggere. Se invece siete i massimi esperti della serie, cliccate qui.

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1899 – Un bagaglio troppo ingombrante

1899 è una serie tv Netflix creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, gli stessi autori della serie di successo Dark. E, non a caso, vanno ad impelagarsi negli stessi problemi della terza stagione del prodotto che li ha resi famosi…

Al momento è una delle serie di punta della piattaforma, nella Top 10 dei prodotti più visti nella settimana a seguito della sua uscita. E non c’è da stupirsi, per quanto è stata pubblicizzata.

Di cosa parla 1899?

1899, Maura Franklin, neurologia, si trova a bordo del Kerberos, un transatlantico che viaggia in direzione degli Stati Uniti. Ma il viaggio si interrompe improvvisamente per il contatto con il Prometheus, nave che era andata dispersa per quattro mesi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare 1899?

Emily Beecham in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

È una domanda molto difficile a cui rispondere senza fare spoiler.

Diciamo che in generale non è una serie che mi sento di sconsigliare, ma neanche così imperdibile. Ha una struttura narrativa interessante per due terzi della sua durata, poi si perde abbastanza inesorabilmente sul finale, ovvero il punto più delicato…

Se vi piacciono serie mistery molto dark e dal sapore gotico, potrebbe essere la serie per voi. In alternativa potrebbe farvi incredibilmente arrabbiare…

Un lento mistero

Isabella Wei in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Partiamo dai punti più o meno positivi.

La struttura narrativa è interessante e per la maggior parte del tempo ben bilanciata: avendo fra le mani moltissimi personaggi da gestire, gli autori sono stati capaci di creare un piccolo background per tutti loro, rivelandolo poco a poco e in maniera sicuramente interessante.

E ho apprezzato che la rivelazione sia appunto molto naturale, che venga raccontata da frasi ben posizionate dei personaggi nei loro dialoghi.

Ma proprio su questo punto si crea il problema.

Il disinteresse

Emily Beecham, Aneurin Barnard eAndreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Come riuscivo ad interessarmi e in parte anche ad appassionarmi per certi versi alla storia di questi personaggi, appena ho scoperto che la storia era ambientata in una simulazione, mi è sceso tutto l’interesse.

Se è tutto finto, perché mi dovrebbe interessare di questi personaggi?

Con ogni probabilità il loro background è tutto inventato a uso e consumo della simulazione stessa. E probabilmente, visto la carrellata finale sui protagonisti collegati alla simulazione, è probabile che la maggior parte dei personaggi terziari, come la madre di Ling Yi, siano in realtà una sorta di NPC, ovvero esistono solo all’interno della simulazione stessa.

Motivo in più per cui alla fine ero totalmente disinteressata.

Un mistero sprecato

Fflyn Edwards in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

Allo stesso modo tutto il mistero, con le sua peculiarità e gli elementi di fascino, è del tutto buttato via verso la fine della stagione.

Infatti proprio verso la fine sempre la rivelazione che è tutto finto, rende di fatto del tutto inutile il mistero del Prometheus. Perché lo stesso non era altro che una costruzione, un modo quasi per tenere impegnati i personaggi. E, allo stesso modo, un elemento costruito ad uso e consumo dello spettatore, ma, in fin dei conti, totalmente inutile.

E se lo spettatore sente di aver perso il proprio tempo…

Un bagaglio troppo ingombrante

Andreas Pietschmann in una scena di 1899, serie tv Netflix dai creatori di Dark

In ultima analisi, gli autori si sono incartati da soli.

Se vengono messi troppi strati ad una narrazione e, sopratutto, ad un mistero, diventa alla lunga troppo difficile districarsi. E infatti sul finale sembra che tutto sia sfuggito di mano.

Il villain principale è per la maggior parte del tempo il padre, poi si rivela che il realtà era Maura stessa con un colpo di scena che poteva anche funzionare. Se non fosse che si aggiunge un altro strato.

Ed è lì che il bagaglio diventa troppo ingombrante.

E un’eventuale seconda stagione dovrebbe non solo spiegare in maniera convincente tutta la sovrastruttura, ma raccontare praticamente da capo tutta la storia di personaggi secondari.

A meno di non volersene dimenticare…

Netflix all’attacco!

Ho purtroppo idea che il motivo di questa inutile complicatezza sia dovuta a necessità produttive.

Magari gli autori avevano questa idea nel cassetto, l’hanno proposta a Netflix e la piattaforma gli ha chiesto di fare un paio di stagioni. E per questo hanno dovuto sovraccaricare la narrazione di ulteriori elementi che rendessero possibile una continuazione.

Ma di fatto sono andati a snaturare gli elementi chiave della loro stessa creazione…

Cosa succede nel finale di 1899?

Nel finale ci sono di fatto due rivelazioni.

La prima è che il Creatore è in realtà Maura stessa, che aveva creato un mondo virtuale dove poter vivere col figlio morente. Tuttavia, scopriamo anche che il mondo è in realtà controllato da Ciaran, il fratello sempre nominato dalla protagonista.

E alla fine Maura si trova su una astronave nello spazio, nell’anno 2099, e il fratello stesso le dà benvenuto nella realtà reale.

Quindi il fratello era il vero villain tutto il tempo?

Non so se ho interesse a scoprirlo, a questo punto…

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The Crown 5 – Decennium horribile

The Crown 5 è la quinta stagione della serie tv creata da Peter Morgan per Netflix. Un autore che si era già dimostrato piuttosto interessato e capace nel raccontare le vicende della famiglia reale con il suo The Queen (2006).

Una serie che ha raggiunto subito un grande successo, sia per le vicende raccontate, sia per la cura e l’eleganza nella gestione del materiale.

E questa quinta stagione si è portata dietro qualche polemica molto sterile…

Se vi interessa solo The Crown 5, cliccate qui.

Se invece volete non avete mai visto The Crown, continuate a leggere.

3 motivi per guardare The Crown

Ecco tre motivi per cominciare immediatamente questa serie fantastica.

Il casting (quasi) perfetto

Emma Corrin in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Un elemento di grande importanza per prodotti di questo tipo è riuscire ad indovinare il casting. E The Crown ci riesce perfettamente, scegliendo non solo attori che riescono a riprendere le fattezze delle persone reali in maniera anche impressionante, ma sopratutto a portare un’interpretazione incredibilmente convincente.

In particolare perfetto il casting di Diana, sia nella sua versione più giovane con Emma Corrin, sia per l’interprete più adulta, Elizabeth Debicki.

La cura

Helena Bonam Carter in una scena di The Crown 4, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La cura che viene messa nella produzione di The Crown ha pochi eguali nella storia della televisione. Dietro questo prodotto si vede uno studio e una gestione al limite del maniacale per rendere credibile il setting e i personaggi, tanto che, andando a fare il confronto con i filmati storici, il risultato è da far girare la testa:

La trama non scontata

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Scegliendo di raccontare personaggi di questo genere, sarebbe stato molto semplice portare episodi del tutto focalizzati sugli elementi più di richiamo. The Crown sicuramente racconta questi momenti, ma preferisce focalizzarsi sulla psicologia dei personaggi e anche su eventi meno conosciuti, ma che ampliano la narrazione.

Di cosa parla The Crown 5?

La quinta stagione copre il periodo fra il 1991 e il 1997, un periodo molto burrascoso per la corona, in particolare per la figura di Diana, e la sua drammatica conclusione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Crown 5?

Elizabeth Debicki e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Assolutamente sì.

The Crown 5 è in linea con l’attimo livello delle precedenti. Quindi, se vi è piaciuta fin qui, vale la pena di recuperare anche la nuova stagione.

Tuttavia, è anche giusto essere pronti al fatto che questo nuovo ciclo di episodi, quasi come punto di principio, si rifiuta di calcare troppo la mano sui momenti più iconici di Diana, la cui storia è comunque centrale.

Anzi, va per sottrazione.

Insomma, non vuole farci vedere più di tanto quello che sappiamo già.

Perché le polemiche su The Crown 4 non hanno senso

Questa stagione è stata anticipata da numerose polemiche, anche per aver avuto la sfortuna di uscire in un momento politico piuttosto delicato, ovvero a seguito della morte di Elisabetta II.

Per questo si è molto criticato l’aver suggerito che Carlo avesse meditato di attentare al trono della madre. Si è arrivati persino a chiedere che venisse messo un disclaimer iniziale per avvertire lo spettatore che gli eventi raccontati non corrispondessero alla realtà.

Io consiglierei ai detrattori anzitutto di guardare The Crown, sopratutto questa quinta stagione.

Perché The Crown basa la sua forza sul scavare profondamente nella psicologia dei personaggi. E per fare questo ovviamente deve inventare o quantomeno ipotizzare cosa succedeva a porte chiuse. Come – e so che potrebbe veramente sorprendervi – fanno la maggior parte dei prodotti di questo tipo.

E approcciarsi a questa serie pensando di trovare un racconto della verità storica è una grande ingenuità.

Oltre a questo, la serie è del tutto positiva nel raccontare Carlo, che voleva portare novità e freschezza alla Corona. Fra l’altro non insinuando, come è stato detto, che avesse ideato un piano per attentare al trono.

C’è un po’ di The Crown in questa Diana

Elizabeth Debicki in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

La storia di Diana e Carlo è assolutamente centrale nella stagione, anche più della scorsa, dove comunque era molto presente.

Si sceglie ancora una volta il taglio più intimistico, in cui si racconta soprattutto quello che succedeva a porte chiuse e le profonde crepe che si erano formate ormai da tempo nel loro matrimonio.

Perfetta la scelta di Elizabeth Debicki come interprete: la sua prova attoriale è stata davvero convincente. Una regia che la premia continuamente, insistendo molto su primi piani stretti, mentre l’attrice tiene spesso gli occhi bassi e guarda verso l’alto, e così appare sempre molto timida e indifesa.

Ma in realtà è meno angelica di quanto sembri…

Fra luci e ombre

Nella scorsa stagione la figura di Diana era messa in scena come l’assoluta vittima della situazione

Al contrario in questi nuovi episodi Diana non è più una figura così positiva e senza ombre. Complice anche il cambio di casting, che la mostra come una donna molto più matura, e non più un’indifesa ragazzina. E per questo appare forse quasi una bambina capricciosa troppo cresciuta, che si sente costantemente vittima degli eventi.

Da questo punto di vista lo scambio con la Regina è rivelatorio non tanto di quanto effettivamente Diana fosse la vittima, ma più che altro di come si sentisse tale. In realtà Diana era sempre stata messa in un posto che le stava stretto, e quindi non aveva fatto altro che cercare di trovare una via di fuga da quell’ambiente per lei opprimente, anche con azioni non del tutto corrette.

Il principe promesso

Olivia Williams e Dominic West in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Come anticipato, il racconto di Carlo è molto meno drastico di quando si potesse pensare.

Si racconta di fatto il rapporto antagonistico fra Carlo e la madre, e con la corte in generale, in cui l’erede al trono cercava di mettersi al centro della scena e rinnovare il ruolo della Corona.

E si insiste molto su questo concetto, e sembra veramente che in qualche misura Carlo agisca alle spalle della madre per scalzarla.Ma in realtà non è così. Semplicemente il futuro re cerca di trovare il suo posto, piuttosto infelice di non poter salire al trono immediatamente, cercando intanto di guidare la madre secondo le sue idee.

Ed è un racconto che ha tutto un altro sapore alla luce dei recenti eventi…

Piccoli problemi di corone

Leslie Manville in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Anche se più marginali, in questa stagione si racconta anche di altre questioni dei membri della famiglia reale.

Per quanto Elisabetta sia molto meno presente in scena, il suo rapporto con Filippo colpisce a fondo, complice anche la presenza di questi due straordinari attori, perfetti nei loro ruoli. Si racconta un matrimonio non del tutto felice, anzi quasi con ferite aperte da tempo e mai rimarginate, che però alla fine sembra trovare una sorta di pacifico compromesso.

Ma è pure un filo della narrazione quasi troncato.

Un piccolo spazio ha anche Margaret, di cui ho assolutamente adorato la scelta dell’attrice, molto più calzante rispetto a Helena Bonam Carter. Il personaggio ha una puntata quasi tutta per lei, che ho trovato molto toccante, ma la sua storia rimane sotterranea, ma presente, per il resto della stagione.

Perché forse fra lei e Diana non c’era così tanta differenza…

Un finale non scontato

Imelda Staunton in una scena di The Crown 5, serie tv Netflix creata da Peter Morgan

Ammetto che il finale mi ha lasciato un po’ interdetta.

E non penso di essere l’unica.

Come penso tutti, mi aspettavo una conclusione che quantomeno mostrasse un accenno della tragica morte di Diana e le sue conseguenze. Invece si gettano solo le basi della situazione che effettivamente finirà in tragedia.

E la vera conclusione, molto malinconica, è Elisabetta che visita la sua amata nave, che viene mandata in pensione, e po’ anche lei stessa si sente un ricordo del passato, sopratutto dopo le pressioni del figlio.

E non sa che il momento finale di un’era sta davvero per arrivare…