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Black Mirror 3 – La prima prova

Black Mirror 3 (2016) è la terza stagione della serie cult creata da Charlie Brooker, la prima dopo l’acquisizione di Netflix.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 3?

Assolutamente sì.

Black Mirror 3 presenta tre puntate davvero fantastiche Nosedive, Shut up and dance e San Junipero – e, per l’altra metà, episodi magari un po’ meno originali nelle tematiche, ma comunque robusti e interessanti per le riflessioni che propongono.

Insomma, ancora una stagione veramente ottima, nonostante il maggior numero di episodi, e, soprattutto, nonostante a questo punto Black Mirror fosse passata sotto la direzione di Netflix, i cui effetti si vedranno più avanti…

Nosedive

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Nosedive è la mia puntata preferita di Black Mirror in generale.

Un episodio capace di prendere un concetto molto semplice e reale – la popolarità sui social media – e trasformarlo in una storia colorata con tante pennellate di confortanti tinte pastello, che però nascondono un incubo quanto mai vicino a noi.

E così, anche se indirettamente, parla di noi: un mondo molto spesso filtrato dall’immagine che diamo attraverso i social media, dove spesso e volentieri mostriamo solo le parti migliori della nostra vita, nascondendo tutto il resto.

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Particolarmente evidente il concetto nella scena del bar, quando la protagonista vuole immortalare il momento con una foto estremamente finta: in realtà il caffè è terribile, il biscotto non l’ha neanche mangiato…

Ma vuoi mettere l’ottenere per questo l’approvazione degli altri?

E così muore ogni tipo di genuinità, sia positiva che negativa, che però esplode in questa magnifica, quanto stranamente rincuorante, chiusura dell’episodio…

Playtest

Wyatt Russel in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

Non amo particolarmente Playtest, anche se è una puntata di tutto rispetto.

In particolare, funziona molto bene la costruzione della tensione: in totale contrapposizione con i toni profondamente orrorifici del finale, il protagonista appare per buona parte della puntata spensierato, guascone.

Il classico personaggio che ride in faccia alla morte.

Wyatt Russel e Wunmi Mosaku in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

E in questo modo riesce a far tranquillizzare anche noi, che empatizziamo facilmente con il suo personaggio e che ci immergiamo in questa situazione così apparentemente tranquilla, quasi noiosa.

Invece entriamo in un incubo che cita Cronenberg più volte – il ragno umanoide ricorda il suo analogo in Il pasto nudo (1991), mentre il plug nel retro della nuca richiama da vicino eXistenZ (1999).

E, per aggiungere orrore all’orrore, una costruzione alla Inception (2010) ci lascia con una sola una domanda in mente: quanto siamo pronti a farci penetrare dalle tecnologie e intelligenze artificiali, capaci potenzialmente di sconvolgerci la mente così profondamente?

Shut Up and Dance

Alex Lawther in una scena di Shut up and dance (Zitto e balla), Black Mirror 3

Shut Up and Dance è una delle puntate più di impatto per un semplice motivo.

Tutto quello che succede nella puntata, potrebbe facilmente accadere nel mondo reale.

Quanto potrebbe essere facile che anche il più attento di noi installi senza volerlo un virus sul proprio computer e si faccia involontariamente spiare, anche nell’atto più innocente, che però, se fosse svelato al mondo, gli rovinerebbe per sempre la vita?

E così è perfettamente credibile che un troll qualunque su internet covi dentro di sé una strana voglia di giocare con degli sconosciuti, terrorizzarli e fargli fare cose apparentemente senza senso, per il puro ludibrio.

E per questo il finale è così scioccante, così perfetto.

San Junipero

Gugu Mbatha-Raw e Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una delle puntate più amate di Black Mirror.

Anzitutto perché fu un episodio che uscì al momento giusto: dopo il successo recente di Stranger Things, era appena scoppiata la moda degli Anni Ottanta, con una ricerca delle atmosfere vintage di cui la puntata è piena.

Al contempo, è una puntata necessaria: al tempo – e in realtà ancora oggi – c’era un disperato bisogno di personaggi queer che non fossero semplicemente incasellati in stereotipi facilmente digeribili per il pubblico medio, ma qualcosa di più profondo e rappresentativo.

Ma è anche molto più di questo.

Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una dolcissima storia romantica, ma anche una riflessione sulla morte, sulla vecchiaia e, per una volta, una prospettiva positiva su un futuro possibile, uno sguardo su quello che oggi chiameremmo l’ancora acerbo Metaverso.

Non solo un giocattolone come lo pensano molti, ma una possibilità concreta per molte persone di avere una seconda possibilità che, per i più vari motivi, possono non aver avuto nella vita reale, e così anche una felice prospettiva di aldilà

Men Against Fire

Men Against Fire forse non è una delle puntate più brillanti di Black Mirror, ma comunque offre spunti di non poco interesse.

Di fatto questo episodio racconta quella che sarà la guerra del futuro, e di come i progressi tecnologici potranno servire anche per ingannare la mente dei civili quanto dei militari, così da rendere la loro vita un po’ più semplice nello sconfiggere il nemico.

E così i nuovi conflitti diventano delle effettive guerre lampo, dove non c’è più assolutamente il dubbio di star uccidendo qualcuno che bisogna distruggere, dove l’empatia, la fratellanza, quello scrupolo che ferma il soldato dal premere il grilletto, è scomparso per sempre…

Hated in the Nation

Hated by the Nation è una puntata un po’ meno ricordata di Black Mirror, ma è indubbiamente molto interessante.

Di fatto si rimescolano le carte in tavola di White Bear e Shut up and dance: di nuovo la facilità della gogna pubblica, in questo caso nella spersonalizzazione e alienazione della nostra identità online, dove ci permettiamo di dire e fare cose che mai faremmo nella vita quotidiana.

Ma infine le persone veramente colpite sono gli autori stessi della condanna, che hanno augurato la morte e ricoperto di insulti persone normali, totalmente indifferenti alle conseguenze delle loro azioni, ma sicuri di essere intoccabili in quanto parte di un gruppo di colpevoli.

E, ancora una volta, è tanto più inquietante se si pensa come questa realtà potrebbe essere dietro l’angolo: il riconoscimento facciale è una tecnologia ormai consolidata, utilizzata in Cina proprio per motivi politici, la crisi delle api è un problema tutt’ora dibattuto…

Il resto è ormai la nostra quotidianità.

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Black Mirror 4 – Scricchiola che ti scricchiola…

Black Mirror 4 (2017) è la quarta stagione creata da Charlie Brooker, la seconda distribuita direttamente da Netflix, composta da sei puntate.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 4?

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

In generale, sì.

Black Mirror 4 è la stagione in cui questa serie comincia a mostrare la sua crescente debolezza, con puntate abbastanza in linea con lo spirito originario – USS Callister e Arkangel – e altre del tutto fuori contesto – Crocodile e, soprattutto, Black Museum.

Tuttavia, non siamo ancora del tutto ai picchi di bruttezza della stagione cinque e sei, dove per la maggior parte gli episodi potrebbero essere presi da una qualunque altra serie di Netflix che non si chiama Black Mirror

Insomma, dategli una chance, ma non aspettatevi molto…

USS Callister

Jessie Plemons in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

USS Callister è una delle cose migliori che sono successe a Black Mirror dopo l’acquisizione di Netflix.

Nonostante, infatti, la puntata sia di fatto un ripescaggio della stessa tecnologia di San Junipero e di fatto una riproposizione più edulcorata di quello che si era visto in White Christmas, la possibilità di utilizzare Star Trek – di cui Netflix ha i diritti – la rende una simpatica chicca.

Un episodio che rappresenta un futuro molto verosimile – sostanzialmente si parla degli attuali visori della realtà virtuale, ma più avanzati – ovvero il prossimo passo nel mondo del gaming – che, personalmente, non vedo l’ora che si realizzi.

Cristin Milioti in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

In particolare, era quasi necessario che questo racconto fosse positivo.

Anche se la resa del villain non è del tutto equilibrata – si spinge un po’ troppo l’acceleratore su come sia uno sfigato asociale, andando a ricalcare un classico stereotipo – preferisco che racconti Daly come una mela marcia che usa male una tecnologia avveniristica.

Sarebbe stato infatti fin troppo banale anche per Black Mirror voler demonizzare una novità che sta già diventando il presente, finendo così per andare a ingrossare le fila di chi critica molto ingenuamente i videogiochi – e i nuovi media in genere – definendoli alienanti.

Una puntata insomma dove la rappresentazione di un futuro auspicabile era di fatto necessaria…

Arkangel

Arkangel è forse la puntata più Black Mirror dell’intera stagione.

Al centro vi troviamo una tecnologia che potrebbe potenzialmente risolvere moltissimi problemi, e che non pochi genitori accetterebbero ad occhi chiusi per proteggere i loro figli, ma che, di fatto, impedisce ai bambini di crescere.

La scoperta del mondo, con i suoi lati positivi e negativi, l’affrontare le nostre paure, il metterci alla prova per capire i nostri limiti, sono tutti dei momenti fondamentali che definiscono la nostra personalità, ma soprattutto il nostro rapporto col mondo esterno.

In più, superata una certa età, appare evidente come un figlio non si senta più al sicuro rimanendo sotto il costante controllo dei genitori, non riuscendo così a crearsi il proprio spazio privato e la propria indipendenza.

Ma, alla fine della puntata, riusciamo davvero ad essere contro la scelta di Marie oppure, in un certo senso – che noi siamo genitori o meno – riusciamo a capirla e ad empatizzare con lei?

Insomma, al posto suo ci saremmo veramente comportati diversamente?

Crocodile

Andrea Riseborough in una scena di Crocodile, Black Mirror 4

Qui si cominciano a sentire i primi scricchiolii.

Crocodile purtroppo non è una puntata di per sé brutta, ma è molto fuori contesto se stiamo parlando di Black Mirror: di fatto è un thriller, anche un discreto thriller, ma in cui l’elemento tecnologico è puramente accessorio, e non porta a nessuna riflessione di sorta.

Di fatto, è semplicemente un’invenzione che potrebbe aiutare a sbrigare molte situazioni burocratiche o a fare luce più facilmente su alcune questioni da chiarire, ma alla fine sembra un po’ un ripescaggio di The Entire History of you, ma molto meno graffiante.

Insomma, poco originale, poco Black Mirror.

Hang the DJ

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

Hang the DJ è una puntata che personalmente apprezzo.

Non sono una grande fan delle storie romantiche, ma in questo caso la puntata mi ha colpito per la sua scrittura particolarmente intelligente e mai banale, che riesce a delineare il rapporto fra i protagonisti in maniera simpatica e, soprattutto, credibile.

L’ho trovata un po’ una versione più edulcorata di The Lobster (2015) – da cui potrebbe serenamente aver preso spunto – per raccontare una tecnologia che sarebbe veramente rivoluzionaria se fosse effettivamente messa sul mercato…

Forse l’unica cosa che mi convince non del tutto di questo episodio è il fatto che, più che una puntata di Black Mirror, sembra un episodio promozionale che racconta l’ultima novità di Tinder

Metalhead

Maxine Peake in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Metalhead è un esperimento interessante.

Però capisco perché molti non l’hanno accolto bene.

Una regia a suo modo sperimentale, sicuramente molto intraprendente nell’uso di una fotografia tutta particolare, che però rende perfettamente le atmosfere cupe e post apocalittiche di questo episodio.

La protagonista è di fatto una novella Sarah Connor di Terminator (1984), che si muove in spazi vuoti e abbandonati, lottando fino all’ultimo non tanto per portare a termine la missione, ma proprio per salvare la sua stessa vita.

E il metalhead ha un character design veramente indovinato.

Ma, nonostante tutti questi meriti, ancora una volta non è Black Mirror.

Sembra più un mediometraggio sperimentale da presentare a qualche festival, mancante proprio di due elementi fondamentali che caratterizzano la serie di cui fa parte: la riflessione sociale e, soprattutto, un world building adeguato a contestualizzare la vicenda.

Anzi, sembra proprio che l’episodio voglia giocare su questo mistero di fondo riguardo al decadimento dell’umanità, lasciando quasi volutamente un’enigmaticità di fondo sulla figura del metalhead, di cui non sappiamo né l’origine, né la funzione…

Black Museum

Letitia Wright in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Qui assistiamo al vero crollo.

Black Museum vorrebbe essere tantissimo White Christmas, ma ne è totalmente incapace: appare davvero come uno di quei clip show delle sitcom, ovvero un’accozzaglia di brevi storie per tirare insieme una puntata.

E fossero storie interessanti…

Sono solo un ripescaggio poco originale di molto di già visto in Black Mirror, nello specifico San Junipero, White Bear e il già citato speciale di Natale fra la seconda e terza stagione.

E, soprattutto, manca del tutto la critica sociale che rende Black Mirror tale.

Troviamo invece una sequela di invenzioni che sono per molti versi un more of the same l’una dell’altra, e che sembrano più create per scioccare lo spettatore, delle invenzioni di uno scienziato pazzo, più che qualcosa di veramente su cui riflettere.

Oltretutto, dopo tutto quello che si vede nella puntata, il finale è tutto tranne che felice: Nish deve convivere con sua madre nella sua testa – incubo vero – e affigge la stessa condanna ad un personaggio negativo, con un occhio per occhio veramente terribile…

Come se tutto questo non bastasse, ho odiato questo fanservice auto celebrativo.

Insomma, un mezzo disastro.

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Black Mirror 1 – L’inizio dell’incubo

Black Mirror 1 è la prima stagione della serie ormai iconica nata dalla mente di Charlie Brooker, che al tempo venne trasmessa – così come la seconda stagione – su Channel 4.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 1?

Daniel Kaluuya e Jessica Brown Findlay in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Assolutamente sì.

Per quanto questa prima stagione non sia la mia preferita, in questo terzetto di episodi racchiude tutto quello che è Black Mirror: futuro lontano, futuro prossimo e un drammatico presente, tutti accomunati da una sottile quanto ancora attualissima critica sociale.

Al contempo, è la stagione con le puntate veramente più disturbanti dell’intera serie, che lasciano un buco nello stomaco per molto tempo…

Ma ne vale la pena.

The National Anthem

La primissima puntata di Black Mirror è già tutto un programma.

Lo scandalo comincia a prendere piede passo dopo passo, seguendo il climax stesso della puntata, mettendo in scena un concetto drammaticamente reale – ancora di più oggi: non puoi fermare il web.

E così bastano nove minuti online che già tutto il mondo è a conoscenza del tuo scandaloso contenuto, ed inutili sono i tentativi di tenere sotto controllo la situazione: è diventato virale e, per questo, inarrestabile.

Rory Kinnear in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Al contempo, i canali di informazione sono come dei cani sguinzagliati a caccia della notizia, a caccia della preda, pronti a tutto pur di portare a casa l’esclusiva, senza alcun tipo di scrupolo.

Ma tutta la situazione è solo una sceneggiata, volta solo a dimostrare un concetto: basta un video amatoriale caricato su YouTube per distogliere totalmente l’attenzione da tutto il resto, per svuotare le strade, per tenere tutti incollati allo schermo…

15 Millions Merits

Daniel Kaluuya in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

La seconda puntata è anche più scioccante e riesce a centrare veramente il punto.

Guardare 15 Millions Merits è come entrare materialmente all’interno dei nostri schermi – che sia la tv o il cellulare poco importa – e ritrovarsi in un incubo claustrofobico da cui non possiamo scappare.

In particolare, al tempo erano molto popolari – e in parte lo sono ancora – i cosiddetti giochi freemium, che contengono al loro interno potenziali micro-transazioni con soldi reali, camuffate dalla valuta interna al gioco.

Daniel Kaluuya in una scena di National Anthem (Black Mirror 1)

Così i personaggi si muovono in un mondo virtuale e illusorio, dove non è neanche possibile avere accesso alla luce del sole, in cui la loro grigia – letteralmente – e misera esistenza si contrappone in maniera drastica al mondo esplosivo e coloratissimo della tv.

Ma, proprio quando il protagonista trova uno scopo nella sua vita annoiata, fallisce due volte: la prima accompagnando Abi verso un sogno che in realtà è l’incubo dei talent show, in questo caso discarica per arricchire il mondo dei film per adulti.

E, soprattutto, fallisce nell’aprire gli occhi al pubblico, diventando lui stesso un pupazzo, un prodotto da servire nel marasma di contenuti disponibili, con cui asserire mentre si compiono le stesse azioni condannate…

The Entire History of You

Anche se non è la mia puntata preferita di questa stagione, The Entire History of You è quella che più si avvicina a quello che davvero adoro di Black Mirror.

Il grain è un’invenzione che, sulla carta, potrebbe risolvere tantissimi problemi: diventerebbe praticamente impossibile mentire, commettere crimini e rimanere impuniti, e sarebbe molto più facile ricostruire situazioni e dinamiche passate.

Tuttavia, la puntata dimostra molto chiaramente cosa verosimilmente succederebbe a molte persone: diventare del tutto ossessionati dai propri ricordi, andando ad inseguire e a rivivere infinite volte inutili particolari, senza riuscire più a vivere nel presente.

Nel caso di Liam, è il prototipo dell’uomo geloso con in mano un potere che non dovrebbe avere.

Fin dall’inizio si dimostra incredibilmente sospettoso della compagna, e in generale del tutto ossessionato dal rivivere momenti e particolari del suo passato, andando a ricercare i dettagli che confermerebbero la sua teoria: Fi non lo ama più.

E, se potrebbe apparire anche solo vagamente giustificato, dalle parole della moglie scopriamo che Liam ha avuto in precedenza comportamenti assai tossici – come sparire per giorni – che rappresentano proprio la sua volontà autodistruttiva e incapace di ricostruire un rapporto che, forse, poteva ancora essere salvato…

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Black Mirror 2 – Due puntate fanno un cult

Black Mirror 2 (2013) è la seconda stagione della serie nata dalla mente di Charlie Brooker, al tempo rilasciata ancora su Channel 4.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 2?

Assolutamente sì.

Come stagione è un pochino più altalenante rispetto alla precedente, ma gode anche di due episodi davvero grandiosi come White Bear e White Christmas, fra i più iconici dell’intera serie.

Complessivamente comunque tutte le puntate – quale più, quale meno – offrono spunti di riflessione veramente interessanti, mostrando situazioni che, se non sono il nostro presente, rappresentano un futuro più vicino di quanto sembri…

Be Right Back

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Be Right Back è forse una puntata in chiave minore di Black Mirror.

Infatti, a differenza dei precedenti episodi – e degli altri di questa stagione – non mi ha lasciato un particolare senso di angoscia, ma più che altro una sorta di rassegnazione e riflessione sul presente e su quello che sarà il prossimo futuro.

Probabilmente con le tecnologie odierne, e con la IA sempre più in ascesa, non sarebbe difficile creare quello che si vede in scena, almeno per la parte scritta e parlata. E probabilmente quello che per questa puntata è il futuro, per noi oggi è il nostro presente.

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Certo, le tecnologie odierne non potrebbero portare effettivamente in vita una persona morta con tutte le sue caratteristiche, ma solamente limitarsi a ricostruire una personalità basata su quello scampolo di informazioni che le offriamo.

Tuttavia, se dieci anni fa Black Mirror immaginava una realtà che non è tanto lontana dal presente, quanto ci vorrà perché potremo portare in vita le nostre copie artificiali perfette, praticamente indistinguibili, che vivranno insieme a noi?

E le vorremo ancora chiudere in soffitta come Martha?

White Bear

Lenora Crichlow in una scena di White Bear (Black Mirror 2)

White Bear è uno dei miei episodi preferiti di Black Mirror.

Semplicemente perché riesce a mettere in scena in maniera straziante quanto terribilmente verosimile un problema che, soprattutto oggi, è un germe sociale difficile da sradicare, anzi, è ancora più pericoloso: la gogna pubblica.

È così facile che una persona passi dall’essere il carnefice alla vittima, pur non essendo percepita come tale: dal momento che quell’individuo ha compiuto un’azione errata – di qualsiasi tipo – ci sentiamo legittimati a fare di lui quello che vogliamo.

E così una donna che ha compiuto un crimine così efferato, così ingiustificabile ed inscusabile come rapire, torturare ed uccidere una bambina, non può che essere torturata a sua volta, diventare l’attrazione di un parco tematico.

E non si può non rimanere ammutoliti mentre sentiamo le sue urla disperate di dolore, mentre vediamo come tutti gli attori in scena rimettano ogni cosa al suo posto per il prossimo giro di torture, mentre osserviamo i ghigni degli ospiti che potrebbero facilmente essere i nostri…

The Waldo Moment

The Waldo Moment è una puntata che, a posteriori, fa sinceramente paura.

Già nel 2013 Black Mirror è riuscito a rappresentare fedelmente quello che sarebbe stato il trionfo del populismo da lì a pochi anni, con i capipopolo, le voci fuori dal coro che portavano con sé una grande quantità di voti.

In questo caso Waldo è una marionetta vuota, che non fa altro che dare voce ai sentimenti più bassi dei votanti, che sbarrano il suo nome sulla scheda elettorale solamente per simpatia.

E così si potrebbero potenzialmente trovare con al governo un pupazzo manovrato nell’ombra da chissà quale lobby con chissà quale interesse, nascosta dietro ad un cartone simpatico e irriverente…

Bianco Natale Black Mirror 2

Due anni dopo la seconda stagione, è stato anche rilasciato uno speciale di Natale, che fra l’altro divenne uno degli episodi più di culto della serie stessa.

Di fatto sono tre storie che si intrecciano, in un mondo molto più vicino di quello che potremmo pensare: quanto manca prima che gli smartphone diventino parte del nostro stesso corpo?

E da qui si può implementare una tecnologia che sulla carta potrebbe potenzialmente risolvere il problema dello stalking e rendere effettivi gli ordini restrittivi, senza possibilità di errori.

Nella pratica, si darebbe in mano a persone comuni il potere di cancellare le persone dalla propria vita, anche solamente spinti da un momento di debolezza emotiva, che potrebbe però ad un atto irreparabile…

Ancora più inquietante la questione dei cookie, che mi ha ricordato molto Severance, ma con il concetto di base ha radici più lontane, addirittura in Asimov: i diritti dei robot – o AI che dir si voglia.

Proprio come per Be Right Back, è una tecnologia più vicina di quanto pensiamo, visto che già oggi siamo capaci di dialogare efficacemente con le intelligenze artificiali: il mondo mostrato in questo speciale potrebbe essere dietro l’angolo…

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Questo mondo non mi renderà cattivo – La svolta amara

Questo mondo non mi renderà cattivo (2023) è una serie animata di produzione Netflix, scritta e diretta dal fumettista Zerocalcare – la seconda produzione a suo nome dopo Strappare lungo i bordi (2021).

Di cosa parla Questo mondo non mi renderà cattivo?

Un vecchio amico di Zerocalcare torna a Roma dopo una lunga assenza, ma sembra incapace di reinserirsi nel difficile microcosmo del quartiere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Questo mondo non mi renderà cattivo?

Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Sì, ma…

Questo mondo non mi renderà cattivo rappresenta un punto di svolta abbastanza importante per la pur breve produzione seriale di Zerocalcare.

Se infatti Strappare lungo i bordi (2021) riprendeva – per toni e soggetto – la sua opera prima, La profezia dell’Armadillo (2012) con questa nuova serie si passa a tematiche ben più mature della sua produzione più recente.

Per questo il prodotto ha un inaspettato tono ben più politico e attuale, andando a trattare con grande franchezza, nonché con una verosimiglianza quasi dolorosa, tematiche molto forti della nostra contemporaneità.

Insomma, arrivateci preparati.

La cornice narrativa

Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

La struttura narrativa di Questo mondo non mi renderà cattivo è abbastanza simile a quella della serie precedente.

Si racconta infatti ancora una volta un progressivo avvicinamento ad un evento determinante della storia, che però rimane oscuro allo spettatore praticamente fino alla fine degli episodi.

Tuttavia, la cornice narrativa in questo caso è ben più solida: l’arresto e l’interrogatorio giustificano effettivamente il perché l’elemento fondamentale della trama rimanga nascosto per la maggior parte del tempo.

E, anche se l’idea che il racconto alla fine sia solo una confessione con l’Armadillo l’ho trovata un po’ debole, il risvolto della scena, dal sapore comico-grottesco, mi ha tutto sommato convinto.

Ricucire i rapporti

Cesare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Il mondo di Zerocalcare è incredibilmente verosimile.

Quante volte durante la nostra vita ci siamo lasciati alle spalle moltissimi rapporti che si sono improvvisamente spezzati, senza un vero motivo, senza che nessuno sapere quasi il perché, se non che la vita che va avanti

Da qui il pesante imbarazzo nel tentativo di riconciliazione con Cesare, che ha il suo picco drammatico nella scoperta che il vecchio amico sia in realtà dell’altra sponda, quella da lui combattuta e disprezzata ogni giorno…

Ma il perché è anche peggio…

L’esasperato isolamento

Cesare, Secco e Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Raccontando il dramma di Cesare, Zerocalcare in realtà ci mostra un problema ben più ampio.

In Italia è presente purtroppo una tristissima realtà per cui determinate categorie sociali – nello specifico i tossicodipendenti e i carcerati – diventano irrimediabilmente degli emarginati.

Anche se intraprendono un percorso, che, in teoria, dovrebbe portare ad un loro reinserimento…

E questo si traduce proprio nella storia di Cesare: andare a rifugiarsi nelle frange politiche più estreme e radicali pur di trovare qualcuno con cui fare gruppo, qualcuno che veramente ci accetti senza giudizi…

Oltre la propaganda

Sara in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Il dramma di Sara è anche più disturbante.

L’amica, da sempre considerata come baluardo della giustizia e della correttezza, prende una strada del tutto inaspettata, associandosi alle posizioni di quel gruppo sociale che, almeno all’apparenza, è contrastato da tutti.

E le sue motivazioni sono davvero strazianti.

Rimasta per anni reclusa in una sorta di limbo dell’impossibilità di realizzazione personale e lavorativa – estremamente tipico nel mondo del lavoro italiano odierno – si presenta finalmente per lei la prospettiva di realizzare il suo sogno.

Sara, Secco, Zerocalcare in una scena di Questo mondo non mi renderà cattivo (2023)

Ma subito lo stesso le è strappato via, e per pure questioni ideologiche, che è tanto facile accettare se non vanno a colpirti sul personale, ma che sono ben più difficili da digerire quando mettono un ostacolo a quella piccola vittoria personale tanto agognata…

Tuttavia, Sara si dimostra ancora una volta la più intelligente del gruppo, andando a scoperchiare quella propaganda tossica che allontana l’attenzione dagli effettivi problemi più sotterranei e strutturali.

E, soprattutto, mai risolti.

Questo mondo non mi renderà cattivo finale

A primo impatto, il finale di Questo mondo non mi renderà cattivo potrebbe risultare molto sbrigativo, e non effettivamente conclusivo.

Tuttavia, ripensandoci a posteriori, riesco a capire le motivazioni di questa scelta abbastanza anomala per una narrazione seriale, in particolare mancante di una quasi ovvia riconciliazione fra Zero e Cesare.

Da una parte, penso che Zerocalcare abbia voluto raccontare una storia quanto più vera, tratta dalla propria esperienza personale – che quindi non ha avuto, come comprensibile, un effettivo lieto fine.

Inoltre, questo finale è apprezzabile per la sua onestà: nonostante il gruppo di Zero non sia veramente dalla parte di Cesare per tutta una serie di motivi, sceglie comunque di difenderlo, di fare la cosa giusta.

Questo mondo non mi renderà cattivo fumetto

Se avete apprezzato la serie e volete scoprire l’opera cartacea di Zerocalcare, ecco qualche consiglio.

Se non avete mai letto nulla di suo, vi consiglio in linea generale di andare in ordine cronologico, nello specifico di cominciare proprio dall’opera prima, La profezia dell’armadillo (2012).

Tuttavia, se dopo questo volete esplorare i riferimenti interni alla serie, vi consiglio di leggere – nel seguente ordine – Un polpo alla gola (2012), Macerie Prime (2017) e Scheletri (2020).

Buona lettura!

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The White Lotus – La società al vetriolo

The White Lotus (2021 – …) di Mike White è una serie tv di genere drammatico e satirico, dal taglio semi-antologico. Un prodotto che è stato ampiamente premiato agli Emmy, ma che ha avuto un riscontro abbastanza tiepido in Italia.

È distribuita da HBO e in Italia è disponibile su NOW.

Di cosa parla The White Lotus?

Ogni stagione la serie racconta le intricate vicende di un gruppo piuttosto vario e colorito di personaggi, accomunati dall’essere ricchi e dall’alloggiare presso uno dei resort del White Lotus, appunto.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The White Lotus?

Meghann Fahy in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Assolutamente sì.

Ho cominciato questa serie con poco interesse, attirata principalmente dal passaparola positivo intorno al prodotto – e dal fatto che è stato paragonato al mio adorato Triangle of Sadness (2022). E ne sono rimasta assolutamente rapita: è difficile anche spiegare perché questa serie sia così tanto coinvolgente.

Sarò perché la scrittura dei personaggi e delle loro relazioni è sublime, mai banale, nonostante i temi trattati potrebbero facilmente appartenere a qualsiasi drama di terza categoria. Senza contare dell’interessantissima e sempre attuale riflessione sulla società odierna.

Insomma, non ve la potete proprio perdere.

Ogni sezione parla solamente della stagione di riferimento.

The White Lotus 1

La prima stagione è ambientata nel resort White Lotus alle Hawaii.

La moglie trofeo

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

La storia forse più drammatica è quella di Rachel.

Si percepisce fin da subito il disagio della sua relazione: la ragazza è intrappolata con un uomo che è in realtà solo un bambino viziato, che pretende di mettere i piedi in testa a tutti e di avere sempre l’ultima parola.

Ma Shane ha pescato la donna sbagliata.

Rachel non è la classica donna immagine e arrampicatrice sociale da mettere in mostra all’occorrenza: è una donna che ha cercato faticosamente di farsi strada in una realtà piena di insidie, continuando imperterrita nel suo lavoro.

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

Ma, al contempo, è anche vittima della sua grande insicurezza: accetta le pressioni del marito e i suoi capricci senza una parola, se non qualche timida protesta, che però viene sotterrata dalle continue urla lagnose di Shane.

E vive con molto disagio la sua condizione – evidente ed esplicitata anche dalla madre del marito – di moglie trofeo, cercando di crearsi un proprio spazio di autonomia, non riducendosi a portare avanti lavori senza significato solo per riempire il tempo e acquisire uno status.

Ma il tentativo di emancipazione fallisce: Rachel, troppo spaventata di questo ulteriore grande passo che sta compiendo, torna con la coda dalle gambe dal marito, promettendogli con voce spezzata che sarà felice.

Le paladine di carta

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Olivia e Paula sono apparentemente due ragazze viziate di buona famiglia, superficiali e vuote.

Tuttavia, più la narrazione prosegue, più vengono svelati i loro conflitti sepolti, con al centro la possessività e la gelosia di Olivia, motivo per cui Paula le nasconde la sua relazione con Kai.

Ed entrambe raccontano un conflitto generazionale profondo, ben rappresentato dai vari discorsi fra loro e i genitori: gli adulti vivono ancora delle vergogne e dei principi della vecchia generazione, in particolare di quello dell’omosessualità come demascolinizzante.

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Anche più interessante è il racconto del colonialismo 2.0, ben rappresentato dal resort stesso.

Tuttavia, entrambe le parti sbagliano: se i genitori se ne lavano le mani e negano tutte le loro colpe, chiosando che non possono farci nulla, d’altra parte le due ragazze prendono strade più estreme – e comunque non risolutive.

Infatti, oltre alla condanna aggressiva nei confronti della generazione precedente, non è affatto risolutiva l’idea di Paula, che sceglie di aiutare Kai e la sua famiglia a riconquistare quanto gli è stato tolto improvvisandosi come un’improbabile Robin Hood.

Un atto che porta paradossalmente vantaggio ai conquistatori e che distrugge definitivamente la vita a quelle che erano le vittime in primo luogo.

Il capriccio del momento

Jennifer Coolidge in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il personaggio di Tanya racconta forse una figura più stereotipata, ma la cui storia ha dei significati molto interessanti.

Infatti la donna è il classico personaggio ricco e pieno di stranezze, che può permettersi di inseguire ogni capriccio, per quanto temporaneo. E in questo gioco perverso ci finisce di mezzo Belinda, che per un breve periodo diventa la sua favorita, illudendosi di promesse presto smentite.

Natasha Rothwell in una scena della prima stagione di The White Lotus

Inizialmente la donna ha evidentemente la sensazione di starsene approfittando, ma mette presto da parte questi suoi scrupoli per andare fino in fondo, e guadagnarci qualcosa. Ma la sua finestra temporale è brevissima, e in un attimo Tanya è passata al capriccio successivo.

Ed è estremamente interessante come il cambio di idea di questa ricca ereditiera, che la stessa vive con così tanta leggerezza ed egoismo, determina così profondamente il destino di Belinda…

Le belle apparenze

 Murray Bartlett in una scena della prima stagione di The White Lotus

Armond, il manager del White lotus, è forse il personaggio che meglio rappresenta il tema di fondo della serie.

Apparentemente il resort è un luogo idilliaco e paradisiaco, ma è solo un’apparenza, appunto: un’apparenza che nasconde in realtà tutto il marcio, tutti i capricci impossibili degli ospiti, i loro segreti, e i loro peccati.

E Armond, assolutamente stufo di questa situazione, comincia sempre di più a dirigersi verso la sua autodistruzione, utilizzando contemporaneamente le droghe rubate alle due ragazze e inimicandosi Shane, che sempre più insistentemente vuole punirlo.

E, come per Kai e Belinda, è l’unico che veramente ci perde, addirittura con la sua vita.

La vera liberazione

Fred Hechinger in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il vero vincitore della serie è Quinn.

Inizialmente ci viene raccontato come un adolescente dissociato, del tutto dipendente dalla tecnologia e dalla pornografia – in maniera quasi stereotipica. Sarà un’onda fortunata a privarlo di tutto, con una funzione quasi catartica.

Anche in questo caso è una costruzione passo passo: prima viene esiliato sulla spiaggia e vede per la prima volta una balena, poi comincia ad unirsi agli atleti ogni mattina, fino a rendersi conto della fumosità e l’inutilità della vita che aveva condotto fino a quel momento.

Ed è l’unico che davvero sceglie di abbandonare quel mondo, e remare felice verso l’orizzonte.

The White Lotus 2

La seconda stagione è ambientata nel resort White Lotus in Sicilia.

Il gioco delle coppie

Meghann Fahy,  Aubrey Plaza, Theo James e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Uno degli elementi centrali della stagione è il gioco delle relazioni, che si articola in ben quattro coppie e un triangolo amoroso.

Sulle prime, sembra che Harper e Ethan siano una coppia infelice, sopratutto per via della freddezza e dell’ossessione del controllo della donna, in totale contrasto con l’apparente felicità di Cameron e Daphne.

Tuttavia la stessa viene presto svelata come tutta apparenza: Cameron si intrattiene con diverse donne alle spalle della moglie, che ne è tuttavia consapevole, ma che decide comunque di mantenere in piedi la facciata.

Meghann Fahy e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Al contrario, la coppia più solida si rivela infine quella di Ethan e Harper, basata sulla totale fiducia e sincerità. E questo, nonostante la stessa fiducia venga meno sul finale, quando il marito è convinto che la donna l’abbia tradito con Cameron – come viene anche suggerito nel primo episodio.

Entrambe le storie – anzi proprio il loro contrasto – offrono diversi spunti di riflessione riguardo alla fragilità delle relazioni e di come spesso si decida di continuare a mantenere il quieto vivere delle stesse, pur avendo consapevolezza di tutte le bugie che vi stanno dietro…

Dove sta la morale?

 Beatrice Grannò e Simona Tabasco in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Altrettanto interessante sono le vicende di Lucia e Mia.

Per quanto riguarda Lucia, non è ben chiaro fino alla fine quanto e se la ragazza stia mentendo riguardo ad Alessio e quanto si sia effettivamente approfittato di Albie, con cui si intrattiene diverse volte e con cui sembra costruire un’effettiva relazione.

Eppure alla fine decide comunque di costruirsi una vita alle spalle del ragazzo, con un tradimento che neanche sembra toccarlo più di tanto, in quanto è subito pronto a tornare da Portia. È forse la realizzazione felice del disastroso piano di Kia e Paula nella prima stagione, derubando i ricchi per dare ai poveri?

E noi, da che parte stiamo?

Beatrice Grannò in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Molto più netta è la situazione di Mia.

La ragazza capisce che l’unico modo in cui – purtroppo – può fare carriera come cantante è concedendosi all’uomo di potere di turno. Tuttavia, appare chiaro fin dal principio che Giuseppe si voglia solamente approfittare di Mia.

E per questo viene punito.

Alla fine la ragazza riesce ad ottenere il tanto ambito posto è perché convince con tante belle parole Valentina e dimostra effettivamente di essere capace e di ottenere il favore del pubblico, a differenza appunto di Giuseppe.

E molto delicata è anche la relazione con Valentina.

Un sottile equilibrio

Sabrina Impacciatore in una scena della seconda stagione di The White Lotus

La storia di Valentina è quella con lo svolgimento più interessante.

La donna si invaghisce di Isabella e confonde la sua gentilezza con delle avance, andandole anche contro, togliendo un possibile spasimante dalla sua vita – ovvero Rocco. Tuttavia, nel momento della rivelazione del loro prossimo matrimonio, Valentina decide di non cedere alla cattiveria e all’abuso di potere.

Infatti, forse anche ammorbidita dalla relazione con Mia che le permette di esprimere finalmente i suoi desideri sessuali, la donna accetta la relazione di Isabella e Rocco, e sceglie consapevolmente di non punirla per averla rifiutata romanticamente.

Fra il thriller e il grottesco

Jennifer Coolidge e Jon Gries in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Tanya è l’unico personaggio che appare in entrambe le stagioni e che regala al secondo ciclo di episodi quel taglio thriller che lo rende per certi versi anche più interessante.

Tanya e Greg sembrano avere una relazione piuttosto infelice, da ogni punto di vista: sessualmente non sembrano riuscire a ritrovarsi, e così sentimentalmente Greg non ha più interesse per la donna, con cui si è unito probabilmente solo perché pensava di essere in fin di vita.

Jennifer Coolidge in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Infatti, anche se non viene esplicitamente confermato, Greg avrebbe instaurato un intrigato piano per eliminare la moglie e guadagnarci il più possibile. Così entra in scena questo gruppetto di personaggi quasi macchiettistici, che sembrano regalare a Tanya la più bella vacanza possibile.

In realtà, mettendo a poco a poco insieme i pezzi, la donna si dimostra molto meno ingenua di quanto sembri e capisce di essere in pericolo. E il suo personaggio è talmente goffo e grottesco che ci regala un gustosissimo finale fra il thriller e il comico, in cui Tanya fa disordinatamente strage dei suoi potenziali assassini, ma perde lei stessa la vita.

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Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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Malcolm in the middle – Il dramma della classe media

Malcolm in the middle (2000-2006), in Italia noto semplicemente come Malcolm, è un piccolo cult della televisione di inizio Anni Duemila.

Una sitcom, se così vogliamo definirla, ma più che altro una serie comedy veramente unica nel suo genere.

Perché Malcolm in the middle è una sitcom diversa

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan e Justin Berfield in una scena di Malcolm

Solitamente le sitcom – anche quelle più rinomate – sono caratterizzate da trame semplicissime, con dinamiche incredibilmente prevedibili e concetti facilmente digeribili per il pubblico medio.

Nel suo piccolo – e nella sua follia – Malcolm in the middle riuscì a scardinare questo concetto.

Raccontando la storia di una famiglia povera e folle insieme, e col suo taglio a tratti quasi surreale, la serie è riuscita a portare in scena una storia credibile e al contempo incredibilmente appassionante.

Oltre a raccontare in maniera più efficace i disagi della classe media statunitense: le famiglie strozzate dai debiti, le condizioni di lavoro distruttive e le dinamiche sociali imprevedibili.

Un racconto che si vede molto bene in particolare in due episodi: L’assicurazione (7×02) – in cui Hal, il padre di famiglia, si dimentica di pagare l’assicurazione sanitaria e impazzisce perché i suoi figli non si facciano male, pena sborsare soldi che non ha – e in Doni fatti in casa (6×06) – di cui parleremo più avanti.

Insomma, una serie che ha molto più da raccontare di quanto sembri.

Top 5 episodi Malcolm in the middle

Una selezione dei cinque episodi migliori di Malcolm in the middle, da cui magari partire per farsi un’idea del prodotto.


La partita perfetta (2×20)

or. Bowling

Frankie Muniz e Jane Kaczmarek in una scena di Malcolm

Una puntata che è una sorta di what if sdoppiato: Malcolm e Reese vanno al bowling e si racconta cosa sarebbe successo se li avesse accompagnati Lois o Hal. Intanto, Dewey rimane a casa in punizione.


Una puntata che mi piace moltissimo perché è costruita alla perfezione nell’alternare le due versioni e portando dinamiche per nulla prevedibili, anzi…


Se i ragazzi fossero ragazze (4×10)

or. If Boys Were Girls

Jennette McCurdy in una scena di Malcolm

La puntata più what if di tutte: mentre deve accompagnare i ragazzi al centro commerciale per comprare nuovi vestiti, Lois immagina se avesse avuto tre figlie femmine. Ma non è tutto oro quello che luccica…


La puntata che guardo a ripetizione perché è esilarante il comportamento delle controparti femminili dei protagonisti e le dinamiche che si creano, anche grazie al casting perfetto. Nonostante non manchino stereotipi di genere piuttosto infelici, è comunque una puntata che apprezzo anche oggi.


Un Natale difficile (5×07)

or. Christmas Trees

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield, Brian Cranston in una scena di Malcolm

Dal momento che la sua azienda lo costringe a due settimane di ferie non pagate sotto Natale, Hal decide di intraprendere una folle scommessa coi suoi figli: vendere alberi di Natale.


Una puntata che rappresenta benissimo questo senso di impotenza e di fallimento della classe media statunitense impoverita, che deve continuamente mettersi in gioco per riscattarsi, inseguendo il sogno impossibile del self-made man.


Blackout (7×07)

or. Blackout

Erik Per Sullivan in una scena di Malcolm

Un palloncino si impiglia nei pali della luce e crea un blackout in tutto il quartiere. Proprio la sera che ogni personaggio aveva un suo piano da portare a termine…


Adoro la costruzione di questa puntata: si intrecciano diverse vicende e pianificazioni, e la situazione viene mostrata dai diversi punti di vista dei personaggi, in venti gustosissimi minuti pieni di colpi di scena.


Una nuova famiglia (5×14)

or. Malcolm Dates a Family

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield in una scena di Malcolm

Lois intraprende una guerra personale contro la Pizzeria da Luigi, il ristorante preferito della famiglia. E i suoi familiari si organizzano di conseguenza. Intanto Malcolm conosce la famiglia della sua nuova ragazza, con esiti inaspettati.


Già la storyline della pizza è stupenda, ed è una di quelle puntate che adoro in cui Hal lavora in combutta con i suoi figli. Ma anche le altre storyline viaggiano sul taglio surreale e comico, che ho apprezzato – persino quella di Francis.

Questa recensione contiene piccoli spoiler – anche se è difficile farli per un prodotto del genere – più che altro sull’evoluzione dei personaggi e le situazioni in cui si trovano.

I fratelli

I quattro fratelli sono il cuore della serie stessa, e hanno ognuno una propria interessante evoluzione, anche per gli anelli più deboli.

Malcolm

Malcolm è un protagonista anomalo, che per certi versi ha anticipato i tempi.

Un protagonista assolutamente imperfetto, quasi negativo, e che mette più volte in scena la sua insicurezza.

In prima battuta è raccontato come il piccolo genio – elemento che è portato avanti organicamente per tutti gli episodi – la cui genialità però gli si rivolta anche contro e che, soprattutto all’inizio, è più una vergogna che un vanto – come si vede bene nella puntata Il picnic (01×08).

Frankie Muniz in una scena di Malcolm

Più entra nell’adolescenza, più Malcolm mischia la sua insicurezza con una sorta di vanità – per sua stessa ammissione. Continua ad inseguire dei riconoscimenti sociali, illudendosi di star simpatico a tutti e andando dietro a diverse ragazze nel corso delle puntate.

La sua incapacità di rapportarsi con l’altro sesso è ben raccontata in due puntate in particolare: in La ragazza di Malcolm (3×04) il protagonista si mette con la sua prima fidanzata – che fra l’altro non vediamo mai in faccia – e vive la situazione in maniera assolutamente folle.

Altrettanto assurda è la relazione segreta con Nicki a partire dalla puntata II gusto del pericolo (4×06), ripresa nelle dinamiche anche nella puntata Un amore segreto (7×06).

La puntata migliore di Malcolm

Finalmente al liceo (4×02)

or. Humilithon

In questa puntata Malcolm arriva finalmente al liceo e cerca di cambiare vita e diventare popolare. Ma Lois ha altri programmi in serbo per lui…


Per me è la puntata migliore dedicata a questo personaggio perché ne racconta veramente l’essenza: nonostante Malcolm sia incredibilmente intelligente – e ne è consapevole – sente al contempo che lo status sociale che ne consegue gli stia stretto.

E cerca di sfuggirne.

Reese

Reese è la scheggia impazzita, il personaggio imprevedibile e che compie le azioni più assurde e senza senso.

Ha una costruzione complessivamente organica per tutta la serie, con degli interessanti picchi drammatici quando si prospetta il suo futuro da nullafacente – in particolare nella incredibile puntata Un amore segreto (7×06), in cui Lois sogna un ipotetico Reese del futuro che non si è ancora diplomato.

Ma la bellezza del suo personaggio è proprio nella sua ingenuità e fantasiosità nell’affrontare la situazioni più assurde, per esempio nell’incredibile puntata Condivisione (7×05), in cui si auto-spedisce in Cina – o crede di farlo – per prendere a botte il suo amico di penna.

Justin Berfield in una scena di Malcolm

Una svolta interessante del suo personaggio è quando scopre la sua passione per la cucina – elemento che purtroppo si va un po’ a perdere nelle stagioni successive.

Già di per sé la puntata Scuola di cucina (2×18) è piacevolissima, ma lo è ancora di più il picco di questa linea narrativa, ovvero la puntata Il giorno del Ringraziamento (5×04), in cui Reese fa di tutto – e davvero di tutto – per preparare la cena perfetta per il Ringraziamento.

Senza contare ovviamente l’indimenticabile intuizione del blallo, che è tutta da scoprire:

La puntata migliore di Reese

Il saggio di ammissione (5×15)

or. Reese’s apartment

In questa puntata Reese fa qualcosa di talmente indicibile che è raccontato fuori scena. Per questo – e per l’ennesima volta – i suoi genitori lo cacciano fuori casa, e lui va vivere da solo.


Per me è la puntata migliore dedicata a questo personaggio perché racconta un lato imprevedibile di Reese, che riesce a rimettersi apparentemente in riga e a diventare uno studente e cittadino modello.

Non l’unica puntata con questa tematica, ma quella più efficace.

Dewey

Dewey è il personaggio che fra tutti ha l’evoluzione più interessante.

Il suo cambio di personalità è andato di pari passo con la crescita dell’attore, che è stata ben più drastica rispetto a quella dei suoi fratelli. Dewey infatti comincia come personaggio abbastanza secondario, la cui personalità si riassume in quella di un qualunque bambino che vuole essere al centro dell’attenzione della sua famiglia.

Particolarmente iconica in questo senso la puntata L’ingorgo (2×01) – che fra l’altro è anche una delle mie preferite – in cui Dewey vive le più incredibili avventure proprio guidato dalla sua ingenuità e buon cuore.

Il personaggio di Dewey

Frankie Muniz, Erik Per Sullivan, Justin Berfield in una scena di Malcolm

Facendosi più grande, Dewey passa da essere un ingenuo bambino al secondo genio della famiglia, che scopre la sua grande passione per la musica – che lo porterà anche a scontrarsi con Malcolm nella puntata Il santo (6×18).

L’inizio di questa caratterizzazione comincia nella fantastica puntata In visita al collage (5×16), in cui Dewey, davanti al rifiuto del padre di comprargli un pianoforte, trova un’interessante soluzione alternativa…

Le puntate successive più interessanti in questo senso sono Il matrimonio (7×11) – in cui Dewey cerca di andare ad una gara di piano e Lois gli dà un’importante lezione di vita – e Opera (6×11) – in cui scrive un’opera lirica sulla sua famiglia.

La puntata migliore di Dewey

Una terribile vecchietta (2×11)

or. Old Ms. Old

Dewey rompe apposta lo zaino e Lois si rifiuta di comprargliene uno nuovo. Per questo Dewey decide, in tutta la sua ingenuità, di usare una borsa da donna.


Mi piace particolarmente questa puntata perché racconta perfettamente la prima fase di questo personaggio, in cui se ne infischia totalmente delle conseguenze e utilizza la borsa di sua mamma semplicemente perché è comoda.

Inoltre, la puntata regala un finale piacevole e per nulla scontato.

Francis

Francis è il personaggio con cui ho sinceramente più problemi all’interno di questa serie.

Questo perché, nonostante non sia di per sé un cattivo personaggio, l’ho vissuto per la maggior parte delle puntate come un riempitivo che diventava sempre meno interessante all’interno della storia.

Infatti, come ogni sitcom, ogni puntata è divisa in due – o più – linee narrative auto conclusive. E, fino alla quinta stagione, una era sempre dedicata a questo personaggio, nelle sue improbabili avventure in ben tre situazioni diverse.

E, per quanto abbia abbastanza apprezzato quasi tutte le vicende all’Accademia Militare nelle prime stagioni, mi sono risultate col tempo sempre più indigeste quelle invece dell’Alaska e poi del ranch – sempre più improbabili e meno interessanti.

Il personaggio di Francis

Frankie Muniz e Christopher Masterson in una scena di Malcolm

E infatti, dalla quinta stagione in poi, la sua linea narrativa subisce una brusca svolta, e viene ripresa solo in alcune puntate per il resto della serie.

Complessivamente Francis è un personaggio abbastanza bidimensionale: molto simile a Reese per certi versi, si definisce fondamentalmente attraverso il conflitto con le figure femminili della sua famiglia – la nonna e la madre – e in generale con tutte le figure autoritarie – che siano il Colonnello Spangler o la Lavernia.

Il suo conflitto con Lois si intensifica ancora di più con l’arrivo della nuova moglie, Piana, nella puntata che preferisco dedicata al suo personaggio.

La puntata migliore di Francis

Il compleanno di Hal (3×15)

or. Hal’s Birthday

In occasione del compleanno di Hal, Lois vuole sorprendere il marito facendo tornare a casa Francis dal collage. Ma con il figlio maggiore viene anche la nuova moglie, Piana…


Mi piace particolarmente questa puntata perché racconta meglio di tutte il rapporto conflittuale fra Francis e Lois: nonostante alla fine Piana sia un personaggio ricorrente e quindi rimanga nel tempo, subito Lois l’accoglie con freddezza e risentimento.

E, per Francis, è l’ulteriore dimostrazione di come la madre non accetti nulla della sua vita.

I genitori

La coppia di Hal e Lois rappresenta una perfetta – e incredibilmente interessante – controparte rispetto ai figli, che sono sostanzialmente ingestibili.

Ma è fantastico anche il loro rapporto, soprattutto dal punto di vista sessuale: in Malcolm in the middle si parla molto più di quanto ci si potrebbe aspettare di sesso – nonostante non sia mostrato.

Hal

Il personaggio di Hal è indubbiamente arricchito dalla fantastica interpretazione di Bryan Cranston.

Anche guardandolo doppiato, è impossibile non innamorarsi della recitazione corporea e facciale di questo attore, che è la punta di diamante di questa serie.

A dimostrazione che non è solo un superbo attore drammatico in Breaking bad, ma anche un ottimo interprete comico.

Il suo personaggio è comico, ma soprattutto grottesco: rappresenta appieno il classico uomo della middle class, intrappolato in un lavoro noioso e ripetitivo – oltre che punitivo. Per questo, cerca continuamente una via di fuga, rincorrendo via via nuove ossessioni, una più strampalata dell’altra.

In questo senso le puntate più divertenti sono sicuramente La nuova classe di Dewey (5×18) – in cui Hal scopre insieme a Craig la mania per la danza alla sala giochi – e soprattutto Pensare e poi parlare (4×07) – in cui entra in un’assurda competizione sportiva.

Il personaggio di Hal

Brian Cranston in una scena di Malcolm

Altrettanto gustosa è la linea narrativa riguardante il suo processo, dovuto alle false accuse all’interno della sua azienda.

Oltre ad essere incredibilmente divertente e piena di colpi di scena, il finale della duologia delle puntateArresti domiciliari Parte I e II (5×21 – 5×22) – ci racconta moltissimo su quest’uomo distrutto dal lavoro, ma che comunque non ha voluto farsi ingabbiare – e a qualunque costo…

La puntata migliore di Hal

Doni fatti in casa (6×06)

or. Hal’s Christmas gift

È Natale, e per l’ennesima volta la famiglia si trova sommersa dai debiti e senza soldi per fare i regali. Lois quindi decide che quest’anno si faranno regali fatti in casa.


La puntata che meglio racconta l’aspetto più grottesco del personaggio di Hal: davanti all’impossibilità di fare dei bei regali ai suoi figli, tenta il tutto per tutto per non essere un pessimo padre…

Lois

Il personaggio di Lois è quello che più di tutti necessità di una contestualizzazione all’interno della serie.

Infatti, se messa in un contesto realistico – più di tutti gli altri – sarebbe un personaggio totalmente da condannare, quasi da cronaca nera. E i comportamenti, per quanto esagerati, dei suoi figli non giustificano i suoi comportamenti.

La prima volta che la vediamo veramente all’azione è in L’unione fa la forza (1×02), in cui Lois crede che uno dei suoi figli le abbia distrutto l’abito da sera. Per questo li punisce severamente, cercando anche di metterli uno contro l’altro.

Successivamente non mancano le volte in cui questa madre terribile caccia i suoi figli di casa o impedisce loro di accedere ai beni essenziali: è il caso sempre di Un amore segreto (7×06), in cui Lois impedisce a Reese di mangiare, avere vestiti puliti e un tetto sopra la testa, e ancora quando lo caccia nella già citata puntata Il saggio di ammissione (5×15).

Il personaggio di Lois

Jane Kaczmarek in una scena di Malcolm

E più volte vengono citate le più assurde punizioni: dal tagliare l’erba del prato con le forbicine a pulire il bagno finché non ci si possa mangiare sopra…

È anche una madre che controlla ossessivamente i figli, sopratutto Malcolm: così in In visita al collage (5×16), quando lo accompagna forzatamente alla visita delle università, o nella già citata puntata Finalmente al liceo (4×02).

Tuttavia altre puntate cercano un po’ di ridimensionare il personaggio come madre lavoratrice che ha sulle spalle tutto il peso emotivo della casa e della famiglia.

Così in Il club del libro (3×03) – con un’interessantissima riflessione sulla donna moderna e sull’invidia sociale – e in Rapporti anonimi (3×10) – con una riflessione analoga sul ruolo della donna nella società.

Ma già in Il compleanno di mamma (2×03) era chiara la drammaticità del suo personaggio.

La puntata migliore di Lois

Contestazioni (2×16)

or. Traffic Ticket

Lois è convinta di essere stata multata da un poliziotto corrotto, e per questo è sicura di avere ragione.


Un picco davvero interessante per questo personaggio, che deve per la prima volta rimettersi in discussione, nonostante per tutto il tempo cerchi costantemente di combattere per i suoi principi.

I fantastici personaggi secondari di Malcolm in the middle

Malcolm in the middle gode di un ampio gruppo di personaggi secondari assolutamente irresistibili. Dal momento che sono tantissimi, mi limiterò a raccontare i miei tre preferiti.

Jessica

Jessica è il mio personaggio secondario preferito.

Comincia come la babysitter dei protagonisti, nonostante sia loro coetanea, nella puntata Stereo store (4×13), in cui si dimostra immediatamente come la ragazza manipolatrice, che riesce a fregare i protagonisti.

Nella seconda fase delle sue apparizioni si mostra come il suo comportamento venga dalla sua famiglia tossica e problematica – padre ubriacone e in galera – che infatti la porta ad essere più volte ospite della famiglia di Malcolm, in particolare nella già citata puntata Condivisione (7×05).

Adoro il suo personaggio perché è incredibilmente subdola, ma al contempo davvero irresistibile nei comportamenti. Fra l’altro interpretata dalla splendida Hayden Panettiere, diventata un sex symbol più avanti negli anni, mentre in questa serie venne notevolmente imbruttita.

La puntata migliore di Jessica

Pearl Harbour (6×04)

or. Pearl Harbour

Jessica convince Malcolm che Reese è gay, e viceversa. Il tutto solamente per raggiungere i suoi scopi…


Una delle puntate più geniali di questo personaggio, dove si uniscono due tendenze opposte: l’omofobia benevola che circolava in quegli anni e una sorta di accettazione della comunità queer.

Mr Herkebe

Mr. Herkebe è un altro secondario fantastico.

Un’introduzione veramente interessante a partire dalla terza stagione, andando a sostituire un personaggio che personalmente non ho mai apprezzato: Mrs. Miller, la lacrimevole e insopportabile insegnante delle prime due stagioni.

Al contrario, Mr Herkebe è di fatto più un antagonista che un secondario, contro il quale Malcolm – e anche Hal in un episodio – si devono scontrare. È malignamente e irresistibilmente subdolo e malvagio, come dimostra fin dalla sua prima apparizione in La graduatoria (3×02).

E continua ad esserlo in diverse occasioni, in particolare in L’asta (6×13) – in cui incastra Malcolm in un club per il suo tornaconto – e in La gara dei cervelloni (4×16) – in cui fa di tutto per far vincere una competizione ai suoi studenti.

La puntata migliore di Herkebe

La graduatoria (3×02)

or. Emancipation

Malcolm e i suoi compagni incontrano il loro nuovo insegnante, Lionel Herkebe, che cerca di fare di tutto per farli migliorare…


L’introduzione di questo personaggio è anche il suo momento migliore, quello in cui si dimostra non tanto malvagio, ma soprattutto tremendamente ambizioso e vanitoso.

Craig

Craig è uno dei personaggi secondari più ricorrenti e iconici della serie.

Perdutamente innamorato di Lois, si scontra continuamente sia con lei che con la sua famiglia, soprattutto con Hal, in Il compleanno di mamma (2×03), ma in particolare in L’appartamento segreto (5×02), in cui diventa sostanzialmente un villain.

Non del tutto appiattito in questo ruolo, ma riflette molto bene l’ossessione di quel periodo verso l’obesità: Craig è buffo, pasticcione e quasi grottesco, è quel classico personaggio passivo aggressivo che si sente continuamente la vittima.

Ma, proprio per quel motivo, dà molto colore alla serie.

La puntata migliore di Craig

Pensare e poi parlare (4×07)

or. Malcolm Holds His Tongue

Reese vuole portare la sua nuova ragazza ad un concerto, ma suo padre si rifiuta di accompagnarli. Per questo cerca di convincere Craig…


In questa puntata in particolare si racconta la solitudine del personaggio di Craig, che si emoziona oltre ogni misura per quello che di fatto è un inganno, ma gli permette di stare in compagnia.

Il doppiaggio di Malcolm in the middle

Malcolm in the middle ha una peculiarità: il doppiaggio è veramente ottimo – tanto che io ad oggi non ho ancora fatto un rewatch in inglese. Tuttavia l’adattamento è molto latente in diversi punti.

E ci sono due momenti emblematici.

Nella puntata L’ingorgo (2×01) Francis scommette di essere in grado di mangiare cento quacks, caramelle gommose a forma di papera. Non riesce a mangiare le ultime quattro e un suo compagno dice:

No one said that he had to eat all the quacks. They just have to be inside his body, right?

Nessuno ha detto che doveva mangiare tutte le paperelle. Basterebbe che fossero dentro il suo corpo, giusto?

Andando ad intendere che Francis potrebbe anche rigettare tutte le caramelle, ma se le avesse dentro il suo corpo almeno per un momento basterebbe per vincere la scommessa.

E infatti Francis se le mette in bocca e le ingoia.

E invece in italiano dice:

Nessuno ha detto che doveva mandarle giù. Quindi sarebbe sufficiente che le mettesse in bocca, giusto?

Cosa che appunto non ha assolutamente senso nella scena, perché Francis le manda giù.

Scuola di cucina in Malcolm

Justin Berfield in una scena di Malcolm

Un’altra ingenuità di adattamento è dovuta a un problema di mancanza di sfumature di significato in italiano.

Infatti, alla fine della puntata Scuola di cucina (2×18), a Reese viene impedito di cucinare. E in originale il suo personaggio dice:

You said no cooking. The cake is baking!

Ed è di fatto intraducibile, per è un gioco di parole fra la parola cooking, che significa più genericamente cucinare, e baking, che invece fa riferimento specifico ai prodotti da forno. E in italiano infatti diventa:

Hai detto niente cucina! La torta è nel forno.

Un finale amaro di Malcolm

Justin Berfield e Frankie Munizin una scena di Malcolm

Il finale di Malcolm in the middle è uno dei più belli e al contempo amari che ho visto in una serie tv.

Non proseguire se non vuoi spoiler!

L’amarezza sta soprattutto nel personaggio di Malcolm: nonostante abbia dimostrato più e più volte di essere un genio sostanzialmente in tutto e di meritare più di chiunque altro di andare in un college prestigioso, non può farlo se non con tanta fatica.

E questo solamente per la sua condizione sociale.

E infatti alla fine si crea questo parallelismo quasi grottesco in cui Reese, diventato ormai assunto nella scuola come bidello, telefona al fratello, che gli racconta la sua vita al college. La telecamera si allontana e mostra che anche Malcolm sta facendo il bidello.

Come molti giovani statunitensi prima di lui, per non essere sommerso dai debiti universitari, deve alternare lo studio con un lavoro, e pure umilissimo.

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Boris 4 – Una serie tv a norma

Boris 4 è la quarta stagione della serie omonima, andata in onda su FOX fra il 2007 e il 2010. Un ambizioso rilancio sulla piattaforma di Disney+ dopo più di dieci anni di assenza e dopo il meno considerato film Boris Il film (2011).

Un ritorno che era tanto atteso dai fan della serie originale, che negli anni è diventata un piccolo cult italiano, tanto da essere citata quasi alla stregua delle migliori battute di Aldo, Giovanni e Giacomo.

Io stessa ho recuperato solo quest’anno la serie completa e attendevo con un certo interesse questa stagione.

E non sono stata delusa.

Di cosa parla Boris 4?

I vecchi personaggi di Boris si riuniscono per girare una nuova fiction italiana, dedicata alla vita di Gesù, ma questa volta con la severa supervisione della piattaforma e dell’Algoritmo che sembra definire ogni produzione cinematografica…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Boris 4?

Francesco Pannofino, Alessandro Giulio Tiberi, Paolo Calabresi e Ninni Bruschetta in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Per me, assolutamente sì.

Davanti all’arduo compito di dover portare in scena un rilancio che fosse sempre Boris e che fosse ancora attuale sull’andamento delle produzioni nostrane, Boris 4 ci riesce perfettamente.

E questo perché, semplicemente, non perde la sua vera natura: pur con qualche adattamento e inserimento di elementi molto attuali, questo prodotto è in tutto e per tutto una nuova stagione della serie originale.

Insomma, non stiamo parlando di una snaturazione del prodotto, come fu per il rilancio di Camera cafè.

Tuttavia, proprio per questo, è un prodotto che ha una barriera all’ingresso, sia per il nuovissimo pubblico abituato a produzioni diverse, sia per chi non si è mai approcciato alla serie.

Posso vedere Boris 4 senza aver visto Boris?

Purtroppo, no.

E questo lo dico perché, anche se non ho sentito un incredibile chiacchiericcio intorno a questo rilancio, Disney+ comunque l’ha messo in homepage e comunque lo zoccolo duro di fan della serie non ha mancato di dire la propria.

Quindi magari ci saranno dei neofiti che avranno interesse ad approcciare il prodotto proprio con questo rilancio.

Tuttavia Boris 4 va considerato non tanto come un rilancio, ma proprio come un’effettiva quarta stagione della serie. E di conseguenza è assolutamente necessario aver visto le precedenti tre stagioni per comprendere e godersi il prodotto.

Ma la fortuna è che tutte le stagioni sono adesso di proprietà di Disney+ e quindi lì le troverete, nei secoli dei secoli per riscoprirle, vederle e rivederle.

E non ve ne pentirete.

Boris è sempre Boris

Francesco Pannofino e Antonio Catania in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Come anticipato, il punto di forza di Boris 4 è stato di essere riuscito a mantenere la sua identità e a non snaturarsi. Boris 4 è infatti in tutto e per tutto una quarta stagione di Boris, con lo stesso taglio narrativo e le stesse dinamiche, che in effetti non avrebbe senso cambiare.

Possiamo dire che la tv italiana sia di fatto cambiata in questi anni?

L’unica differenza sostanziale è che il capo della produzione non è più il misterioso Dottor Cane, ma l’altrettanto misterioso Algoritmo.

E così Alison, il punto di riferimento della piattaforma che cerca di mettere in riga tutti e definire i parametri di come rendere la serie più high concept.

…ma a volte è troppo

Francesco Pannofino e Alessandro Giulio Tiberi in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

I maggiori difetti di questa stagione a mio parere sono l’autocitazionismo e la gestione del nuovo panorama delle produzioni.

Il problema dell’autocitazionismo è una questione che si sente soprattutto all’inizio, quando la serie cita fin troppo spesso se stessa con le sue frasi più iconiche.

Non posso arrivare a dire che sia un elemento sguaiato, ma in certi momenti appare davvero un fan service molto spicciolo.

Per fortuna è un elemento che più si va avanti, più si perde.

La gestione dell’elemento delle nuove produzioni l’ho trovato per certi versi ben gestito, per altri un po’ ingenuo. Il racconto di come siano sottomessi a questo nuovo Algoritmo e alle sue disposizioni è a volte veramente troppo assurdo e poco pensato.

I casi peggiori sono, secondo me, la lezione iniziale di inclusione e quando Biascica che viene accusato di razzismo.

Ma parliamo delle parti belle.

Fare una serie nel 2022

L’Algoritmo è a suo modo un elemento molto interessante quando ben gestito.

In particolare ho trovato particolarmente divertente l’idea di includere attori di diverse etnie per interpretare gli apostoli nella maniera più improbabile e così anche il concilio delle donne che parlano del ruolo femminile nella Palestina in epoca precristiana.

Momenti davvero improbabili, ma che sono molto credibili nel contesto di più produzioni cinematografiche di quanto cose siamo disposti ad ammettere.

Ed è ancora più evidente se pensiamo che molto spesso questi racconti di inclusività in non poche major cinematografiche sono all’ordine del giorno, come parte di una check list autoimposta che porta a racconti sempre più assurdi e, paradossalmente, meno credibili.

Non è passato un giorno

Carolina Crescentini e Pietro Sermonti in una scena di Boris 4, revival dell'omonima serie per Disney+

Il punto di forza di Boris sono sempre stati i suoi personaggi, le colonne portanti dell’intero impianto narrativo. E non sono da meno neanche in questa occasione.

Tutti gli attori sono rientrati perfettamente nei loro personaggi, anche i più minori, non perdendo mai un colpo e dimostrando anzi le capacità incredibili di questi interpreti, che fino a questo momento sono rimasti abbastanza ai margini nel panorama filmico.

Infatti ad oggi in Italia le produzioni filmiche di stampo comico sono piuttosto scarse e ripetitive, e l’unico momento in cui hanno avuto un secondo momento di popolarità in questo senso è stata proprio la saga di Smetto quando voglio, che era non a caso scritta dagli stessi sceneggiatori di Boris.

Un omaggio sofferto

Oltre al funerale per la mitica Itala, dopo la sofferta dipartita dell’attrice Roberta Fiorentini, non da meno è stato l’omaggio verso Mattia Torre, uno dei tre veri sceneggiatori di Boris, la cui morte è avvenuta solo pochi anni fa.

E in questa stagione infatti Valerio Aprea, riprendendo anche la fisionomia dell’amico scomparso, appare sotto forma di fantasma, che solo gli altri due sceneggiatori possono vedere, e che consiglia anche Renè per la folle scena di danza dell’ultima puntata.

Così si ricollega anche per le battute finali del film Io giuda, che aprono l’ultimo omaggio nei confronti di una delle grandi menti dietro a questo cult tutto italiano.

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Space force – Boobs on the moon

Space Force è una serie tv di Netflix creata da Greg Daniels, autore anche di The Office, e Steve Carell, che è il protagonista.

Un prodotto che è stato accolto abbastanza tiepidamente, soprattutto per una delusione dei fan storici di The Office. Ma proprio perché, secondo me, si sono fatti i confronti sbagliati.

In questa recensione, assolutamente senza spoiler, vi darò tre motivi per guardare almeno la prima stagione (a cui mi sono fermata, per ora).

Di cosa parla Space force?

Appena nominato generale a quattro stelle, il generale Naird viene messo a capo di una divisione militare per lo spazio chiamata Space force. La serie segue le sue vicissitudini nel dover portare risultati per mantenere in piedi la divisione, contro importanti minacce internazionali.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

È un divertimento rilassato

Come detto, da questa serie non vi dovete aspettare The Office. L’umorismo per certi versi è simile, ma non vuole essere una sitcom (pure raffinata come The Office, appunto) che deve farti ridere continuamente.

Al contrario è una serie di genere commedia, piuttosto realistica, che fa ridere e appassionare ai suoi personaggi, che devono scontrarsi con problemi non da poco. Però sempre con un divertimento generalmente leggere e rilassato.

Non mancano le sottotrame più fini a se stesse e per la costruzione dei rapporti fra i personaggi, ma non mancano comunque tutte di un minimo di profondità e non sono solamente riempitive.

Steve Carell e John Malkovich a stessa serie

Direi che il titolo è esplicativo già da solo, ma in generale vi posso dire che la chimica fra questi due attori è davvero coinvolgente, addirittura toccante in certe scene. E entrambi hanno trovato un loro spazio.

Da una parte il generale Naird, un uomo di ferro, figlio di una cultura militarista e machista, ma che nasconde molte debolezze. Con uno Steve Carell al massimo della forma, con la sua esplosiva recitazione corporea e facciale con cui si fece conoscere fin da Una settimana da Dio (2003)

Il dottor Adrian Mallory è una sorta di grillo parlante per Naird, che cerca di portare l’amico e collega verso le scelte più giuste. Per la maggior parte del tempo è un personaggio contenuto e riflessivo, ma Malkovich non manca neanche di mostrare la sua verve comica, che ricordo fin da Burn after reading (2008)

Space Force parla di noi

Non propriamente di noi, ma sicuramente degli Stati Uniti a lui contemporanei. Facendo neanche troppa attenzione, si capisce che parla, pur nascondendo i personaggi dietro pseudonimi e non nominandolo esplicitamente, degli Stati Uniti di Trump.

E infatti non è una serie imbevuta di stereotipi tipici della cinematografia americana main stream, che individua ancora come nemico la Russia della Guerra Fredda, ma, al contrario, racconta la paranoia legata alla ben più importante minaccia cinese.

E affronta non di meno altri temi importanti come la cultura delle armi e tematiche morali inaspettate per un prodotto del genere.

Ma quindi, vale la pena di vedere Space force?

Steve Carell e John Malcovitch in una scena della serie tv Space Force di Netflix

In generale, sì.

Non mi sento di venderla come serie imperdibile come può essere Severance o un Better call Saul. Tuttavia è una serie che mi sento di consigliare se vi piacciono le serie comedy che non vi devono far sganasciare, ma intrattenere con un umorismo di buon livello e dei personaggi profondi e coinvolgenti.

Fra l’altro, con dieci puntate dalla durata molto contenuta.