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Ripley – La maschera cangiante

Ripley (2024) è una serie TV Netflix ideata da Steven Zaillian, con protagonista Andrew Scott.

Di cosa parla Ripley?

Tom Ripley è un truffatore di New York che ha l’incredibile occasione di diventare amico del rampollo Richard Greenleaf – e di prenderne il posto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ripley?

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Assolutamente sì.

Ripley è una di quelle perle di Netflix non abbastanza considerate – né pubblicizzate – curata da grandi autori hollywoodiani che scelgono di sporcarsi le mani in una serie TV, creando un prodotto di altissimo livello artistico e di scrittura.

Infatti l’incontro di una regia sublime e sperimentale, la splendida performance di Andrew Scott in uno dei migliori ruoli della sua carriera, unito ad una rappresentazione finalmente non banale dell’Italia, rende questa serie uno dei migliori titoli della stagione.

Occasione

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley vive alla giornata.

Un protagonista che non è altro che un piccolo truffatore, che si guadagna da vivere con quella che sembra la sua indole naturale: prendere il posto di qualcun altro, cambiare identità e così riuscire a gabbare il malcapitato di turno.

E l’offerta di Greenleaf è la grande occasione per scoprire una nuova parte, per entrare nelle grazie del giovane Richard e, apparentemente, per riportarlo sui suoi passi, in realtà cominciando fin da subito ad intrecciare un’importante e vantaggiosa amicizia.

Perché la tentazione è troppo forte…

Esterno

Johnny Flynn e Dakota Fanning in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley è un osservatore.

Numerose le scene in cui spia la vita di Richard da dietro le quinte, come a studiare la sua prossima, portata in scena dal suo miglior interprete, mentre in quella piccola finestra lontana continua con la sua vita ignaro di tutto.

Richard è infatti un personaggio del tutto innocuo, un dandy viziato che cerca di costruirsi una carriera alle spalle della famiglia, rivelandosi clamorosamente incapace in ogni sua passione – in particolare nei medici risultati artistici.

Johnny Flynn e Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Come se non bastasse, Richard è una banderuola.

Mancante di una forte identità, Dickie si lascia facilmente trasportare dalla corrente, prima facendosi sedurre dalle lusinghe di Ripley – in particolare la sua presunta onestà – per poi essere rimesso al suo posto dalle insistenze di Marge, che vede un inevitabile contendente in questo nuovo amico.

E questo è il suo più grande errore.

Fuori

Johnny Flynn e Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Ripley rischia di uscire di scena.

Richard gli concede un viaggio d’addio, una gita in barca per poterlo congedare dalla sua vita nella maniera più cortese possibile, non dicendoglielo neanche direttamente, ma tramite una serie di deboli consigli sull’ampliare la sua esplorazione italiana.

Ma Tom non ci sta.

Dickie diventa la sua prima vittima, la prima persona che il protagonista sceglie di schiacciare con colpi secchi e quasi chirurgici, portando fuori scena il suo personaggio per cominciare a prenderne il posto.

E, allora, è il momento di riscrivere Richard Greenleaf.

Riscrittura

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

La riscrittura di Dickie è attenta e puntuale.

Tom è consapevole di non poter prendere immediatamente le vesti del personaggio senza conseguenze, in particolare per l’isteria di Marge, e sceglie per questo di alimentare raccontando la più grande paura della donna: un Dickie ormai disinteressato alla sua fidanzata.

Andrew Scott in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

Così al telefono Tom si incastona in questa nuova vita creata ad arte di Dickie, che porta le sue passioni semplicemente altrove, lasciandosi alle spalle tutto quello a cui era legato, convincendo Marge che questo nuovo comportamento sia tutta un’idea di Tom.

Ma vi è un personaggio imprevisto.

Impreparato

Eliot Sumner in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

L’apparizione di Freddie è una wild card.

A differenza di Marge, che si lascia schiacciare dalla sua disperazione, il suo personaggio comprende immediatamente le intenzioni di Ripley, non lasciandosi confondere dall’apparente confusione della proprietaria di casa, ma invece facendone tesoro per smascherare il falso Dickie.

Così la sua uccisione è improvvisa, mal calcolata, e tutto il piano per coprire le sue tracce lo rende visibile a non pochi testimoni, di cui paradossalmente i più utili sono quelli che non possono parlare: il gatto Lucio e le statue della Città Eterna, che spiano le improvvisate malefatte del protagonista.

Ma, come Freddie esce di scena, un altro personaggio minaccia la posizione di Ripley…

Maschera

Maurizio Lombardi in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

L’austero ispettore Ravini è l’ultima grande minaccia di Ripley.

Nonostante il detective si dimostri piuttosto acuto e perseverante, nonostante prenda brutalmente il suo posto nella vita e nel salotto del protagonista – occupando tutto lo spazio possibile – si lascia anche facilmente gabbare dalla trama caotica e imprevedibile di Ripley.

Maurizio Lombardi in una scena di Ripley (2024) serie tv Netflix

E così, per quanto il protagonista cerchi il più possibile di fuggire le accuse di omicidio, per quanto cerchi di scappare dalle grinfie dell’instancabile ispettore, la pesantezza dei sospetti contro Dickie è troppo pressante per essere ignorata.

Per questo, è ora di cambiare maschera.

Nuovo

Nel finale, Ripley intraprende una tortuosa via che lo porta ad essere molti personaggi diversi.

In primo luogo, torna ad essere il vecchio e innocuo Tom, che conferma la convinzione di Marge sul cambio di passo del suo ex fidanzato, che ormai ha lasciato sia Roma che i suoi amici, per imbarcarsi alla volta dell’Africa e far perdere le sue tracce.

Infine, per consolidare la sua posizione, il protagonista crea ad arte un suo alter ego che unisce il mito di Caravaggio e le sue opere colme di ombre artistiche – e morali – al personaggio insospettabile di Tom Ripley, ormai diventato una figura di punta della Venezia da bene.

Infine, un nuovo cambio.

L’ultima maschera è un misterioso commerciante d’arte, che riesce a prendere sulle spalle tutto quello che Ripley ammirava di Dickie, ma nascondendosi dietro ad un nuovo nome, che lo rende ancora più sfuggente e introvabile.

E, allora, Ravini sarà infine capace di smascherarlo?

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Steins;Gate – Una comica temporalità

Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō è una serie anime di stampo fantascientifico, nello specifico sulla tematica dei viaggi nel tempo.

La serie venne trasmessa nel 2011 in Giappone, per poi essere portata in Italia nel palinsesto notturno di Rete 4. Nel 2013 è uscito un film sequel della serie, e successivamente nel 2018, uno spin-off televisivo dal titolo Steins;Gate 0.

Di cosa parla Steins;Gate?

Okabe è un sedicente scienziato pazzo che lavora nel suo Laboratorio di Gadget Futuristici, ma che si trova a doversi scontrare con le terribili conseguenze del viaggio nel tempo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Steins;Gate?

Okabe in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Assolutamente sì.

Steins;Gate è una di quelle serie che riesce a lavorare ottimamente nella costruzione dei caratteri dei personaggi e dei loro rapporti, con un gustosissimo apparato comico che ben si alterna ai più drammatici eventi riguardanti il viaggio nel tempo.

Proprio per questo motivo è considerabile uno dei migliori eredi di Evangelion, da cui riprende proprio l’equilibrio fra gli elementi più puramente umoristici e le riflessioni esistenziali e (fanta)scientifiche.

Insomma, non ve la potete perdere.

Ecco anche una piccola guida la visione.

Steins;Gate serie tv

Con il prezioso contributo di Carmelo.

Steins;Gate si compone di tre prodotti principali: due serie e un film.

Ma quali vale la pena di guardare?

La serie originale

La serie originale, composta da 24 episodi, è l’ovvio punto di partenza, oltre ad essere il prodotto fra tutti più riuscito.

Una serie con una struttura narrativa piuttosto peculiare, che si compone fondamentalmente di due tronconi: la prima parte è dedicata alla costruzione dei personaggi e del mistero del viaggio nel tempo, mentre nella seconda prevale l’elemento action e più strettamente emotivo.

Una serie quindi complessivamente coerente con sé stessa, che non ha tendenzialmente bisogno di alcun ampliamento.

Anche se…

Il film

Nonostante apparentemente la serie non abbia alcun bisogno di un seguito, il film – intitolato Steins;Gate: The Movie – Load Region of Déjà Vu – si rivela sorprendentemente un ottimo epilogo.

Senza entrare nello specifico, vi basti sapere che nel finale della serie il protagonista riesce ad arrivare ad una situazione conclusiva, e nella pellicola sequel viene raccontato come la affronta sul lato emotivo.

Steins;Gate 0

Steins;Gate è difficile da spiegare senza fare spoiler.

Ma, per capire quanto fosse nient’altro che un prodotto che voleva cavalcare il successo della serie, è sufficiente dire che questa sorta di rebuilt vanifica totalmente il finale della serie, oltre a mandare a gambe all’aria molti concetti fondamentali dell’opera principale.

Come se tutto questo non bastasse, si calca ancora di più la mano sulle relazioni fra i personaggi, ma mancando del tutto della delicatezza che invece caratterizzava la serie madre.

Insomma, fermatevi prima.

Una finzione…molto reale

Okabe appare da subito come un personaggio bizzarro.

Un giovane scienziato, del tutto convinto di poter costruire incredibili gadget futuristici e, soprattutto, una macchina del tempo, che finge continuamente di parlare al telefono e di essere costantemente minacciato dall’Organizzazione.

La maggior parte degli episodi della prima parte della serie ruotano su questa dicotomia: anche se il protagonista continua per molto tempo a fingersi impegnato in missioni fondamentali, minacciando gli altri personaggi in modi che sembrano veramente senza senso…

…questa fantasia diventa del tutto reale: più Okabe continua a costruire – anche con l’aiuto dei suoi compagni – nuovi apparecchi per modificare il tempo – e di conseguenza la realtà – più la minaccia dell’Organizzazione – il SERN – diventa pressante e reale.

Okabe in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Il picco drammatico per certi versi è la rivelazione di John Titor, che gli affida il ruolo di messia: da quel punto in poi il protagonista modificherà sempre più profondamente il tessuto temporale, sempre più spinto da motivazioni più emotive che scientifiche.

Ma comunque Okabe non smette mai di essere veramente uno scienziato pazzo: per sua stessa ammissione, anche nel futuro continuerà a comportarsi come un adolescente, immerso in quella fantasia fantascientifica che si è rivelata molto più vera di quanto lui stesso si aspettasse.

Ma l’elemento fondamentale è Mayuri.

Facciamo che io ero…

Il rapporto fra Mayuri e Okabe è inizialmente molto nebuloso.

La ragazzina sembra incredibilmente ingenua e totalmente in balia alle fantasie dell’amico – nonostante la differenza di età – ma appare anche come il nucleo della maggior parte delle relazioni che ruotano intorno al Laboratorio.

Ma il suo personaggio diventa fondamentale soprattutto quando diventa il perno emotivo nella missione di riportare la giusta linea temporale ed evitare sia la Terza Guerra Mondiale che la distopia del SERN.

Le puntate dedicate al suo salvataggio sono quelle emotivamente più devastanti, ma che provano anche l’efficacia della serie nel riuscire a costruire efficacemente il rapporto fra il protagonista e Mayuri.

Mayuri in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

In particolare, il flashback di Mayuri sulla tomba della nonna – riproposto più volte, anche nel film – racconta la totale leggerezza e semplicità del suo personaggio, con la mano protesta ad afferrare il sole…

…atto che però viene interpretata da Okabe come una sorta di rapimento, come il momento in cui la sua più affezionata compagna d’infanzia si volatizzerà nell’aria – un dolorosissimo foreshadowing di quello che accadrà in futuro.

E infatti proprio in quel momento il giovane protagonista promette, anche se in maniera infantile e tramite una sorta di gioco delle parti – io sono lo scienziato pazzo, e tu sei il mio ostaggio – di prendersi per sempre cura di Mayuri.

Steins;Gate Mayuri

Ed è tanto più dolce e doloroso quando questa promessa viene effettivamente messa alla prova: Okabe cade nella totale disperazione, si stressa quasi fino alla pazzia per poter salvare una persona così tanto cara, così necessaria per la sua stessa esistenza.

Ma, al contempo, è tanto più doloroso che, nel suo tentativo di tenerla in vita, Okabe finisce quasi per trascurarla, diventando schivo e distante e, di conseguenza, facendo dubitare a Mayuri la solidità del loro rapporto.

Ed è un esempio di ottima scrittura il coincidere delle sue necessità personali con il salvataggio dell’umanità tutta.

Anche perchè, per Okabe, Mayuri è tutto il suo mondo.

Salvarsi a vicenda

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Il rapporto fra Kurisu e Okabe è tanto bello quanto doloroso.

Okabe fa la conoscenza della sua futura compagna quando questa è morta, per poi ritrovarla viva un momento dopo: un primo indizio dell’esistenza e della possibilità del viaggio temporale, effettivamente comprensibile solamente a posteriori.

Entrambi sviluppano verso l’altro un rapporto apparentemente molto conflittuale, fatto rimbeccate e nomignoli, che vengono però nel tempo sempre più alternate da momenti di confidenza e di timido affetto.

Come per Mayuri, anche per Kurisu il rapporto con Okabe raggiunge il suo apice nel momento più tragico: dopo essersi confidata più volte con la sua assistente sulla morte di Mayuri, il protagonista si ritrova davanti alla possibilità di perdere un altro importante affetto.

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Ma il dolore per la perdita di Kurisu è in realtà determinante per la maturazione del protagonista, che deve, in maniera piuttosto rocambolesca, sia salvare la sua amata, sia fingere che sia morta per non impedire lo svolgersi degli eventi futuri – e il suo stesso arco evolutivo.

Ma Kurisu non è una semplice ragazza nel frigo, anzi è sostanzialmente la protagonista del film che fa da epilogo alla serie, nel quale diventa assume il ruolo di motore fondamentale perché Okabe possa finalmente accettare quella realtà che aveva costruito con tanto impegno, ma che vive come irreale.

Kurisu Steins;Gate

Kurisu in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Infatti, se in un primo momento il protagonista sembrava sereno nella sua creazione temporale, accettando anche con una certa maturità la situazione, soprattutto nei riguardi di Kurisu – non serve che siano insieme, ma semplicemente che lei sia viva – in realtà brandelli delle terrificanti memorie delle altre linee temporali lo perseguitano.

Così la missione di salvataggio del compagno è anche un momento fondamentale per Kurisu, che impedisce di fatto a sé stessa di ricadere in una dolorosa contraddizione: continuare a provare a salvare Okabe, ma non farlo mai effettivamente, per non infrangere la promessa fatta…

Salvare il futuro

Suzuha è uno dei personaggi che inizialmente appaiono più misteriosi nella serie.

Conoscendo il tema centrale della trama, non è in realtà troppo difficile indovinare fin da subito che si tratta di un viaggiatore nel tempo, ma è una finezza non indifferente della scrittura darle proprio il ruolo di John Titor.

Proprio per come sarà poi per Mister Braun, anche in questo caso si sceglie giustamente di non far coincidere l’identità di un personaggio misterioso con qualcuno di esterno al gruppo principale dei personaggi, rendendo così la trama più compatta e funzionale.

Suzuha in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Proprio per questo Suzuha rimane per certi versi ai margini della scena per la prima metà della serie, ma diventa un personaggio chiave sul finale, con il ruolo di messaggero fra il presente e il futuro.

Nondimeno, la sua figura è arricchita da diversi elementi che la rendono incredibilmente tridimensionale, a partire dalla rivelazione – quasi comica per certi versi – riguardo all’identità del tanto ricercato padre.

Suzuha Steins;Gate

Suzuha in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Una rivelazione che potrebbe far quasi sembrare Steins;Gate una telenovela, ma che è invece fondamentale per il finale: proprio grazie all’amicizia con Daru, Okabe è già sicuro che la figlia diventerà parte integrante del loro gruppo.

Ben più drammatica è invece la scoperta del passato di questa giovane viaggiatrice del tempo, che Okabe deve ancora una volta salvare proprio in modo che la stessa possa poi spingerlo nella direzione corretta per il salvataggio di Mayuri e, di conseguenza, di tutta l’umanità.

Ricordo e percezione

Faris in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Nonostante siano personaggi assai secondari, Faris e Ruka sono portatrici di un concetto fondamentale: il potere del ricordo.

La tematica è fondamentale per la tragica storia di Faris: anche se sembra un personaggio superficiale e sciocco, in realtà la ragazzina si rivela ben più matura nell’accettare nuovamente la morte del padre, necessaria per il salvataggio del mondo.

E questa accettazione deriva proprio dall’idea di essere comunque riuscita a mettere in salvo, almeno una volta, almeno in una linea temporale, il caro genitore, e di poter così conservare nella sua memoria il ricordo di dieci splendidi anni insieme.

Ruka in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

Spostandoci più dal lato della percezione, Ruka racchiude al suo interno una delle tematiche più delicate della serie.

Per quanto sembri e voglia in effetti essere una ragazza, il suo personaggio è intrappolato in un corpo maschile che la fa incredibilmente soffrire, oltre a rendere impossibile il concretizzarsi di una relazione romantica con Okabe.

Per questo anche lei deve raggiungere un compromesso con sé stessa, e proprio grazie all’aiuto dell’amico, che fin da subito, in maniera quasi sorprendente, l’aveva accettata per quello che si sentiva di essere, indipendentemente da tutto…

Un ingranaggio

Anche se ha un minutaggio limitato, il personaggio di Moeka merita un discorso a parte.

Questa misteriosa ragazza racconta infatti l’altro lato della distopia della SERN – anche se ancora in divenire: Moeka è troppo timida e chiusa in sé stessa per integrarsi veramente nel Laboratorio, lasciandosi invece facilmente abbindolare dall’Organizzazione.

Ma in questo modo non fa altro che diventare una pedina e far coincidere tutta la sua personalità solamente con questo ruolo, vivendo nel culto del misterioso FB, che si rivela essere nient’altro che Mister Braun, nient’altro che un altro ingranaggio del mostruoso meccanismo della SERN.

Per questo secondo me Moeka è uno dei pezzi della storia che vanno meglio a posto sul finale, prendendo il lavoro di Suzuha – che in quella linea ancora non esiste – nel negozio di elettronica sotto al Laboratorio, di cui riesce finalmente a far veramente parte.

L’irresistibile linea comica

Daru in una scena di Steins;Gate (2011) di Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō

In chiusura, voglio spendere due parole su Daru.

Daru è fondamentalmente la linea comica della serie, e poco altro. E per questo l’ho adorato: un personaggio portatore di una comicità che è davvero nelle mie corde, che anzi mi ha piuttosto stupito di trovare in un prodotto di questo genere.

Al punto che, nella maggior parte dei casi, quando Daru dava voce alle sue perversioni, era come se vedessi sullo schermo le stesse battute che avrei fatto io in quel momento – e nello stesso modo.

Forse a non tutti potrebbe piacere, ma secondo me l’inserimento di una linea comica così semplice e sfacciata è il comic relief – nel senso più letterale del termine – più funzionale e giusto per dare respiro ad una narrazione in molti momenti davvero emotivamente devastante.

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Black Mirror 3 – La prima prova

Black Mirror 3 (2016) è la terza stagione della serie cult creata da Charlie Brooker, la prima dopo l’acquisizione di Netflix.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 3?

Assolutamente sì.

Black Mirror 3 presenta tre puntate davvero fantastiche Nosedive, Shut up and dance e San Junipero – e, per l’altra metà, episodi magari un po’ meno originali nelle tematiche, ma comunque robusti e interessanti per le riflessioni che propongono.

Insomma, ancora una stagione veramente ottima, nonostante il maggior numero di episodi, e, soprattutto, nonostante a questo punto Black Mirror fosse passata sotto la direzione di Netflix, i cui effetti si vedranno più avanti…

Nosedive

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Nosedive è la mia puntata preferita di Black Mirror in generale.

Un episodio capace di prendere un concetto molto semplice e reale – la popolarità sui social media – e trasformarlo in una storia colorata con tante pennellate di confortanti tinte pastello, che però nascondono un incubo quanto mai vicino a noi.

E così, anche se indirettamente, parla di noi: un mondo molto spesso filtrato dall’immagine che diamo attraverso i social media, dove spesso e volentieri mostriamo solo le parti migliori della nostra vita, nascondendo tutto il resto.

Bryce Dallas Howard in una scena di Nosedive (Caduta Libera), Black Mirror 3

Particolarmente evidente il concetto nella scena del bar, quando la protagonista vuole immortalare il momento con una foto estremamente finta: in realtà il caffè è terribile, il biscotto non l’ha neanche mangiato…

Ma vuoi mettere l’ottenere per questo l’approvazione degli altri?

E così muore ogni tipo di genuinità, sia positiva che negativa, che però esplode in questa magnifica, quanto stranamente rincuorante, chiusura dell’episodio…

Playtest

Wyatt Russel in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

Non amo particolarmente Playtest, anche se è una puntata di tutto rispetto.

In particolare, funziona molto bene la costruzione della tensione: in totale contrapposizione con i toni profondamente orrorifici del finale, il protagonista appare per buona parte della puntata spensierato, guascone.

Il classico personaggio che ride in faccia alla morte.

Wyatt Russel e Wunmi Mosaku in una scena di Playtest (Giochi pericolosi), Black Mirror 3

E in questo modo riesce a far tranquillizzare anche noi, che empatizziamo facilmente con il suo personaggio e che ci immergiamo in questa situazione così apparentemente tranquilla, quasi noiosa.

Invece entriamo in un incubo che cita Cronenberg più volte – il ragno umanoide ricorda il suo analogo in Il pasto nudo (1991), mentre il plug nel retro della nuca richiama da vicino eXistenZ (1999).

E, per aggiungere orrore all’orrore, una costruzione alla Inception (2010) ci lascia con una sola una domanda in mente: quanto siamo pronti a farci penetrare dalle tecnologie e intelligenze artificiali, capaci potenzialmente di sconvolgerci la mente così profondamente?

Shut Up and Dance

Alex Lawther in una scena di Shut up and dance (Zitto e balla), Black Mirror 3

Shut Up and Dance è una delle puntate più di impatto per un semplice motivo.

Tutto quello che succede nella puntata, potrebbe facilmente accadere nel mondo reale.

Quanto potrebbe essere facile che anche il più attento di noi installi senza volerlo un virus sul proprio computer e si faccia involontariamente spiare, anche nell’atto più innocente, che però, se fosse svelato al mondo, gli rovinerebbe per sempre la vita?

E così è perfettamente credibile che un troll qualunque su internet covi dentro di sé una strana voglia di giocare con degli sconosciuti, terrorizzarli e fargli fare cose apparentemente senza senso, per il puro ludibrio.

E per questo il finale è così scioccante, così perfetto.

San Junipero

Gugu Mbatha-Raw e Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una delle puntate più amate di Black Mirror.

Anzitutto perché fu un episodio che uscì al momento giusto: dopo il successo recente di Stranger Things, era appena scoppiata la moda degli Anni Ottanta, con una ricerca delle atmosfere vintage di cui la puntata è piena.

Al contempo, è una puntata necessaria: al tempo – e in realtà ancora oggi – c’era un disperato bisogno di personaggi queer che non fossero semplicemente incasellati in stereotipi facilmente digeribili per il pubblico medio, ma qualcosa di più profondo e rappresentativo.

Ma è anche molto più di questo.

Mackenzie Davis in una scena di San Junipero, Black Mirror 3

San Junipero è una dolcissima storia romantica, ma anche una riflessione sulla morte, sulla vecchiaia e, per una volta, una prospettiva positiva su un futuro possibile, uno sguardo su quello che oggi chiameremmo l’ancora acerbo Metaverso.

Non solo un giocattolone come lo pensano molti, ma una possibilità concreta per molte persone di avere una seconda possibilità che, per i più vari motivi, possono non aver avuto nella vita reale, e così anche una felice prospettiva di aldilà

Men Against Fire

Men Against Fire forse non è una delle puntate più brillanti di Black Mirror, ma comunque offre spunti di non poco interesse.

Di fatto questo episodio racconta quella che sarà la guerra del futuro, e di come i progressi tecnologici potranno servire anche per ingannare la mente dei civili quanto dei militari, così da rendere la loro vita un po’ più semplice nello sconfiggere il nemico.

E così i nuovi conflitti diventano delle effettive guerre lampo, dove non c’è più assolutamente il dubbio di star uccidendo qualcuno che bisogna distruggere, dove l’empatia, la fratellanza, quello scrupolo che ferma il soldato dal premere il grilletto, è scomparso per sempre…

Hated in the Nation

Hated by the Nation è una puntata un po’ meno ricordata di Black Mirror, ma è indubbiamente molto interessante.

Di fatto si rimescolano le carte in tavola di White Bear e Shut up and dance: di nuovo la facilità della gogna pubblica, in questo caso nella spersonalizzazione e alienazione della nostra identità online, dove ci permettiamo di dire e fare cose che mai faremmo nella vita quotidiana.

Ma infine le persone veramente colpite sono gli autori stessi della condanna, che hanno augurato la morte e ricoperto di insulti persone normali, totalmente indifferenti alle conseguenze delle loro azioni, ma sicuri di essere intoccabili in quanto parte di un gruppo di colpevoli.

E, ancora una volta, è tanto più inquietante se si pensa come questa realtà potrebbe essere dietro l’angolo: il riconoscimento facciale è una tecnologia ormai consolidata, utilizzata in Cina proprio per motivi politici, la crisi delle api è un problema tutt’ora dibattuto…

Il resto è ormai la nostra quotidianità.

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Black Mirror 4 – Scricchiola che ti scricchiola…

Black Mirror 4 (2017) è la quarta stagione creata da Charlie Brooker, la seconda distribuita direttamente da Netflix, composta da sei puntate.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 4?

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

In generale, sì.

Black Mirror 4 è la stagione in cui questa serie comincia a mostrare la sua crescente debolezza, con puntate abbastanza in linea con lo spirito originario – USS Callister e Arkangel – e altre del tutto fuori contesto – Crocodile e, soprattutto, Black Museum.

Tuttavia, non siamo ancora del tutto ai picchi di bruttezza della stagione cinque e sei, dove per la maggior parte gli episodi potrebbero essere presi da una qualunque altra serie di Netflix che non si chiama Black Mirror

Insomma, dategli una chance, ma non aspettatevi molto…

USS Callister

Jessie Plemons in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

USS Callister è una delle cose migliori che sono successe a Black Mirror dopo l’acquisizione di Netflix.

Nonostante, infatti, la puntata sia di fatto un ripescaggio della stessa tecnologia di San Junipero e di fatto una riproposizione più edulcorata di quello che si era visto in White Christmas, la possibilità di utilizzare Star Trek – di cui Netflix ha i diritti – la rende una simpatica chicca.

Un episodio che rappresenta un futuro molto verosimile – sostanzialmente si parla degli attuali visori della realtà virtuale, ma più avanzati – ovvero il prossimo passo nel mondo del gaming – che, personalmente, non vedo l’ora che si realizzi.

Cristin Milioti in una scena di Uss Callister, Black Mirror 4

In particolare, era quasi necessario che questo racconto fosse positivo.

Anche se la resa del villain non è del tutto equilibrata – si spinge un po’ troppo l’acceleratore su come sia uno sfigato asociale, andando a ricalcare un classico stereotipo – preferisco che racconti Daly come una mela marcia che usa male una tecnologia avveniristica.

Sarebbe stato infatti fin troppo banale anche per Black Mirror voler demonizzare una novità che sta già diventando il presente, finendo così per andare a ingrossare le fila di chi critica molto ingenuamente i videogiochi – e i nuovi media in genere – definendoli alienanti.

Una puntata insomma dove la rappresentazione di un futuro auspicabile era di fatto necessaria…

Arkangel

Arkangel è forse la puntata più Black Mirror dell’intera stagione.

Al centro vi troviamo una tecnologia che potrebbe potenzialmente risolvere moltissimi problemi, e che non pochi genitori accetterebbero ad occhi chiusi per proteggere i loro figli, ma che, di fatto, impedisce ai bambini di crescere.

La scoperta del mondo, con i suoi lati positivi e negativi, l’affrontare le nostre paure, il metterci alla prova per capire i nostri limiti, sono tutti dei momenti fondamentali che definiscono la nostra personalità, ma soprattutto il nostro rapporto col mondo esterno.

In più, superata una certa età, appare evidente come un figlio non si senta più al sicuro rimanendo sotto il costante controllo dei genitori, non riuscendo così a crearsi il proprio spazio privato e la propria indipendenza.

Ma, alla fine della puntata, riusciamo davvero ad essere contro la scelta di Marie oppure, in un certo senso – che noi siamo genitori o meno – riusciamo a capirla e ad empatizzare con lei?

Insomma, al posto suo ci saremmo veramente comportati diversamente?

Crocodile

Andrea Riseborough in una scena di Crocodile, Black Mirror 4

Qui si cominciano a sentire i primi scricchiolii.

Crocodile purtroppo non è una puntata di per sé brutta, ma è molto fuori contesto se stiamo parlando di Black Mirror: di fatto è un thriller, anche un discreto thriller, ma in cui l’elemento tecnologico è puramente accessorio, e non porta a nessuna riflessione di sorta.

Di fatto, è semplicemente un’invenzione che potrebbe aiutare a sbrigare molte situazioni burocratiche o a fare luce più facilmente su alcune questioni da chiarire, ma alla fine sembra un po’ un ripescaggio di The Entire History of you, ma molto meno graffiante.

Insomma, poco originale, poco Black Mirror.

Hang the DJ

Georgina Campbell e Joe Cole in una scena di Hang the Dj (Black Mirro 4)

Hang the DJ è una puntata che personalmente apprezzo.

Non sono una grande fan delle storie romantiche, ma in questo caso la puntata mi ha colpito per la sua scrittura particolarmente intelligente e mai banale, che riesce a delineare il rapporto fra i protagonisti in maniera simpatica e, soprattutto, credibile.

L’ho trovata un po’ una versione più edulcorata di The Lobster (2015) – da cui potrebbe serenamente aver preso spunto – per raccontare una tecnologia che sarebbe veramente rivoluzionaria se fosse effettivamente messa sul mercato…

Forse l’unica cosa che mi convince non del tutto di questo episodio è il fatto che, più che una puntata di Black Mirror, sembra un episodio promozionale che racconta l’ultima novità di Tinder

Metalhead

Maxine Peake in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Metalhead è un esperimento interessante.

Però capisco perché molti non l’hanno accolto bene.

Una regia a suo modo sperimentale, sicuramente molto intraprendente nell’uso di una fotografia tutta particolare, che però rende perfettamente le atmosfere cupe e post apocalittiche di questo episodio.

La protagonista è di fatto una novella Sarah Connor di Terminator (1984), che si muove in spazi vuoti e abbandonati, lottando fino all’ultimo non tanto per portare a termine la missione, ma proprio per salvare la sua stessa vita.

E il metalhead ha un character design veramente indovinato.

Ma, nonostante tutti questi meriti, ancora una volta non è Black Mirror.

Sembra più un mediometraggio sperimentale da presentare a qualche festival, mancante proprio di due elementi fondamentali che caratterizzano la serie di cui fa parte: la riflessione sociale e, soprattutto, un world building adeguato a contestualizzare la vicenda.

Anzi, sembra proprio che l’episodio voglia giocare su questo mistero di fondo riguardo al decadimento dell’umanità, lasciando quasi volutamente un’enigmaticità di fondo sulla figura del metalhead, di cui non sappiamo né l’origine, né la funzione…

Black Museum

Letitia Wright in una scena di Metalhead (Black Mirror 4)

Qui assistiamo al vero crollo.

Black Museum vorrebbe essere tantissimo White Christmas, ma ne è totalmente incapace: appare davvero come uno di quei clip show delle sitcom, ovvero un’accozzaglia di brevi storie per tirare insieme una puntata.

E fossero storie interessanti…

Sono solo un ripescaggio poco originale di molto di già visto in Black Mirror, nello specifico San Junipero, White Bear e il già citato speciale di Natale fra la seconda e terza stagione.

E, soprattutto, manca del tutto la critica sociale che rende Black Mirror tale.

Troviamo invece una sequela di invenzioni che sono per molti versi un more of the same l’una dell’altra, e che sembrano più create per scioccare lo spettatore, delle invenzioni di uno scienziato pazzo, più che qualcosa di veramente su cui riflettere.

Oltretutto, dopo tutto quello che si vede nella puntata, il finale è tutto tranne che felice: Nish deve convivere con sua madre nella sua testa – incubo vero – e affigge la stessa condanna ad un personaggio negativo, con un occhio per occhio veramente terribile…

Come se tutto questo non bastasse, ho odiato questo fanservice auto celebrativo.

Insomma, un mezzo disastro.

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Avventura Black Mirror Black Mirror - Dopo l'acquisizione Netflix Drammatico Fantascienza Futuristico Mistero Netflix Thriller

Black Mirror 5 – In picchiata

Black Mirror 5 è la quinta stagione della serie creata da Charlie Brooker, per la seconda volta sotto la direzione di Netflix – e si vede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 5?

Sì e no.

Guardatela nel caso non ve ne freghi nulla di Black Mirror e non vi dia fastidio passare da una puntata all’altra di racconti con un sottofondo fantascientifico e futuristico, ma anche con uno spessore molto blando: sostanzialmente, prodotti di puro intrattenimento.

Se state ancora cercando Black Mirror, non lo troverete in Black Mirror 5, dove ormai la linea editoriale ha deragliato in tutt’altra direzione, avendo come punto di arrivo una sconclusionatissima sesta stagione…

Striking Vipers

Pom Klementieff in una scena di Striking Vipers (Black Mirror 5)

Questa puntata è un gigantesco boh.

Striking Vipers di fatto ripesca l’idea di USS Callister – già di per sé non così originale – e la riporta in una storia piuttosto moscia, una rivisitazione poco interessante di una banalissima vicenda di tradimenti.

Come è diventato ormai normale per Black Mirror a questo punto, è un episodio che è piuttosto un divertissement, una variazione sul tema futuristico del tutto mancante di quel mordente, di quegli spunti di riflessione che dovrebbe caratterizzare questa serie…

Smithereens

Andrew Scott e Damson Idris in una scena di Smithereens (Black Mirror 5)

Smithereens poteva essere una puntata incredibile.

Se non fosse un episodio di Black Mirror.

Una storia con una buona costruzione della tensione e del mistero – per così dire – con un attore protagonista straordinario come Andrew Scott, semplicemente perfetto nella parte, ma di fatto sprecato per una puntata così poco ispirata.

Troviamo infatti un messaggio di fondo che, per la serie in cui si trova, è davvero molto debole e scontato, non aggiunge di fatto niente a tante cose che abbiamo già sentito, non amplia la discussione…

Insomma, una storia anche toccante, ma che manca ancora una volta di una riflessione di qualche interesse.

Rachel, Jack and Ashley Too

Miley Cyrus in una scena di Rachel, Jack and Ashley Too (Black Mirror 6)

Nonostante secondo me non sia la peggiore puntata di Black Mirror, è quella che in questa stagione va più fuori strada.

Infatti, Rachel, Jack and Ashley Too più che una puntata di questa serie, mi ha ricordato quelle teen comedy di inizio Anni 2000, alla Big Fat Liar (2002), dove i giovanissimi protagonisti si trovano a dover combattere contro degli adulti molto più forti di loro.

E la cosa peggiore è che, almeno sulla carta, l’idea alla base della tecnologia utilizzata, non era affatto malvagia, anzi: un ritratto cinico e piuttosto verosimile della concezione dello star power, con pop star costruite a tavolino, con un’immagine pubblica da mantenere ad ogni costo…

Il problema in questo caso è stato mettere anzitutto una protagonista adolescente con problemi da adolescente, che di fatto indebolisce fortemente il messaggio complessivo della puntata, riducendola ad un mediometraggio per ragazzi – niente di male di per sé, ma non in Black Mirror.

L’altro errore è aver dato così tanto spazio di manovra a Miley Cyrus, che verosimilmente ha interpretato sé stessa, funzionale per la parte drammatica, molto meno quando deve essere un comic relief veramente fuori luogo per la serie – ma perfetto per il tono della puntata…

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Avventura Black Mirror Black Mirror - Le origini Drammatico Fantascienza Futuristico Horror Mistero Netflix Satira sociale Thriller

Black Mirror 2 – Due puntate fanno un cult

Black Mirror 2 (2013) è la seconda stagione della serie nata dalla mente di Charlie Brooker, al tempo rilasciata ancora su Channel 4.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Mirror 2?

Assolutamente sì.

Come stagione è un pochino più altalenante rispetto alla precedente, ma gode anche di due episodi davvero grandiosi come White Bear e White Christmas, fra i più iconici dell’intera serie.

Complessivamente comunque tutte le puntate – quale più, quale meno – offrono spunti di riflessione veramente interessanti, mostrando situazioni che, se non sono il nostro presente, rappresentano un futuro più vicino di quanto sembri…

Be Right Back

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Be Right Back è forse una puntata in chiave minore di Black Mirror.

Infatti, a differenza dei precedenti episodi – e degli altri di questa stagione – non mi ha lasciato un particolare senso di angoscia, ma più che altro una sorta di rassegnazione e riflessione sul presente e su quello che sarà il prossimo futuro.

Probabilmente con le tecnologie odierne, e con la IA sempre più in ascesa, non sarebbe difficile creare quello che si vede in scena, almeno per la parte scritta e parlata. E probabilmente quello che per questa puntata è il futuro, per noi oggi è il nostro presente.

 Domhnall Gleeson in una scena di Be Right Back (Black Mirror 2)

Certo, le tecnologie odierne non potrebbero portare effettivamente in vita una persona morta con tutte le sue caratteristiche, ma solamente limitarsi a ricostruire una personalità basata su quello scampolo di informazioni che le offriamo.

Tuttavia, se dieci anni fa Black Mirror immaginava una realtà che non è tanto lontana dal presente, quanto ci vorrà perché potremo portare in vita le nostre copie artificiali perfette, praticamente indistinguibili, che vivranno insieme a noi?

E le vorremo ancora chiudere in soffitta come Martha?

White Bear

Lenora Crichlow in una scena di White Bear (Black Mirror 2)

White Bear è uno dei miei episodi preferiti di Black Mirror.

Semplicemente perché riesce a mettere in scena in maniera straziante quanto terribilmente verosimile un problema che, soprattutto oggi, è un germe sociale difficile da sradicare, anzi, è ancora più pericoloso: la gogna pubblica.

È così facile che una persona passi dall’essere il carnefice alla vittima, pur non essendo percepita come tale: dal momento che quell’individuo ha compiuto un’azione errata – di qualsiasi tipo – ci sentiamo legittimati a fare di lui quello che vogliamo.

E così una donna che ha compiuto un crimine così efferato, così ingiustificabile ed inscusabile come rapire, torturare ed uccidere una bambina, non può che essere torturata a sua volta, diventare l’attrazione di un parco tematico.

E non si può non rimanere ammutoliti mentre sentiamo le sue urla disperate di dolore, mentre vediamo come tutti gli attori in scena rimettano ogni cosa al suo posto per il prossimo giro di torture, mentre osserviamo i ghigni degli ospiti che potrebbero facilmente essere i nostri…

The Waldo Moment

The Waldo Moment è una puntata che, a posteriori, fa sinceramente paura.

Già nel 2013 Black Mirror è riuscito a rappresentare fedelmente quello che sarebbe stato il trionfo del populismo da lì a pochi anni, con i capipopolo, le voci fuori dal coro che portavano con sé una grande quantità di voti.

In questo caso Waldo è una marionetta vuota, che non fa altro che dare voce ai sentimenti più bassi dei votanti, che sbarrano il suo nome sulla scheda elettorale solamente per simpatia.

E così si potrebbero potenzialmente trovare con al governo un pupazzo manovrato nell’ombra da chissà quale lobby con chissà quale interesse, nascosta dietro ad un cartone simpatico e irriverente…

Bianco Natale Black Mirror 2

Due anni dopo la seconda stagione, è stato anche rilasciato uno speciale di Natale, che fra l’altro divenne uno degli episodi più di culto della serie stessa.

Di fatto sono tre storie che si intrecciano, in un mondo molto più vicino di quello che potremmo pensare: quanto manca prima che gli smartphone diventino parte del nostro stesso corpo?

E da qui si può implementare una tecnologia che sulla carta potrebbe potenzialmente risolvere il problema dello stalking e rendere effettivi gli ordini restrittivi, senza possibilità di errori.

Nella pratica, si darebbe in mano a persone comuni il potere di cancellare le persone dalla propria vita, anche solamente spinti da un momento di debolezza emotiva, che potrebbe però ad un atto irreparabile…

Ancora più inquietante la questione dei cookie, che mi ha ricordato molto Severance, ma con il concetto di base ha radici più lontane, addirittura in Asimov: i diritti dei robot – o AI che dir si voglia.

Proprio come per Be Right Back, è una tecnologia più vicina di quanto pensiamo, visto che già oggi siamo capaci di dialogare efficacemente con le intelligenze artificiali: il mondo mostrato in questo speciale potrebbe essere dietro l’angolo…

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Dramma familiare Drammatico HBO Max Mistero Serie tv Thriller

Mare of Easttown – Un caso umano?

Mare of Easttown (2021) è una miniserie mistery di produzione HBO con protagonista Kate Winslet, che divenne molto popolare nella stagione dei premi di quell’anno, vincendo quattro Emmy e un Golden Globe.

In Italia è nota col titolo di Omicidio a Easttown ed è disponibile su NOW.

Di cosa parla Mare of Easttown?

Dopo un anno, un misterioso caso di scomparsa di una ragazza nella piccola città di Easttown è ancora irrisolto. E cominciano ad accumularsi altri casi riguardanti altre giovani della comunità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mare of Easttown?

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Sì e no.

Personalmente, da una serie di cui si era parlato così tanto mi aspettavo qualcosa di più: è un prodotto complessivamente buono, con un’ottima Kate Winslet e una costruzione narrativa che riesce a tenere col fiato sospeso fino all’ultimo minuto.

Tuttavia, è anche una serie che si può definire mistery fino ad un certo punto, dal momento che per certi versi il caso diventa un elemento accessorio di una storia, che risulta invece molto più focalizzata sui personaggi.

E certe volte sembra voler prioritizzare l’elemento scioccante rispetto alla coerenza narrativa…

Poco amabile, ma necessaria

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

La protagonista ci viene subito presentata come una donna dura e scorbutica.

Ha un rapporto fortemente antagonistico sia con la madre che con l’ex-marito, proprio quando questo si sta per risposare, oltre ad essere incline alla scorrettezza e alle scorciatoie pur di togliersi da situazioni scomode.

Tuttavia, fin dalla prima puntata cominciamo a conoscerla anche come una detective che regge sulle sue spalle un enorme peso, soprattutto emotivo, fra casi impossibili e situazioni familiari complesse.

Kate Winslet in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

E col tempo scopriamo anche i traumi del suo passato.

La difficile vita familiare, che avuto il suo picco drammatico con il suicidio del figlio, l’ha fortemente indurita, portandola a gettarsi su casi apparentemente insolvibili, portandola ad un tormento interiore ancora più profondo.

Non mi ha del tutto entusiasmato la gestione del suo personaggio: si punta moltissimo dal punto di vista emotivo sui suoi traumi, ma poi questi vengono risolti fin troppo sbrigativamente, in particolare la morte di Colin.

Inoltre, la sua temporanea sospensione dalla polizia, che poteva portare ad una maggiore riflessione sul personaggio e ad una gestione della trama più interessante, in realtà si rivela fondamentalmente inutile, e anche troppo facilmente risolta.

E non è l’unico caso…

L’effetto Barnaby

Enid Graham in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

In moltissime serie analoghe, i misteri si svolgono in piccole comunità che fino a quel momento non erano mai state toccate da tragedie, anzi dove era improbabile che accadessero.

Tuttavia, la loro forza sta proprio nell’unicità del caso, che porta i detective ad investigare personaggi che appaiono del tutto innocui e insospettabili.

Quest’ultima dinamica non manca all’interno della serie, ma diventa davvero poco credibile quando i membri della comunità non solo hanno comportamenti sospetti, ma commettono pure svariati crimini.

Ruby Cruz in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Di fatto, all’interno di una comunità abbastanza piccola, sembra che ci sia la maggiore concentrazione di criminali che all’interno del resto degli Stati Uniti – e neanche tutti vengono denunciati o puniti.

Insomma, si scade nell’effetto Barnaby: all’interno di una cittadina minuscola accadono tantissimi e improbabili casi di omicidio, e chiunque può essere potenzialmente un criminale.

Tanti casi, nessun caso

Pur di tenere alta la tensione, la serie si perde in tante, troppe storyline.

Già l’idea di mettere due casi in un’unica serie è stato un azzardo, ma lo è tanto più se fondamentalmente i casi vengono risolti e messi nel cassetto, senza che si approfondisca più di tanto il caso stesso o le motivazioni che vi erano dietro.

E scegliere come uno dei colpevoli un personaggio sconosciuto è stato un incredibile autogol che ha vanificato del tutto il mio interesse al riguardo.

Julianne Nicholson in una scena di Mare of Easttown (2021), miniserie mistery di produzione HBO

Anche peggio scegliere di trascinare così lungamente invece l’omicidio di Erin, utilizzando una messinscena che puzzava fin da subito di fake: la scelta di non mostrare la notte dell’omicidio mentre John Ross la raccontava è un indizio fin troppo palese della falsità della sua confessione.

Al contempo ho poco apprezzato la scelta di Ryan come colpevole: un ragazzino di appena tredici anni che fondamentalmente lo spettatore non conosce e che serve solo per costruire l’inaspettato colpo di scena finale, che però appare veramente poco credibile…

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Apple TV+ Avventura Drammatico Mistero Serie tv Thriller

Black Bird – Al lupo, al lupo

Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+ di genere thriller. Come sempre, un ottimo prodotto seriale, che Apple non sembra voler far conoscere al mondo…

Di cosa parla Black Bird?

Jimmy è uno spacciatore arrogante e spocchioso, che viene condannato a 10 anni di galera. E il suo biglietto d’uscita è particolarmente salato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Black Bird?

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Assolutamente sì.

Black Bird è un thriller piuttosto atipico, che affronta diversi temi, fra cui un problema molto attuale negli Stati Uniti (e non solo): l’incubo delle carceri, che si sente in tutta la sua drammaticità.

E la prigione che diventa lo sfondo claustrofobico di un gioco fra le parti, retto da due attori di grandissimo talento, per una storia che riesce a tenerti col fiato sospeso fino all’ultimo…

Insomma, da recuperare.

La maschera

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Inizialmente Jimmy è un insopportabile arrogante, che pensa di avere sempre una via d’uscita e di poter fregare chiunque con la sua nota furbizia.

E infatti nel carcere, dopo appena sette mesi, lo troviamo perfettamente ambientato, a capo di un discreto, ma funzionante commercio interno.

E questa stessa arroganza la userà anche per smascherare Larry, cercando di prendere il posto del fratello.

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Il protagonista diventa infatti quasi un alter ego di Gary: superiore al fratello per fascino e sfrontatezza, ma comunque profondamente disturbato dal comportamento quasi bestiale che l’uomo rivela col tempo.

E, come alla fine il fratello maggiore di Hall ammette di non avere la forza di controllare Larry per tutta la vita, Jimmy perde del tutto il controllo davanti alla vera natura del suo fratello acquisito.

Non lo faccio per voi

Taron Egerton in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Se inizialmente lo smascheramento del killer era solo il biglietto di sola andata per uscire di prigione, non ci vuole molto perché i segreti di Larry diventino insostenibili.

Sulle prime Jimmy gioca a fare il gradasso, il cool guy che la sa più lunga di tutti e che sminuisce persino il ragazzo strambo, ma tutto sommato innocuo, accondiscendendo le sue parole per farlo confessare.

Ma quando Larry comincia veramente a rivelare quanto sia visceralmente malvagia e disturbata la sua mente, è il momento in cui Jimmy comincia davvero a crollare.

Taron Egerton e Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Una faccia di bronzo alla luce del sole, un uomo terrorizzato nel segreto della sua cella.

E allora passa alla mossa finale, la più difficile che permette veramente di far del tutto svelare la natura di Larry: mettere in dubbio la veridicità della sua storia. Un’accusa insostenibile per un individuo che ha inseguito tutta la vita il desiderio di riconoscimento sociale.

E anche se Jimmy prova a portare Larry, in un ultimo, disperato tentativo, sulla giusta via, capisce infine che è impossibile. E allora perde il controllo.

Ma la bestia vera si deve ancora rivelare…

La bestia sopita

Paul Walter Hauser in una scena di Black Bird (2022) è una miniserie Apple TV+

Larry è il lupo travestito da agnello.

Apparentemente è un uomo solo, con le sue stramberie e i suoi peculiari comportamenti con le donne – e non solo – ma fondamentalmente innocuo.

In realtà i confini della sua follia non sono neanche concepibili: che la sua violenza per le donne derivi da una personalità multipla, da una concezione dell’altro sesso coltivata negli ambienti sbagliati o dai traumi infantili, non è dato a sapere.

Sappiamo solo che la sua apparente mansuetudine è del tutto ingannevole: Larry è una bestia incontrollabile, solo apparentemente sopita, che non ha il minimo rimorso per la sua condotta, anzi arriva proprio a giustificarla…

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Comico Commedia Drammatico HBO Max Satira sociale Serie tv Thriller

The White Lotus – La società al vetriolo

The White Lotus (2021 – …) di Mike White è una serie tv di genere drammatico e satirico, dal taglio semi-antologico. Un prodotto che è stato ampiamente premiato agli Emmy, ma che ha avuto un riscontro abbastanza tiepido in Italia.

È distribuita da HBO e in Italia è disponibile su NOW.

Di cosa parla The White Lotus?

Ogni stagione la serie racconta le intricate vicende di un gruppo piuttosto vario e colorito di personaggi, accomunati dall’essere ricchi e dall’alloggiare presso uno dei resort del White Lotus, appunto.

Vi lascio il trailer della prima stagione per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The White Lotus?

Meghann Fahy in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Assolutamente sì.

Ho cominciato questa serie con poco interesse, attirata principalmente dal passaparola positivo intorno al prodotto – e dal fatto che è stato paragonato al mio adorato Triangle of Sadness (2022). E ne sono rimasta assolutamente rapita: è difficile anche spiegare perché questa serie sia così tanto coinvolgente.

Sarò perché la scrittura dei personaggi e delle loro relazioni è sublime, mai banale, nonostante i temi trattati potrebbero facilmente appartenere a qualsiasi drama di terza categoria. Senza contare dell’interessantissima e sempre attuale riflessione sulla società odierna.

Insomma, non ve la potete proprio perdere.

Ogni sezione parla solamente della stagione di riferimento.

The White Lotus 1

La prima stagione è ambientata nel resort White Lotus alle Hawaii.

La moglie trofeo

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

La storia forse più drammatica è quella di Rachel.

Si percepisce fin da subito il disagio della sua relazione: la ragazza è intrappolata con un uomo che è in realtà solo un bambino viziato, che pretende di mettere i piedi in testa a tutti e di avere sempre l’ultima parola.

Ma Shane ha pescato la donna sbagliata.

Rachel non è la classica donna immagine e arrampicatrice sociale da mettere in mostra all’occorrenza: è una donna che ha cercato faticosamente di farsi strada in una realtà piena di insidie, continuando imperterrita nel suo lavoro.

Alexandra Daddario in una scena della prima stagione di The White Lotus

Ma, al contempo, è anche vittima della sua grande insicurezza: accetta le pressioni del marito e i suoi capricci senza una parola, se non qualche timida protesta, che però viene sotterrata dalle continue urla lagnose di Shane.

E vive con molto disagio la sua condizione – evidente ed esplicitata anche dalla madre del marito – di moglie trofeo, cercando di crearsi un proprio spazio di autonomia, non riducendosi a portare avanti lavori senza significato solo per riempire il tempo e acquisire uno status.

Ma il tentativo di emancipazione fallisce: Rachel, troppo spaventata di questo ulteriore grande passo che sta compiendo, torna con la coda dalle gambe dal marito, promettendogli con voce spezzata che sarà felice.

Le paladine di carta

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Olivia e Paula sono apparentemente due ragazze viziate di buona famiglia, superficiali e vuote.

Tuttavia, più la narrazione prosegue, più vengono svelati i loro conflitti sepolti, con al centro la possessività e la gelosia di Olivia, motivo per cui Paula le nasconde la sua relazione con Kai.

Ed entrambe raccontano un conflitto generazionale profondo, ben rappresentato dai vari discorsi fra loro e i genitori: gli adulti vivono ancora delle vergogne e dei principi della vecchia generazione, in particolare di quello dell’omosessualità come demascolinizzante.

Sydney Sweeney e Brittany O'Grady in una scena della prima stagione di The White Lotus

Anche più interessante è il racconto del colonialismo 2.0, ben rappresentato dal resort stesso.

Tuttavia, entrambe le parti sbagliano: se i genitori se ne lavano le mani e negano tutte le loro colpe, chiosando che non possono farci nulla, d’altra parte le due ragazze prendono strade più estreme – e comunque non risolutive.

Infatti, oltre alla condanna aggressiva nei confronti della generazione precedente, non è affatto risolutiva l’idea di Paula, che sceglie di aiutare Kai e la sua famiglia a riconquistare quanto gli è stato tolto improvvisandosi come un’improbabile Robin Hood.

Un atto che porta paradossalmente vantaggio ai conquistatori e che distrugge definitivamente la vita a quelle che erano le vittime in primo luogo.

Il capriccio del momento

Jennifer Coolidge in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il personaggio di Tanya racconta forse una figura più stereotipata, ma la cui storia ha dei significati molto interessanti.

Infatti la donna è il classico personaggio ricco e pieno di stranezze, che può permettersi di inseguire ogni capriccio, per quanto temporaneo. E in questo gioco perverso ci finisce di mezzo Belinda, che per un breve periodo diventa la sua favorita, illudendosi di promesse presto smentite.

Natasha Rothwell in una scena della prima stagione di The White Lotus

Inizialmente la donna ha evidentemente la sensazione di starsene approfittando, ma mette presto da parte questi suoi scrupoli per andare fino in fondo, e guadagnarci qualcosa. Ma la sua finestra temporale è brevissima, e in un attimo Tanya è passata al capriccio successivo.

Ed è estremamente interessante come il cambio di idea di questa ricca ereditiera, che la stessa vive con così tanta leggerezza ed egoismo, determina così profondamente il destino di Belinda…

Le belle apparenze

 Murray Bartlett in una scena della prima stagione di The White Lotus

Armond, il manager del White lotus, è forse il personaggio che meglio rappresenta il tema di fondo della serie.

Apparentemente il resort è un luogo idilliaco e paradisiaco, ma è solo un’apparenza, appunto: un’apparenza che nasconde in realtà tutto il marcio, tutti i capricci impossibili degli ospiti, i loro segreti, e i loro peccati.

E Armond, assolutamente stufo di questa situazione, comincia sempre di più a dirigersi verso la sua autodistruzione, utilizzando contemporaneamente le droghe rubate alle due ragazze e inimicandosi Shane, che sempre più insistentemente vuole punirlo.

E, come per Kai e Belinda, è l’unico che veramente ci perde, addirittura con la sua vita.

La vera liberazione

Fred Hechinger in una scena della prima stagione di The White Lotus

Il vero vincitore della serie è Quinn.

Inizialmente ci viene raccontato come un adolescente dissociato, del tutto dipendente dalla tecnologia e dalla pornografia – in maniera quasi stereotipica. Sarà un’onda fortunata a privarlo di tutto, con una funzione quasi catartica.

Anche in questo caso è una costruzione passo passo: prima viene esiliato sulla spiaggia e vede per la prima volta una balena, poi comincia ad unirsi agli atleti ogni mattina, fino a rendersi conto della fumosità e l’inutilità della vita che aveva condotto fino a quel momento.

Ed è l’unico che davvero sceglie di abbandonare quel mondo, e remare felice verso l’orizzonte.

The White Lotus 2

La seconda stagione è ambientata nel resort White Lotus in Sicilia.

Il gioco delle coppie

Meghann Fahy,  Aubrey Plaza, Theo James e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Uno degli elementi centrali della stagione è il gioco delle relazioni, che si articola in ben quattro coppie e un triangolo amoroso.

Sulle prime, sembra che Harper e Ethan siano una coppia infelice, sopratutto per via della freddezza e dell’ossessione del controllo della donna, in totale contrasto con l’apparente felicità di Cameron e Daphne.

Tuttavia la stessa viene presto svelata come tutta apparenza: Cameron si intrattiene con diverse donne alle spalle della moglie, che ne è tuttavia consapevole, ma che decide comunque di mantenere in piedi la facciata.

Meghann Fahy e Will Sharpe in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Al contrario, la coppia più solida si rivela infine quella di Ethan e Harper, basata sulla totale fiducia e sincerità. E questo, nonostante la stessa fiducia venga meno sul finale, quando il marito è convinto che la donna l’abbia tradito con Cameron – come viene anche suggerito nel primo episodio.

Entrambe le storie – anzi proprio il loro contrasto – offrono diversi spunti di riflessione riguardo alla fragilità delle relazioni e di come spesso si decida di continuare a mantenere il quieto vivere delle stesse, pur avendo consapevolezza di tutte le bugie che vi stanno dietro…

Dove sta la morale?

 Beatrice Grannò e Simona Tabasco in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Altrettanto interessante sono le vicende di Lucia e Mia.

Per quanto riguarda Lucia, non è ben chiaro fino alla fine quanto e se la ragazza stia mentendo riguardo ad Alessio e quanto si sia effettivamente approfittato di Albie, con cui si intrattiene diverse volte e con cui sembra costruire un’effettiva relazione.

Eppure alla fine decide comunque di costruirsi una vita alle spalle del ragazzo, con un tradimento che neanche sembra toccarlo più di tanto, in quanto è subito pronto a tornare da Portia. È forse la realizzazione felice del disastroso piano di Kia e Paula nella prima stagione, derubando i ricchi per dare ai poveri?

E noi, da che parte stiamo?

Beatrice Grannò in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Molto più netta è la situazione di Mia.

La ragazza capisce che l’unico modo in cui – purtroppo – può fare carriera come cantante è concedendosi all’uomo di potere di turno. Tuttavia, appare chiaro fin dal principio che Giuseppe si voglia solamente approfittare di Mia.

E per questo viene punito.

Alla fine la ragazza riesce ad ottenere il tanto ambito posto è perché convince con tante belle parole Valentina e dimostra effettivamente di essere capace e di ottenere il favore del pubblico, a differenza appunto di Giuseppe.

E molto delicata è anche la relazione con Valentina.

Un sottile equilibrio

Sabrina Impacciatore in una scena della seconda stagione di The White Lotus

La storia di Valentina è quella con lo svolgimento più interessante.

La donna si invaghisce di Isabella e confonde la sua gentilezza con delle avance, andandole anche contro, togliendo un possibile spasimante dalla sua vita – ovvero Rocco. Tuttavia, nel momento della rivelazione del loro prossimo matrimonio, Valentina decide di non cedere alla cattiveria e all’abuso di potere.

Infatti, forse anche ammorbidita dalla relazione con Mia che le permette di esprimere finalmente i suoi desideri sessuali, la donna accetta la relazione di Isabella e Rocco, e sceglie consapevolmente di non punirla per averla rifiutata romanticamente.

Fra il thriller e il grottesco

Jennifer Coolidge e Jon Gries in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Tanya è l’unico personaggio che appare in entrambe le stagioni e che regala al secondo ciclo di episodi quel taglio thriller che lo rende per certi versi anche più interessante.

Tanya e Greg sembrano avere una relazione piuttosto infelice, da ogni punto di vista: sessualmente non sembrano riuscire a ritrovarsi, e così sentimentalmente Greg non ha più interesse per la donna, con cui si è unito probabilmente solo perché pensava di essere in fin di vita.

Jennifer Coolidge in una scena della seconda stagione di The White Lotus

Infatti, anche se non viene esplicitamente confermato, Greg avrebbe instaurato un intrigato piano per eliminare la moglie e guadagnarci il più possibile. Così entra in scena questo gruppetto di personaggi quasi macchiettistici, che sembrano regalare a Tanya la più bella vacanza possibile.

In realtà, mettendo a poco a poco insieme i pezzi, la donna si dimostra molto meno ingenua di quanto sembri e capisce di essere in pericolo. E il suo personaggio è talmente goffo e grottesco che ci regala un gustosissimo finale fra il thriller e il comico, in cui Tanya fa disordinatamente strage dei suoi potenziali assassini, ma perde lei stessa la vita.

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Avventura Avventura Azione Azione Cinecomic Commedia nera Cult rivisti oggi DCU Drammatico Drammatico Fantascienza Fantascienza Film HBO Max Mistero Satira sociale Serie tv Thriller Watchmen

Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.