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Amarcord – La famiglia fragile

Amarcord (1973) è uno dei film più particolari di questa ultima fase della carriera di Fellini, che ritorna al neorealismo ormai carico di una nuova consapevolezza surrealista e onirica.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 197 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Amarcord?

Fra il sogno e il surreale, Fellini ripropone i suoi ricordi di infanzia durante il Ventennio, fra i primi calori e i segreti della famiglia borghese.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Amarcord?

In generale, sì.

Amarcord è un film forse meno complesso rispetto ad altre produzioni di questa fase – come Giulietta degli spiriti (1965) – ma comunque, nel suo bozzetto grottesco e surreale della provincia italiana del Ventennio, fra pettegolezzi e segreti inconfessabili, non è una visione semplice.

Infatti da una parte sembra un ritorno al neorealismo dei primi anni della sua carriera, ma rimane innegabile tutta l’esperienza surreale e onirica che ormai definì le sue pellicole da (1963), tanto da risultare un esperimento quantomeno straniante…

…eppure, nella sua particolarità, una visione la merita.

Ricordo

La storia di Amarcord si articola fra il ricordo e il sogno.

In questo senso Fellini sembra in qualche misura ritornare al neorealismo della sua prima produzione – specificatamente a I vitelloni (1953) – ma con un taglio totalmente differente, ormai definito dal suo più recente gusto per il surreale e il grottesco – che, anche in questo caso, non manca.

Per questo, la narrazione del nutrito gruppo di personaggi in scena assume dei contorni surreali, financo esasperati da un contesto provinciale le cui figure perdono la loro umanità e diventano esseri quasi mitologici, con le loro storie fra la verità e il pettegolezzo.

Ma, il tema di fondo è, di fatto, sempre lo stesso.

Borghese

Fin dagli albori della sua produzione, Fellini ha sempre avuto un certo interesse nel deridere e distruggere la famiglia borghese.

Ma se in prodotti come Lo sceicco bianco (1952) la stessa era immersa in un’ironia più leggera e sognante, nel caso di Amarcord il regista la fa esplodere dall’interno, mettendo in scena un drammatico panorama di ostilità costituito da improbabili personaggi e situazioni…

…e dal racconto di un tentativo di mantenere intatte le apparenze anche davanti ai più evidenti scandali e alle più innegabili vergogne – nello specifico lo zio con evidenti turbe psichiche che viene portato a fare una scampagnata come se si trattasse di una domenica in famiglia come tante.

E, invece, progressivamente, tutta la verità di quella polvere nascosta sotto al tappeto prende piede, rivelandosi alla luce del sole.

Così, nell’urlo disperato dello Zio Teo troviamo un altro protagonista fondamentale della pellicola.

La donna.

Desiderio

Uno dei lati più iconici della filmografia felliniana è il suo rapporto con le donne.

Anche per la sua complessa situazione matrimoniale, progressivamente le donne felliniane diventarono sempre più esagerate e caricate, sempre più figure tipizzate e con specifici ruoli – la donna di classe, la prostituta, l’amore impossibile – ma con un punto in comune.

Ovvero, essere oggetto di uno sfrenato desiderio maschile.

Infatti le principali figure protagoniste della scena – la gradisca, Volpina e, soprattutto, la tabaccaia – sono sempre presentate come in una passerella fatta su misura dello sguardo maschile, che le desidera ma non le può mai davvero ottenere, con l’apice della tragedia di Titta, che lo costringe delirante a letto.

Insomma Fellini, forse sentendosi anche più libero in un panorama cinematografico mutato, mette in scena una sessualità esplosiva e proibita, punto di arrivo (?) di un climax ascendente già proprio di film come La dolce vita (1960), in questo filtrata dalla ingenua visione dei primi calori adolescenziali.

Eppure infine tutto si ricompone, tutto viene assorbito in una festa di paese che celebra la ricomposizione della famiglia borghese e che si lascia alle spalle come un sogno di fantasmi dispersi nella nebbia…

…in una panorama così surreale da non riuscire, paradossalmente, a capire neanche di essere davanti alla propria casa.

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Giulietta degli spiriti – Il sussurro liberatorio

Giulietta degli spiriti (1965) è uno dei film più propriamente onirici della filmografia di Federico Fellini, che mise ancora una volta al centro della scena la moglie e musa Giulietta Masina.

A fronte di un budget – pur mai confermato – di 2 milioni di euro, ha incassato meno di 100 mila euro in tutto il mondo.

Di cosa parla Giulietta degli Spiriti?

Giulietta è una donna sola e nevrotica, intrappola in un matrimonio infelice. Eppure, la risposta ai suoi problemi potrebbe venire da una persona inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Giulietta degli spiriti?

In generale, sì.

Non mi sbilancio nel consigliare questa pellicola in quanto siamo definitivamente entrati nella seconda fase della filmografia felliniana, scandita da impianti onirici e fantastici, pregni di simbolismi complessi e sfuggenti…

…che potreste comprensibilmente mal digerire.

Eppure, Giulietta degli spiriti è anche uno dei film più intimi e personali di Fellini, dove affronta nuovamente temi già portati in scena in (1983) ma cambiando prospettiva: non più l’uomo che tradisce (lui stesso) ma la donna tradita e la sua liberazione (sua moglie).

Prigione

Giulietta è in gabbia.

Proprio come per , la protagonista è introdotta di spalle, mentre istericamente cerca una sua identità, e ne getta via molte altre, all’interno di uno dei tanti tentativi di riprendere il controllo del suo matrimonio – e, per estensione, della sua vita – con la festa a sorpresa per il marito.

E invece è Giorgio infine a mostrarsi nella sua natura di personaggio invasivo e opprimente, che ribalta i piani di un incontro intimo e raccolto per far inondare la casa di una fiumana di diversi e grotteschi personaggi, dietro i quali si barrica per nascondere la sua infedeltà e il suo disinteresse per il proprio matrimonio.

Giulietta è così bloccata all’interno della trappola borghese per eccellenza: il matrimonio infelice, in parte già raccontato in Lo sceicco bianco (1956), e che qui viene nuovamente tratteggiato nei suoi silenzi e nei suoi detti per mantenere un’apparenza compatta e rispettabile.

Ma le radici di questa situazione sono ben più profonde…

Radici

I simboli dell’oppressione sono duplici.

La figura più squisitamente borghese è indubbiamente la madre, rappresentante in una certa misura il punto di arrivo ideale per Giulietta e per il suo matrimonio: incredibilmente elegante e altezzosa, non lasciandosi definire dalla sciocca infedeltà del marito, e che, per questo, si permette di giudicare costantemente la figlia.

E, non a caso, è anche la figura chiave che porta Giulietta ad affrontare piena di angoscia l’infedeltà del marito, all’interno di una dinamica che, più che un aiuto, sembra un’imposizione – e l’ambientazione così esplicitamente scolastica e cattolica non fa che incrementare la sensazione che Giulietta abbia bisogno di una lezione.

Non a caso, proprio in questo frangente prende piede l’altro incubo fondamentale della protagonista: l’educazione religiosa, che parte dagli investigatori con vesti clericali e arriva fino al momento fondamentale di definizione della protagonista, ovvero la recita in cui, fin da bambina, ha preso le vesti di una martire.

Una condizione che ben si riflette anche nel presente, in cui Giulietta subisce colpo su colpo le umiliazioni di Giorgio, restandogli sempre fedele e devota, financo silente anche davanti ai più evidenti comportamenti di infedeltà malcelata, infine costretta a vedere il tradimento in diretta.

Eppure, una via di fuga è possibile.

Sussurro

Parlando col mondo immateriale, in realtà Giulietta parla con sé stessa.

Le figure chiave in questo senso sono capovolte: la fuga materiale dalla prigione borghese è il ricordo del padre e del suo tradimento così sciocco e plateale, che si va però ad incastrare anche con la liberazione della figlia stessa dagli stretti lacci dell’educazione religiosa, rappresentati proprio dal suddetto spettacolo.

Infatti, nel contesto della recita scolastica così silenziosamente accettata dal resto del pubblico, la figura paterna è infine quella liberatoria, l’unica che vuole strappare la figlia da un futuro infelice e di sofferenza.

Una lezione che si trasmette anche nel presente, nell’ambigua figura di Susy, la vicina di casa e padrona della vita e di numerosi personaggi che compongono un quadro surreale, onirico e al limite del circense – da cui proprio la donna proviene.

Ma neanche lei è la liberazione.

Il personaggio di Sandra Milo è infatti racconto di un punto di arrivo che la protagonista non vuole davvero abbracciare – nonostante sarebbe la scelta più desiderabile – che ha la sua enfasi nel complesso e intrigante mondo degli spiriti che le continuano a sussurrare di seguirla e di fidarsi…

…mentre infine Giulietta segue solo se stessa: libera prima la stessa bambina dai lacci di un’educazione opprimente e poi evade la prigione borghese – il matrimonio – ma anche la casa degli spiriti e di una vita dissoluta, per scegliere, infine, solo per sé.

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8½ – Lo squallido catalogo dei miei errori

(1963) di Federico Fellini rappresenta forse il film più intimo e sentito della sua filmografia, oltre ad un apripista per la seconda parte della sua carriera, più vicina all’onirico e al surreale che al neorealismo (se così si può chiamare).

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 213 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla ?

Guido è un regista che deve assolutamente preparare il suo prossimo film, incalzato da produttori, attori e amanti per qualcosa che non riesce davvero a concepire…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 8½?

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

rappresenta la più sublime ed intensa riflessione felliniana, uno spaccato che ci permette realmente di penetrare la mente del regista e che rappresenta il punto di passaggio perfetto da La dolce vita (1960) al resto della sua carriera, con una formula che il nostro cinema tentò più nel tempo volte di replicare con scarso successo.

E la bellezza dell’opera sta proprio nel modo in cui Fellini si mette a nudo, in maniera davvero sincera verso se stesso e verso il proprio pubblico, con le sue manie e i suoi peccati quasi ridicoli, ma perfettamente portati in scena da un superbo Mastroianni, che seppe così dimostrare la pluralità delle sue capacità attoriali.

Insomma, da riscoprire.

Stallo

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è malato di sé stesso.

La sua situazione iniziale è quasi desolante: un uomo poco più che quarantenne confinato in un ritiro per la terza età, sottoponendosi a delle cure che sono più dei palliativi rigenerativi per un’angoscia esistenziale che si riflette anche sul suo aspetto tremendamente invecchiato e fragile.

Una ricerca di pace e di serenità che è facilmente guastata ora dall’imperiosa figura del Commendatore, che lo intima a più riprese di dare effettivamente avvio alla produzione del film – rappresentazione piuttosto ovvia delle case di produzione che assillavano Fellini dopo il successo de La dolce vita

Marcello Mastroianni e Sandra Milo in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

…ora dalla miriade di attrici e attori che esigono, pretendono e non danno mai nulla indietro, se non la costante sensazione di essere infestato da problemi che Guido non si sente in grado di risolvere, riuscendo solo a modellare gli interpreti in figure del suo passato e del suo presente, demoni di cui non riesce a liberarsi.

Infatti, è anche e soprattutto un racconto di liberazione della colpa.

Colpa

Anouk Aimée in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Guido è colpevole.

Ad un livello più superficiale e immediato la sua colpa è l’infedeltà nei confronti della moglie – alter ego di Giulietta Masini, compagna e musa – per tutto il primo atto un convitato di pietra insieme al marito dell’amante, che è costantemente richiamato dalle parole di Carla, facendo sentire Guido un eterno secondo…

…e che infine, richiamata proprio dal protagonista, appare in scena, scontrandosi immediatamente, già solo con la sua presenza semplice e austera, con la figura invece chiassosa dell’amante, venendo presa al laccio dal desiderio del marito di modellare e riraccontare il suo presente, ma rifiutandosi quasi immediatamente.

L’intento di Guido è infatti metterle così in scena il suo passato e presente così da poterlo finalmente controllare e quindi capire, per potersi infine depurare da quelle colpe che sente che lo tengono a terra, impedendogli di librarsi verso gli orizzonti che desidera fare suoi.

Ma la colpa più importante – e anche più profonda – è l’educazione clericale: la stessa è proprio rappresentata come incastonata in un luogo segreto ed impenetrabile, che si apre solo per pochi momenti agli occhi del protagonista e solo per ribadirgli di dover tornare sotto i dettami della chiesa altrimenti…

Extra Ecclesiam nulla salus

Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza.

Ma questa colpa, questo peccato originale viene da lontano…

Passato

Marcello Mastroianni in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il tormento presente è in gran parte derivato dal passato.

Il passato ha infatti per Guido una doppia valenza: da una parte è un ricordo felice e rasserenante, con i suoi piccoli riti segreti che ancora vivono nella mente presente, con le cure amorevoli di molte donne – prima di tutto la madre – che ora non fanno più parte della sua vita.

Infatti la nostalgia per questo passato ben più semplice è identificata anche dall’angosciante visione di una sorta di aldilà in cui Guido può finalmente rivedere i suoi genitori – principalmente il padre – costretti in un paesaggio acre e angosciante, financo lugubre – con il padre che si stende nella fossa – e comunque con continui richiami al presente – la moglie e il Commendatore.

Particolarmente quest’ultima è una figura chiave che svela la seconda e fondamentale valenza del passato, ovvero quella della colpa, particolarmente la colpa sessuale: come il padre chiede all’imperiosa figura presente del produttore del comportamento del figlio, ricevendo un sordo brontolio di insoddisfazione, lo stesso si propaga anche nella colpa, anzi nelle colpe passate.

Una delle origini delle sue disperazioni presenti, soprattutto nei confronti delle donne, è proprio il peccato di aver voluto assistere allo spettacolo erotico di Saraghina, per cui viene punito proprio dall’ordine clericale che lo tormenta ancora nel presente, e che lo porta a relazioni amorose così disordinate.

Insomma, Guido vorrebbe solo ordine.

Obbiettivo

Claudia Cardinale in una scena di 8½ (1963) di Federico Fellini

Il protagonista vive nell’ombra di un sogno impossibile.

In questo senso il cinema si intreccia con la vita reale, in un sogno ad occhi aperti in cui finalmente Guido riesce a mettere in ordine le figure passate e presenti, creando un harem in cui viene meticolosamente servito e coccolato, e dove può scegliere arbitrariamente quali donne avere ancora intorno e quali scartare.

Con questa scena si svela quindi il pensiero quasi infantile che domina la mente del protagonista, e che si espande anche nel sogno cinematografico di raggiungere la perfezione filmica, rappresentata dalla eterea presenza di Claudia Cardinale, simbolo di purezza, ordine e serenità che Guido vorrebbe finalmente raggiungere.

Per questo, il finale è duplice.

Davanti alla grottesca parata dei provini per il film, per cui Guido appare insoddisfatto nel suo plateale ribadire il disperato tentativo di controllo, la scena si sposta nella surreale ambientazione della navicella spaziale in costruzione, che diventa sfondo per il definitivo fallimento dell’operazione, in cui Guido si spara un colpo alla testa e così mette un punto a tutto il grottesco spettacolo…

…oppure no?

Il vero finale di è inafferrabile: Guido assume definitivamente le vesti di regista – del film e della vita – e riordina la sua esistenza in una parata di cui però non è solo orchestratore, ma anche attivo partecipe, riducendo così a riconciliarsi con tutti i suoi demoni in una rassicurante atmosfera carnevalesca e circense…

…che ci racconta, forse, un Fellini finalmente libero di esprimere la sua arte al di fuori di paure ed imposizioni.

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La dolce vita – L’età dell’amarezza

La dolce vita (1960) è probabilmente il titolo più famoso della filmografia di Federico Fellini, che ne definì la popolarità non solo in Italia, ma anche oltreoceano.

A fronte di un budget di 800 milioni di lire – circa 400 mila euro – è stato un enorme successo commerciale: 19 milioni di dollari in tutto il mondo, compresi gli incassi per il noleggio.

Di cosa parla La dolce vita?

Marcello è un giornalista di costume che sembra vivere la vita dei sogni, fra feste, VIPS e amori impossibili…o forse no?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La dolce vita?

Federico Fellini e Marcello Mastroianni nel backstage de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Nonostante il titolo – e tutto l’immaginario che si è creato intorno – possa far credere ad uno spaccato dell’Italia del Boom dai toni ironici, in realtà, al pari del poco successivo Il sorpasso (1962), La dolce vita racconta la profonda tragedia del sogno inconsistente e passeggero della sua epoca.

Infatti, se ci si ferma ad ascoltare la pellicola nei momenti in cui davvero ci parla, si può cogliere l’amarezza crescente dei suoi personaggi, immersi in un sogno che sembra non finire mai, ma che li rende anche privi di un punto di arrivo, di uno scopo, di un motivo per essere vivi.

Idolo

L'inizio de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

L’apertura della pellicola racconta tutto di sé stessa.

Un grottesco quanto attraente Gesù in oro massiccio sorvola le cime di Roma, attraendo prima lo sguardo della strato sociale più basso, e poi giungendo alla vetta, e cercando brevemente di dialogare con la sua classe di rappresentanza, ma senza riuscirci.

In altre parole, La dolce vita ci parla di idoli…

…e di idoli passeggeri, interscambiabili, per nulla legati ad una morale cristiana – come racconta bene il passaggio dal Gesù d’oro alla divinità esotica rappresentata dal danzatore nel club – ma anzi con lo sguardo sempre puntato altrove, specificatamente verso gli Stati Uniti.

Per questo l’avvenente stella del cinema, Sylvia, è davvero il simbolo della pellicola.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

In un primo momento Marcello la disdegna – quantomeno a parole – proprio come il suo paese in parte si faceva forte di non essere influenzato dalla cultura d’oltreoceano, ma finendo infine per essere inevitabilmente innamorato, seguendola nella sua sciocca esplorazione dei simboli nostrani.

Infatti, il personaggio di Anita Ekberg prima si appropria delle vesti religiose per salire sulle guglie del Vaticano e quasi prendere il posto del Papa, poi si immerge nel suo abito vaporoso e avvenente nello scenario posticcio dell’Antica Roma, più volte protagonista dei peplum statunitensi.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

E il sogno si autoalimenta nella sua crescente bellezza, finendo per immergersi nelle acque intoccabili della Fontana di Trevi, dove lo schiocco del bacio fra Marcello e Sylvia è al contempo il punto d’arrivo del climax di passione e il momento del risveglio dal sogno.

Così infine il protagonista si trova nell’imbarazzo dell’essere scoperto in pieno giorno, finendo malmenato per strada dalla Grande America.

E l’avventura finisce così…

…o no?

Circo

Marcello Mastroianni in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Lo spettacolo non può mai finire.

La sensazione di un circo infinito domina la pellicola in ogni sua parte, sia nella sua scansione narrativa – che ci porta da una situazione all’altra senza soluzione di continuità – sia nel suo atto centrale, nella sequenza del Cha Cha, in cui ad uno spettacolo ne segue immediatamente un altro, e poi un altro ancora…

E la fugacità del sogno è rappresentato proprio dalla sua immediata attrattiva: che si tratti dell’ultimo scandalo di celebrità o del supposto miracolo popolare, i media – che siano i paparazzi o la televisione – sono sempre pronti all’assalto della notizia, per darla in pasto ad un pubblico immerso in un’euforia apparentemente senza fine.

Marcello Mastroianni e Alain Cuny 
in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Ma è proprio nel secondo quadro de La dolce vita – quello dedicato alla festa a casa di Steiner – che emerge effettivamente il dramma della pellicola, impersonato dalla figura del futuro suicida, che racconta prima la sua volontà di ridimensionarsi – come persona e come sogno:

Se mi vedessi bene, sapresti che persona piccola che sono.

…e poi con il suo angosciante tentativo di fuga, rappresentato dai suoni ambientali di cui ormai si è privato, troppo immerso nel fracasso costante a cui la vita mondana lo costringe, troppo intrappolato in quel quadro felice da esserne incapace di fermarsi e di coglierne la vera natura:

Mi sembra che sia solo un’apparenza e che nasconda l’inferno.

E proprio nella mancanza di punti fermi si trova una delle maggiori angosce della pellicola.

Legami

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

Marcello non può legarsi a nessuno.

La sua vita è scandita da amori passeggeri e scostanti, dall’incapacità di amare la donna che lo ricambia – Emma – e dall’impossibilità di ottenere la donna che desidera – Maddalena – con cui finisce solo per inseguirsi, persino appartarsi nella segretezza della casa di una prostituta.

Entrambe le figure femminili sono sfuggenti, desiderate, respinte e respingenti, in una dinamica di inseguimento che non riesce mai a concludersi, dove vengono dette parole importanti, sia ingiuriose – come nel caso di Emma – sia appassionate – nei confronti di Maddalena…

…per trovarsi sempre al punto di partenza, in un’insopportabile stasi.

Marcello è quindi solo e inascoltato, vive sempre in potenza di qualcosa che potrà succedere – da cui l’emblematica spiegazione della sua vita al padre – e, quando si ferma, riscopre la sua immobilità e solitudine, come proprio nella scena della stanza del Castello, in cui infine Maddalena scompare fra le braccia di un altro uomo.

Infatti, proprio come a teatro, i personaggi entrano ed escono di scena, a volte senza un reale motivo, ma causando la reale sofferenza del protagonista, che si rende conto di non avere un rapporto concreto e significativo con nessuno, nemmeno col padre che prima viene assorbito dalla vita del figlio…

…ma che, infine, senza nessun motivo, deve abbandonarlo.

E proprio in questa occasione si introduce il tema della incomunicabilità.

Comunicare

Marcello Mastroianni e Yvonne Furneaux in una scena de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

I personaggi non possono cambiare anche perché non possono comunicare.

La baraonda delle loro vite è troppo importante, troppo imprevedibile perché possa essere evasa, la parata in cui vengono coinvolti per entrare e uscire di scena è troppo travolgente per non farne parte, per non essere rinchiusi in una vita perfetta, in realtà profondamente disconnessa e senza significato.

Per questo, le strade possibili sono solo due.

L’uscita di scena, quella definitiva, di Steiner, che, consapevole di non poter mai essere ascoltato, di non poter mai pretendere una vita differente, se la toglie, lasciando Marcello nella consapevolezza di non aver veramente ascoltato l’amico, di non averlo mai veramente conosciuto nel suo profondo ed incompreso dolore.

Oppure, lasciarsi sopraffare.

Marcello Mastroianni nella scena finale de La dolce vita (1960) di Federico Fellini

La profonda tragedia della perdita di Steiner spinge Marcello ancora più al centro della scena, sempre più inconsistente e frivolo, quasi folle nel suo agire, nel suo voler comporre la scena a suo piacimento, per continuare in eterno una festa da cui non può fuggire.

Per questo, ormai in ginocchio sulla spiaggia, non riesce ad ascoltare niente di diverso, nemmeno la voce innocente e forse alternativa di Paola, che lo distanzia solo di pochi metri eppure che non riesce a penetrare la bolla in cui Marcello si è rinchiuso…

…in cui sceglie infine di ritornare, con un mezzo sorriso sornione di cui ormai ha accettato un’infelice esistenza.

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Le notti di Cabiria – Dall’alto al basso

Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini è una pellicola dedicata all’omonimo personaggio già apparso brevemente in Lo sceicco bianco (1953).

A fronte di un budget di circa 10 milioni di lire (circa 5 mila euro) fu un enorme successo commerciale700 mila dollari – grazie anche alla vittoria come Miglior film straniero agli Oscar del 1958.

Di cosa parla Le notti di Cabiria

Cabiria è una prostituta che sembra essersi presa tutte le sfortune della vita. Ma forse una speranza c’è ancora…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le notti di Cabiria?

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Assolutamente sì.

Le notti di Cabiria è una splendida esplorazione felliniana dei numerosi strati sociali della Roma della fine del Decennio, spaziando fra diversi tagli narrativi, dalla più serena comicità alla dramma più straziante.

Difficile comprendere a così grande distanza di tempo la portata storica del racconto di una figura sociale così scandalosa come la prostituta, all’interno fra l’altro di un panorama di personaggi senza una particolare distinzione fra buoni e cattivi, ma con un’accattivante scala di grigi.

Amarezza

Cabiria è un personaggio profondamente incattivito.

L’apertura ci racconta un panorama idilliaco, in cui una coppia di innamorati passeggia allegramente nelle campagne romane, per poi improvvisamente mutare tono: l’uomo sottrae la borsetta alla donna e la getta nel fiume, dove questa rischia di morire.

Un momento di passaggio fondamentale in cui la protagonista muore e rinasce, di nuovo consapevole delle sua sua posizione di emarginata sociale per cui è impossibile riscattarsi, allergica ad ogni tipo di umanità nei suoi confronti, che non può altro che portare ad un giudizio di valore:

È una che fa la vita…

Espressione antiquata per indicare una donna che fa la prostituta.
Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

E la sua antipatia si espande a tutti i rapporti con gli altri personaggi, a cominciare da Wanda, la sua vicina di casa, da cui non vuole essere assolutamente aiutata, pena l’ammettere di essere stata gabbata in un momento di leggerezza in cui ha abbassato la guardia.

Infatti, Cabiria vive in un sogno.

Margine

Cabiria e Alberto Lazzari in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Nonostante il suo carattere turbolento, la protagonista crede che un riscatto sia ancora possibile.

E questo avviene ancora una volta nell’incontro con Alberto Lazzari, che, abbandonato dalla fidanzata, sceglie invece la compagnia di Cabiria, che si illude di essere effettivamente al centro dell’interesse del divo del cinema, di poter essere la sua nuova compagna.

Ma basta poco per essere scalzata dalla bellezza eterea della compagna di Alberto, che ritorna improvvisamente nella sua vita, spingendo la protagonista nuovamente ai margini della scena – e dell’interesse dell’attore, che prima la rinchiude in bagno, poi la congeda con una mazzetta.

E, giunti così in alto, non si può che scendere…

…molto in basso.

Prospettiva

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria vive in uno stato di potenza…

…di fallimento o di rinascita.

Nonostante la sua posizione sociale marginale, la protagonista ci tiene a rimarcare di essere riuscita a costruirsi una vita dignitosa – anzi, si scoprirà nel finale che è riuscita a mettere da parte una cospicua cifra sempre in funzione di un possibile riscatto futuro.

Ma Cabiria sa anche di essere in bilico.

E la prospettiva della pericolosità della sua ambigua posizione le appare chiara solo nel viaggio nelle grotte, sede dei veri emarginati sociali, crollati nella miseria più assoluta e sorretti dalla fragile e occasionale carità di pochi uomini buoni.

In questa amara desolazione emerge particolarmente la figura di Elsa, un tempo protagonista delle notti romane, ora definitivamente scomparsa dalla circolazione, vivendo delle illusorie speranze di potere ancora recuperare il suo precedente status.

E questa prospettiva, apparentemente così fine a sé stessa, è fondamentale per il terzo atto.

Ciclo

Giulietta Masina in una scena di Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini

Cabiria è bloccata in un ciclo?

Il drammatico scherzo ai danni della protagonista a teatro è solo un’ulteriore rappresentazione – anzi, forse la più straziante – di quel sogno che la protagonista sembra incapace di abbandonare, nonostante le umilianti conseguenze, tali da farla nascondere per ore all’interno del teatro.

Eppure la vita sembra darle un’occasione nuova di zecca per riscattarsi, per abbracciare quel destino che Frate Giovanni le racconta come assolutamente naturale e auspicabile – il matrimonio – persino con un uomo che conosce da pochissimo tempo, ma che sembra genuinamente interessato a lei.

E così lo spettatore è ottimamente rappresentato dalla figura di Wanda, che osserva preoccupata il totale abbandonarsi di Cabiria a questo nuovo sogno, scegliendo consapevolmente di liberarsi di tutti i suoi averi di troppo per cominciare una nuova vita.

E l’angoscia non fa che crescere più la protagonista mostra i suoi averi e più la coppia si avvicina al dirupo davanti al quale Cabiria crolla nell’ennesima consapevolezza di essere stata usata solo per soldi, e pure tramite una costruzione astrusa quanto genuinamente straziante.

Eppure, non è finita.

L’ultimo momento della pellicola, in cui Cabiria sembra definitivamente destinata alla miseria precedentemente mostrata, viene invece illuminato dalla giocosa apparizione della folla festante, per cui la dolorosa lacrima sul volto della protagonista diventa quasi un vezzo, quasi un trucco da pagliaccio felice.

Per raccontarci che, nonostante tutto, una speranza di rinascita c’è ancora…

…e ancora.

…e ancora.

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Avventura Commedia Drammatico Federico Fellini Film

La Strada – Cane mangia cane

La Strada (1954) è universalmente considerato il primo capolavoro di Fellini – e forse il momento più significativo della sua fase neorealista.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 61 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La strada?

Dopo aver visto partire (e mai tornare) la sorella, Gelsomina è scelta dal feroce Zampanò come prossima compagna di viaggio per la sua compagnia circense. Ma la prospettiva è molto meno piacevole del previsto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Strada?

Assolutamente sì.

La Strada è il primo effettivo dramma felliniano, che sposta l’occhio dalla fragilità della piccola borghesia alla società degli ultimi, facendone emergere un ritratto apparentemente estremamente scontato, in realtà profondamente drammatico e significativo.

La pellicola dove, dopo la breve quanto significativa apparizione in Lo sceicco bianco (1952), la musa felliniana – nonché compagna di vita – Giulietta Masina poté finalmente mettere in mostra le sue ottime capacità di artista versatile e sfaccettata.

Insomma, da riscoprire.

Destino?

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Gelsomina è destinata ad un’avventura di strada…

…o al patibolo?

Il racconto della protagonista si apre con il ricordo della sorella ben più meritevole di lei, prematuramente scomparsa nel viaggio infernale con Zampanò, per una vita sulla carta piena di sorprese e di successi, nella realtà ben più misera e insidiosa.

E il pianto della madre, che fa dà sfondo a tutta la sequenza iniziale, è uno spaccato dolorosissimo di una classe sociale che, pur comprendendo la tragedia a cui sta andando incontro, non può scamparla, proprio in mancanza di altre prospettive a cui aggrapparsi.

In altre parole, Gelsomina può morire a casa, o può morire per strada.

Sbocciare

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Il rapporto fra Zampanò e Gelsomina è volutamente paradossale.

La giovane serba dentro di sé una scintilla che deve solo essere sfruttata, nascosta dietro quella facciata invece più timida e riservata, ma che viene fatta emergere a forza di schiaffi di uno Zampanò deciso nel modellare la figura della giovane come perfetto accompagnamento per i suoi spettacoli.

Ed effettivamente la protagonista prende progressivamente colore a fianco del suo padrone, diventando prima il suo accompagnamento, poi effettiva protagonista dei suoi spettacoli, tanto da riuscirne ad ampliare il repertorio e non limitarlo ad una sola prova di forza.

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Tuttavia non mancano i continui abusi, al punto da fare arrestare Zampanò e a permettere così a Gelsomina di liberarsi della sua ingombrante presenza, per unirsi alla ben più accogliente compagnia circense, ma scegliendo invece di rimanere fedele al suo aguzzino per una sorta di sindrome di Stoccolma…

…oppure no?

Cane

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

Il vero protagonista drammatico è proprio Zampanò.

Per quanto sembri apparentemente solo un buzzurro attaccabrighe, in realtà è un personaggio ben più sfaccettato, come emerge gradualmente dai suoi discorsi, che hanno come comune denominatore una insofferenza insaziabile nei confronti di un mondo ingiusto che non sembra fare altro che punirlo.

Di fatto Zampanò è un personaggio profondamente incattivito, che ha scelto di rinchiudersi in sé stesso e nella solitudine del proprio piccolo inattaccabile mondo, dove anche il minimo cambiamento – come il coinvolgimento di Gelsomina nel nuovo spettacolo – alimenta la sua inarrestabile ira.

Per questo diventa infine vittima di sé stesso, incapace di reagire lucidamente, ma solo con la forza bruta, portandolo ad una frattura insanabile sia nel corpo del Matto, sia nella mente di Gelsomina, che rimane come cristallizzata in quella violenza incomprensibile che la fa uscire di senno.

Giulietta Masina in una scena di LA Strada (1954) di Federico Fellini

E, anche se a parole Zampanò rinnega l’importanza della ragazza nella sua vita, tanto da abbandonarla in mezzo alla strada, la stessa rimane un’eco costante che lo perseguita anche nel presente, venendo a sapere del suo totale spegnersi nella solitudine e nella pazzia solo per bocca d’altri…

…abbandonandosi infine in un pianto disperato davanti all’ennesimo fallimento della sua infernale esistenza.

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I Vitelloni – Costretti alla vita

I Vitelloni (1953) è uno dei film più noti della fase neorealista della filmografia di Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, la pellicola è stata un successo internazionale, riuscendo ad arrivare molto oltre i confini italiani, dove comunque incassò più di 28 mila euro.

Di cosa parla I Vitelloni?

La vicenda si incentra sulle vicende di un gruppo di bambini troppo cresciuti, incapaci di abbracciare la vita adulta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Vitelloni?

Assolutamente sì.

Come era stato per il precedente Lo sceicco bianco (1952), anche in questo caso Fellini porta in scena un racconto dissacrante della società italiana, della fragilità del sogno piccolo borghese intrappolato in una serie di codici che non riesce a sostenere…

…ben rappresentato dai cinque protagonisti che si fanno largo in una vita dove vogliono essere capifamiglia, inguaribili dongiovanni, artisti incompresi…per ritrovarsi ad essere solo dei bambinoni (o Vitelloni, appunto) incapaci di diventare adulti e di prendersi anche solo la minima responsabilità sulle spalle.

Incidente

Riccardo Fellini e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

L’incipit è un perfetto spaccato della condizione iniziale dei protagonisti.

La simpatica occasione di incontro paesano ruota intorno all’incoronazione della reginetta di bellezza, ultimo momento del racconto di un sogno di giovinezza che sembra non avere mai fine, in cui i Vitelloni ne sono il degno contorno…

…ma che viene spezzato da un temporale improvviso e inarrestabile, quanto è inarrestabile l’incidente della gravidanza di Sandra, che, soffocata dal peso della responsabilità, sviene in mezzo alla folla rivelando così il peccato giovanile che la forzerà immediatamente alla vita adulta.

Franco Fabrizi e Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

In questo senso Fausto è l’apoteosi dei Vitelloni, che sogna una vita al di fuori di ogni responsabilità, soprattutto quella di una donna fissa al suo fianco, che cerca di fuggire alla prima occasione, ma che viene subitamente riportato coi piedi per terra dall’arcigno patriarca.

Ed è solo l’inizio.

Fuga

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

I Vitelloni vivono in una continua fuga.

Fausto cerca ogni occasione per fuggire dalle responsabilità del suo matrimonio, non scegliendo una particolare alternativa allo stesso, ma semplicemente avventandosi su ogni donna gli sembri anche vagamente interessante, incapace di rimanere fedele alla dolce e innocente Sandra.

E per lui è ancora più straziante rimanere bloccato in un limbo costrittivo e soffocante, in cui è tecnicamente un adulto – in quanto sposato – ma deve sottostare ai controlli pressanti di una famiglia che non è neanche la sua e che lo trattiene come in un bozzolo, in attesa che possa sbocciare – o maturare.

Franco Fabrizi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

E la sua immaturità non è solo nel suo continuo e testardo rifuggire la trappola matrimoniale, ma nel comportarsi senza aspettarsi nessuna conseguenza – che sia per le donne o per gli stupidi furti – finendo anzi continuamente punito e sconfitto.

E gli altri?

Ruolo

E se il sogno fosse troppo?

Nessuno dei Vitelloni è capace di affrontare davvero la vita adulta: persino il sognatore Leopoldo, che vede finalmente le sue notti di studio maturare i primi frutti nelle lodi e promesse entusiastiche del commediografo, con la promessa di evadere la realtà provinciale in cui è costretto…

…fugge spaventato davanti ad una realizzazione del sogno non così idealizzata come si immaginava, in cui la via per la gloria può essere lastricata di insidie e di attenzioni non richieste, come quelle ambigue che gli rivolge il drammaturgo sulla spiaggia.

Alberto Sordi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Ma quello più bloccato in un limbo paradossale è Alberto.

Fra tutti, è il protagonista che abbraccia di più il suo lato infantile, che ha il suo apice nella festa di Carnevale, in cui si traveste scioccamente da donna, ma che si manifesta anche nelle stupide scommesse di cavalli e nelle ubriacature deliranti che gli impediscono di assumere quel ruolo tanto ricercato.

Infatti Alberto vorrebbe essere il patriarca di una famiglia senza padre, vorrebbe proteggere la sorella, anzi decidere della sua vita, quando la stessa è ormai economicamente indipendente, e sceglie consapevolmente di evadere ogni norma sociale con il suo amante…

…e infine fuggendo da una realtà che ormai gli sta troppo stretta.

Ma il lieto fine è possibile?

Futuro

Come spesso nei film di Fellini, il finale de I Vitelloni è volutamente ambiguo e amaramente ironico.

Il punto di arrivo dovrebbe rappresentare finalmente la maturazione di Fausto, messo davanti alle conseguenze delle sue malefatte, rischiando di perdere la moglie che diventa finalmente il suo unico desiderio, tanto da scacciare la femme fatale su cui aveva messo avidamente gli occhi qualche mese prima.

Eppure, le parole di chiusura di questa scena sono estremamente eloquenti:

La storia di Fausto e Sandra finisce qui, per ora.

Così Fellini non prospetta un finale lieto in cui il sogno borghese si è ricomposto, ma piuttosto ci lascia con una chiusura provvisoria che non esclude che nel futuro Fausto possa ricadere nei medesimi comportamenti, né risolve di fatto nessuna delle vicende dei suoi protagonisti.

Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Nemmeno la fuga di Moraldo è risolutiva, anzi è significativa per confermare il limbo in cui i protagonisti sono intrappolati, immaginandoli come passeggeri del medesimo treno con una destinazione ancora incerta, e infine in bilico su una rotaia solitaria, fra due vite, senza appartenere a nessuna delle due…

…proprio come Gaetano nella chiusura della pellicola.

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Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.

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Federico Fellini

Coming soon…

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